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Type de textesource
TitreDel bene. Quattro libri
AuteursPallavicino, Pietro Sforza
Date de rédaction
Date de publication originale1644
Titre traduit
Auteurs de la traduction
Date de traduction
Date d'édition moderne ou de réédition1960
Editeur moderneRaimondi, Ezio
Date de reprint

, « Perché, se il fine della poesia è la sola apprensione, e non il giudizio, ella cerchi la verisimilitudine, e possa muover gli affetti » (numéro capo 50) , p. 248-251

— Io non posso rattemperarmi che non v’interrompa — disse il Saraceni in sembiante di chi ode cosa lontanissima fin allora dal suo concetto. — Che può adunque il dipinger la favola verisimile, s’ella non vuol esser tenuta per vera ? nessuna utilità recherebbe secondo voi la poetica immitazione, che vuol dir l’anima della poesia. E poi gli affetti come potranno suscitarsi dalla falsità manifesta ? Se il compassionare è un aver passione insieme, chi mai compassionerà le miserie altrui mentre sappia che colui non patisce e che non è misero ?

— Le vostre opposizioni — soggiunse il Querengo — pruovan troppo, e così nulla pruovano, secondo il detto de’ logici. La pittura non è ella una diligentissima imitazione la cui lode sta tutta in rassomigliare i lineamenti, gli atti e fin le passioni interne dell’oggetto dipinto ? Né con tutto ciò pretende quell’arte che’ finto sia stimato per vero ce che si rinuovi negli uomini la balordagine di quegli uccelli i quali corsero per gustare col becco l’uve effigiate da Zeusi, o di que’ cani e di que’ cavalli, mentovati da Plinio, che baiarono e nutrirono all’aspetto di cani e di cavalli egregiamente dipinti, riputandogli vivi. E pur le figure dipinte, benché per dipinte sien ravvisate, pungono accutamente l’affetto. Il dimostrano con buona e con rea operazione, e le divote lagrime che spesso traggon dagli occhi alle persone spirituali i ben formati ritratti del tormentato Redentore, e le fiamme pestilenti che sono accese ne’ petti giovanili dalle immagini oscene, le quali con obbrobrio dell’umana sfacciataggine talore pagansi gran danaro per esser mantici della sopita lascivia, comperandosi come prezioso il desiderio medesimo di peccare.

Altra dunque è la ragione per cui e la poesia e la pittura sono accurate immitatrici del vero e per cui con tale immirazione signoreggian l’affetto. Quanto più vivace è la cognizione, tanto è ella più perfetta, più dilettevole e più feritrice dell’appetito. Quindi nasce che, secondo l’insegnamento di quel poeta, già passato in proverbio :

Per commover i petti, ha minor lena

 ciò che ad entrarvi ha per l’orrecchie ingresso,

che quel ch’ai fidi lumi espon la scena

e che lo spettatore  porge a se stesso ;

Essendo più viva l’immagine che vien formata nel pensiero dall’oggetto con la specie sua vigorosa e fiammante, pur allora mandata da lui all’occhio, che con la specie già invecchiata e quasi smontata di colore, la qual ei risveglia nell’animo per mezzo dell’udito. Ora, quanto più simili in ogni minutissima circostanza son le favole della poesia o le figure del penello all’oggetto vero ed altre volte sperimentato da chi ode l’une e mira l’altre, con tanto maggior efficacia destano elle que’ mobili simolacri che ne giacevano dispersi per le varie stanze della memoria. E quindi risulta e più vivace l’apprensione e più fervida la passione. All’accendimento di questa non richiedesi, come voi presupponeste, che si creda la verità dell’oggetto.

Ed è ciò sì vero, che quest’unico precetto per la commozion degli affetti stimò giovevole all’oratore Quintiliano : precetto insegnatogli, com’ei dice, non da verun altro maestro che dalla natura e dalla esperienza. Comanda egli che l’oratore si figuri vivissimamente nel pensiero quel fatto intorno a cui vuol appassionar gli uditori, rappresentando le più minute circostanze che in esso verisimilmente intervennero. E così prima a se, poscia a loro il ponga davanti agli occhi con quella evidenza che non racconta, ma mostra :  in virtù della quale ardendo in sé, infiammerà chi l’ascolta. Né ad altro che ad una tal robusta apprensione vuolsi per avviso di lui assegnare quella balla ch’esercitano sopra gli altrui affetti i più scaltri commedianti ; i quali, dic’egli, immaginansi con tal veemenza il caso da loro immitato, che non pur su la scena, mentre desiderano l’affetto in se stessi per trasfondarlo agli uditori, ma da poi eziandio che ritiraronsi dietro al palco, senton loro malgrado i bollori interni della suscitata passione. All’età nostra sappiamo che Torquato Tasso nel comporre si commoveva a simiglianza d’invasato ; e nel padre Stefonio molti mi riferiscono d’aver mirato l’istesso. Or vedete che pungenti stimoli abbia eziandio la dola apprensione ad agitare gli affetti, e quanto ella, benché scompagnata fa ogni giudizio, sia stimabile per la giocondità e per la forza.

Ben vi confesso ch’io non m’accosto assolutamente a Quintiliano intorno al dar questa sola regola di muover gli affetti all’oratore. E bensì ella bastevolissima al poeta ed all’istrione, i quali non si curano di eccitare un affetto durabile ; ma l’oratore ha bisogno d’altro fuoco che d’aquavite o di paglia, perché non si smorzi finché il giudice non abbia sentenziato o l’uditore non abbia eseguita la deliberazione ch’ei persuade. Onde molto più gli è giovevole d’accender l’affetto colla forza permanente delle ragioni secondo le regole d’Aristotile, sì come miglior filosofo, così miglior retore di Quintiliano. E da questa inavvertenza forse interviene che alcuni sacri oratori traggono molti pianti dagli occhi e pochi frutti dall’opere degli ascoltanti.

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