Cirey 12 ottobre 1735
Adunque cotesti signori prendonsi gran maraviglia, che io me ne resti tuttavia alla campagna, e in un angolo, per dir come loro, di una provincia.
Non così ella, che sa quel che mi muova a cercare varj paesi. Per non entrare nelle descrizioni poetiche della felicità della vita campestre, le dirò in semplici parole, come lungi dal tumulto di Parigi qui si fa una vita condita da' piaceri della mente: e ben si può dire con quel poeta, che a questo cene non manca nè Lambert nè Moliere. Io do l'ultima mano a'miei dialoghi, che pur han trovata molta grazia innanzi gli occhi così della bella Emilia, come del dotto Voltaire: e da essi sto raccogliendo i bei modi della conversazione, che vorrei poter trasfondore nella mia operetta. Ma ecco che da questa provincia io le mando cosa, che dovrebbono aver pur cara cotesti signori inter beatœ fumum et opes strepitumque Romœ. Le mando il Giulio Cesare del nostro Voltaire, non alterato o guasto, ma tal quale egli uscì dalla penna dell'autor suo. E mi pare esser certo, che a lei dovrà sommamente piacere di scorgere in questa tragedia un nuovo genere di bellezza, a che può essere innalzato il teatro francese. Sebbene troppo la nuova cosa parrà cotesta a quelli, che credono dopo la morte di Cornelio e Racine spenta la fortuna di esso, e nulla sanno vedere al di là delle costoro produzioni. A chi un tempo fa sarebbe caduto nel pensiero, che restasse da aggiungere nulla alla musica vocale dopo lo Scarlatti, ovvero alla strumentale dopo il Corelli? Pur nondimeno il Marcello e il Tartini ci hanno mostrato, che ci avea così nell'una, come nell'altra alcun segno più là. E'pare che l'uomo non s'accorga de'luoghi che rimangono ancora vacui nelle arti, se non dopo occupati. Così il Giulio Cesare mostrerà nescio quid majus, quanto al genere delle tragedie francesi. Che se la tragedia, a distinzion della commedia, è la imitazion di un'azione che abbia in sè del terribile e del compassionevole; è facile a vedere quanto questa, che non è intorno a un matrimonio o a un amoretto, ma intorno a un fatto atrocissimo, e alla più gran rivoluzione che sia avvenuta nel più grande imperio del mondo; è facile, dico, a vedere, quanto ella venga ad essere più distinta dalla commedia, che non sono le altre tragedie francesi, e salga sopra un coturno più alto di assai. Ma io temerei non per questo appunto dovesse avere dal pubblico meno grata accoglienza il nuovo Giulio Cesare. Non fa mestieri aver veduto mores hominum multorum et urbes, per sapere che i più bei ragionamenti del mondo se ne vanno quasi sempre con la peggio, quando eglino hanno a combattere opinioni avvalorate dall'usanza e dall'autorità di quel sesso, il cui imperio si stende sino alle provincie scientifiche. L'amore è signor despotico delle scene francesi; e una tragedia, dove non han che far donne, tutta sentimenti di libertà e pratiche di politica, non darà naturalmente nella cruna di gente avvezza ad udire Mitridate fare il galante sul punto di muovere il campo verso Roma, e a vedere Sertorio e Regolo damerini. Nè sarebbe da farsi maraviglia, che il Cesare del Votaire corresse la medesima fortuna a Parigi, che Temistocle, Alcibiade e quegli altri grandi uomini della Grecia corsero in Atene, ammirati da tutto il mondo, e sbanditi dalla loro patria.
In questa tragedia il Voltaire ha preso ad imitare la severità del teatro inglese, e singolarmente Shakespeare, in cui dicesi, e con ragione, che ci sono errori innumerabili e pensieri inimitabili; faults innumerable, and thoughts inimitable: del che è una riprova la medesima sua Morte di Giulio Cesare. E ben ella può credere, che il nostro Poeta ha tolto di Shakespeare quello che di Ennio toglieva Virgilio. Egli ha espresso in francese le due ultime scene di quella tragedia, le quali, toltone alcune mende, sono un vero specchio di eloquenza: come le due di Burro e di Narciso con Nerone, nel trarre gli animi delle medesime persone in sentenze contrarie. Pur chi sa, se anche per tale imitazione non venga dai più fatto il processo al nostro poeta? A niuno è nascosto, come la Francia e l'Inghilterra sono rivali nelle cose politiche, nel commercio, nella gloria delle armi, e delle lettere;
e potrebbe darsi, che la poesia degl'Inglesi fosse accolta a Parigi allo stesso modo che la loro filosofia. Quanti clamori non sonosi levati all'accademia contro il Maupertuis. Non par egli che ponendo in luogo della materia sottile e de'vortici l'attrazione abbia egli tentato di sovvertire in Francia lo stato? Ma finalmente dovranno sapere i Francesi non picciolo grado ad uno, che in certo mode arricchisce il loro Parnaso di una sorgente novella: tanto più che grandissima è la discrezione, con 'che il nostro poeta fecesi ad imitare il teatro inglese, trasportando nel suo la severità di quello, e non la ferocità. Nel che egli ha di gran lunga superato Addissono, il quale nel Catone ha mostrato agl'Inglesi non tanto la regolarità del teatro francese, quanto la sconvenevolezza di que' suoi amori: e con ciò è venuto a guastare uno dei pochissimi drammi moderni, in cui lo stile è veramente tragico, e i Romani parlano romano e non spagnuolo.
Ma quando non si storcessero contro a questa tragedia per altro motivo, lo farebbono almeno perch'è di tre soli atti. Aristotele in vero parlando nella Poetica della lunghezza dell'azion teatrale, non si spiega così chiaramente sopra il numero degli atti in che vuolsi dividerla. Ognuno però sa a mente quei versi della Poetica latina, Neve minor, neu sint quinto productior actu Fabula, quœ posci vult, et spectata reponi; precetto che viene da Orazio prescritto non meno per la commedia che per la tragidia. Ora se pur vi ha delle commedie di Moliere di tre atti e non più, e che ciò non ostante son tenute buone; non so perchè non vi possa ancora essere una buona tragedia che sia di tre atti, e non di cinque.
E forse non sarebbe del tutto fuor di ragione, che una gran parte delle moderne tragedie si riducessero a tre atti solamente; troppo spesso incontra, che per arrivare ai cinque i più degli autori vi appiccano episodj, che allungano il componimento e ne tolgon l'unità. E già il savio Racine non volle distendere la sua Ester più là di tre atti. Che se i Greci nelle loro tragedie, benchè semplicissime, ritennero costantemente la divisione in cinque atti; bisogna far considerazione, che assai più brevi che i nostri sogliono essere gli atti dei loro drammi, tenendone il coro una parte non picciola. E non so se io ben mi ricordi; ma il Ciclope di Euride non contiene che soli ottocento versi. Tanto poco e' scrupuleggiavano sulla lunghezza degli atti che da noi si vogliono assai più pieni.
Ma che mi distendo io in parole sopra tali cose con lei? Pollio et ipse facit nova carmina. A lei sta il diffinire, se il Voltaire, siccome egli ha aperto tra' suoi una nuova via, così ancora ne sia giunto al termine. E che non vien ella a Cirey a comunicarci in persona le dotte sue riflessioni; ora massimamente che siamo assicurati, essere per la pace già segnata composte le cose di Europa? Niente allora qui mancherebbe al desiderio mio, e a niuno in Parigi potrebbe parer nuovo, che io mi rimanessi in una provincia.