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TitreDiscorso intorno alle immagini sacre e profane
AuteursPaleotti, Gabriele
Date de rédaction
Date de publication originale1582
Titre traduit
Auteurs de la traduction
Date de traduction
Date d'édition moderne ou de réédition1961
Editeur moderneBarocchi, Paola
Date de reprint

, p. 340-341

E poiché si chiamano ritratti dal naturale, si dovria curare ancora che la faccia o altra parte del corpo non fosse fatta o più bella o più grave o punto alterata da quella che la natura in quella età gli ha conceduto, anzi, se vi fossero anco deffetti, o naturali o accidentali, che molto la deformassero, né questi s’avriano da tralasciare, se non quando con l’arte si potessero realmente dissimulare, sì come è scritto del ritratto d’Antigono, che da Apelle fu fatto in profilo perché non apparesse ch’egli era losco e manco d’un occhio.

Dans :Apelle, le portrait d’Antigone(Lien)

, « Delle pitture imperfette » (numéro II, 29 ) , p. 379

Si può chiamare una pittura imperfetta in varii modi. […] considerandola come cosa fatta da pittore, e questo ancora in più modi : o fatta da artefice che non sa e pero manca nei precetti dell’arte del disegnare, adombrare, colorire e simili cose ; overo che non vuole o non può compire l’opera, come aviene quando solamente è abbozzata e non postavi l’ultima mano : il che soleva significare Apelle, se bene ad altro fine, quando nelle sue pitture aggiungeva le parole Apelles faciebat ; ma ne anco di questa imperfezzione ragionamo.

Dans :« Apelles faciebat » : signatures à l’imparfait(Lien)

, « Della dilettatione che apportano le imagini cristiane » (numéro I, 22) , p. 219

E tanta è la dilettazione che porta così fatta imitazione, che le cose che di sua natura sogliono recare agli occhi fastidio et orrore, come il vedere un mostro o un cadavero o una talpa, fanno contrario effetto quando sono bene imitate, come oltre Aristotele disse Plutarco con queste parole : Delectat picta lacerta, aut simia, aut Thersitæ facies, non pulchritudinis, sed similitudinis causa ; nam quod turpe est suapte natura, nec potest fieri pulchrum, imitatio tamen exprimens similitudinem sive pulchræ, sive turpis rei laudatur.

Dans :Cadavres et bêtes sauvages, ou le plaisir de la représentation(Lien)

, « Delle pitture dette grottesche ; e se anticamente si usavano nei luoghi solamente sotterranei, overo ancora negli edificii sopra terra »; « Onde abbiano avuta origine le pitture grottesche secondo diverse opinioni »; « Altre ragioni della origine delle grottesche, e perché abbiano preso questo nome »; « Per che causa dagli antichi e da’ moderni siano state tanto abbracciate le grottesche conservandoli questo nome »; « Che le grottesche poco oggi convengono altrove, ma nelle chiese in nissun modo »; « Si risponde ad alcune obiezzioni, che sogliono addursi in diffesa delle grottesche » (numéro II, 37-II, 42) , p. 425-451

II, 37, « Delle pitture dette grottesche ; e se anticamente si usavano nei luoghi solamente sotterranei, overo ancora negli edificii sopra terra »

Nella divisione fatta di sopra delle pitture mostruose dicessimo alcune essere imaginarie, che non sono né possono essere secondo la natura, ma le persone se le hanno fabricate nella mente, sì come il capriccio gli ha portato; delle quali tante si possono dire essere le sorti e le maniere, quanto varii sono i cervelli delle persone, fingendosene ognuno qualcuna a suo modo, come gli viene in fantasia. E perché in ciò si commette spesso non picciolo errore, poi che tali pitture paiono fatte a caso senza regola alcuna di ragione, però, parendo a noi cosa degna di molto avvertimento, ci siamo mossi al presente a ragionare di quelle che volgarmente si chiamano grottesche; che da quello che ci occorrerà di raccordare intorno ad esse si potrà comprendere quel che giudichiamo convenirsi in altre ancor simili materie. E per levare ogni equivocazione che potesse nascere, diciamo che sotto questo nome di grottesche non intendiamo quei lavori de fogliami, tronchi, festoni o altre varietà di cose che talora si pingono e possono essere secondo la natura; né quelle invenzioni degli artefici, che nei fregi, nei tavolati, nelle opere dette arabesche, nei recami et altri ornamenti proporzionati alla ragione sogliono con vaghezza rappresentarsi; né manco intendiamo di quei mostri, o marini, o terrestri, o altri che siano, che dalla natura talora, se bene fuori dell’ordine suo, sono stati prodotti. Ma solo comprendiamo sotto questa voce quelle forme d’uomini o d’animali o d\'altre cose, che mai non sono state, né possono essere in quella maniera che vengono rappresentate, e sono capricci puri e pittori e fantasmi vani e loro irragionevoli imaginazioni; le quali perché ormai si sono intruse in tutti i luoghi, e talmente si trovano sparse negli edificii publici e privati che sono penetrate fino nei tempii venerandi et accompagnatesi con gli altari e coi vasi e vestimenti sacri, facendo mostra di sé per tutto, perciò tanto più ci è parso necessario di ragionarne alquanto copiosamente, acciò meglio dagli altri si possa deliberare quello che si convenga.

Cominciaremo donque dall’origine di questo nome, perché siano state chiamate grottesche; il che dall’un canto pare assai chiaro, dall’altro è molto oscuro. Pare chiaro, in quanto si vede che le grottesche sono dette da grotte, alterato alquanto il nome greco che dice κρυπτή, che significa luogo occulto ascoso e segreto, derivato dal verbo κρύπτω, come ognuno sa. È di poi oscuro, perché, secondo la sopradetta etimologia, pareria che tal nome non convenisse all’istesse pitture, che si fanno nei luoghi aperti e luminosi, che pure sono dette anch’esse grottesche. E però da questo sono venute in campo a’ tempi passati, e durano ancor oggi, due opinioni molto contrarie tra di loro: l’una vuole che queste pitture non s’usassero se non nei luoghi cavernosi e sotterranei, onde presero et hanno conservato il nome di grottesche; l’altra contende l’opposito e dice che queste si usavano solo nei luoghi che communemente s’abitavano e che quasi s’aveano per delizie, non essendo verisimile che nei luoghi tenebrosi e che non si possono godere senza lume volessero gli antichi gettare via tant’opera, tanta industria e tanta spesa. Dice anco che il nome di grottesche è stato causato da accidente, perché, sopragionte le ruine degli edificii di Roma et alzatosi il terreno, rimasero le abitazioni antiche come a fondo, onde è stato creduto dal vulgo ch’elle fossero già fabricate per grotte. Noi non vogliamo entrare a decidere simili questioni, né manco intendiamo di pigliare briga o contesa alcuna con antiquarii, architetti o altri di questa professione, lasciando ciascuno nel suo parere; ma solo diremo quel tanto che ci occorre per occasione della materia che trattiamo, che necessariamente ci ha divertiti a questo, volendo noi sempre cedere a chi sentisse meglio. Diciamo donque che a noi paiono queste due opinioni come estreme, e che l’una e l’altra abbia parte del vero e parte del falso; e però che la migliore sentenza sia quella che sta nel mezzo, anzi che le abbraccia e congionge ambedue insieme, concludendo che tali pitture si facessero nell’una e l’altra maniera, cioè e nelli luoghi sotterranei et anco nelli sopra terra. Per provare questo ci basterà di confutare ciascuna delle dette opinioni nei suoi termini, che così ne risulterà assai chiaro quello che noi pretendiamo. Quegli c’hanno detto non essersi usate le grottesche se non nei luoghi cavernosi della terra, mossi dalla forza della parola greca, non è dubio che si sono ingannati, come si prova dalla evidenza del fatto, la quale ci fa vedere oggi ancora in varii luoghi di Roma e del Lazio e di Campagna et altrove sale spaziose eminenti e loggie magnifiche, piene di queste pitture, che è come impossibile, o almeno lontano da ogni verisimilitudine, che fossero ascose da principio sotto terra, sì come sappiamo così essere tenuto da diversi ch’oggi sono stimati peritissimi delle antichità, che di più affermano che nelle sale, nell\'anticamere, nei cenacoli, nelle loggie, nei criptoportici, nei luoghi de’ bagni e quasi in ogni parte della casa indifferentemente si usavano tali pitture. Ma oltre di ciò abbiamo l’autorità di Vitruvio [[3:VII, 5]], che parlandone a longo, come diremo di sotto, non vediamo che le restringa sotto terra, ma ne ragiona come di cose che si usassero nelle abitazioni communi; e se bene egli non usa la voce di “grottesche”, si vede però chiaramente che la descrizzione sua tutta conviene ad esse, e gli espositori che hanno commentato quel luogo [[3:D. Barbaro e G. Philandrier]] in lingua latina e volgare l’hanno in questo modo inteso. Né fa caso che il nome di grottesca, cavato dal greco, significhi luogo recondito et occulto e però non s’applichi bene alle pitture fatte al chiaro lume, perché di sotto si dichiarerà onde si sia causato questo.

L’altra opinione, che vuole che queste pitture non si usassero ne’ luoghi tenebrosi, ma solo nelle abitazioni aperte communi della casa, manifestamente anch’ella si convince dalla istessa evidenzia del fatto, poiché oggi se ne truovano molte, che da principio veramente furono fabricate sotto terra, e se ne vedono ancor alcune con le fenestre su alto nelle volte, il che, secondo gli antiquarii, dimostra che non erano fatte sopra terra, perché avriano avuti i lumi più bassi come dicono vedersi nelle grotte di S. Pietro in Vincula e nelle Diocliziane, Antoniane, Villa Adriana et altre assai, che dai vestigii chiaramente dimostrano la prima loro positura essere stata sotterranea.

Ma l’errore di questi pensiamo che forsi sia nato perché hanno preso questo nome crypta all’estremo, per un luogo profondo nelle viscere della terra, quali oggi sono le sepolture antiche de’ martiri, dette catacombe e volgarmente le grotte di S. Sebastiano, di S. Lorenzo e d’altri, delle quali scrive s. Ieronimo [[3: In Ezech., 40]] ; Dum essem Romae puer et liberalibus studiis erudirer, solebam cum ceteris eiusdem aetatis et propositi diebus dominicis sepulcra apostolorum et martyrum circuire crebroque cryptas ingredi, quae in terrarum profundo defossae ex utraque parte ingredientium per parietes habent corpora sepultorum; et ita obscura sunt omnia, ut propemodum illud propheticum compleatur, descendant in infernum uiuentes, et raro desuper lumen admissum horrorem temperet tenebrarum, ut non tam fenestram quam foramen demissi luminis putes, rursusque pedetentim acceditur et caeca nocte circundatis illud Virgilianum proponitur:“Horror ubique animos simul ipsa silentia terrent”. Donque da questa significazione mossi alcuni, hanno creduto che nei luoghi così profondi e tenebrosi non sia verisimile che vi sia stato lavorato con tanto artificio e spesa, come queste pitture sogliono dimostrare. Ma noi diciamo che questo nome è assai generale e che conviene ad ogni luogo scavato, o perforato, o altrimente fabricato nelle caverne della terra per qualonque uso ancor che immondo, come si vede da quel verso [[3: Giovenale, 106]]: Et solitus mediae cryptam penetrare Suburae; e s’applica ancor alle sepolture, come dimostra l’epitaffio antico già ritrovato nel colle Quirinale in Roma, che dice: Crypta Flavi Sabini privata cum anacrypta, LAT. p. XIIII. E Brocardo, parlando del santo sepolcro di nostro Signore, lo chiama parimente crypta [[3:C. Jannsen, Concordia evangelica cit., cap. 145]]. Ma di più, abbraccia ogni luogo, se ben poco sotto alla superficie della terra, pur che sia alquanto retirato e separato dal commune uso, sì come sono i luoghi che si sogliono fare per riporre frutti, vini, grani, legna, oglio e per altri servizii di casa; di che fa menzione Vitruvio [[3:VI, 5]], dicendo: In aedibus cryptae, horrea, apothecae ceteraque, quae ad fructus servandos magis, quam ad elegantiae decorem esse possunt, le quali furono ancora chiamate hypogea, come ne rende testimonio Budeo [[3:Annotationes cit., a Dig., XVII, 2, 52, 12]] dicendo: Hypogeorum appellatio complectitur cellas vinarias, carnaceas, olearias, poenarias, promptuarias; e ne fa menzione ancor Vitruvio [[3:VI, 8]], dicendo: Sin autem hypogea concamerationesque instituentur, fundationes eorum fieri debent crassiores, quam quae in superioribus aedificiis etc. Dove gl’interpreti dicono [[3:G. Philandrier a Vitruvio, VI, 8; V, 9 (in fine)]], quod erant aedificia subterranea, arcuato opere extructa, e che ancora si faceano ambulationes hypogeae, cioè luoghi sotto terra per passeggiare, simili ai criptoportici ; dal che si racoglie che questo nome di crypta o grotta conviene ancora ad alcuni luoghi sopra terra, quando sono rinchiusi e riserati, sì come sono questi chiamati criptoportici, de\' quali scrisse Plinio [[3: Epist. V, 6]]: Subest cryptoporticus subterraneae similis, aestate incluso frigore riget contentaque aere suo nec desiderat auras, nec admittit. E questi si legge ch’erano tali, che si potevano tenere aperti e chiusi con varie sorti di fenestre, come l’istesso Plinio [[3: Epist. II, 17]], descrivendo la villa sua, dice: Hinc cryptoporticus utrinque fenestrae a mari plures, ab horto singulae et altius pauciores. Hae cum serenus dies et immotus, omnes; cum hinc vel inde ventus inquietus, qua venti quiescunt sine iniuria patent; e servivano per luoghi freschi e di ricreazione nel tempo dell’estate, soggiongendo Plinio: Ipsa cryptoporticus tunc maxime caret sole, cum ardentissimus culmini eius insistit, e lo chiama amores mei, che servivano per delizie. E però hanno voluto molti che in essi si facessero pitture et ornamenti straordinarii, di che al suo luogo si parlerà. Laonde concludiamo che, essendo questo nome di grotta commune ai luoghi sopradetti e trovandosi oggi molti vestigii e fragmenti di simili pitture in diverse fabriche, più e meno profondi et anco superficiali, non s’ha da dubitare che in varie etadi non si siano le persone indifferentemente servite dell’uso loro, ora sotto, ora sopra la terra, sì come ad esse veniva a proposito.

II, 38, « Onde abbiano avuta origine le pitture grottesche secondo diverse opinioni »

Con tutto che si veggia chiaro, et il senso senz’altro lo dimostri, che queste pitture si usavano in luoghi sotterranei e non sotterranei, resta però ingombrata alquanto la mente, perché abbiano preso il loro nome dalle grotte, che ordinariamente sono tenebrose. E però, per chiarir bene questo, è necessario di discorrere alquanto intorno all’origine loro e vedere che cosa desse occasione già a’ pittori di formare figure così contrafatte e fuori dell’uso ordinario; da che insieme si coglierà perché siano state di poi chiamate grottesche. Troviamo varie esser state le opinioni intorno a questo, il che tanto più arguisce maggiore l’oscurità di questa materia, poi che non si legge ragione che intieramente appaghi l’intelletto. Scrive il maestro delle arti Vitruvio [[3:VII, 5]] dove parla di simili figure mostruose, che questa è stata invenzione de pittori poco eccellenti, per coprire con varietà di forme e di colori il mancamento della loro arte, dicendo così: Quod antiqui, insumentes laborem et industriam, probare contendebant artibus, id nunc coloribus et eorum eleganti specie consequuntur, et quam subtilitas artificis adjiciebat operibus authoritatem, nunc dominicus sumptus efficit ne desideretur; la qual ragione se bene per l’autorità di chi l’ha scritta e per reverenzia che portiamo all’antichità non deve essere biasmata, nientedimeno, per avertimento solo, si dice che tal ragione non è più appropriata a questa sorte di pitture che all’altre, dove i pittori con la vaghezza dei colori et ornamenti che vi aggiongono cercano supplire al difetto dell’arte e del dissegno.

Altri hanno detto che, quando i Romani tornavano vittoriosi a casa, sì come pigliavano diversi nomi d’Affricano, Ispanico, Macedonico e simili, così soleano dipingere nelle loro case varie sorti d\'animali peregrini o mostri che si trovavano nei paesi vinti da loro, i quali ancora dopo la morte soleano scolpirsi nelle pile delle loro sepolture, con varie sorti d’armi et instrumenti di guerra adoprati in quelle imprese; dalla qual varietà cominciorono i pittori, con la solita loro libertà, estendersi a molt’altre cose inusitate.

Altri scrivono che nelle cene degli antichi, che si faceano nelle vigne e luoghi boscarezzi, soleano i ministri del convito servire in abito di ninfe, fauni, satiri e d\'altri abitatori de’ boschi; e che nel mezzo del servizio meschiavano rappresentazioni, comedie e diversi ragionamenti satirici, onde dicono esser state denominate le satire de’ poeti; e da questo vogliono che cominciassero poi alcuni per recreazione a dipingere varie forme d’uomini e d’animali, con fiumi, rupi, boschi e maniere disusate e stravaganti.

Altri le derivano dalle guglie egizziace ripiene di figure ieroglifice, ch’aveano sensi alti nella loro lingua; e dicono che i pittori poi, vedendo che quella varietà portava vaghezza e meraviglia, si valsero di quelle forme, poco curandosi del significato, attendendo solo al dilettare, e le stesero et amplificarono con altre loro varie invenzioni.

Altri hanno referita l’origine loro all’uso de’ poeti, che con varii significati degli accidenti delle cose umane introdussero nei suoi poemi molte favole, con trasformazioni di uomini, animali, piante e varie misture di cose insieme, le quali aveano gran sensi ascosi, per instruzzione della vita degli uomini, per dilettare e giovare insieme; sì come, tra gli altri, di Grate e Proteo filosofi si legge che attesero grandemente a questo, i quali furono poi seguitati et ampliati ancora da’ pittori[[3:N. COnti, Mythologiae sive Explicationum fabularum libri decem, 1568, VIII, cap. 8]].

Altri hanno attribuito il tutto principalmente alle opinioni vane de’ Pitagorici[[3:Diogene Laerzio, VIII, 1ss]], che volsero che l’anime passassero d’uno in altro, ora uomo, ora animale, ora arbore, ora pianta, o sasso ancora della terra; e che però negli spettacoli si rappresentavano talora simili trasmutazioni fuori del naturale, che di poi i pittori andarono imitando et accrescendo.

Ma tutte queste ragioni et altre simili, se bene potessero dimostrare in qualche parte l’origine di queste pitture, non però levano la difficoltà perché siano state chiamate grottesche, essendo che le pitture ora narrate non ricercavano necessariamente di essere collocate nelle grotte. È vero che alcuni dicono che questo nome è stato per accidente, perché nei tempi passati, quando si cominciorono a scoprire queste pitture, elle si trovarono nelle reliquie delle rovine, che pareano sotterranee; talché vogliono che il nome sia moderno, ma il modo di dipingerle sia stato antico. Noi respondiamo che questo pare un rifugio, non dovendosi tribuire ad accidente quello che può convenire secondo la propria natura; e però la prudenzia ricerca che prima si investighi bene, se ci è ragione con che si possa salvare l’uno e l’altro e che convenga insieme alla forma di queste pitture et al nome che già tanti secoli si hanno conservato, non essendo verisimile che i nostri maggiori fossero sì sciocchi che tutto quello che trovavano nelle rovine rimaste degli edificii antichi pensassero che anticamente ancora fosse stato fabricato sotto terra. E però bisogna meglio esaminare tutto questo negocio, per trovarne, se si può, la verità.

II, 39, « Altre ragioni della origine delle grottesche, e perché abbiano preso questo nome »

Volendo noi dire alcuna ragione vera et approvata della origine delle grottesche, confessiamo chiaramente che non ci assicuriamo, in materia così poco trattata dagli autori, potere sodisfare a quello che si desideraria. Nientedimeno, poi che siamo in questo soggetto, non vogliamo anco mancare di raccordare altrui per via di discorso quel che ci sovviene. E la difficoltà al parer nostro consiste in questo, che bisogna accoppiare quattro cose insieme che convengano tra loro: la prima è il dimostrare che anticamente vi fossero luoghi sotterranei di questa maniera; seconda, che fossero depinti: terza, che fossero d’imagini mostruose; quarta, che fossero instituiti a tale uso, che ragionevolmente admettesse simili pitture. Imperò che si troverà bene varietà de’ luoghi sotto terra chiamati grotte, per riporre grano, vino, legna e per altri communi servizii della casa, come di sopra dicessimo, ma forsi non si proverà che fossero dipinti, né meno è verisimile.

Si troveranno ancora altri dipinti, ma non di fantasmi; e quando si trovassero ancor de fantasmi, non si vedrà la necessità che ciò richiedesse. Potrassi ancor trovare qualche ragione probabile perché si dipingessero simili mostruosità, come si è detto nel capo precedente; ma non si saprà la causa perché s’avessero a fare sotto terra e perché la loro origine uscisse dalle caverne: come per esempio si legge di Augusto, che talmente temeva i tuoni, i lampi e le minaccie del cielo tempestoso quando freme, che si ritirava in luogo rinchiuso e concamerato, come scrive Svetonio[[3:Div. Aug., 90]]; ma questo non ha che fare con le pitture. Scrive il Nazianzeno [[Adv. Iulanum, I.]] di Iuliano Apostata, che, per essercitare la magia, entrava in un luogo sotto terra, dicendo: Descendit in quoddam adytum plerisque inaccessum et horrendum cum comite mago; e racconta Luciano [[3: Philopseudes, 34]] d’un sacerdote egizzio, che abitava sotto terra per imparare la medema arte magica, il quale per questo è chiamato da lui ὑπόγειος; ma né questi provano quello che si tratta. D’altri luoghi si legge[[3:Biondo, Italia illustrata reg. V; B. Corio, Patria historia (1503).]] ch’erano sotto terra escavati per fare ridutti di cose oscene e disoneste; altri per parlare occultamente e con maggior libertà contro i prencipi o persone grandi, di che temevano; altri per bagni, delizie e passatempi, massimamamente nel tempo estivo, per essere luoghi opaci e riposti; altri per nascondervi dentro le cose preziose, come scrive Ioseffo istorico[[3:Ant. Iud., VII, 16.]] del sepolcro di David, nel quale erano alcuni repostigli per occultarvi dentro i tesori della eredità regia, fatti con sì grande artificio che non poteva alcuno accorgersene; altri per far più insidiosamente furti et inganni, come dei falsi sacerdoti si legge, scoperti da Daniele[[3:Dan. 14, 12.]]; altri per occultarvi cose secrete, come avenne a Ieremia per commandamento di Dio, onde scrive [[Ierem., 43, 8 s]]: Et factus est sermo Domini ad Hieremiam in Taphnis dicens: Sume tibi lapides grandes in manu tua, et abscondes eos in crypta, quae est sub muro latericio in porta domus Pharaonis; altri per altri privati rispetti di ciascuno. Ma né questi ancora concludono cosa di momento.

Noi donque dicemo che, tra varii luoghi sotterranei instituiti dagli antichi a diversi fini, uno vi era molto principale, fabricato al nome e culto de’ dèi infernali; percioché è cosa nota che avevano gli antichi più sorti di dei[[3:G.G. Giraldi, de deis gentium varia et multiplex historia (1548)]] come i celesti aerei, marini, terreni, e questi chiamati infernali, de’ quali se ne trova frequentissima memoria non solo nei libri, ma ancor nelle medaglie e nei marmi delle sepolture col nome diis manibus. Donque a questi dei deputava l’antichità i proprii luoghi insieme, e riti e tempii, con che a ciascuno di loro si dovea prestare il culto; e però a questi infernali aveano assignati i luoghi sotterranei, che servivano parte per raccogliere il sangue delle vittime che si gli offerivano, parte per dare le loro risposte e parte per edificarli i tempii, ne’ quali si sacrificava loro: di che ne fanno menzione gli autori greci e latini, e tra gli altri Eusebio[[3:Praep. evang., IV, 4]], che recita i versi dell’oracolo d’Apolline, che diceva: Porro et capiuntur apertis Terrestres aris, foveas cum numina contra Exposcunt atro imbutas inferna cruore etc., e soggionge che Porfirio, esplicando questo oracolo, dice: Modus offerendi hostias diis differt, nam terrestribus super aras, infernis autem in foveis mactandas esse hostias oraculum praecipit etc.; e Sesto Pompeo[[3:s.v. altaria.]] scrive, antiquos diis superis in aedificiis a terra exaltatis sacra fecisse, diis terrestribus in terra, infernis autem in effossa terra; oltre quello che si legge della spelonca Sibillina e d’altre simili caverne, nelle quali quei falsi dèi davano le loro risposte[[3:Massimo Tirio, Philosoph., 26]]. E questi tempii perché alcune volte erano grandi e magnifichi, furono secondo alcuni[[3:G.G. Giraldi, de deis gentium cit., XVII.]] da’ Greci chiamati μέγαρα, quae hypochtoniis diis dedicabantur, del quale uso è stato scritto da diversi[[3:J.L. Vives a s. Agostino, de civ. Dei, VIII, 13; N. Conti, Mythologiae cit., I, cap. 11. 13; G. Philandrier a Vitruvio, IV, 5.]].

Vogliamo ora inferire che, si come i tempii degli altri dèi si solcano ornare e dipingere di cose convenienti al culto loro, come in più luoghi ne ammaestra Vitruvio[[3:I, 2; VII, 5.]], così è molto verisimile che questi che si dedicavano a dei infernali si adornassero di imagini e forme appropriate alla condizione d’essi. E questo è che la gentilità, aiutata dalle favole de’ poeti, persuasasi che quei luoghi sotterranei fossero la propria stanza dei dei infernali, credette insieme che, sì come questi luoghi erano esclusi dallo splendore del sole, dalla luce del giorno, dal canto degli ucelli, dal comercio degli animali terrestri e dall’abitazione degli uomini, così ancora fossero sotto il governo di questi dei, differenti dai dei celesti; e che nelle tenebre di questa regione vi fossero altri corpi et altre forme molto dissimili da quelle che noi veggiamo sopra la faccia della terra; e che insomma queste caverne, prive di lume e piene di orrore, abbondassero anco di fantasmi, mostri e cose contrafatte, anzi, che questi dei medemi si transformassero ora in fiere, ora in serpi, ora in altri mostri. E di qui figurarono quei dei che chiamarono lemures seu larvae, che con volti inusitati mettevano terrore agli altri. Di qui finsero quel dio Sumano con li fulmini notturni[[3:Plinio, Nat. hist., II, 52.]], del quale scrive s. Agostino[[3: De civ. Dei, IV, 23]]. Romani veteres nescio quem Sumanum, cui nocturna fulmina tribuerunt, coluerunt magis quam Iovem, ad quem diurna fulmina pertinebant; sed postquam etc. Di qui ancora scrissero i Platonici che, tra varie sorti di demoni che essi si imaginarono, un ordine vi era sotterraneo, quod habitabat sub terra, et invadebat eos qui puteos effodiunt, et suscitabat flammivomos ventos[[3:Psello, De operazione daemonum]]; et un antico filosofo, chiamato Ferecide Siro, scrive che questi demoni aveano i piedi serpentini.
I pittori adonque, considerata la natura del luogo e con questi principii avuti dagli autori, cercarono accommodare l’arte loro a queste favolosità, aggiungendovi poi ciascuno altre cose di suo capriccio, secondo che l’ingegno suo gli porgeva, e così introdussero questi fantasmi e mostruosità grottesche; la qual cosa, oltre le ragioni sopradette, pare a noi che si possa molto corroborare dall’essempio della Scrittura santa posto da Ezechiele profeta, nel quale si vedono le quattro cose che di sopra abbiamo detto: imperò che, scrivendo egli degli Ebrei del suo tempo, dice che alcuni, e massime donne, si aveano elette certe spelonche sotto terra, dove adoravano gl\'idoli e piangevano quello che s. Ieronimo chiama Tammutz; e non solo gli offerivano sacrificii, ma ancor aveano dipinto nel muro in tutte le parti le imagini di quegli animali e reptili et altre abominazioni, di che giudicavano si dilettassero quegli idoli, dicendo Ezechiele[[3:Ezech. 8, 10]]: Et ingressus vidi, et ecce omnis similitudo reptilium, et animalium abominatio, et universa idola domus Israel depicta erant in pariete in circuitu per totum. Per la qual causa fu dimandata questa setta di gente, che entrava in tali spelonche, setta di Trogloditi[[3:S. Filastrio, De haeresibus; G. Dupréau, De vitiis... haereticorum cit., s.v. Trogloditae.]], pigliandosi questo nome a similitudine de’ popoli di Etiopia, che abitavano nelle caverne[[3:Aristotele, De anima, VIII, 12; Plinio, Nat. hist., IV, 52]].Non ci astrengiamo però noi a dire che le grottesche, di che parliamo, siano discese dalla Palestina o che abbiano avuta origine dagli Ebrei, ma solo adduciamo ciò per similitudine che, sì come era questo modo in uso presso di loro, così puoté essere presso ad altri popoli, variati solamente i sacrificii e gl’idoli e le diverse sorti di superstizioni. Onde non repugna a ciò chi dicesse che nelle vestigie delle grottesche antiche di Roma nissun segno si discerne che quei luoghi fossero fabricati a dei: perché noi parliamo ora quanto alla origine e primo instituto di esse, quale dicerno aver potuto nascere da questo falso culto che si tribuiva ai dèi infernali, se bene i pittori hanno di poi allargata la mano e stese queste pitture ad altre fabriche ancora, come di sotto si mostrerà.

Vediamo oggi che nei luoghi sotterranei delle chiese cristiane, chiamati in Bologna confessii, altrove scuruoli et anticamente martirii o confessionali, che sono sorti di grotte, usano i cristiani e giudiziosi pittori, dove il luogo comporta, d’accompagnarli con misterii appartenenti alle pene sostenute da quelli gloriosi martiri e coi trionfi che le sacre verginelle riportorno da quei crudelissimi tiranni, per essere queste cose accommodate a tali soggetti; e che in altri luoghi ancor cercano con la loro arte esprimere più che possono quelle cose che siano più appropriate alla materia principale. Così è molto verisimile che i pittori gentili anch’essi volessero onorare i suoi falsi dei d’invenzioni che imitassero la loro natura, valendosi delle cose narrate nei notturni sacrificii di Bacco, di Proserpina e d’altri[[3:Livio, XXXIX, 9 ss]]. Al che si puotero muovere ancor per altra ragione, considerando essi che queste grotte per la loro opacità rappresentano a certo modo la notte et il luogo del sonno coi parti suoi, che sono aggiramenti in aria, chimere, fantasmi e bizzarie molto stravaganti[[3:Artemidoro, De soma, interpr.; Luciano, Ver. hist., II, 4.]]; onde finsero quella esser figlia del Chaos e moglie d’Erebo, e questo, tra una gran schiera de figli, averne tre principali, de’ quali ciascuno si mutasse in varie forme, chi d’uomini, chi di fiere, d’ucelli, di serpenti, di sassi, di tronchi, et altre loro fantasie, come lasciò scritto Ovidio[[3:Met., XI, 633 ss.]] dicendo :

At poter e populo natorum mille suorum

Excitat artificem, simulatoremque figurae

Morphea, sed solos homines imitatur, et alter


Fit fera, fit volucris, fit longo corpore serpens:


Hunc Icelon superi, mortale Phobetora vulgus


Nominat; est etiam diversae tertius artis


Phantasos: ille in humum saxumque undamque trabemque

Quaeque vacant anima, fallaciter omnia transit.

Regibus hi ducibusque suos estendere vultus

Nocte solent, populos alii plebemque pererrant.

E quando pure al lettore non sodisfacesse intieramente alcuna di queste considerazioni, noi crederessimo che per ultimo si potesse acquietare, ricordandosi che, sì come già furono alcuni poeti che s’ingegnarono di fare studiosamente certi versi senza significato, ma solamente per dare occasione alle persone oziose di fantasticarli sopra senza frutto e, come essi dicevano, ut figerent crucem grammaticis; così i pittori, emuli dei poeti, mossi dalla qualità del luogo, pensarono anch’essi di oscurare affatto l\'intelligenza delle loro pitture con levarli ogni sorte di verità, per lasciare ai posteri materia abondante d’assotigliarsi e travagliarsi disutilmente, sì come gli è riuscito ancor davantaggio, poiché non solo si contende di quello che essi non hanno voluto che s’intenda, ma ancora s’imitano per tutti i luoghi le loro fizzioni e sogni, senza avvertire et essaminare quello che si ha per le mani.

II, 40, « Per che causa dagli antichi e da’ moderni siano state tanto abbracciate le grottesche conservandoli questo nome »

Ma, qualonque sia stata l’origine delle grottesche, è chiaro che, vedendo gli uomini tale invenzione riuscire graziosa ancora all’aspetto per la novità delle forme che più non si erano vedute, cominciorono con poca circonspezzione invaghirsi in maniera di esse, che le dilatarono et usarono ancor fuori delle grotte. Nel che pare a noi che sia avenuto ad esse come ad alcune piante appropriate solo a certa sorte di terreno, che, volendole gli uomini traspiantare fuori del naturale loro sito e regione del cielo, restano di poi languide e quasi morte, senza umore e vivacità; così queste pitture che per certa convenienzia potevano passare in quelle caverne delle grotte, ora, trasportate in altri luoghi, s’infiachiscono come peregrini nodriti nell’aere grosso delle valli, che non possono patire poi l’aria sottile delle montagne. Laonde ben furono avertiti da Orazio[[3:Ars poet., 19 ss.]] i poeti e pittori, che osservassero di porre le cose ai suoi proprii luoghi, dicendo: Sed nunc non erat his locus. Et fortasse cupressum Scis simulare: quid hoc, si fractis etc. Sì che anco queste grottesche, prima nate nelle tenebre, perdono la sua forza nei luoghi aperti, sì come gli ucelli di notte, che si smariscono alla luce del sole. Crediamo però che tale origine disordinata sia stata molto accresciuta, parte dalla debolezza de’ pittori e parte dalla scarsezza de’ padroni.

Dal lato de’ pittori non è dubio che simili pitture, che non ricercano molto essatta imitazione e forza di dissegno, sono più facili da essere messe in opera da un mediocre ingegno, che quelle che vanno continuate e ricercano necessariamente la connessione o dipendenza l’una dall’altra, perché in queste, dovendo l’ingegno per forza stare raccolto e reggersi con la briglia dell’arte, non dà luogo al pittore di andare vagando a capriccio, e conseguentemente l’astringe a maggiore diligenza, vigilanza, pazienza e fatica, sì come aviene negli scrittori che, non pigliando un soggetto particolare né trattando con metodo fermo l’opere loro, se la passano con digressioni, saltando or qua or là senza ordine; il che è manco fatica assai, ma rende insieme ancora l’opera meno illustre, non se gli scorgendo continuazione alcuna, né come le cose ultime convengano con le prime, né vedendosi da tutto il corpo risultare quel totum che, dice Aristotele[[3:De caelo, I, 1]], deve avere il principio, mezzo e fine, simile ad una forma animata che ha il capo, le braccia et i piedi ai suoi luoghi.

Sì che, per essere il numero degli artefici mediocri o imperiti molto maggiore senza paragone che degli eccellenti e perfetti, non è meraviglia se questa pittura prevale, come quella che è manco bisognosa d’industria e più conforme all’imbecillità loro, avendo ancora di più essi ritrovato modo di fare queste grottesche con lo spolvero, dove poco si ricerca industria et eccellenza di arte. Quanto alla parte dei padroni, è tornato ad essi ancora bene di valersi de simili lavori, perché portano minore spesa, facendosi con manco quantità de colori e con più brevità di tempo, e porgono al primo aspetto una certa ammirazione a chi le guarda et a chi non penetra più oltre, come sono la maggior parte degli uomini, che si pascono d’apparenza; alla quale aggiongendovisi la varietà e la vaghezza de’ colori, di che scrive Vitruvio[[VII, 7 ss.]], con alcuni ornamenti attrativi che hanno ritrovati, pare che si possa concludere che, congionte tutte queste cose insieme, si vegga la causa assai chiara della introduzzione di queste pitture e del possesso che indirettamente vanno mantenendo in tanti luoghi, et insieme ancora si possa conoscere la ragione perché oggi ritenghino il loro nome antico di grottesche, quantonque si faccino fuori delle grotte. Il che secondo noi avviene perché elle veramente nacquero nelle grotte, come di sopra s’è detto, et ivi s’acquistorono questo nome dalle fascie; onde, se bene gli si è poi mutato allogiamento, non è stato però necessario di mutarli il nome, sì come vediamo essersi osservato ancor nel nome delle nozze, che gli antichi chiamorno nuptiae perché allora coniuges nubebant caput[[3: Festo, s.v. nuptias; s.v. obnubit.]], onde, ancor che poi quel’uso si sia mutato, il nome però istesso gli si è conservato. Per la qual ragione sogliono i iureconsulti[[3:Dig., XLI, 1, 56; Auth. Noviss. a Cod. Iust., III, 28; A. Alciati a Dig., L 16, 183.]] chiamare molte cose non da quello ch’oggi sono, ma da quello che già erano, si come domandano isola, che già era isola, e la quarta legitima, ch’oggi è la terza, e molti altri essempii che possono servire al proposito nostro.

II, 41, « Che le grottesche poco oggi convengono altrove, ma nelle chiese in nissun modo »

Abbiamo detto che la propria sede delle grottesche anticamente fu constituita nelle caverne, e però, sì come gli animali sotterranei non vivono alla luce del sole, così elle ragionevolmente, secondo la gentilità ancora, non possono capire negli edificii sopra terra. Ora passiamo ad altre ragioni, per mostrare più chiaramente che simili pitture malamente si possono oggi da persone giudiziose tolerare.

Se l’officio del pittore è l’imitare cose vere o verisimili, chi dubita che il pingere un uomo ch’abbia le membra superiori di gigante, e che poi riesca nelle inferiori in tronco o sasso; overo il formare candelieri con faccie d’uomini che dal capo mandino fiamme; overo conchili che gettino fiumi d’acque; o arbori prodotti da serpenti; o faccie, busti, gambe ora d’uomini, ora di leoni, ora di pesci complicati insieme, o accompagnati con arbori, con sassi, senz’ordine e ragione di natura; chi dubita, dico, che tal pittura non solo è repugnante all’officio del pittore, ma ancora alla natura, alla ragione et a quanti libri hanno mai scritto gli autori di qualonque facoltà? Se l’arte imita la natura, dunque le grottesche non sono secondo l’arte; se le pitture hanno da servire per libri agl’idioti, ch’altro potranno essi imparare da queste, che bugie, menzogne, inganni e cose che non sono? L’anima della pittura è il giovare, e dove non è questo fine è come un corpo morto, che diremo di queste, che non solo non giovano, ma possono intricare le menti de’ semplici in mille errori? Se ciascuno dei difetti discorsi in questo trattrato in varii capi deprime assai la dignità di quest’arte, che avverrà in questa sorte d’opera, dove tutti insieme o la maggiore parte d’essi concorrono, non potendosi chiamare simili pitture se non bugiarde, inette, vane, imperfette, inverisimili, sproporzionate, oscure e stravaganti? Per tal causa scrive Filone, come altrove abbiamo detto, che Moisè scacciò dalla sua republica li artefici di statue e pitture che con bugie corrompessero la verità[[3:De gigant., p. 254.]].

È stato detto da alcuni[[3:D. Barbaro a Vitruvio, VII, 5.]] che, sì come il dialettico cerca di sodisfare con la ragione et il sofista attende col falso a contrafare il vero, cosi i pittori delle grottesche, lasciando il vero et appigliandosi al falso, non cercano altro, a guisa de’ sofisti, che ingannare chiunque gli s’accosta, o più tosto a similitudine de ebrii vaneggiando, per non dire de stolti che fanno le cose sue a caso, senza pensare quello che fanno, vanno errando senza proporsi fine certo o altro lodevole consiglio. Per lo che, volendo Orazio nella sua Poetica mostrare le cose che principalmente dovea un poeta fuggire, cominciò da questo capo, come importantissimo, pigliando a punto l’essempio di un pittore che facesse male l’arte sua, e però scrisse quei versi ch’oggi sono volgati[[3: Ars poet., 1 ss]]:

Humano capiti cervicem pictor equinam

Iungere si velit, et varias inducere plumas

Undique collatis membris, ut turpiter atrum

Desinat in piscem mulier formosa superne,

Spectatum admissi risum teneatis, amici?

E seguita di poi, paragonando simile poema over pittura, poi che vanno al pari, ai sogni d’un amalato, nel quale trovandosi sconcertati tutti gli umori, si vanno generando nella fantasia varie confusioni di cose, le quali in sogno essa rappresenta avvilupate insieme al capo debole dell’infermo onde scrive: Velut aegri somnia vanae Fingentur species ut nec pes, nec caput uni Reddatur formae. Talché, sì come le cose fatte con ordine e ragione subito si fanno conoscere ch’escono da persona vigilante et accorta, così l’altre confusamente poste e senza regola alcuna di virtù, portano seco il soprascritto che sono manifatture di persone sonnacchiose et addormentate; per la qual cosa simili grottesche sono chiamate da alcuni, ad imitazione di Orazio, sogni de pittori.

Ma a che ci stendiamo noi in discorrere di queste invenzioni ? poi che Vitruvio, tanto celebre presso a tutti nell’architettura e nella ragione del formare gli edificii e di ornarli e colorirli con pitture, ne ha scritto così largamente e declamato con tanta efficacia contro questo abuso o inavertenza de pittori, che questo solo dovria bastare a chi è capace di correzzione.

Sappiamo ben noi aver ciò spesso recato non poca meraviglia agli uomini di giudicio, poi che hanno veduto che quegli che fanno professione, nelle loro fabriche et edificii, di caminare con la guida di questo autore e di reggersi affatto sotto la sua disciplina, hanno peccato chiaramente in questa parte contro i suoi decreti, e si può dire contro i suoi principii, scrivendo egli in questo modo[[3:Vitruvio, VII, 5.]] : Constitutae sunt ab antiquis ex certis rebus certae rationes picturarum; namque pictura imago fit eius quod est, seu potest esse, uti hominis, aedificii, navis, reliquarumque rerum, e quarum formis certisque corporum finibus figurata similitudine sumuntur exempla. Sed haec quae a veteribus ex veris rebus sumebantur, nunc iniquis moribus improbantur: nam pinguntur tectoriis monstra potius, quam ex rebus finitis imagines certae etc. E di poi seguita lungamente essagerando questo abuso e mostrando con varii essempi che ciò è contro l’arte, la ragione, la verità e la natura istessa. Ma quello che più a noi importa è che, se questi lavori si fossero contenuti solamente nei luoghi profani, dove la libertà degli uomini può avere alquanto più campo, si saria potuto con minore avertimento tolerare. Ma il vedere che questa indignità passi ancora nei luoghi sacrati di Dio et occupi ormai i più preziosi e reverendi apparati che siano per lo culto e tremendo sacrificio suo, certo non è cosa che dagli animi pii si possa dissimulare; perché se, come più volte s’è detto, le pitture sacre sono state dall’antica Chiesa instituite per certa instruzzione del popolo et eccitazione dell’affetto alla pietà, e per raccogliere la memoria delle cose divine[[3:S. Tommaso, In III Sent., d. 9, q. 1, a.2; q. 2, ad. 3.]], dicami per grazia chi si compiace tanto di queste grottesche, se elle possono servire ad alcuno di questi usi, o pure se più tosto sono atte a distruggere tutto l’instituto della Chiesa; e se corrisponde alla maestà di un tempio, o gravita de’ misterii che ivi si celebrano, il vedersi attorno pitture da burla, ghiribizzi di sogni, mascheroni de pazzi, chimere di vanità e giuochi da fanciulli.

Onde non è meraviglia, se il glorioso s. Bernardo con tanta veemenzia si mostrò sdegnato centra queste pitture, dicendo[[3:Apol. ad Guilelm.]]: Quid facit illa ridicula monstruositas? quid Centauri? quid semihomines? Videas sub uno capite multa corpora, et rursus in uno corpore capita multa; cernitur hinc in quadrupede cauda serpentis, illinc in pisce caput quadrupedis; ibi bestia praefert equum, capram trahens retro dimidiam; hic cornutum animal equum gestat posterius. Tam multa denique tanquam mira diversarum formarum ubique varietas apparet, ut magis libeat etc. Pro Deo, si non pudet ineptiarum, cur vel non piget expensarum? E così vediamo che altri sacri autori ancora hanno biasimato queste pitture mostruose[[3: S. Antonino, Sum. theol., III, tit. 12, cap. 10, §2.]].

Ma almeno i nostri, c’hanno il lume della vera religione, non si lasciassero vincere dagli architetti o pittori che viveano nelle tenebre della falsa religione, in quella parte che serve al decoro e riverenza che si deve avere negli edificii sacri, poi che noi ritroviamo presso lo stesso Vitruvio[[3:I, 2, 7.]] et altri antichi essere stato con tanta diligenza et osservazione lasciata memoria nei loro libri della differenza dei tempii e maniera dell\'architettura che a ciascuno dio secondo la sua proprietà si doveva edificare, e delle varietà parimente dei luoghi dove si avevano a collocare i tempii; giudicando essi ad alcuni convenirsi d’essere posti nelle città, ad altri fuori, ad altri nelle piazze, ad altri in altri luoghi[[3:Vitruvio, I, 7.]].

La simile diligenza servarono negli altari, come dovessero essere posti, verso qual parte del cielo riguardare, se alti o bassi; e della differenza da farsi presso i fiumi, o le vie publiche, o altre parti; delle porte dei tempii, degli ornamenti e di altre cose, come dovessero essere distribuite[[3:Vitruvio, IV, 5.6.8.]].

Et in somma, oltra l’avere scritto Vitruvio due libri interi di cose pertinenti alla struttura degli edificii sacri, e anco in altri luoghi averne secondo l’opportunità parlato nell’opera sua, dice nel terzo libro questo, che desideriamo grandemente sia avertito dai nostri pittori, acciò sappiano quanto maggiore diligenza et industria debbono porre nelle pitture sacre che in qual si voglia opera profana, scrivendo così: Cum causa constituisse videntur antiqui, ut etiam in operum perfectionibus singulorum membrorum ad universam figurae speciem habeant commensam exactionem. Igitur cum in omnibus operibus ordines traderent, id maxime in aedibus deorum, in quibus operum laudes et culpae aeternae solent permanere[[3:III, 1.]]

Ma perché in diffesa di queste grottesche sogliono addursi varie ragioni da alcuni, che potriano forse ingombrare gli animi deboli, abbiamo pensato di parlarne a parte nel capitolo seguente, acciò resti questa materia, ch’è assai frequente, pienamente dichiarata.

II, 42, « Si risponde ad alcune obiezzioni, che sogliono addursi in diffesa delle grottesche »

Molti, vedendo che queste grottesche si trovano nei vestigli degli antichi edificii di Roma, del Lazio, di Puzzuolo, et altri luoghi fatti sontuosissimamente e con molto artificio, non si possono persuadere che tale opera non sia molto esquisita e nobile, massimamente essendo di poi stata accettata dal commune uso del mondo nei luoghi più celebri et onorati che si trovino. Noi altre volte abbiamo risposto ad una simile ragione, dove si parlava delle pitture antiche e moderne[[3:Supra, cap. 32.]], dicendo che le cose s’hanno da misurare da sé stesse, e col sesto della ragione, e non dall’abuso e condizione del tempo, la quale sola non basta a giustificare veramente una cosa, quando vi ripugna la ragione; imperoché i più enormi e principali vizii, che oggi regnano nel mondo, si trovano avere discendenza sino dall’origine de’ secoli, né però sono meno, anzi tanto più biasmevoli, quanto che sempre nell’età precedenti sono stati dai cattivi seguiti e dai buoni condennati. Sì come parimente aviene in queste grottesche di che parliamo, vedendosi che sino al tempo di Vitruvio erano da lui severamente biasimate, dicendo[[3:VII, 5.]]: Haec nec sunt, nec fieri possunt, nec fuerunt, sed ita novi mores coegerunt, uti inertia mali iudices conniveant artium virtutes; talché in questo caso la longhezza del tempo non è altro che una vecchiezza del vizio, degna d’essere perpetuamente bandita.

Altri si vagliono dell\'autorità del medesimo Vitruvio[[3:I, 1.]], che rende la ragione perché nelle colonne si figurassero quelle donne di marmo con la veste longa, chiamate cariatidi delle quali ancora è fatta menzione da Ateneo[[3:VI, 5.]], Plinio[[3:Nat. hist., XXXV, 5.]] et altri; e parimente perché quelle statue persiane fossero formate in atto di sostenere gli architravi e tutto l’edificio delle quali se ne trovano oggi ancora molte in diversi luoghi; ad imitazione delle quali pare che i nostri abbiano figurati quelli che chiamano termini et altri simili nelle grottesche.

Ma a questo si risponde[[3:Pietro Valeriano, Hieroglyphica cit., XLIX]] che l’istoria delle donne cariatidi è narrata per vera da Vitruvio, et il figurarle in quella maniera fu ritrovato come per insegna di trofeo: Ut aeterno dice egli[[3:Vitruvio, I, 1.]], servitutis exemplo gravi contumelia pressae, poenas pendere viderentur pro civitate, et posteris nota poena peccati Caryatium memoriae traderetur. Et il medesimo dice delle statue persiane, scrivendo: Captivorum simulacra barbarico vestis ornatu sustinentia tectum posteris prò tropaeo constituerunt, uti hostes horrescerent, timore eorum fortitudinis affecti, et cives id exemplum virtutis aspicientes gloria erecti ad defendendam libertatem essent parati. Per lo che si vede che queste ebbero origine da principio vero e furono instituite ad eccitamento di virtù; la qual ragione da ogni parte manca in queste grottesche, dove né la verità, né l’essempio può rispondere. Onde l’istesso Vitruvio in un altro luogo[[3:VII, 5.]] si lamenta, dicendo: Neque enim picturae probari debent, quae non sunt similes veritati, nec, si factae sunt elegantes ab arte, ideo de his statim debet [recte] iudicari, nisi etc.

Dicono altri che la libertà conceduta a’ poeti e pittori può molto bene diffendere questa invenzione nata da fecondità d\'ingegno, sì come col testimonio di Orazio[[3:Ars poet., 9 ss.]] s\'afferma in quei versi volgati: Pictoribus atque poetis Quidlibet audendi semper fuit aequa potestas. A questo basti la risposta che soggionge lo stesso Orazio, dicendo: Scimus, et hanc veniam petimusque damusque vicissim; Sed non ut placidis coeant immitia, non ut Serpentes avibus geminentur, tigribus agni etc., talché l’istesso poeta viene a biasimare questa mostruosità .

Pare ad altri che non s’abbia così sottilmente e con tanto rigore a procedere contra queste pitture, poi ch’elle servono a pura dilettazione e trattenimento; né si trova alcuno così sciocco che non conosca chiaramente che tutte sono girandole, figurate così per ricreazione della mente d’alcuno, che più si compiace nel riguardare simili fantasie, che non farà un altro nel vedere la pittura di un prato fiorito o di qual si voglia altra cosa naturale; anzi, di più dicono che il pittore merita maggiore commendazione, poi che col fare simili figure quasi nel frontispicio si dichiara che non vuole figurare cosa vera, né vuole ingannare alcuno, ma solo per passatempo rappresentare cose capricciose, al contrario di molti che, promettendo di narrare o di pingere la verità, accumulano gran bugie et ingannano le persone[[3:Luciano, De hist. conscrib., in princ.]].

Ma la risposta è che non mancano modi onesti e ragionevoli per ricreazione dell’animo e dilettazione, ai quali deve attenersi il cristiano; e perché di questa materia abbiamo parlato di sopra largamente[[3:Supra., cap. 30 s.]], rimettiamo il lettore ai suoi capi, per fuggire l’inutile ripetizione.

E se pure alcuno replicasse che questo volere tanto fermarsi nella verità delle cose, tal che non si possa dipingere altro al mondo, verrà a distrugere tutte le favole de’ poeti e gran parte delle comedie e tragedie che sono state scritte, et ancora verrà ad indebolire l’ufficio del poeta, quale essendo di scrivere le cose vere o verisimili, chiaro è che nelle verisimili non segue la verità, ma va accomodando il poema secondo che il decoro delle persone e la condizione delle cose che possono essere ragionevolmente hanno ricercato (il che parimente è parte propria del pittore); noi rispondiamo che non si esclude dal pittore, né anco come cristiano, questo verisimile di che di sopra abbiamo trattato, ma ciò è molto differente dalle grottesche di che parliamo, le quali non hanno parte alcuna né di vero né di verisimile, come ciascuno vede: perché altro è il riferire una cosa che non si sa certamente come sia stata in molti particolari, ma è verisimile che potesse stare nel tale o nel tal modo - e questo non disconviene né al poeta né al pittore -, altro è il volere narrare una cosa che non solo ripugna alla verità del fatto, ma ancora alla possibilità della natura, e questa non ha luogo né tra poeti buoni, né tra pittori.

Ora, s’alcuno dicesse che pure i poeti hanno figurato e Cerbero con li tre capi, e Tizio co l’avoltore che sempre col becco gli straccia il fegato, e la barca di Caronte, e le Ninfe, e Dafne trasmutata in lauro, e Giove col fulmine[[3: P. Valeriano, Hieroglyphica cit., XXXII, LIX.]], e tant’altre cose che non sono né possono essere vere secondo la natura, e nientedimeno si scrivono e pingono per tutto; si risponde che il verisimile conceduto a pittori e poeti, sì come dichiara Aristotele[[3:Poet., 15.]], si intende secondo il senso populare e certa capacità del vulgo; e però dice egli che il sapere fingere accommodatamente non è impresa di ciascuno, ma ricerca gran perizia, giudicio et intelletto, e per questo effetto egli propone Omero da imitarsi, come quello che ha servato grandemente il decoro et accommodatosi graziosamente al verisimile. Laonde, parlandosi in queste materie di cose pertinenti a dei, ch’erano tenuti avere suprema potestà sopra le cose create dalla natura, parve a’ poeti che non fosse fuori del verisimile che essi gli attribuissero cose che superavano le forze umane, e però andorno fingendo e colorando le loro invenzioni con molta probabilità popularesca. Sotto la quale nondimeno molti vi aveano ascosa ancora l’intelligenza morale, giovevole alla disciplina della vita, sì come narra Vitruvio[[3:VI, 7.]] di quei chiamati Telamoni e da’ Greci Atlanti, che sostenevano gli edificii, e leggiamo parimente di molt’altre favole de’ Greci[[3:S. Agostino, de civ. Dei, XVIII, 8.]], che secondo alcuni aveano dentro allegoria et erano appropriate all’instruzzione de’ costumi, del che copiosamente e largamente ne è stato scritto da diversi autori greci e latini[[3:Palefato, De incred. hist.; Fulgenzio, Mytholog.; Cornuto, theol. compend.; N. Conti, Mythologiae cit.]]. Per la quale ragione potrà parere forsi ad alcuno ch’anco queste grottesche si possano defendere col senso della moralità et allegoria che dentro vi è posta.

Ma noi, lasciando per ora scrittori grandi, che simili favole hanno giudicato non dovere essere tolerate sotto pretesto d’alcuna allegoria[[3:Platone, Respub., II, 378d.]], et altri e\'hanno scritto chiaramente che questo è stato un modo di colore o di velame imaginato da alcuni per coprire in qualche modo la bruttezza o sciochezza di quelle favole[[3:Teodoreto, Graec. affectionum curatio, III.]], e che i Romani non volsero mai admettere simili allegorie; noi, quanto al proposito delle grottesche, diciamo che esse ordinariamente, come ognuno sa, non hanno ascoso alcuno senso giovevole, ma sono fatte a salti et a capriccii; e quando pure ve ne fosse alcuno, viene ad essere tanto recondito et abstruso, che serve per pochissimi et inganna moltissimi, e però si ha da tralasciare. Del che varie ragioni ne rende Dionisio Alicarnaseo[[3:Anto. Rom., II.]], che, parlando delle favole de’ Greci, scrisse così: In Graecorum fabulis pauca bona insunt, nec multis prosunt, nisi qui scopum earum intelligunt, quae quidem sapientia paucis contigit; ceterum vulgaris turba et rudis philosophiae tales sermones in deteriorem partem accipit, et duplex hinc capit incommodum, aut deos contemnens tanquam multis involutos infortuniis, aut a nulla iniquitate turpitudineve abstinens, cum videat deos quoque his obnoxios. Quanto più dunque oggi dovranno simili invenzioni da noi tralasciarsi, che, sendosi già diffusa la luce della verità evangelica, non abbiamo bisogno più di tali favole o invenzioni, non mancando ottimi soggetti e dilettevoli nelle istorie sacre et ecclesiastiche e nelle vite de’ santi?

Sì che concludiamo che, se bene gli antichi, involti nelle tenebre, ebbero qualche probabile ragione di figurare in quei luoghi sotterranei queste grottesche, a noi però, ai quali è apparso il sole della verità, più non convengono simili intenzioni; le quali maggiormente disdicevole sarà di fare nei luoghi publici et aperti, per le ragioni già dette, perché quanto alle chiese, pensiamo che non sarà alcuno così privo di ragione che non confessi che, adorando noi in esse quella suprema maestà, per participazione della quale tutte le cose hanno l’essere e sono vere, nissuna cosa più le è repugnante che rappresentare in esse cose de sogni e de falsità.

Dans :Grotesques(Lien)

, « Delle pitture vane et oziose » (numéro II, 30) , p. 386 et 387-388

Noi donque, seguendo il medesimo[[5:San Tommaso.]], non siamo però così indiscreti e rigorosi, che vogliamo escludere dal cristiano la dilettazione del senso, che si piglia dalle cose, ma diciamo che deve insieme dilettarci e con ragione inviarci alla virtù, che è il fine di tutte le azzioni, essendo quella vera e cristiana ricreazione, che serve all’uno e all’altro, e dilettando giova, e giovando diletta […] Se direte che anticamente s’usavano pure simili pitture per sola ricreazione e vaghezza agli occhi, sì come oggi ancor si veggono nei frammenti sontuosi degli edificii romani (e scrive Plinio [[3:Nat. Hist. XXXV, 10]] esser stato al tempo di Augusto un pittore chiamato Ludio, qui primus instituit amoenissimam parietum picturam, villas et porticus ac topiaria opera, lucos, nemora, colles, piscinas, euripos, tum varias obambulantium species aut navigantium terraque villas adeuntium asellis aut vehiculis, plurimas praeterea tales argutiae facetissimos sales, tum maritimas urbes blandissimo aspectu minimoque inpendio, etc. ; si risponde che anco in quei tempi molti uomini savii le hanno biasimate per infruttuose, come di sopra si è detto. Ma, sia stato presso di loro quel che si voglia, oggi, poi che, scacciata la caligine degli errori, è illustrato il mondo dallo splendore evangelico, non è dubbio che altri concetti, altri pensieri, altri mezzi, altri fini debbono movere un petto cristiano e dirizzarlo in tutte le cose alla virtù, tenendo sempre viva memoria che sino d’una paroluccia si ha da stare al sindicato.

E se replicarete che le ville, le fontane et i palazzi si dipingono per mero diletto degli occhi, noi responderemo, come di già abbiamo detto, che l’occhio del cristiano deve penetrare più oltre, talmente che col diletto sia congiunto il giovamento presente o subsequente.

Dans :Ludius peintre de paysages et la rhopographia(Lien)

, « Delle pitture ridicole » (numéro II, 31) , p. 390

Non parliamo ora di quelle che, per rozzezza del disegno o lineamenti storti, o altra inezzia del pittor, eccitano il riso a chi ha qualche giudizio ; imperoché questo non è veramente riso, ma deriso, essendo che il riso, onde deriva « ridicolo », nasce da una diformità sì, ma fatta non diformemente, dicendo Cicerone : Locus et regio ridiculi deformitate quadam continetur, quae designat turpitudinem non turpiter. Il che non aviene in queste pitture di che parliamo, che sono tutte piene di sproporzioni e sciochezze causate dal solo diffetto dell’auttore, che le fa passare in stoltizia, secondo Quintiliano [[1:VI, 3]], che disse : Anceps ridiculi ratio est, quod a derisu non procul abest risus, cuius sedes cum sit in deformitate aliqua et turpitudine, cum in aliis demonstratur, urbanitas, cum in dicentem ipsum recidit, stultitia uocatur. Sopra di che fu anticamente motteggiato con quel detto : Homo facie magis quam facetiis ridiculus ; e di un pittore narra Eliano [[1:X, 10]] ch’era sì sciocco et imperito nell’arte sua, che, non dipingendo cosa che s’assomigliasse, era sforzato di aggionger il nome alle cose, dicendo : « questo è un cavallo, questo è un arbore, questo è un libro », onde ognuno se ne ridea.

Dans :Peintres archaïques : « ceci est un bœuf »(Lien)

, « Delle pitture oscure e difficili da interdersi » (numéro II, 33) , p. 410-411

Nasce ancora l’oscurità dal non sapere ; ma non intendiamo ora di trattare della perizia dell’arte, perché, come in più luoghi s’è detto, trattiamo noi delle cose e non della ragione del disegno, presuponendo che il pittore ne sia instrutto quanto si conviene ; altrimente non è dubbio che, non possedendo bene l’arte che sta ne l’assomigliare, l’opere sue riusciranno oscurissime e non conoscibili da chi le guarderà, sì come altre volte abbiamo raccontato d’uno ch’era forzato di aggiongere all’imagini che faceva : « Questo è un leone, questo è un cane, questa è una torre, questa è una fontana »[[1:Eliano, Var. hist., X, 10]]. Ma noi parliamo di quella oscurità che nasce per non sapere bene il pittore quella materia che vuol fare ; perché, come dicea Socrate [[1:Cic, De orat. I, 14]], quelle cose che l’uomo sa bene e le possiede compitamente, le esprime ancora, quando vuole, commodatamente […] Così nella pittura, chi possederà bene e fondatamente quello che è per ritrarre, e saperà il fine a che è ordinato quel misterio, o a che mira quella figura, non è dubbio che lo porgerà molto più chiaramente, e con maggiore espressione per le particolarità che vi inserirà, che non farà un altro poco intendente. E sì come, a volere sciogliere bene una questione di alcuna scienza, chi va distinguendo e considerando varii capi riesce molto meglio e con quelle distinzioni quieta affatto l’intelletto ch’è sospeso ; così sono molte istorie sacre e misteri, i quali se il pittore averà questo giudizio in andarli compartendo con ordine e distinguerle in varii quadri o spazii, e si astenerà più che potrà di ammassare et inculcare una moltitudine di figure e di azzioni, le quali confondono la vista e l’intelletto, senza dubbio più sodisfarà a tutti e darà maggiore segno di giudicio e di perizia. A che gioverà principalmente l’aggiungervi in luogo conveniente il nome del misterio o del santo, quando non sia figura notissima (sì come anticamente veggiamo essersi usato, secondo che afferma s. Paolino [[1:Nat., 10]] dicendo : Martyribus mediam pictis pia nomina signant) ; overo notarvi il luogo dello autore della istoria sacra che si rappresenta, overo ancora alcune brevi parole e significanti, tolte dal medesimo libro dell’autore, a proposito di quello che si fa.

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, p. 155-156

[[8:voir aussi Polygnote et Pauson]] Perché è racontato che tra gli antichi alcuni imitavano sempre le cose più eccellenti, altri le cose più basse, altri le cose comuni e volgari, si come da Plinio è nominato un pittore che non pingeva se non tonstrinas, sutrinas, asellos, obsonia, ac similia et ob id cognominatus rhyparographus. [[1:XXXV, 10]] Onde appresso i Tebani scrive Eliano che vi era legge che i pittori e scultori effingerent εἰκόνας εἰς τὸ κρείττον et era pena a quelli qui εἰς τὸ χείρον ; la quale differenza sappiamo nelle nostre età essere spesse volte accaduta e tuttavia vedersi.

Dans :Piraicos et la rhyparographie(Lien)

, p. 155-156

Perché è raccontato che tra gli antichi alcuni imitavano sempre le cose più eccellenti, altri le cose più basse, altri le cose comuni e volgari, sì come da Plinio è nominato un pittore che non pingeva se non tonstrinas, sutrinas, asellos, obsonia, ac similia et ob id cognominatus rhyparographus. [[1:XXXV, 10]] Onde appresso i Tebani scrive Eliano che vi era legge che i pittori e scultori effingerent εἰς τὸ κρείττον et era pena a quelli qui εἰς τὸ χείρον ; la quale differenza sappiamo nelle nostre età essere spesse volte accaduta e tuttavia vedersi.

Dans :Polygnote, Dionysos et Pauson : portraits pires, semblables, meilleurs(Lien)

(I, 9), p. 169

Leggemo parimente diversi re et imperatori grandissimi avere talmente stimato e presa la protezzione delle opera di questi eccellenti artefici, che averanno difese le città dal furore de’ nemici e sacheggiamenti de’ soldati solo per tema che insieme non si abbrusciasse qualche notabile opera di quest’arte, come avenne nel tempo di Demetrio re verso la città di Rodi.

Dans :Protogène et Démétrios(Lien)

, « Delle pitture imperfette » (numéro II, 29) , p. 381-382

Terzo, ricordiamo che ci è una sorta d’imperfezzione, per dir così, perfetta, et una diminuzione con augumento, a guisa di quella figura de’ retori chiamata ἀποσιωπήσις, che col tacere significa cose maggiori. Così nella pittura si possono e si devono spesso dipingere le cose in tal maniera, che, col tralasciarne alcuna e solo accenarla destramente, s’imagini lo spettatore cose maggiori tra se medemo : la qual fu lode di gran meraviglia principalmente attribuita a Parasio, come scrisse Plinio, soggiongendo queste parole : Extrema corporum facere et desinentis picturæ modum includere rarum in successu artis invenitur ;  ambire enim debet se extremitas ipsa et sic desinere, ut promittat alia post se, ostendatque etiam quæ occultat. Ond’è celebre l’atto che fece quel pittore detto Timanthe, del quale scrive l’istesso Plinio che, avendo dipinta Ifigenia che stava per essere sacrificata in presenzia di molti, e tra gli altri di un suo zio e di suo padre, non li dando animo di esprimere pienamente la mestizia del padre, li coperse la faccia con un velo : Cum mæstos, dice egli, pinxisset omnes, præcipue patruum, et tristitiæ omnem imaginem consumpsisset, patris ipsius vultum velavit, quem digne non poterat ostendere ; dal cui esempio veggiamo alcuna volta molto giudiziosamente farsi da valenti pittori che, nel rappresentare le Marie a piedi del signore nostro crocifisso, volendo esprimere la grandezza della amaritudine loro, sogliono figurarne alcune col capo chinato in seno, e con le mani e manto coprirsi la faccia, per dare seno di maggior cordoglio, e di acerbità inesplicabile. Questo però se appartiene all’arte del disegno, ci è parso nondimeno di non tralasciarlo, potendo anco servire alla tessitura delle cose istoriche, dove alle volte lo usare simile arte serve ad esprimere più efficacemente quello che si intende.

Dans :Timanthe, Le Sacrifice d’Iphigénie et Le Cyclope (Lien)

, « Delle pitture mostruose e prodigiose » (numéro II, 26) , p. 421

Mostri imaginati si possono pigliare in due modi, cioè non che sono falsamente finti dalla pura nostra imaginazione, overo che sono formati dalla imaginazione nostra, mossa però da cause superiori e divina revelazione. Nel primo modo si comprendono quelli che si hanno finti i poeti, come sono sirene, sfingi, arpie, pegasi e dette da Omero chimere, e quelle che chiamarono ciclopi, uno de’quali narra Plinio che fu dipinto con vaga invenzione, dicendo : Pictor Timanthes pinxit in parvula tabella Cyclopem dormientem et iuxta Satyros metientes thyrso pollicem eius etc. ; overo altri che ciascuno si va fabricando di sua imaginazione, come racconta Platone che fino al suo tempo s’usava da’pittori, scrivendo : veluti cum pictores tragelaphos et cetera huiusmodi multiplicia figmenta depingunt ; e quelli che narra Luciano [[1:Ver. Hist., I, II ; Alex. ; Philopseudes]] in varii luoghi, e simili se ne vedono nelle grottesche, de’quali parlaremo nei capi seguenti più diffusamente.

Dans :Timanthe, Le Sacrifice d’Iphigénie et Le Cyclope (Lien)

, « Della dilettazione che apportano le immagini cristiane » (numéro I, 22) , p. 220

Onde quelle pitture che più imitano il vivo e vero, per modo che ingannano gli animali e tal volta gli uomini, come racconta Plinio di Zeusi e di Parasio, tanto più sempre sono state degne di commendazione e maggiormente hanno dilettato i riguardanti.

Dans :Zeuxis et Parrhasios : les raisins et le rideau(Lien)

, "Della pittura e scoltura et altre arti che versano nel far imagini" (numéro I, 9) , p. 169

E se dal prezzo delle opere si conosce la riputazione dell’arte, questo solo ancora può evidentemente dimostrare quanta sia stata la stima et eccellenza loro, leggendosi che alcune imagini sono state spesse volte con così smisurati prezi comperate, che il narrarlo solo rende meraviglia. Onde tra gli altri si narra d’un famoso pittore ne’ suoi tempi, che, dopo lo avere con alcune opere sue adunato grandissimo tesoro, si risolse a donare ciò che faceva, e fu giudicato prudentissimo che egli donasse le cose alle quali nessuna sorte di prezzo poteva essere uguale [[1:Plinio, Nat. Hist., XXXV, 9]].

Dans :Zeuxis et la richesse(Lien)

, « Delle pitture vane et oziose » (numéro II, 30) , p. 383

Nientedimeno, avendo la pittura il proprio suo ufficio, che già abbiamo dichiarato, chiamiamo in questo proposito vane quelle pitture che si scostano da tale ufficio, né mirano cosa relevante, ma solo a pascere gli occhi senza sodo frutto. […] Parliamo al presente d’altre sorti di pitture, che rappresentano varietà di cose, o favole, o altre invenzioni, né hanno alcun fine certo, se non di stendere col disegno e colore quello che al pittore sia venuto in fantasia per dare trattenimento a chi lo riguarda. E perché tale materia suole variamente essere intesa da molti, abbiamo giudicato conveniente di mettere in considerazione alcune cose, accioché, avvertitone, il lettore possa per l’avenire aggiongere qualche maggior industria a simili invenzioni, riservandoci di trattare a parte delle grottesche, se bene hanno qualche similitudine insieme.

Dans :Grotesques(Lien)