Type de texte | source |
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Titre | Vite de\' pittori antichi |
Auteurs | Dati, Carlo Roberto |
Date de rédaction | |
Date de publication originale | 1667 |
Titre traduit | |
Auteurs de la traduction | |
Date de traduction | |
Date d'édition moderne ou de réédition | |
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Date de reprint |
, « Vita d’Apelle », p. 85-86
Riusciva tutto questo facilmente ad Apelle, si per la squisitezza dell’arte, si anche per averne coloriti molti ritratti, come ne fece in gran numero eziandio del Re Filippo, in grazia forse dello stesso Alessandro [[1:Plin. 35. 10]]. Tra quelli il più famoso fu l’Alessandro fulminante nel tempio di Diana Efesina, il cui prezzo fu venti talenti d’oro [[1:Cicer. in Verr. l. 4. Plin. l. 35. c. 10]] Qui, oltre al rappresentarsi la maestà d’un Giove terreno, vedevansi rilevar le dita, e il fulmine non senza terrore de’ riguardanti uscir fuori della tavola. [[1:XV.]] Piacque tanto quest’opera agli Efesini, che da essi Apelle ne ricevette prezzo esorbitante in monete d’oro a misura non a novero. Egli pure se ne pregiava, ond’era solito dire che due erano gli Alessandri, uno di Filippo invincibile, l’altro d’Apelle inimitabile [[1:Plut. Or. 2. d. Virt. d’Alessand.]] Sopra di che, forse per astio, prese occasione d’appuntarlo Lisippo celebre maestro di getto, privilegiato anch’egli di fare in bronzo i ritratti del medesimo Principe, e disse, che poco avvedutamente aveva operato a figurarlo col fulmine, quand’egli l’avea rappresentato con l’asta, vera e propria arme di quell’Eroe, che per essa sarà sempre immortale [[1:Plutar. d. Isid. Osir.]] Non mancò già chi difendesse, e commendasse il concetto d’Apelle [[1:Pier. Val. Gerogl. l. 43. c. 27. Sinesio Epist .I.]] [[1:XVI.]] E di più fuvvi chi scrisse che questi due professori non furono altrimenti emuli, ma cari amici, scambievolmente mostrandosi l’opere loro [[1:Plut. In Alessan.]] Fu ben tacciato in questa tavola, per aver fatto Alessandro bruno di carnagione, quand’egli era bianchissimo, e massimamente avendo la faccia, e’l petto, che parean latte, e sangue [[1:Plin. 35. 10]]
Dans :Apelle, Alexandre au foudre(Lien)
, "Vita di Apelle", p. 91
[[1:XXI.]] Ingegnoso, e bel ripiego fu anche quello, ch’egli prese in ritrarre Antigono cieco da un’ occhio, facendone l’effigie in proffilo, acciò il mancamento del corpo apparisse più tosto della pittura, con esporre alla vista solamente quella parte del volto, che poteva mostrarsi intera: e per tal modo pensò a celare gli altrui difetti, come quegli che ben conosceva esser più laudabile occultare i vizzi dell’amico, che palesar le virtù. [[1:Causs. l. 12. Simb. 26]] Fuvi nondimeno chi lo tacciò in questo come adulatore d’Antigono; il quale fu da lui dipinto eziandio armato col cavallo appresso. [[1:Plin. 35. 10.]]
Dans :Apelle, le portrait d’Antigone(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle », p. 133-134
XXI. Ingegnoso, e bel ripiego fu anche quello, ch’egli prese in ritrarre Antigono cieco da un’ occhio, ec.
Quintiliano l. 2 c. 13. par che dica, che Apelle facesse questo ritratto in profilo. Habet in pictura speciam tota facies: Apelles tamen imaginem Antigoni latere tantùm altero ostendit, ut amissi oculi deformitas lateret. Da Plinio l. 35. c. 10. si cava più tosto ch’egli lo facesse in mezza faccia, o come dicon’ altri, in mezz’ occhio. Pinxit et Antigoni regis imaginem altero lumine orbam, primus excogitata ratione vitia condendi: obliquam namque fecit, ut quod corpori deerat, picturae potius deesse videretur; tantumque eam partem è facie ostendit, quam totam poterat ostendere. Parrà forse ad alcuno che in questa seconda maniera fosse difficile occultare il difetto d’Antigono, ma però è possibile; ed io ne ho veduto in Firenze un ritratto bellissimo, che in cotale attitudine asconde il medesimo mancamento d’un’ occhio, mantenendo la simiglianza senza lasciar che desiderare a chi ben conobbe quel buon cavaliere, e bravo soldato, per cui egli è fatto. Maraviglioso è parimente il ritratto di Monsignor Tommaso Fedra Inghirami Bibliotecario della Vaticana, e Segretario di Giulio II. il quale essendo talmente guercio che n’appariva deforme, fu da Raffaello d’Urbino figurato in simil postura, che proprio sembra spirante, e quanto apparisce dello scompagnamento degli occhi non gli reca bruttezza. Questo al presente s’ammira nella nobil conserva di pitture, di statue, e d’anticaglie raccolta dall’ottimo gusto, e magnificenza del Sereniss. Principe Leopoldo di Toscana, insigne per la protezione delle bell’arti, e per la cognizione delle più subblimi scienze. Non si debbon passare senza qualche riflessione quelle parole di Plinio, Primus excogitata ratione vitia condendi. Furono altri avanti ad Apelle, che ci avevan pensato. Plutarco racconta che avendo Pericle il capo auzzo, tutte le statue d’esso eran fatte coll’elmo. E soggiugne, coprendo (per quanto io credo) gli artefici in cotal guisa questo difetto.
Dans :Apelle, le portrait d’Antigone(Lien)
, p. 98
[[1:Plin. 35. 6 e 10]] Adoprò una certa vernice, la quale niuno seppe imitare. Questa dava egli all’opere dopo averle finite, in modo che la medesima le ravvivava e le difendeva dalla polvere, né si vedeva se non da presso. Mettevala in opera con tanto giudicio, che i colori accesi non offendevan la vista, veggendosi come per un vetro da lungi, e le tinte lascive acquistavano un non so che d’austero.
Dans :Apelle, atramentum(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 88
[[1:Plin. 35. 10.]] Non trovò già presso i primi della corte tanto favore quanto egli ebbe con Alessandro, e spezialmente non fu gran fatto in grazia di Tolomeo, a cui nella divisione della monarchia toccò per sua destrezza l’Egitto. Per la qual cosa assai curioso avvenimento fu quello, che accade al nostro pittore in Alessandria, dove fu trabalzato da fortuna di mare. Appena arrivò nella regia, che gli emuli subornando un buffone lo fecero invitare a cena col re. Venne adunque, e sdegnandosi per ciò Tolomeo, Apelle si scusò con dire d’essere stato invitato da parte di S. M. Chiamati i regij invitatori, perchè dicesse da quale, ne sapendo Apelle tra essi vederlo, preso un carbone dal focolare nel muro lo disegnò, e dalle prime linee Tolomeo lo riconobbe.
Dans :Apelle au banquet de Ptolémée(Lien)
, "Vita di Apelle", p. 87
[[4:suit Apelle et Alexandre]] [[1:XVIII.]] Narrasi un’ altro caso, che veramente non so s’ io mi debba crederlo, almeno io non posso lodarlo. Vide Alessandro in Efeso la propria immagine a cavallo di mano di Apelle: la considerò, ma la lodò freddamente. Un destriero quivi condotto anitrì al dipinto, come avrebbe fatto ad un vero: perlochè Apelle si lasciò scappar di bocca; O Re quanto più s’intende di pittura questo cavallo ! [[4:suite : Campaspe]]
Dans :Apelle, le Cheval(Lien)
, « Postille alla vita d’Apelle » , p. 128-130
XVIII. Narrasi un’altro caso, che veramente io non s’io mi debba crederlo. Il racconto è d’Eliano Var. St. l. 2 c. 3. Non lo crede ne anche Gio: Freinsemio nel suo supplem. a Curzio l. 2. 6. 29. come cosa non conveniente alla Maestà d’un Re sì grande, e tanto erudito, ne alla modestia d’un pittore si giudizioso. Gio: Scheffero sopra Eliano l.2 c.3 reputa, che questo avvenimento sia il medesimo, che quello il quale da me si riferisce più avanti, quando Apelle s’appellò da gli uomini a’ cavalli. Plin. 35. 10. Ma io l’ho per diverso, non si facendo qui alcuna menzione dell’immagine d’Alessandro. E però da notare, che Apelle non parlò saviamente, ne secondo i fondamenti dell’arte in alcuno de’ due casi, imperciocchè non si dee chiamare meno perito della pittura chi più facilmente si lascia ingannare dall’arte, anzi per lo contrario. E ben più stimabile quell’opera, la quale più facilmente inganna i medesimi, o uomini, o bestie ch’ e’ si sieno; e più assai quella, che inganna gli uomini. Onde Zeusi ingenuamente si confessò vinto da Parrasio, perchè se egli ingannò gli uccelli con l’uva dipinta, Parrasio col finto velo ingannò lui professore. Plinio l. 35. 10. Ne doveva Apelle far si gran conto dell’inganno de’ cavalli, cosa molto più facile, che l’ingannare gli uomini; come non fece molta stima Protogene, della pernice dipinta nella tavola famosa del Satiro, la quale veggendo le pernici addomesticate pigolavano, e la cancellò, perchè s’accorse che il volto stima più queste bagatelle, che la sustanza dell’arte. Strabone l. 14. a 652. E Valerio Mass. appunto nel caso nostro l. 8 c. 11. 4. dopo aver narrato, che la bellezza della Venere di Gnido fatta da Prassitele provocò a libidine un tal giovane, soggiunse. Quo excusabilior est error equi, qui visa picture equae, hinnitum edere coactum est, et canum latratus aspectu picti canis incitatus: taurusque ad amorem, et concubitum aenae vaccae Syracusis nimiae similitudinis irritamento compulsus. Quid enim vacua rationis animalia arte decepta miremur, cum hominis sacrilegam cupiditatem muti lapidis lineamentis excitatam videamus? Celio Rodig. l.2 c. 17 applica ad Apelle quanto dice Valer. Mass. della Cavalla, e del Cane.
Di si fatti inganni, ed apparenze, veggasi Gio: Paolo Lomazzo l. 3 cap. 1 della Pittura. A gloria dell’arte e dell’artefice debbo sinceramente confessare quanto avvenne a me nel Salone terreno, che è nel Palazzo del Sereniss. Granduca di Toscana mio Signore. Aveva io sentito, che in quella nobile stanza dipinta la maggior parte da Giovanni da S. Giovanni erano alcuni bassirilievi tanto simili al vero, che ingannavano chiunque gli riguardava. Con tale avviso vi entrai la prima volta per riconoscere quali fossero, e quelli veggendo, e veri credendoli, andava attentamente ricercando i finti, giacchè tra essi alcuno non mi si presentava al guardo, che vero non mi paresse. Mi accostai adunque pian piano al muro quand’io mi credetti d’esser meno osservato, per chiarirmi se veramente avevan rilievo, e allora m’accorsi, che, nonostante il precedente avvertimento, era anch’io restato all’inganno.
Dans :Apelle, le Cheval(Lien)
Fu veramente eccellentissimo in dipigner cavalli, avendo come udito abbiamo rappresentati sopra essi molti principi, e soldati grandi. [[1:Plin. 35. 10]] Ma ciò meglio si conobbe in quello, ch’egli dipinse a concorrenza, quando accortosi che gli emuli avevano il favore de’ giudici, s’appellò dagli uomini alle bestie, e facendo vedere a’ cavalli vivi, e veri l’opere di ciascheduno artefice, essi solamente anitrirono a quel d’Apelle: laonde fu sempre mostrato in prova di sua grand’ arte. [[1:Mars. fic. d. immort. d’an. l. 13. c. 3.]] Il che quanto portò di reputazione ad Apelle, tanto recò di vergogna a gli uomini appassionati, che in far la giustizia restarono addietro a gli animali senza ragione.
Dans :Apelle, le Cheval(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 92
[[1:Plin. 35. 10.]] D’eguale stima fu riputata una Diana in mezzo ad un coro di vergini sacrificanti, le quali essendo tutte bellissime, disposte in varie attitudini e graziosamente vestite, erano tuttavia superate dalla bellezza e dalla leggiadria della Dea, a tal segno che restavano inferiori a questa pittura i versi d’Omero, ch’una simil cosa descrivono.
[[1:Odiss. L. 6 v. 102]] Vaga d’avventar dardi i monti scorre
Diana, e sul Taigeto, e l’Erimanto
Prende piacer di lievi capri, e cervi.
Con lei, prole di Giove, agresti Ninfe
Scherzano, onde a Latona il cuor ne gode.
A tutte colla fronte ella sovrasta.
Chiaro distinta, e pur ciascuna è bella.
Dans :Apelle, Diane(Lien)
, « Vita d’Apelle » , p. 85
Non erano meno graziosi delle pitture i tratti, e le maniere d’Apelle, onde essendosi guadagnato l’affetto d’Alessandro Magno, frequentemente fu da quel monarca, benigno quanto grande, visitato, e veduto lavorare; e la piccola bottega d’Apelle spesse fiate in se raccolse quell’eroe, al quale pareva angusto termine un mondo. [[1:XIV.]] Si compiacque talmente Alessandro de’ lavori di questo artefice, che per pubblico edito, e sotto gravi pene comandò, che non altri che Apelle potesse ritrarlo in pittura. Onde notissimi sono que’ versi d’Orazio. [[1:l. 2. ep. X]].
Per editto vietò ch’altri che Apelle
Pingesse, od altri che Lisippo in bronzo
Scolpisse il volte d’Alessandro il forte.
Come quegli, che bramava di fare esprimere al vivo la robustezza guerriera, la nobiltà maestosa, e quell’aria gentile, e quasi divina, che nel sembiante gli risplendeva. [[1:Apuleio Florid. I.]] Riusciva tutto questo facilmente ad Apelle, si per la squisitezza dell’arte, si anche per averne coloriti molti ritratti, come ne fece in gran numero eziandio del Re Filippo, in grazia forse dello stesso Alessandro.
Dans :Apelle et Alexandre(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 86-87
[[1:Plin. 35. 10]] Ma poco danno recar poteano così fatte censure a lui oramai divenuto tanto favorito e familiare di quel monarca per altro stizzoso, e superbo, che stando egli un giorno a vederlo lavorare, e discorrendo anzichenò poco a proposito della pittura [[1:XVII.]], lo consigliò piacevolmente a tacere, additandogli i suoi macinatori, che malamente poteano tener le risa. Altri affermò che ciò gli avvenne con Megabizo Persiano [[1:Plut. de Diff. am. Adul. e. d. tranq. d. anim.]], il quale in bottega di lui volendo pur cicalare delle linee e dell’ombre, Apelle fu necessitato a dirgli alla libera: fino a che tu tacesti questi fattorini ammirarono in te la porpora, e l’oro, ma quando hai cominciato a parlare di quello, che tu non sai, di te si ridono.
Dans :Apelle et Alexandre(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle », p. 124
XIV. Che per pubblico editto e sotto gravi pene comandò ec.
Plinio l. 35. 10. Nam ut diximus ab alio pingi se vetuit edicto. E l. 7. 37. Idem hic imperator edixit, ne quis ipsum alius quam Apelles pingeret, quam Pyrgoteles sculperet, quam Lysippus ex aere duceret. Orazio l. 2. epist. I.
Edicto vetuit, ne quis se praeter Apellem,
Pingeret: aut alius Lysippo duceret aera
Fortis Alexandri vultum simulantia.
Cicer. l. 5 epist. 12. Neque enim Alexander ille, gratiae causa ab Apelle potissimum pingi, et a Lysippo fingi volebat: sed quod illorum artem cùm ipsis, tum etiam sibi gloriae fore putabat. Valer. Mass. l. 8 c. 11. Quantum porrò dignitatis a Rege Alexandro tributum arti existimamus; et qui se pingi ab uno Apelle, et fingi a Lysippo tantummodo voluit Apuleio l. I. de’ Flor. Sed cum primis Alexandri illud praeclarum: quod imaginem suam, quo certior posteris proderetur, noluit a multis artificibus vulgò contaminari; sed edixit universo orbi suo, ne quis effigiem Regis temerè assimularet aere, colore, caelamine: quin saepe solus eam Polycletus (scambia da Lysippo) aere duceret, solus Apelles coloribus deliniaret, solus Pyrgoteles caelamine excuderet. Praeter hos tres, multò nobilissimos in suis artificiis, si quis uspiam reperiretur alius sanctissimi imagini regis manus admolitus, haud secus in eum, quàm in sacrilegum vindicaturus. Eo igitur omnium metu factum, solus Alexander ut ubique imaginum summus esset: utique omnibus statuis, et tabulis, et toreumatis vigor acerrimi bellatoris, idem ingenium maximi honoris, eadem forma viridis iuventae, eadem gratia relicinae frontis cerneretur. Plutarco nel lib. d. Fort. e della Virtù d’Aless. a 335 tocca qualche cosa d’Apelle, e di Lisippo, come anche Imerio Sosista presso a Fozio a 1138. e da questi antichi mill’altri moderni, i quali tutti tralasciando addurrò solamente il Petrarca Son. 197.
Vincitore Alessandro l’ira vinse,
E fel minor in parte che Filippo.
Che li val se Pirgotele, o Lisippo
L’intagliar solo, ed Apelle il dipinse?
Dans :Apelle et Alexandre(Lien)
, p. 128
XVII. Lo consigliò piacevolmente a tacere ec.
Plinio l. 35. 10. Sed et in officina imperitè multa disserenti silentium comiter suadebat, rideri eum dicens à pueris, qui colores tererent. Plutarco dice che ciò gli avvenne con Megabizzo. D. differ. d. adul. all’Amico. Ma Eliano Var. St. l. 2 c. 2. attribuisce il caso di Megabizzo a Zeusi. Vedi Poliz. Miscell. c. 48. Freinsem. Supplem a Q. Curzio l. 2. 6. 29 e 30. il quale non crede assolutamente che ciò avenisse ad Apelle con Alessandro M.
Dans :Apelle et Alexandre(Lien)
, p. 12
[[2:XVII.]] Una volta che Megabizzo lodava alcune pitture assai rozze, e anzichenò dozzinali, e ne biasimava altre con gran maestria lavorate, i fattorini di Zeusi, che macinavano la terra melina se ne ridevano; laonde Zeusi gli disse. Mentre tu stavi cheto, questi ragazzi veggendo le tue vesti e i tuoi ornamenti t’ammiravano, ma da che tu hai cominciato a parlare della professione, ti burlano. Ora per non perdere di reputazione tieni la lingua a te, e non dar giudicio dell’opere, e dell’arte, che non è tua.
Dans :Apelle et Alexandre(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 87-88
Ma la dimostrazione singularissima d’affetto straordinario, che ad Apelle fece Alessandro, rende credibile qualsisia stravaganza. Comandò il re ch’egli dipingesse nuda Campaspe Larissea, la più bella, la più cara delle sue concubine, e accorgendosi che nell’operare Amore ad Apelle l’avea dipinta nel cuore, la gli donò. Grande in cotal pensiero, maggiore nel dominio di se medesimo, e non minore in questo fatto, che per qualche segnalata vittoria. Vinse allora se stesso, e per arrichirne interamente l’artefice gli rinunziò n’un punto, e la dama, e l’amore. Ne lo ritenne il rispetto della giovane amata, perché ora fosse d’un pittore colei, che fu poco dianzi d’un Re.
Dans :Apelle et Campaspe(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle », p. 130-132
XIX. Comandò il re ch’egli dipingesse nuda Campaspe.
Plinio l. 35. 10. Namque cum dilectam sibi ex pallacis suis praecipue nomine Campaspem nudam pingi ob admirationem formae ab Apelle iussisset, cumque tum pari captum amore sensisset, dono eam dedit. Magnus animo, maior imperio sui, nec minor hoc facto, quam victoria aliqua. Quippe se vicit, nec torum tantum suum, sed etiam affectum donavit artifici: ne dilectae quidem respectu motus, ut quae mòdo regis fuisset, mòdo pictoris esset. Nelle quali parole è da avvertire che il MS. Vaticano e uno del Pinciano leggono. Dum paret captum amore. Il qual sentimento a me sembra più galante del comune. Eliano l. 12. c. 34 la nomina Pancaste e la fa Larissea, seguitato dal Freinsemio nel Supplem. a Curzio l. 2. c. 6. n. 28. Nota la differenza il Turnebo l. 18 c. 3 degli Avvers. ma legge in Plinio Campaspem; forse fu errore di stampa, quale io stimo che sia presso al Passerazio sopra Properzio a 148. dove è nominata Campaste, e nella lettura dell’Adriani, dove è chiamata Cansace. L’eruditissimo Scheffero pare che stimi corrotto questo nome presso a Plinio, e che più tosto sia da sostenere quello d’Eliano, cioè Pancaste. Io sono stato assai tempo indifferente, non avendo più ragioni per l’uno che per l’altro, ma dopo aver osservato presso a Luciano un luogo singolarissimo, inclino a seguitare Eliano. Nel Dialogo intitolato le Immagini a 590 volendo egli figurare una bellissima figura, dopo aver prese diverse bellezze da’ più famosi scultori, elegge quattro pittori, Eufranore, Polignoto, Apelle, Ezione, a ciascuno de’ quali assegna la parte sua. Eufranore vuole che dipinga la chioma, com’egli la fece a Giunone; Polignoto le sopraciglia, e le guancie, quali egli le figurò nella Cassandra di Delfo. Il restante del corpo lo perfezioni Apelle, imitando il simulacro di Pacate. Le labbra le colorisca Ezione, simili a quelle ch’egli fece a Rossane. Di qui si cava che il ritratto di Pacate fatto da Apelle fu la più bella effigie di femmina, ch’egli giammai dipignesse. Di questa Pacate non c’è memoria veruna, ond’io tengo per fermo ch’ella sia la medesima, che la Campaspe di Plinio e che la Pancaste d’Eliano; e per aver questa un certo suono e simiglianza di composizione più conforme al genio della lingua greca, dovendosi di questi tre nomi elegger per vero un solo, inclinerei a mantenere più tosto Pancaste, che alcuno degli altri. Conferii questa mia opinione con Bartolommeo d’Erbelot gentiluomo francese, in ogni sorta di letteratura, ma spezialmente nell’erudizione orientale oltr’ogni credere eminente, il quale concorse circa l’emendar Luciano da Eliano, mantenendo anzi Pancaste che Pacate; ma Campaspe di Plinio gli parve troppo diverso e trasfigurato. Onde con ogni riservo mi pose in considerazione, che forse Pancaste potesse essere il nome proprio di questa dama e Campaspe l’appellativo: e che Plinio avesse trascritto questo racconto da autori in ciò seguaci de’Persiani, presso i quali questa donna fosse nominata la Campaspe d’Alessandro, cioè la concubina, quale ella veramente era per detto di Plinio e d’Eliano; perchè appunto Camasè, e Campaspe tanto significa in lingua persiana. Per ridurre questa voce intera, e quale ella si legge in Plinio, non esser lontano dal verisimile che in passando ella alle lingue d’Europa in essa fosse poi inserita la lettera P dopo la M, come segue in molt’ altre. Per esemplo, Camus in lingua arabica e punica, aequor, pianura. Di qui Campus de’ latini, e non ἀπὸ τοῦ κάμπειν, come vogliono alcuni. Semed, e Semer presso gli Orientali Eternità. Di qui facilmente semper. Di Mamre Ebraico i Settanta fecero Mambre. Di Camera i Franzesi Chambre; e notisi che la B è lettera molto simile e del medesimo organo, che la P. Da Ramulus forse l’italiano Rampollo. Da Amula facilmente Ampulla. Imperciocchè presso i latini frequentemente dopo la M viene aggiunta la P. Sumo sumpsi, sumptum. Demo dempsi demptum. Contemno contempsi contemptum. Interimo interemptum. Come osservò anche il Passerazio nel libretto intitolato, De litterarum inter se cognatione, et permutatione a 130. E questo è quanto lume ho potuto accendere in tanta oscurità coll’aiuto di quel chiarissimo ingegno.
Dans :Apelle et Campaspe(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 82-83
Ebbe per costume inviolabile, che per occupatissimo ch’egli fosse non passò giorno, nel quale egli non tirasse qualche linea, per mantenersi su l’esercizio, e non infingardirsi la mano [[1:VII.]] Onde nacque il proverbio. Niun giorno senza linea. [[1:VIII.]] Dopo aver condotte l’opere usava metterle a mostra sopra lo sporto, non a pompa, perch’era modestissimo, ma per ascoltare stando dietro i mancamenti censurati dal volgo, da lui stimato miglior giudice di se medesimo. [[1:IX.]] [[1:Val. Mass. lib. 8. 12. Plin. l. 35. c. 10.]] E si dice, che notandolo un calzolajo, per aver fatto ne’ calzari un’orecchino, o fibbia di meno, insuperbitosi perchè Apelle tale errore avesse emendato, il giorno seguento cavillò non so che della gamba. Sdegnatosi Apelle s’affaciò, e disse. Il calzolaio non passi oltre la scarpa. Che pure andò in proverbio. [[1:Adag. a 162]] [[4:suite : Apelles faciebat]]
Dans :Apelle et le cordonnier(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle » , p. 108-110
IX. Volgo da lui stimato miglior giudice di se medesimo.
Plinio l. 35.10. Vulgum diligentiorem iudicem quam se praeferens. Parrà strano ad alcuno che Apelle tanto deferisse al volgo. Ma finalmente e’ bisogna confessare esser verissimo il nostro proverbio: veggono più quattr’occhi, che due. E che ognuno è cieco in giudicar delle cose proprie. I pittori anno questo svantaggio, che imitando quel che da ciascuno si vede possono esser censurati da chi che sia, purch’ egli non sia privo degli occhi. Ne ad essi vale il dire, chi non è professore stia cheto; fondati sopra quel detto di Plinio il Giovane l.1 ep. 10. Ut enim de pictore, sculptore, fictore, nisi artifex iudicare, ita nisi sapiens non potest perspicere sapientem. Se non vogliamo le censure degl’imperiti, perchè gradischiamo le lodi loro ? Careret quippe fama magnorum virorum celebritate, si etiam minoribus testibus contenta non esset. Disse Simmaco l. 8 ep. 22. E lib. I ep. 23. Licet alienas spectare virtutes. Nam et Phidiae Olympium Iovem, et Myronis buculam, et Polycleti Canephoras rudis eius artis hominum pars magna mirata est. Intelligendi natura indulgentius patet. Alioqui praeclara rerum paucis probarentur, si boni cuiusque sensus etiam ad impares non veniret. Molto diverso è il fare, e il dar giudicio del fatto. Mirabile est (Cicerone nel 3. n. 51 d. Oratore) cum plurimum in faciendo intersit inter doctum, et rudem, quam non multum differat in iudicando. E nel lib. d. Ottim. Gener. d. Orat. n. 4 ad picturam probandam adhibentur etiam inscii faciendi cum aliqua sollertia iudicandi. Non milita sempre quell detto di Donatello a Filippo. To del legno, e fa tu. Perchè l’altro potrà rispondere. Io non so far meglio, ma tuttavia so distinguer che tu fai male. Bellissimo a questo proposito è un luogo di Dionigi Alicarnasseo nel Giudicio sopra la Storia di Tucidide. Non per questo (dic’ egli) perchè a noi manca quella squisitezza, e quella vivezza d’ingegno, la quale ebbero Tucidide e gli altri scrittori insigni, saremo egualmente privi della facoltà che essi ebbero nel giudicare. Imperciocchè è pur lecito il dar giudizio di quelle professioni, in cui furono eccellenti Apelle, Zeusi, e Protogene, anche a coloro, i quali ad essi non possono a verun patto agguagliarsi: ne fu interdetto agli altri artefici il dire il parer loro sopra l’opere di Fidia, di Policleto, e di Mirone, tuttochè ad essi di gran lunga fossero addietro. Tralascio cher spesso avviene, che un’uomo idiota, avendosi a gindicare di cose sottoposte al senso, non è inferiore a’ periti. Al detto di Dionigi potrebbesi aggiugnere, esser verissimo, che le finezze dell’arte, le godono, e le conoscono solamente gli artefici, ma gli errori son considerati anche dagl’ignoranti. E questi appunto cercava d’emendare Apelle facendo gran capitale di quanto ascoltava dire alla moltitudine senza alcuna passione. Onde Giusto Lissio Epist. Miscell. Cent. 2. 88[[3:Omnis enim advertit quod eminet, et exstat, come disse Plinio l. 9 ep. 26, suggerito dal Priceo.]]. Si vale di questo esempio d’Apelle per significare il frutto, che si trae per l’emenda dal sentire il parere altrui. Quel che fece Apelle, prima di lui l’aveva fatto anche Fidia, del quale racconta Luciano nella Difesa delle Immag. a. 603. che doppo aver condotto a fine il Giove Olimpio, e quello messo a mostra stava dietro alla porta a sentire quel che diceva il popolo, del cui giudicio faceva stima più che ordinaria. Questi due fatti d’Apelle, e di Fidia pare appunto ch’avesse in mente Cicerone quando scrisse nel l. 2. de gli Uffici n. 41 Ut enim pictores, et ii qui signa fabricantur, et verò etiam poetae, suum quisque opus a vulgo considerari vult, ut si quid reprehensum sit a pluribus, id corrigatur: hique, et secum, e cum aliis quid in eo peccatum sit exquirunt: sic aliorum iudicio permulta nobis, et facienda, et non facienda, et mutanda, et corrigenda sunt. Da questi grandi artefici, ed eccellenti scrittori impari chi vuol’ uscire dell’ordinario a non fidarsi di se medesimo, ed a sentire, e stimare il giudicio altrui.
A questi esempli antichi piacemi d’accoppiare un moderno, raccontatomi non ha gran tempo da un mio carissimo amico. Avea Gianbologna scultore insigne finito, e messo sù il cavallo di bronzo, il quale si vede in Firenze nella Piazza del Palazzo Vecchio sostenente sul dorso il simulacro del Serenissimo Granduca Cosimo Primo, e dopo esser levati i palchi, e le tende non avea perancora disfatto l’affito posto attorno alla base. Stava egli adunque la entro racchiuso ascoltando quel che diceva il popolo concorso a vedere la statua equestre nuovamente scoperta. Fuvi tra gli altri un contadino, il quale avendo ben riguardato il cavallo, disse, che lo scultore avea tralasciato una cosa, che tutti i cavalli sogliono avere. Udito ciò Giambologna, che attentissimo stava osservò chi fosse stato colui che l’aveva notato, e facendone gran conto, ancorchè fosse un’ uom della villa, quand’egli si partì andogli dietro, e a lui accostatosi cortesemente interrogollo, qual cosa fosse quella, ch’egli poco avanti avea detto essere stata ommessa dallo scultore nel suo cavallo. Al che rispose il contadino, ch’e’ vi mancava quel callo, il quale tutti anno dalla parte interna alle gambe dinanzi sopra l’annodatura del ginocchio, e molti anche di sotto alle gambe di dietro, cagionato, come per alcuni si stima, da’ ritoccamenti dell’ unghie in su ripiegate, mentr’ essi stanno in corpo alla madre. E dicesi, che Gianbologna non piccol grado ne seppe al villano, perchè non solamente rimessi i palchi emendò l’opera co’ tasselli, come si vede, ma l’avvertimento largamente ricompensò dotandogli una figliuola. A queste finezze conduce altrui l’amor verso l’arte, e l’operar per la gloria.
Dans :Apelle et le cordonnier(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 98
[[1:Plutar. d. Educaz.]] Fu molto arguto, e alla mano, e si racconta che mostrandogli un pittore certa sua opera, e protestandosi d’aver lavorato in fretta, egli rispose che ciò ben si vedeva, e maravigliarsi che nel medesimo tempo non avesse fatte di tal sorta assai più.
Dans :Apelle et le peintre trop rapide(Lien)
, « Vita di Protogene », p. 158-160
[[1:VIII.]] E celebre l’avvenimento, e la gara d’Apelle, e di Protogene. Dimorava questi in Rodi, dove sbarcando Apelle ansioso di vedere l’opere di colui, il quale non altrimenti conosceva che per fama, di presente s’inviò per trovarlo a bottega. Non v’era Protogene, ma solamente una vecchia, che stava a guardia d’una grandissima tavola messa su per dipignersi. Costei da Apelle interrogata rispose, che’l maestro era fuori; indi soggiunse: e chi debbo io dir che lo cerchi ? Questi, replicò Apelle, e presso un pennello tirò di colore sopra la tavola una sottilissima linea. Raccontò la vecchia tutto il seguito a Protogene, e dicesi, che egli tosto considerata la sottigliezza della linea affermasse esservi stato Apelle, perchè niun’altro poteva far cosa tanto perfetta; e che con diverso colore tirasse dentro alla medesima linea un’altra più sottile, ordinando nel partirsi, che fosse mostrata ad Apelle se ritornasse, con aggiugnere, che questi era chi egli cercava. Così appunto avvenne, perciocchè egli tornò, e vergognandosi d’esser superato, segò, e divise le due linee con un terzo colore non lasciando più spazio a sottigliezza veruna. Laonde Protogene chiamandosi vinto corse al porto di lui cercando per alloggiarlo. In tale stato senz’altro dipignervi fù tramandata questa tavola a’ posteri con grande stupor di tutti, e degli artefici massimamente. Abbrucciò ella in Roma nel primo incendio del palazzo Cesareo, dove per avanti ciascuno vide avidamente, e considerò quell’amplissimo spazio altro non contenente, che linee quasi invisibili. E pure collocata fra tante opere insigni tirava a se gli occhi di tutti più bella, e più famosa perch’era vota. [[1:IX.]] In questa congiuntura fecero stretta amistà questi due artefici, essendo Apelle cortesissimo eziandio co’ suoi concorrenti. […] [[1:X.]] E fino a’ tempi di Tiberio si conservarono per le gallerie di Roma i disegni, e le bozze di questo artefice, che facevan vergogna all’opere vere della natura.
Dans :Apelle et Protogène : le concours de la ligne(Lien)
, « Postille alla vita di Protogene », p. 170-175
VIII. E celebre l’avvenimento, e la gara d’Apelle, e di Protogene ec.
Tutto questo da Plinio l. 35 c. 10. Scitum est, inter Protogenem, et eum quod accidit. Ille Rhodi viuebat; quo cum Apelles adnauigasset, auidus cognoscendi opera eius, fama tantum sibi cogniti, continuo officinam petijt. Aberat ipse, sed tabulam magnae amplitudinis in machina aptatam picturae anus vna custodiebat’. Haec Protogenem foris esse respondit, interrogauitque a quo quaesitum diceret. Ab hoc inquit Apelles : arreptoque penicillo lineam ex colore duxit summae tenuitatis per tabulam. Reuerso Protogeni, quae gesta erant anus indicauit. Ferunt artificem protinus contemplatum subtilitatem, dixisse Apellem venisse : non enim cadere in alium tam absolutum opus. Ipsumque alio colore tenuiorem lineam in illa ipsa duxisse, praecepisseque abeuntem, si redisset ille, ostenderet adiiceretque, hunc esse quem quaereret, atque ita euenit. Reuertitur enim Apelles : sed vinci erubescens, tertio colore lineas secuit, nullum relinquens amplius subtilitati locum. At Protogenes victum se confessus in portum deuolauit hospitem quaerens. Placuitque, sic eam tabulam posteris tradi, omnium quidem, sed artificum praecipuo miraculo. Consumptam eam constat priore incendio domus Caesaris in Palatio, auide ante a nobis spectatam, spatiosiore amplitudine nihil aliud continentem, quam lineas visum effugientes, inter egregia multorum opera inani simile, eo ipso allicientem, omnique opere nobiliorem. So benissimo che il nome di Plinio presso ad alcuni non è di grandissima autorità stante il mal concetto di poca fede addossatogli a gran torto dal volgo. Io non voglio adesso far la difesa di questo gran scrittore contro a certi faccenti, che senza forse averlo mai letto lo tacciano di menzognero. E chi fu mai più di lui curioso del vero ? che per ben conoscerlo non conobbe pericolo, e finalmente morì, onde fu chiamato,
A scriver molto, a morir poco accorto.
Se costoro sapessero quanto sia difficile lo scrivere la storia universale della natura necessariamente rapportandosi ad altri senza poterne fare il riscontro, o non sarebbero così facili a contraddire, o lo farebbero con più modestia, e rispetto. Plinio parla in questo luogo d’una cosa veduta da lui, e da tutta Roma, onde non par verisimile, ne ch’egli dovesse mentire, ne ch’egli potesse ingannarsi. All’incontro la disputa fra gli artefici grandi intorno a sottigliezza di linee pare una seccheria indegna di loro. Ne meno par possibile, che una linea sottilissima possa mostrar maniera da far conoscere un valente maestro: benché Stazio nell’Ercole Epitrapesio dica.
Linea, quae veterem longe fateatur Apellem.
nel qual verso pare appunto che il poeta avesse in mente questo caso, e questa tavola d’Apelle, e di Protogene. Le difficultà per l’una, e per l’altra parte son molte, e forti, ne io mi sento da risolvere così ardua questione. La propongo adunque a tutti i professori, e letterati, supplicandogli del parer loro per farne in altro tempo una raccolta da pubblicarsi con tutta l’opera. Accennerò per ora quanto fu scritto da altri, e particolarmente da Giusto Lessio, nell’Epist. Miscell. Cent. 2 n. 42. Quod quaeris a me de Apellaeis illis lineis, verasne eas censeam, et quales, ad prius respondebo veras, nec fas ambigere, nisi si fidem spernimus historiae omnis priscae. Ad alterum nunc sileo : et censeo, vt prius ab amico illo nostro quaeras, cuius ingenium grande, et capax, diffusum per has quoque artes. Lodovico di Mongioioso nel suo libretto della Pittura antica, che va stampato con la Dattilioteca d’Abramo Gorleo con lungo discorso si sforza di provare, che le linee d’Apelle, e di Protogene non fossero, e non potessero esser linee, e che Plinio s’inganasse in riferire questa contesa, la quale pretende che non fosse di sottigliezza di linee, ma di un digradamento e passaggio da colore a colore, o per dir conforme ad esso dal lume allo splendore, e dallo splendore all’ombra, pigliando la comparazione dalla musica. Il qual discorso per esser sottilissimo stimo bene che ognuno lo vegga, ed esamini da per se presso all’autore, non lo volendo alterare nel riferirlo. S’oppongono al Mongioioso sostenendo il detto di Plinio Francesco Giugni l. 2 c. 11. della Pitt. Ant. e più gagliardamente il Salmasio alla f. 5 della Dissertaz. Pliniane. Paolo Pino nel Dialogo della Pittura a 17. crede che i due pittori contendessero per mostrare in quella operazione maggior saldezza, e franchezza di mano. Vincenzio Carducci nel quinto de Dialoghi della Pittura scritti in lingua spagnuola riferisce che Michelagnolo sentendo parlar con lode delle linee d’Apelle, e di Protogene celebri per sottigliezza si dichiarò di non credere che tal cosa avesse portato riputazione, e fatti conoscere quei valent’uomini, e preso un matitatoio, fece in un tratto solo il dintorno d’un ignudo, che a tutti parve maraviglioso. Quel che si racconta del Buonarruoti l’ho più volte sentito d’altri professori della mia patria, e da me conosciuti, i quali con gran risoluzione e franchezza fecero il medesimo, cominciando da un piede della figura, e ricorrendo senza staccar la mano per tutti i dintorni del corpo. Queste si fatte operazioni son’ abili veramente a far conoscere un bravo artefice. Come pure il perfetissimo Circolo di Giotto mandato per mostra di suo sapere, per quanto dicono il Vasari nelle Vite, e il Borghini nel suo Riposo. La qual cosa appresso di me trova facil credenza per averne veduto segnare un’ altro colla mano in aria su la lavagna tanto esattamente, che più non potea fare il compasso, da un’ amico carissimo, il quale io non nomino, avendo egli troppe belle doti, e frutti d’ingegno, che lo fanno glorioso, senza pregiarsi d’un operazion della mano, benche sufficiente a recar fama al nostro antico pittore. Non è da tacere in questo luogo la tradizione d’un fatto di Michelagnolo secondo che corre per le bocche degli uomini, cioè, che desiderando egli di vedere quel che operava Raffaello nel Palazzo de’ Ghigi, colà s’introdusse travestito da muratore, quasi che avesse a spianar la colla, e dar l’ultimo intonaco: e che partitosi Raffaello, Michelagnolo per lasciar segno d’esservi stato, pigliasse un carbone segnando in una lunetta della loggia verso il giardino dov’è la celebre Galatea, quella gran testa, che ancor si vede sopra la semplice arricciatura. Il racconto più sicuro però si è che quello schizzo fosse fatto da Fra Bastiano del Piombo mentr’era quivi trattenuto dalla generosità d’Agostino Ghigi, mecenate di tutti gli artefici più segnalati. Comunque ciò sia piacque il conservar quel puro disegno fra l’opere insigni di Baldassar da Siena, e di Raffaello, acciò si vedesse che pochi, e semplicissimi tratti son bastanti a mostrare la finezza dell’arte. Torno adunque a pregar tutti, e spezialmente i professori, che si vogliano degnare di rileggere attentamente il luogo di Plinio, il quale non si fidò di se stesso, ne del volgo, e non andò, come si dice, preso alle grida, e perciò concluse, Placuitque sic eam tabulam posteris tradere omnium quidem, sed artificum praecipuo miraculo ; e poi di vedere se da quel racconto si possa trarre un ripiego, che salvi Plinio dalla nota di bugiardo nella storia, e Apelle, e Protogene dalla taccia di balordi dell’arte. Non mi parendo giusto il correre a furia a chiamare insipide quelle linee tanto riverite, come fece Alessandro Tassoni ne suoi pensieri troppo arditamente sfatando tutta l’Antichità.
IX. In questa congiuntura fecero stretta amistà questi due artefici ec.
Bella, e lodevol cosa è il cedere ingenuamente alla verità terminando le gare in virtuosa amicizia. Sia ciò detto a confusione de’ letterati moderni, i quali dovrebbero essere esempio per onestamente vivere agl’ignoranti, e pure in questo possono imparar molto dalla reciproca umanità, e discretezza di due pittori, che non si lasciaron rapire dall’impeto dell’emulazione amando l’uno nell’altro quella virtù, e quella perfezione, la quale ciascheduno andava cercando. O come scarso, e disutile è il frutto delle lettere, e degli studii. s’egli non vale a farci ne costumati, ne buoni, e non è bastante a por freno alle smoderate passioni, che colla veemenza loro ci trasportan lungi e dal vero, e dal giusto: onde nelle controversie erudite, e spesse volte anche sacre non sanno, o non vogliono i più saggi temperarsi dall’ingiurie e dal’improperi, per lo più alieni dalla contesa, i quali recano, a mio giudizio, maggiore offesa, e più vergogna a chi gli dice, che a coloro contro i quali son detti ! Io per me anteporrò sempre un ceder modesto ad una insolente vittoria, e terrò in somma, e perpetua venerazione l’unico, e singolare esempio di due grandi astronomi di questo secolo, i quali avendo non per odio fra loro, ma per amor della verità auto qualche dotto litigio, quello terminarono garreggiando di cortesia, e le dispute si cangiarono in dimostranze di vicendevole affetto. In questa guisa anche perdendo si vine, dove in quell’altra maniera di contrastare arrabbiata, e incivile anche i trionfi son vergognosi. Ma dove mi conduce il veemente desiderio di detestare, e se possibil fosse, d’estirpare così brutto costume ? Condonisi al mio zelo questo improprio, ma vero, e giusto rimprovero.
X. E fino a’ tempi di Tiberio si conservarono per le gallerie di Roma i disegni e le bozze di questo artefice.
Petronio. Protogenis rudimenta cum ipsius naturae veritate certantia non sine horrore tractaui. Così interpreto questo luogo, benche vi sia chi s’ingegni di tirarlo a quelle linee delle quali sì lungamente s’è parlato di sopra.
Dans :Apelle et Protogène : le concours de la ligne(Lien)
, p. 83-84
Aveva nel dipignere una certa sua particolar leggiadria, e benchè fossero ne’ suoi tempi grandissimi maestri, de’ quali egli ammirava l’opere, dopo avergli celebrati usava dire, che ad essi altro non mancava, che quella vaghezza, e venustà, la quale i Greci e noi Toscani chiamiamo Grazia. Tutte l’altre prerogative esser toccate loro, ma in questa lui esser’ unico, e non aver pari. [[4:suite: nimia diligentia]]
Dans :Apelle supérieur par la grâce(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 99
[[1:Clem. Aless. Pedag. l. 2. c. 12.]] Veggendo Elena dipinta da un suo scolare tutta adornata d’oro, e di gioie, lo motteggiò; che non sapendo egli farla bella l’avesse fatta ricca, come quegli, che per suo costume era nimicissimo di si fatti ornamenti amando la bellezza schietta, e sincera. Onde Properzio della sua dama cantò. [[1:l. I el. 2]]
Delle gemme a’ fulgori
La bellezza non deve il bel sembiante,
Che splende al par degli Apellei colori.
Dans :Apelle : Hélène belle et Hélène riche(Lien)
, p. 95
[[4:suit Apelle mourants]] [[1:Plin. 35. 10]] Dipinse fin quelle cose, che paiono inimitabili, tuoni, fulmini, e lampi.
Dans :Apelle et l’irreprésentable(Lien)
, p. 95
[[1:Plin. 35. 10]] Fra le pitture del medesimo lodatissime furono certe figure di moribondi, nelle quali fecegli di mestieri d’una grand’arte per esprimere i dolori dell’agonia.
Dans :Apelle et les mourants(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 84-85
Stimò sopr’ogni altro Protogene, e con lui fece stretta amistà, portandogli, come dirassi altrove, per quanto egli seppe utilità e riputazione. [[1:XII]] Quando vide il Gialiso, nel fare il quale Protogene aveva consumati sett’ anni, perdè la parola, e rimase stordito in contemplare quell’ accuratezza eccessiva : poi voltatosi addietro, esclamò : Gran lavoro ! Opera mirabile ! Artefice egregio ! Ma non c’è grazia pari a tanta fatica. Se non mancasse questa sarebbe cosa divina. Protogene in tutte le cose m’agguaglia, e facilmente mi supera, ma non sa levar le mani di sul lavoro : e con quest’ultime parole insegnò, che spesso nuoce la diligenza soverchia [[1:XIII]].
Dans :Apelle et la nimia diligentia(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle » , p. 121-123
XII. Quando vide il Gialiso ec.
Questo racconto è cavato da quanto dicono Plinio l. 35. C. 10. Plutarco nella Vita di Demetrio a 898. Eliano Var. Stor. lib. 12 c. 41. le parole del quale non mi paiono a bastanza espresse dal Rodigino l. 21. c. 37. dell’antiche lezioni. Di questa pittura lungamente in Protogene.
XIII. Ma non sa levar le mani di sul lavoro : e con quest’ultime parole ec.
Plinio l. 35. 10. Sed uno se praestare, quod manum ille de tabula nesciret tollere. Memorabili praecepto nocere saepè nimiam diligentiam. A questo detto alluse Cicerone nell’Orat. n. 22. In quo Apelles pictores quoque peccare dicebat, quod non sentirent quid esset satis. Di questa smoderata diligenza abbiamo due esempli riferiti da Plinio. l. 34 c. 8. Ex omnibus autem maximè cognomine insignis est Callimachus, semper calunniator sui, nec finem habens diligentiae, ob id Cacizotechnos appellatus, memorabili exemplo adhibendi curae modum. Huius sunt saltantes Lacenae, emendatum opus, sed in quo gratiam omnem diligentia abstulerit. Non mi fermo a ricercare il vero cognome di Callimaco. V. Vitruvio l. 4 c. 1. E quivi Guglielmo Filandro. Ritorno a Plinio, che nel medesimo cap. disse d’Apollodoro. Silanion fecit Apollodorum fictorem et ipsum, sed inter cunctos diligentissimum artis, et inimicum sui iudicem, crebro perfecta signa frangentem, dum satiare cupiditatem nequit artis, et ideo insanum cognominatum. E pur questa pazzia nasceva da troppo sapere, il quale passando più la di quello che potesse operar la mano fece rompere a Michelagnolo la Pietà, che da lui stimata bellissima, benchè non sodisfacesse a quel gusto troppo squisito. Questa medesima incontentabilità (siami lecito così chiamare il vizioso desiderio della perfezione) ha tolta la dovuta gloria a due grandissimi pittori della mia patria, e questi sono Cristofano Allori detto il Bronzino, e Andrea Commodi, i quali non trovando la mano obbediente alla loro grandissima intelligenza dell’arte, fecero pochissimo, e per consequenza non è conosciuto, e celebrato quanto merita il lor valore. Ma torniamo, come si dice, un passo addietro per ben dichiarare quelle parole di Plinio, Manum de tabula tollere, delle quali si vale Gio. Serrano celebre traduttor di Platone largamente traslatando un luogo bellissimo del sesto lib. delle leggi a 671. An ignoras idem hac in re quod in pictorum arte contingere? Illi enim nullum in pingendis animalibus finem habere videntur: sed subinde colores inducunt, vel subducunt, sive alio quovis vocabulo pictores id soleant significare, nunquam desinit pictura ornamentum quoddam adhibere, neque solet manum de tabula tollere. Novae enim continuò rationes in mentem pictoris veniunt, quae ad absolutiorem, cumulatioremque operis pulchritudinem, et perspicuitatem pertinere possunt. Dallo stesso luogo di Plinio Erasmo cava il proverbio. Manum de tabula. Ma avvertasi, che la medesima dichiarazione non può tornare a quelle parole di Cicerone l. 7 epist. 25. Sed heus tu, manum de tabula. Magister adest citius quam putaramus; parendomi più acconcia l’esplicazione del nostro Vettori nelle Castig. a Cicer. p. 73. dal quale il Turnebo negli Avvers. e Paolo Manuzio nel Coment. all’Epist. di Cicerone senza ne pur mentovarlo, o saperne a quel buono, nobile, e dotto vecchio grado veruno. Chi volessi ritrovare i fondamenti di questo enimma Tulliano riputato oscurissimo, vegga Rodig. L. 12 c. 17. Salmasio sopra la Storia Augusta a 49. Basilio Fabro alla Voce Catonium, e altri; bastando a me che manum de tabula, tanto appresso Plinio, quanto appresso Cicerone sia usato con metafora presa dalla pittura, ma però diversamente applicato. E per non tralasciare cosa veruna, Ausonio Pompa sopra i Frammenti di Varrone a 241. illustrando le seguenti parole del Prometeo, citate da Nonio alla voce satias per satietas. Cum sumere cepisset voluptas retineret, cum sat haberet, satias manum de mensa tollere, stima che in esse si alluda al proverbio manum de tabula ; avrei che dire, ma basti averlo accennato.
Dans :Apelle et la nimia diligentia(Lien)
, « Vita di Protogene », p. 153
Abbiamo considerati in Apelle gli stupori e della natura, e della grazia dote a lui propria, ma coltivati dall’arte: restano da contemplare in Protogene l’eccellenze dell’arte e della fatica, in cui egli fu singolarissimo, ma non abbandonate della Natura. Imperciocchè non averebbe potuto questo artefice dipignere con diligenza tanto eccessiva: e tollerare sì gravi e lunghi disagi privo dell’amore e del gusto nell’operare, che procedon dal genio, né si sarebbe con tant’ arte applicato ad occultar l’arte medesima, ed a fuggir nelle sue pitture la secchezza e lo stento, se dalla naturale inclinazione non fosse stato portato a bene imitare, e in un certo modo a superara la Natura.
[[2:I.]] Protogene fu di Cauno città della Caria soggetta a Rodi; benchè altri lo facciano di Santo città di Licia. Visse e fiorì ne’ medesimi tempi che Apelle, di cui fu concorrente, e quel che par maraviglioso, anche amico. [[2:II.]] Da principio fu povero in canna, e tanto applicato, e diligente nell’arte, che poco gli compariva il lavoro, non sapendo veramente, come di lui disse Apelle, mai levarne le mani.
Dans :Apelle et la nimia diligentia(Lien)
, « Postille alla Vita di Protogene », p. 162
II. Da principio fu povero in canna, e tanto applicato e diligente nell’arte, che poco gli compariva ec.
Plin. l. 35. c. 10. Summa ei paupertas initio, artisque summa intentio, et ideo minor fertilitas. Protogene è lodato per la gran diligenza. Quintiliano l. 35. c. 10. (sic) afferma essere stato insigne, cura Protogenes. Troppo note sono le fatiche e i disagi da lui sofferti nel dipignere il Gialiso. Non è però da credere che questa gran diligenza cagionasse nelle di lui pitture secchezza, mentre si leggono in Plinio quelle parole ad esso attenenti: Impetus animi, et quaedam artis libido in haec potius eum tulere.
Dans :Apelle et la nimia diligentia(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 97
[[1:XXX.]] E cosa notabile che egli in far quest’opere tanto maravigliose si servisse (come alcuni affermano) di quattro colori senza più, facendo vedere a’ posteri, i quali tanti ne inventarono, che non il valore delle materie, ma quel dell’ingegno operava sì, che le pitture di lui appena potessero pagarsi colle ricchezze d’un intera città.
Dans :Apelle et la tétrachromie(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle », p. 146
XXX. Si servisse di quattro colori senza più.
Lo dice Plinio l. 35. c. 7. Quatuor coloribus solis immortalia illa opera fecere, etc. Apelles, Echion, Melanthius, Nicomachus clarissimi pictores. E al cap. 10 dopo aver mentovate molte opere celebri d’Apelle. Sed legentes meminerint omnia ea quatuor coloribus facta. Ferdinando Pinciano dubita con gran ragione, che quest’ultime parole non sieno di Plinio, o che sendo di Plinio, per errore d’altronde fossero qui trasportate, dove certamente rompono il discorso, e il sentimento. Molte cose potrebbon dirsi sopra questi quattro colori, ma sodisfarò pienamente dove si tratterà de’ colori presso agli antichi. Per ora vegga chi vuole Lodovico di Mongiojoso a 155. nel Disc. della Pittura. Dirò solamente che Cicerone non pone altrimenti Apelle fra gli artefici, i quali usarono quattro colori, anzi a tempo di esso tiene che fosse ampliato il numero e perfezionata l’arte. Nel Bruto n. 18. Similis in pictura ratio est, in qua Zeuxm (sic), et Polignotum, et Timantem, et eorum, qui non sunt usi plus quam quatuor coloribus, formas, et liniamenta laudamus, at in Aetione, Nicomacho, Protogene, Apelle iam perfecta sunt omnia, et nesciò an reliquis in rebus idem eveniat. Nihil est enim simul, et inventum, et perfectum. Né tralascerò che per illustrare questo luogo fa molto a proposito quel che dice Apollonio Tianeo presso a Filostrato l. 2. c. 10. discorrendo della Pittura: che tutto fu portato di sopra nella postilla XVI alla Vita di Zeusi trattando de’monocromati.
Dans :Apelle et la tétrachromie(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 96-97
[[1:XXVIII.]] Ma l’opera più celebre di questo artefice insigne fu la Venere di Coo detta Anadiomene, cioè emergente, o sorgente dal mare; della quale i poeti dissero si bei concetti, che in un certo modo superarono Apelle, ma lo resero illustre. Vedevasi per opera degl’ industri pennelli alzarsi dall’ onde la bella figlia del mare, e più lucente del sole con folgoranti pupille accender fiamme nell’acque. Ridean le labbra di rose, e facea si bel riso giocondare ogni cuore. Colori celesti esprimean la bellezza delle membra divine, per farsi dolci al cui soave contatto, detto avreste di veder correre a gara l’onde eccitando nella calma del mare amorosa tempesta. Sollevavan dall’acque le mani candidissime il prezioso tesoro di bionda chioma, e mentre quella spremeano parea che da nugola d’oro diluviasse pioggia di perle. [[1:Plin. 35. 10]] Si stupenda pittura dedicò Augusto nel Tempio di Giulio Cesare consagrando al Padre l’origine, e l’autrice di Casa Giulia; [[1:Strab. l. 12]] e per averla da’ Cittadini di Coo rimesse loro cento talenti dell’imposto tributo. [[1:Plin. 35. 10]] Essendosi guasta nella parte di sotto non si trovò chi osasse restaurarla: onde tale offesa ridondò in gloria d’Apelle. I tarli finalmente affatto la consumarono, parendo che’l cielo invidiasse così bella cosa alla terra; e Nerone nel suo principiato in vece di quella ne pose una fatta da Doroteo. [[1:Plin. 35. 10]] Alcuni asseriscono che il naturale di questa Dea fosse cavato da Campaspe, [[1:Aten. l. 13. Rodig. 14. 15.]] altri da Frine famosissima meretrice. [[4:suite Apelle Vénus et Phryné]]
Dans :Apelle, Vénus anadyomène
(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle » , p. 142-144
XXVIII. Ma l’opera più celebre di questo artefice insigne fu la Venere di Coo detta Anadiomene.
Cicerone l. 2 epist. 21. ad Attico. Et ut Apelles si Venerem, aut si Protogenes Ialysum illum suum caeno oblitum videret magnum, credo, acciperet dolorem. Et nella Verr. 4. Quid Cnidios, ut Venerem marmoream? Quid ut pictam Coos? Plin. 35. 10. Quae autem sint nobilissima non est facile dictu. Venerem exeuntem è mari Divus Augustus dicavit in delubro patris Caesaris, quae Anadiomene vocatur versibus Graecis tali opere dum laudatur victo, sed illustrato, etc. Di questa celebre pittura, come quegli che l’ebbero avanti agli occhi, fecero spessa memoria i poeti latini. E Ovidio in particolare per esser’ ella dedicata da Augusto nel Tempio di Giulio Cesare, dopo aver detto l. 2. Trist. v. 521. Scilicet in domibus vestris etc., poco dopo soggiunse.
Sic madidos siccat digitis Venus uda capillos,
Et modo maternis tecta videtur aquis,
l. 4. Eleg. I. d. Ponto.
Ut Venus artificis labor est, et gloria Coi,
Aequoreo madidas quae premit imbre comas,
l. 3. d. Art d’Am. v. 401.
Si Venerem Cous nusquam posuisset Apelles,
Mersa sub aequoreis illa lateret aquis.
E l. I eleg. 14. d. Amori.
Illis contulerim, quas quondam nuda Dione
Pingitur humenti substinuisse manu.
Properzio l. 3. Eleg. 9.
In Veneris tabula summam sibi ponit Apelles.
Cornelio Severo, o chi sia l’autore del Poemetto intitolato Etna,
Signaque nunc Paphiae rorantes arte capilli.
Che così doversi leggere, e non parte notò lo Scaligero, e me lo avvertì cortesemente con sua lettera Niccolò Einsio. La medesima Venere, o simigliante ebbe per la mente Apulejo quand’egli scrisse nel l. 2 dell’Asino d’Oro. Lacinijs cunctis renudata, crinibus dissolutis ad hilarem lasciviam, in speciem Veneris, quae marinos fluctus subit, pulchrè reformata; paulisper etiam glabellum foeminal rosea palmula potius obumbrans de industria, quam tegens verecundia. D’un altra Venere pur sorgente dal mare effigiata d’oro nella base del Giove Olimpio fatto da Fidia fa menzione Pausania nel primo libro degli Eliaci a 158. e d’una altresì figurata nella base, che reggeva il Carro d’Anfitrite, e di Nettunno nel Tempio posto sull’Ismo al princ. delle Cose Corintiache a 45. E in un’ epigramma di Lucilio l. 2 c. 25 dell’Antol. si rammenta, oltr’ a queste, una Venere Anadiomene formata d’oro. Artemidoro l. 2 c. 42 riferisce, che il sognare di vedere Venere Anadiomene presagisce a’ naviganti tempesta, e naufragio, ma tuttavia conserva, e conduce a buon fine i negozi già disperati. Non si debbon trascorrere senza qualche riflessione le parole di Plinio addotte si sopra attenenti alla Venere del nostro Apelle. Versibus Graecis tali opere dum laudatur victo, sed illustrato. Io non ardirei d’affermare che noi abbiamo alcuno de i versi mentovati da Plinio: certo è che nell’Antologia si leggono cinque epigrammi sopra tale argumento. l. 4. c. 12. ep. 26. 27. 28. 29. 30, d’Antipatro Sidonio, d’Archia, di Democrito, di Giuliano, e di Leonida Tarentino, de’ quali i primi due posson’ esser certamente di quelli, e il primo in particulare tradotto da Ausonio Epig. 104.
Emersam pelagi nuper genitalibus undis
Cyprin Apellei cerne laboris opus:
Ut complexa manu madidos salis aequore crines,
Humidulis spumas stringit utraque comis.
Iam tibi nos, Cypri, Iuno inquit, et innuba Pallas,
Cedimus: et formae praemia deferimus.
Vedine un’altro d’Angelo Poliziano Greco, e Latino l. 5. epist. 7. E uno di Giorgio Camerario negli Emblemi amorosi, a 27. Il naturale di questa Venere per detto di Plinio l. 35. c. 10. fu tratto da Campaspe. E per attestazione d’Ateneo l. 13. a 590. da Frine; dalla quale, secondo che afferma Clemente Aless. nell’Ammoniz. a’ gentili a 35. tutti i pittori ricavavano le immagini di Venere.
Dans :Apelle, Vénus anadyomène
(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 97
[[1:Plin. 35.10. Cicer. l.1 epistol. 9]] [[1:XXIX.]] Cominciò un’ altra Venere a’ medesimi di Coo, della quale fece la testa, e la sommità del petto, e non più; e credesi che averebbe vantaggiato la prima: ma la morte invidiosa non la gli lasciò terminare. Tuttavia non fu meno ammirata perchè fosse imperfetta, e succedette in luogo d’encomio il dolor della perdita sospirandosi quelle mani mancate in mezzo a si nobil lavoro. [[1:Cicer. l.3 d. Uffic.]] Non fu alcuno, che s’attentasse d’entrare a finir la parte abbozzata, perché la bellezza della faccia toglieva la speranza d’agguagliare il rimanente del corpo. [[4:suite: Apelle tétrachromie]]
Dans :Apelle, Vénus inachevée(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle » , p. 144-146
XXIX: Cominciò un’ altra Venere a’ medesimi di Coo.
Plinio lib. 35. 10. Apelles inchoaverat at aliam Venerem Cois, superaturus etiam suam illam priorem. Invidit mors per acta parte, nec qui succederet operi ad praescripta lineamenta inventus est. E cap. 11. Illud verò per quàm rarum ac memoria dignum, etiam supremae opera artificum imperfectasque tabulas, sicut Irim Aristidis, Tyndaridas Nicomachi, et Medeam Timomachi, et quam diximus Venerem Apellis, in maiori admiratione esse, quam perfecta. Quippe in ijs lineamenta reliqua ipsaeque cogitationes artificum spectantur, atque in lenocinio commendationis dolor est: manus, cùm id ageret, exstinctae desiderantur. Cieer. lib. 1 epist. 9. Nunc ut Apelles Veneris caput, et summa pectoris politissima arte perfecit, reliquam corporis inchoatam reliquit: si quidam etc. E nel l. 3 degli Uffici n. 2. Ut nemo pictor esset inventus, qui Coa Veneris eam partem, quam Apelles inchoatam reliquisset, absolveret (oris enim pulchritudo reliqui corporis imitandi spem auferebat), sic ea etc. Errò dunque Celio Calcagnino l. 13 a 177. scrivendo così. Sed, o me multò Apelle incautiorem ! Ille enim tanta felicitate Veneris emergentis partes superiores expressit, ut diffisus penicillo reliquas posse absolvere desperaverit, atque ita in admirationem posteritatis tabulam inchoatam reliquerit. Ma notisi che questo autore ha per sua proprietà di scriver molte cose senza dare il riscontro di donde egli se le tragga. Nel proposito nostro l. 12 epist. 167. Sicuti olim Apellis discipuli se tunc permultum in ea arte promovisse existimabant, si lineamenta aliquot praeceptoris fuerant assequuti. E l. 15 a 209. Apelles et Polycletus sublimis ingenij artifices in Dis, atque heroibus exprimendis elaborabant. Io lo credo, ma non ci veggo singularità propria di questi artefici, ne trovo ciò notato in alcuno scrittore. Ma facendo ritorno alla Venere imperfetta d’Apelle, e nella sua imperfezione maravigliosa, piacemi di portare in questo luogo un’ argutissimo distico d’Egidio Menagio, alla cui erudizione talmente son tenute le lettere greche, latine, francesi, e toscane, e della cui amorevole corrispondenza debbo tanto pregiarmi; ed è questo.
Non Venerem Cois Cous perfecit Apelles,
Si perfecisset fecerat ille minus.
Sopra la medesima tavola non finita vennemi già capriccio di scherzare col seguente sonetto, il quale io qui pongo in un certo modo sforzato dall’occasione, e dalla materia, e non perch’io molto stimi alcuno de’ versi miei, fatti senza il beneplacito delle Muse.
Folle menzogna è che perisse Apelle
Mentre novella in Coo Vener pingea:
Ei, che della sua man forse temea
A mirarla n’andò sovra le stelle.
Ma l’arrestò la dea, che le sue belle
Sembianze uniche al mondo esser volea,
Dicendo: chi ne’ tuoi color si bea
Queste non curerà, se’ n terra ha quelle.
Quind’ è che sorge l’alba a noi più chiara
E da’ pennelli industri il fosco velo
Di rose, e d’oro a colorire impara.
A dipinger la terra il dio di Delo
Da lui n’apprende, allor che Giove a gara
Impiega Apelle a far più bello il cielo.
Dans :Apelle, Vénus inachevée(Lien)
, p. 100
Del nostro non si legge, ne dove, ne quando morisse, ma pare assai verisimile ch’egli mancasse in Coo sua patria mentre dipigneva la seconda Venere, la quale rimase imperfetta; ma che forse non potea meglio perfezionarsi, che chiaramente mostrando non potersi passar più oltre da ingegno umano.
Dans :Apelle, Vénus inachevée(Lien)
, « Vita d’Apelle », p. 83
[[1:Pline. in Praefaz.]] Non contento di questo anche in quell’opere si ben condotte, che fecero stupire il mondo, soleva con titolo sospeso, e imperfetto scrivere, APELLE FACEVA [[1:X]], come se fossero sempre abbozzate, ne mai finite, lasciandosi un certo regresso all’emenda. E fu atto di gran modestia, che quasi sopra tutte scrivesse, come se fossero state l’ultime, e che sopraggiunto dalla morte non l’avesse potute perfezionare, giacchè di radissimo, o non mai vi pose, APELLE FECE. [[4:suite: Apelle grâce]]
Dans :« Apelles faciebat » : signatures à l’imparfait(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle » , p. 110-120
X. Soleva con titolo sospeso, e imperfetto scrivere : APELLE FACEVA ec.
Tutto questo luogo è cavato da Plinio nella Prefaz. alla Stor. Natur. Et ne in totum videar Graecos insectari, ex illis nos velim intelligi pingendi, fingendique conditoribus, quos in libellis his invenies, absoluta opera, et illa quoque quae mirando non satiamur, pendenti titulo inscrisisse : ut APPELLES FACIEBAT, aut POLICLETUS, tamquam inchoata semper arte, et imperfecta, ut contra iudiciorum varietates superesset artifici regressus ad veniam velut emendaturo quidquid desideraretur, si non esset interceptus. Quare plenum verecundiae illud est, quod omnia opera tanquam novissima inscripsere, et tanquam singulis fato adempti. Tria non amplius, ut opinor, absolutè traduntur inscripta, ILLE FECIT, quae suis locis reddam. Non mi è ignoto che sopra queste parole il Remano, il Turnebo, e molt’ altri critici fanno diverse riflessioni, e conghietture per ridurle alla vera lezione. Ma di questo più opportunamente quando averò meglio esaminato questo luogo, e conferito con gli antichi MSS. de’ quali aspetto le varietà dagli amici eruditi di diversi paesi. Per ora proporrò solamente una difficultà senza scioglierla. Dice Plinio. Tria non amplius, ut opinor, absolutè traduntur inscripta, ILLE FECIT, quae suis locis reddam. Nelle quali parole pare che l’autore prometta di volere a suo luogo specificare quali fossero le tre opere d’Apelle, e di Policleto, singularizzate col FECIT. Ma questa promessa non si trova mai adempiuta, poichè ne dove parla di Policleto, ne dove tratta di Apelle, ne in alcun’ altro luogo se ne incontra cenno veruno. Molto averei che dire sopra l’inscrizione APELLE FACEVA. Ma per non avere a repetere le medesime cose, porrò qui un capitolo del Trattato della Pitt. Antica, dove si discorre pienamente di tal materia, e intanto servirà per un saggio.
Costume degli artefici antichi di scriver nell’opere i nomi loro[[3:Note de G. Pelli, éd. 1806 : Anche i vasellai ponevano il nome loro, o della fabrica. Vedi la lettera del Falconieri dopo la Roma del Nardini a me diretta e una lucerna antica di terra figurata appresso il Ser. Card. I. dove è scritto ΛΟΤΚΙΟΤ.]]
Essendosi parlato ne’ precedenti capitoli di quelle inscrizioni, le quali dagli artefici furon poste nell’opere loro per cagione di chiarezza, per notizia di storia, e per ornamento, e per lode altrui, discorreremo adesso di quelle, le quali non ebbero altro fine, che la gloria propria, il cui desiderio è si altamente radicato ne’ cuori umani, che nulla est tanta humilitas, quae dulcedine gloriae non tangatur. Onde non è punto da maravigliarsi, che C. Fabio nobil Romano, dilettandosi oltremodo della pittura, dopo aver dipinte le pareti nel Tempio della Salute, vi volesse porre il suo nome, come raconta Valer. Mass. l. 8. c. 14. n. 6. con qualche derisione, e strapazzo, ma a mio creder senza ragione. Nam quid sibi voluit (dic’egli) C. Fabius nobilissimus civis ? qui cum in aede salutis, quam C. Junius Bubulcus dedicaverat, parietes pinxisset, nomen is suum inscripsit. Id demum ornamenti familiae consulatibus, et sacerdotijs, et triumphis celeberrimae deerat. Caeterum sordido studio deditum ingenium, qualemcumque illum laborem suum silentio obliterari noluit : videlicet Phidiae secutus exemplum, qui clypeo Minervae effigiem suam inclusit : qua convulsa, tota operis colligatio solveretur. Più discretamente ne parlò Plinio l. 35 c. 4. Apud Romanos quoque honos maturè huic arti contigit. Siquidem cognomina ex ea pictorum traxerunt Fabij clarissimae gentis, princepsque eius cognominis ipse aedem Salutis pinxit anno urbis conditae CCCCL. quae pictura duravit ad nostram memoriam, aede Claudij principatu exusta. L’ultime parole di Valerio Massimo, dov’egli parla di Fidia, mi rammentano l’industria di questo grande scultore usata nella struttura della Minerva più celebrata d’Atene, in cui non gli essendo lecito porre il suo nome, collocò nello scudo la propria immagine in guisa collegata con l’altre parti, che chi volesse levarla, scomponesse tutta la statua. Onde Cicer. nel p. 1. delle Tusc. n. 15. Opifices post mortem nobilitari volunt. Quid enim Phidias qui similem speciem inclusit in clypeo Minervae, cum inscribere non liceret ? E nel perf. Orat. presso alla fine n. 71. Sed si quos magis delectant soluta, sequantur eo sanè modo, sic ut quis Phidiae clypeum dissolveret, collocationis universam speciem sustulerit, non singulorum operum venustatem. Aristotile, o chi sia l’autore del libro del mondo secondo la versione del Budeo : Fama est Phidiam illum statuarium, quum Minervam illam, quae est in arce, coagmentaret, in medio eius scuto faciem suam expressisse, oculosque fallenti artificio ita devinxisse simulacro, eximere inde ut ipsam si quis cuperet, minime posset, aliter quidem certè, quam ut ipsum solveret simulacrum, opusque eiusmodi compactile confunderet. E più brevemente Apuleio. Phidiam illum, vidi ipse in clypeo Minervae, quae arcibus Atheniensibus praesidet, oris similitudinem colligasse, ita ut si quis olim artificum voluisset exinde imaginem separare, soluta compage, simulac totius incolumitas interiret. Plutarco nella Vita di Pericle a 169. viene a’ particulari, raccontando che Fidia nello scudo della Minerva, nel quale era figurata la battaglia delle Amazzoni, aveva espressa la propria effigie in un vecchio calvo sostenente in alto un sasso con ambe le mani ; ma non perchè gli fosse vietato porvi il suo nome, avendo detto di sopra a 160. che nella base della Minerva d’oro fatta da Fidia (la quale io stimo la medesima, che quella, di cui si parla) era il nome dell’artifice. E questo è molto verisimile che egli desiderasse, e anche l’ottenesse, avendo sempre avuto gran premura di collocarlo nell’opere più singulari ; tra le quali ripone Luciano nel Dialogo delle Immag. a 588. la Minerva Lemnia, anzi ad ogni altra la preferisce, solamente perchè Fidia si degnò di scrivere in essa il suo nome. E Pausania nel l. 5 narra, che a’ piedi del Giove Olimpio era scritto : ΦΕΙΔΙΑΣ ΧΑΡΜΙΔΟΣ ΥΟΣ ΑΘΗΝΑΙΟΣ Μ’ΕΠΟΙΗΣΕ. FIDIA FIGLIUOLO DI CARMIDE ATENIESE MI FECE. Ma sia detto ciò di passaggio, per trattarne esprofesso nelle Vite degli Scultori. Ripigliando il filo del nostro discorso, ingegnosa invenzione fu parimente quella di Saurone, e Batraco architetti, i quali non potendo di se lasciare inscritta qualche memoria nel tempio, che già fu nelle logge d’Ottavia, vi collocarono animali, che i nomi loro esprimevano. Pline l. 36. 5. Nec Sauron atque Batrachum obliterari convenit, qui fecere templa Octaviae porticibus inclusa, natione ipsi Lacones. Quidam et opibus praepotentes fuisse eos putant ac sua impensa construxisse, inscriptionem sperantes. Qua negata hoc tamen alio loco, et modo usurpasse. Sunt certè etiamnum in columnarum espistylijs inscalpta nominum eorum argumenta rana atque lacerta. Simigliante artificio, benche diverso, per ottenere il medesimo intento, usò Sostrato Gnidio architetto della torre eretta nel Faro d’Alessandria, per quanto è riferito da Luciano nel lib. del modo di scriver la Stor. verso la fine. Dubitando questi che non gli fosse permesso porvi il suo nome, scolpito che l’ebbe in pietra lo ricoperse d’intonaco, e inscrissevi sopra quello del Re, avvisandosi, come avvenne, che indi a non gran tempo scortecciandosi la parete caderebbero con la calcina l’ultime lettere lasciando scoperta l’altra inscrizione, la quale diceva. ΣΟΣΤΡΑΤΟΣ ΚΝΙΔΙΟΣ ΔΕΞΙΦΑΝΟΥΣ ΘΕΟΙΣ ΣΩΤΗΡΣΙΝ ΥΠΕΡ ΤΩΝ ΠΛΩΙΖΟΜΕΝΩΝ. SOSTRATO DI DESSIFANE GNIDIO, AGLI DII CONSERVATORI PE’ NAVIGANTI.. È pero da notare che Strabone l. 17. a 791. portando la medesima inscrizione nomina Sostrato fondatore del Faro, non come architetto, ma come amico del Re senza far parola dell’inganno detto di sopra : e che Plinio diversificando dall’uno e dall’altro l. 36. c. 12 disse. Magnificatur et alia turris a rege facta in insula Pharo portum obtinente Alexandriae, quam constitisse octigentis talentis tradunt : magno animo, ne quid omittamus, Ptolemaei regis, quo in ea permiserit Sostrati Gnidij architecti structurae ipsa nomen inscribi.
E per venire oramai alla forma delle inscrizioni, nelle quali gli antichi professori usarono di pore il nome loro, cominceremo da quelle, le quali contenevano il puro nome senz’altra giunta[[3:Note de G. Pelli, éd. 1806 : Il Signor Francesco Cammelli mi scrisse di roma con lettere de’7 settembre 1671 d’aver veduto appresso a M. Cherchemarch antiquario Franzese, che una gemma parea contenere il furto del Palladio fatto da Diomede col nome di Policleto, per quanto io credo diverso dallo scultore, intagliator di gemme : Πολυκλέιτου è l’inscrizione. Con altra lettera de’ 28 novembre dice mandarmi il zolfo di dette gioje.]]. Avvertasi però che molte, e forse la maggior parte dell’opere non avevano ne anche questa semplicissima, onde faceva di mestieri conoscer le pitture, e le sculture dalla maniera. E per tal cognizione vien da Stazio lodato Vindice l. 4. Selu. 6.
Quis namque oculis certaverit usquam
Vindicis, artificum veteres agnoscere ductus
Et non inscriptis authorem reddere signis ?
L’Ercole Epitrapesio di Lisippo, lodato appunto da Stazio nella sopradetta Selva, doveva esser di quelle statue, alle quali l’artefice aveva aggiunto il semplice nome ; che perciò Martiale l. 9. ep. 45.
Alcides, modò vindicem rogabam
Esset cuius opus, laborque felix.
Risit, nam solet hoc: levique nutu
Graece nunquid, ait, poeta nescis ?
Inscripta est basis, indicatque nomen
Λυσίππε lego, Phidiae putavi.
Tale per avventura era l’Apollo di Mirone, mentovato da M. Tullio nella 4. Verrina n. 43. Agrigento nonne eiusdem P. Scipionis monumentum, signum Apollinis pulcherrimum, cuius in femine literulis minutis argenteis nomen Myronis erat inscriptum, ex Aesculapij religiosissimo substulisti ? […] Tra queste va collocata anche l’inscrizione della bellissima Venere, che si conserva in Roma nel giardino del Sereniss. Granduca di Toscana mio Signore alla Trinità de’ Monti, benchè oltre il nome dell’artefice contenga il Padre, e la Patria, le quali cose, a me non pare, che facciano variazione. ΚΛΕΟΜΕΝΗΣ ΑΠΟΛΛΟΔΩΡΟΥ ΑΤΗΕΝΑΙΟΣ.
CLEOMENE D’APOLLODORO ATENIESE.
Oltre al puro nome fu chi aggiunse qualche altra cosa. E si legge in Plutarco nella Vita d’Isocrate, che nella Statua di questo oratore, postagli da Timoteo, era questa inscrizione.
ΛΕΟΧΑΡΟΥΣ ΕΡΓΟΝ, OPERA DI LEOCARE.
Del quale scultore fanno onorata memoria Plinio e Pausania in più d’un luogo. Tale si leggeva facilmente in quella celebre tavola di Filocare, della quale Plin. l. 35. c. 4. Alterius tabulae admiratio est, puberem filium seni patri similem esse, salua aetatis differentia, supervolante aquila draconem complexa. Philochares hoc suum opus esse testatus est. Delle sì fatte molte, s’io non m’inganno, s’incontrano in Pausania[[3:Note de G. Pelli, éd. 1806 : Appresso al Serenissimo P. Cardinal Leopoldo si conseva una testa intagliata in corniola, ma con rilievo, creduta di Druso. Αλέχανδρος έποίει fattami vedere da S.A.R. e fal Signor Francesco Cammelli. Il medesimo mi disse che nel Palazzo de’ Signori Colonnesi è un basso rilievo, trovato a Marino, contenente l’Apoteosi di Omero, intagliato da Giovambattista Galestruzzi Fiorentino ; e mi mostrò la stampa il Sig. Balat. Anchieo dove è il nome dell’artefice.
αρκελαοςαπολλωνιουέποιησεπριηνευς.
ARCHELAUS APOLLONII FECIT PRIENEUS
ARCHELAO d’Apollonio PRIENEO fece. Di Priene vedi Stafano in υζιθυθ città di Ionia, e i lessici geografici.]]. Altri artefici passarono dal nominar l’opera all’operazione. E di questa sorta, pare a me, che fosse quella di Nicia. Plinio l. 35 cap. 4. Idem (cioè Augusto) in curia quoque, quam in comitio consecrabat, duas tabulas impressit parieti, Nemeam sedentem supra leonem, palmigeram ipsam, adstante cum baculo sene, cuius supra caput tabulla bigae dependet. Nicias scripsit se inussisse : tali enim usus est verbo. E quell’altra di Lisippo. Plinio l. 35. c. 11. Lysippus quoque Aeginae picturae suae inscripsit ἐνέχαυσεν, quod profecto non fecisset, nisi encaustica inventa. Alcune edizioni leggono scritto con lettere latine, encausen. Ma queste due inscrizioni si sono di già ponderate in trattando delle pitture a fuoco.
La maniera più comune di scrivere il suo nome nell’opere, mi do ad intender’io, che fosse. IL TALE FECE. Usata da Fidia, come abbiamo udito, nel Giove Olimpio, e da altri ancora ; e moderata da Policleto, e da Apelle, come diffusamente racconta Plinio nella Prefazione all’Imperador Vespasiano, con ridurla a faceva. Questa fu poi seguitata quasi da tutti gli altri. E per darne qualche esempio. Angelo Cini da Montepulciano (che tale è il vero casato di quel nobile ingegno) à nelle Miscellanee al cap. 46. asserisce d’aver veduto in Roma in casa i Mellini in una base di marmo la seguente inscrizione.
ΣΕΛΕΥΚΟΣ ΒΑΣΙΛΕΥΣ ΛΥΣΙΠΠΟΣ ΕΠΟΙΕΙ.
SELEUCO RE LISIPPO FACEVA.
E perchè il medesimo afferma che per Roma se ne trovavano allora dell’altre su questo andare, ne addurrò alcune, che in diverse statue al presente si leggono, la maggior parte delle quali mi ha cortesemente trasmesse Ottavio Falconieri Gentiluomo Fiorentino, nel quale il pregio minore è la nobiltà de’ natali, e questa, com’ ognun sa, è grandissima. Nell’Ercole del Palazzo Farnese.
ΓΛΥΚΩΝ ΑΘΗΝΑΙΟΣ ΕΠΟΙΕΙ.
GLICONE ATENIESE FACEVA.
Nel torso dell’Ercole di Belvedere.
ΑΠΟΛΛΟΝΙΟΣ ΝΕΣΤΟΡΟΣ ΑΘΗΝΑΙΟΣ ΕΠΟΙΕΙ.
APOLLONIO DI NESTORE ATENIESE FACEVA.
Nella Pallade del giardino de’ Ludovisi.
…ΤΙΟΧΟΣ ΙΛΛΙΟΣ ΕΠΟΙΕΙ.
ANTIOCO D’ILLI FACEVA.
In due teste di filosofi greci, nel giardino degli Aldobrandini a Monte Magnanapoli.
ΛΙΝΑΞ ΑΛΕΞΑΝΔΡΟΥ ΕΠΟΙΕΙ.
LINACE D’ALESSANDRO FACEVA.
In due statue congiunte d’una madre, et d’un figliuolo, che si stimano esser simbolo dell’amor reciproco.
ΜΕΝΕΛΑΟΣ ΣΤΕΦΑΝΟΥ ΜΑΘΗΤΗΣ ΕΠΟΙΕΙ.
MENELAO DISCEPOLO DI STEFANO FACEVA.
Questa è singulare, ed io ho stimato, che Stefano sia più tosto nome del maestro, che del padre.
In una gemma, nella quale è intagliata la testa di Marcello nipote d’Augusto fra l’effigie degli uomini illustri di Fulvio Orsino al n. 87.
ΕΠΙΤΥΓΧΑΙΝΟΣ ΕΠΟΙΕΙ.
EPITINCANO FACEVA.
Il nome del quale artefice si legge anche in altre gioie, e particolarmente in quella dov’è intagliato Germanico, come avvertisce il Fabro nelle note a 41. E si conghiettura ch’egli fiorisse nell’Imperio d’Augusto.
Sarebbe errore il tralasciare che alcune di queste inscrizioni furon fatte dagli artefici in versi, simiglianti a quelle, che si adducono nelle Vite di Zeusi, e di Parrasio. Ne dissimile esser dovea quella di Damofilo, e di Gorgaso, mentovata da Plin. l. 35 c. 12. Plastae laudatissimi fuere Damophilus, et Gorgasus, ijdemque pictores, qui Cereris aedem Romae ad Circum Maximum utroque genere artis suae excoluerunt, versibus inscriptis Graecè, quibus significaverunt, a dextra Damophili esse, a parte laeva Gorgasi. Galantissimo è l’epigramma scolpito da Prassitele nella base del suo famoso Cupido ; e si legge presso Ateneo nel l. 13. a 591. e nel l. 4. c. 12 epigr. 53. dell’Antologia attribuito a Simonide con qualche diversità di lezione.
Non si debbon tacere i versi latini posti nella pittura di Marco Ludio, del quale Plinio l. 35 c. 10. Decet non sileri et Ardeatis templi pictorem, praesertim civitate donatum ibi et carmine, quod est in ipsa pictura his versibus:
Dignis digna. Loco picturis condecoravit
Reginae Iunonis supremae coniugis templum
Marcus Ludius Elotas Aetolia oriundus,
Quem nunc et post semper ob artem hanc Ardea laudat.
Ea sunt scripta antiquis litteris Latinis.
Dicemmo in principio che il fine di tutte queste inscrizioni era la gloria degli artefici. A questo potrebbesi aggiungere un’altro, cioè la sicurezza che l’opere non fossero scambiate, e attribuite a diversi professori. Non fù però possibile ovviare a tutti gli errori seguiti, o per ignoranza, o per fraude. Di quelli per ignoranza basti un’esempio moderno, che mi par vergognoso ; cioè, che i due colossi, e cavalli situati a Roma nel Quirinale fossero con pubbliche inscrizioni attribuiti a Fidia, e a Prassitele come fatti a concorrenza per figurare Alessando M. che domava Bucefalo : il quale errore fu in parte, ma non del tutto emendato. Per fraude sempre si sono falsificate in iscrizione, e cifere, vendendo opere moderne per antiche, e d’eccellenti maestri. Onde Fedro nel Principio del l. 5.
Ut quidam artifices nostro faciunt seculo
Qui pretium operibus matus inveniunt, novo
Si marmori adscripserunt Praxitelem, suo
Myronem argento. Fabulae exempla audiant
Adeo fugatae. Plus vetustis his favet
Invidia mordax, quam bonis praesentibus.
Che così legge questo luogo (per quanto mi disse agli anni addietro) parte per conghiettura, e parte seguitando gli antichi MSS. Marquardo Gudio giovane eruditissimo e di giudicio ammirabile. Il qual luogo in quelle parole, Myronem argento, mi suggerisce un corollario per concludere questo lungo discorso. Ed è questo. Che anche nel vassellame d’argento figurato per mano di artefici illustri, come v. g. sarebbe stato Mirone, usava mettersi il nome di chi l’aveva lavorato. Onde oltre a questo testimonio di Fedro si legge in Seneca l. I. c. I. d. Tranq. d. An. Placet minister incultus, et rudis vernula, argentum grave rustici patris, sine ullo opere, et nomine artificis. E nella Consolaz. ad Elvia cap. 8. Si desiderat aureis fulgentem vasis supellectilem, et antiquis nominibus argentum nobile. Non mi par giusto il terminare questo capitolo senza dar notizia d’un altro inganno di Fidia riferito da Tzetze nella Chiliade. 7. Stor. 154. v. 930. Cioè, che questo scultore si compiacque di scrivere in alcune sue statue il nome d’Agoracrito suo scolare favorito. Il medesimo accenna Plinio l. 36. c. 5. Eiusdem disciplus fuit Agoracritus Parius ei aetate gratus. Itaque suis operibus pleraque nomini eius donasse fertur. E tanto basti per ora aver detto in questa materia.
Dans :« Apelles faciebat » : signatures à l’imparfait(Lien)
, p. 46-47
E quì restò troncato il discorso, forse per non entrare in più lunghe, e più difficultose questioni: la prima delle quali a mio giudicio opportunamente stata sarebbe: per qual cagione un vizioso, e ribaldo, le cui iniquità son da noi tanto abborrite, ci diletti in vederlo, o in sentirlo bene imitare: in quella guisa che un brutto, il quale fatto dalla natura non possiamo riguardar senza noia, con estremo piacere da mano industre rimiriamo dipinto.
Dans :Cadavres et bêtes sauvages, ou le plaisir de la représentation(Lien)
, « Postille alla vita di Protogene », p. 171-174
[[6: à propos du concours de la ligne]] So benissimo che il nome di Plinio presso ad alcuni non è di grandissima autorità stante il mal concetto di poca fede addossatogli a gran torto dal volgo. Io non voglio adesso far la difesa di questo grande scrittore contro a certi faccenti, che senza forse averlo mai letto lo tacciano di menzognero. E chi fu mai più di lui curioso del vero ? che per ben conoscerlo, non conobbe pericolo, e finalmente morì, onde fu chiamato, A scriver molto, a morir poco accorto.
Se costoro sapessero quanto sia difficile lo scrivere la storia universale della natura necessariamente rapportandosi ad altri senza poterne fare il riscontro, o non sarebbero così facili a contraddire, o lo farebbero con più modestia, e rispetto. Plinio parla in questo luogo d’una cosa veduta da lui, e da tutta Roma, onde non par verisimile, ne ch’egli dovesse mentire, ne ch’egli potesse ingannarsi. […] Torno adunque a pregar tutti, e spezialmente i professori, che si vogliano degnare di rileggere attentamente il luogo di Plinio, il quale non si fidò di se stesso, ne del volgo, e non andò, come si dice, preso alle grida, e perciò concluse, Placuitque sic eam tabulam posteris tradere omnium quidem, sed artificum praecipuo miraculo; e poi di vedere se da quel racconto si possa trarre un ripiego, che salvi Plinio dalla nota di bugiardo nella storia, e Apelle, e Protogene dalla taccia di balordi dell’arte. Non mi parendo giusto il correre a furia a chiamare insipide quelle linee tanto riverite, come fece Alessandro Tassoni ne suoi pensieri troppo arditamente sfatando tutta l’Antichità.
Dans :Fortune de Pline(Lien)
, p. 47-48
Egli fù il primo, che ritrovò nella pittura le vere proporzioni, la galanteria del sembiante, la vaghezza del capello, la venustà della bocca, avendo per confessione de’ professori ne’ dintorni riportato la palma [[1:IX.]]. Questa nella pittura è la finezza maggiore. Imperciocchè il dipignere i corpi, e i mezzi delle cose è senza fallo operazione laboriosa, ma però tale che in essa molti ne ottenner lode: il fare l’estremità de’ corpi, e porre i termini alla pittura, ov’ell’ha da finire, e cosa che nell’arte è riuscita bene a pochissimi. [[1:X.]] Conciossiacosachè il dintorno dee circondar sè stesso, e terminare in maniera, che quasi prometta altre cose oltre a se, e in un certo modo mostri eziandio quel ch’egli occulta: Questa gloria a lui concedettero Antigono, e Zenocrate, i quali scrissero della pittura, ne solamente l’attestarono, ma ne fecero encomi: [[1:XI.]] Molt’altri vestigi del suo disegno rimasero nelle tavole, e nelle carte, mediante i quali gli artefici molto s’approfittarono. Tuttavia, benchè insigne in ogni operazione, rassembrò egli di gran lunga inferiore, in paragon di se stesso nell’esprimere i mezzi delle figure. [[4:suite: Parrhasios orgueil]]
Dans :Parrhasios et les contours(Lien)
, « Postille alla vita di Parrasio », p. 67-69
IX. Questa nella pittura è la finezza maggiore. Plin. 35. 10. Haec est in pictura summa subtilitas. Benchè alcuni MSS. abbiano sublimitas, ho mantenuto subtilitas, la quale ho volgarizzata finezza, che queste due voci appunto si corrispondono tanto nel senso proprio, che nel metaforico. Petronio. Tanta enim subtilitate extremitates imaginum ad similitudinem erant praecisae. Quintiliano l. 12. 10 parlando anch’egli di Parrasio. Secundus examinasse subtilius lineas traditur. Io non dubito punto, che tutti trè questi scrittori parlino de’ dintorni, il fare i quali tondeggianti, e sfumati sempre nella pittura è stata lode grandissima. Di questi a suo tempo, e luogo nel Trattato della Pitt. Ant. bastandomi per ora aver illustrato il luogo di Plinio, al quale adattar vorrebbe il Dalecampio quel detto di Policleto riferito da Plutarco l. 2. ques. 3 del Simpos. a 536., e ponderato da Adriano Giugni l. 4. c. 18. Animadv. Che allora riesce l’opera difficilissima, quando s’arriva a levar per appunto. Ma questo non torna bene, perche Plinio discorre delle estreme linee, che così chiama i dintorni, e Policleto intendeva del dar l’ultima mano e il pulimento alle figure, o di terra, o di stucco. Il che forse meglio s’accoppierebbe con quel che usava dir Prassitele presso a Plinio l. 35. 11. Hic est Nicias de quo dicebat Praxiteles interrogatus, quae maximè opera sua probaret in marmoribus, quibus Nicias manum admouisset: tantum circumlitioni eius tribuebat. Dove circumlitio, a mio credere, vale una certa lisciatura e ultimo rinettamento, che ragguagli e tolga via ogni scabrosità del lavoro; parendomi assai diversamente usata da Seneca nella Pistol. 86 per incrostatura di pietre commesse. Nisi illis undique operosa, et in picturae modum uariata circumlitio praetexitur.
X. Conciossiacosachè il dintorno dee circondar sé stesso ec. Plin. 35. 10. Ambire enim debet se extremitas ipsa, et sic desinere, ut promittat alia post se: ostendatque etiam quae occultat. Una simil cosa più a basso trattando di Apelle: Eiusdem arbitrantur manu esse, et in Antoniae templo Herculem auersum, ut (quod est difficillimum) faciem eius ostendat uerius pictura, quam promittat.
XI. Molt’altri vestigii del suo disegno rimasero nelle tavole e nelle carte, ec. Plin. 35. 10. Alia multa graphidis uestigia extant in tabulis, ac membranis eius, ex quibus proficere dicuntur artifices. Da questo luogo par che si cavi, che gli antichi disegnassero in carta; ma di ciò più esattamente nel Trattato della Pitt. Ant. dove si parlerà del disegno e del modo di disegnare. L’ultime parole mi fanno ricordare de’famosi cartoni di Michelagnolo, i quali furono per un pezzo la scuola e’l cimento di chiunque desiderava di far passata nell’arte.
Dans :Parrhasios et les contours(Lien)
, p. 45-47
[[2:VI.]] Conferma l’età di Parrasio l’esser egli stato amico di Socrate, il qual filosofo essendo molto universale, anche in ragionando con gli artefici recava loro giovamento, e lume nella professione [[1:Zenof. l. 3. Memorab. Stob. serm. 58]] La onde, per detto di Zenofonte, un giorno fra gli altri da lui venuto sì prese a dire. La pittura, o Parrasio, non è ella un’ imitazione delle cose, che si veggono ? Imperciocchè voi rappresentate per via de’ colori i corpi concavi, e i rilevati, gli scuri, e i chiari, i duri, e i morbidi, i ruvidi, e i lisci, i nuovi, e i vecchi. Tu di il vero rispose Parrasio: e Socrate. Quando voi pigliate a imitar forme belle, perchè non è così facile abbattersi in un solo uomo in tutte le sue parti incapace d’emenda, raccogliendo da molti quello, che in ciascuno è bellissimo, fate sì che tutti i corpi, totalmente belli appariscano. Così faciamo, diss’ egli. Ma per questo ? Soggiunse Socrate. Imitate voi anche la sembianza dell’animo, persuasiva, dolce, grata, desiderabile, amabile oltre misura ? O pure inimitabile è cotal cosa ? In qual maniera, Socrate mio, disse allora Parrasio, puoss’egli imitare quel che non ha ne proporzione, ne colore, ne alcuna di quelle qualità, che tu poco fa mentovasti, ma oltre a ciò, a niun patto si può vedere ? Non si da egli alle volte il caso, replicò Socrate, che altri guati alcuno con viso giocondo, o con burbero ? Così mi pare diss’ egli. Adunque seguitò Socrate, negli occhi è un non so che possibile ad esprimersi. Del sicuro, riprese il pittore. Indi il filosofo. Ma negli accidenti prosperi, o sinistri degli amici part’egli che abbia il medesimo sembiante chi è impensierito, e chi no ? No, soggiunse l’altro, perocchè allegri nelle cose felici, e mesti nelle avverse divengono. E Socrate ripigliò. Anche queste cose son di quelle, che si posson rappresentare imitando. Chi ne dubita ? Disse Parrasio. Anzichè, seguitò il filosofo, nel volto, e nel portamento degli uomini, o fermi, o moventi traspare il genio, e l’indole magnifica, e la nobile, e la vile, e la gretta, e la continente, e l’avveduta, e la sfacciata, e l’enorme. Verissimo, disse il pittore. Al che l’uno. Posson dunque esprimersi a forza d’imitazione. Senza dubbio, rispose l’altro. Ma quali cose, pertanto, soggiunse Socrate, credi tu che altri vegga più volentieri, quelle che i costumi gentili, buoni, ed amabili, o pure quelle, che le maniere sozze, scellerate, e odiose ci rappresentano ? Gran differenza, o Socrate, disse allora Parrasio, trovasi tra le cose proposte. E quì restò troncato il discorso, forse per non entrare in più lunghe e più difficultose questioni: la prima delle quali a mio giudicio opportunamente stata sarebbe; per qual cagione un vizioso, e ribaldo, le cui iniquità son da noi tanto abborrite, ci diletti in vederlo, o in sentirlo bene imitare: in quella guisa che un brutto, il quale fatto dalla natura non possiamo riguardar senza noia, con estremo piacere da mano industre rimiriamo dipinto. [[8:voir aussi cadavres]]
Dans :Parrhasios et Socrate : le dialogue sur les passions(Lien)
, « Postille alla vita di Parrasio », p. 63
VI. Conferma l’età di Parrasio l’esser egli stato amico di Socrate. Quintil. l. 12 c. 10. Post Zeuxis, atque Parrhasius non multum aetate distantes (circa Peloponnesia ambo tempora, nam cum Parrhasio sermo Socratis apud Xenophontem inuenitur) plurimum arti addiderunt. Questo colloquio da me largamente volgarizzato si legge appresso Zenofonte nel lib. 3. de’ Memorabili. Socrate, secondo Laerzio ed Eusebio, morì nell’Olimp. 95.
Dans :Parrhasios et Socrate : le dialogue sur les passions(Lien)
, "Vita di Parrasio", p. 44-45
Dipinse Parrasio in Samo in concorrenza di Timante, maestro egregio la contesa, e’l giudicio dell’armi d’Achille fra Ulisse, ed Aiace [[1:Plin. 35.10 Elian. Var. Stor. 9. 11. Aten. l. 52 Eustat. in Odiss. l. 11.]]: ed essendo per voti tutti concordi dichiarato perdente, disse argutamente ad un suo amico, il quale si condoleva con esso lui, che egli niun conto faceva della vittoria, ma ben’ assai gli pesava, che il povero figliuolo di Telamone, già due volte nella causa medesima ne avesse avvuto il peggio da un’ indegno avversario.
Dans :Parrhasios : orgueil(Lien)
, 48-49
[[4:suit Parrhasios contours]] Conoscendo Parrasio il proprio valore se ne gonfiò, e ne divenne arrogante, ne vi è stato giammai pittore, che con eguale impertinenza si sia prevaluto della gloria dell’arte. [[1:XII.]] Imperciocchè egli si pose diversi soprannomi, chiamandosi Abrodieto, che è quanto a dire Delizioso. Onde non mancò chi stomacato di si vana appellazione, con poco mutamento la trasformò, e pose in luogo di Abrodieto, Rabdodieto; traendo lo scherzo, e la puntura della verga, la quale sogliono adoperare i pittori. [[1:Elian. Var. St. 9. 11. Aten. l. 12]] Quadrava però quel titolo per eccellenza alla vita delicata, ch’egli teneva, essendo dispendiosissimo ne’ vestimenti, i quali per lo più erano di porpora, portando in testa corona d’oro, e trapassando col suo lusso, e mobidezza oltre al decoro, e sopra la condizione di pittore; [[1:V. Scheffer]] perchè appoggiavasi ad una mazza avvolta di strisce spirali anch’ esse d’oro [[1:in Elian. 176]], e strignevasi le fibbie de’ calzari con auree allacciature. Ma quel che moveva più a sdegno spacciavasi per solenne amadore della virtù scrivendo sotto alle sue opere più perfette.
[[1:XIII.]] Uom delicato, e di virtude amante
Parrasio, a cui fu patria Efeso illustre
Dipinse, ne tacer già voglio il nome
Del genitore Evenore, che nacque
In Grecia, e fu tra’ professori il primo.
Soleva anche talora appellarsi il principe della pittura da se perfezionata: onde parimente sottoscrive quegli altri versi.
[[1:XIV.]] Io dirò tal, che non sarà chi’l creda.
Per opra di mia man l’ultimo segno
Toccato ha l’arte, e trapassar più oltre
Altrui non lice. Ma niente adopra
Senza taccia veruna alcun mortale.
Sopratutto si vantava di venir dal ceppo d’Apollo, e d’aver figurato l’Ercole di Lindo, quale appunto veduto l’avea spesse fiate dormendo. Di qui è, che sotto a detta imagine si leggevan quei versi.
Quale a Parrasio in mezzo al sonno apparve
Sovente, ora qui tal mirar si puote.
Laonde non è da maravigliarsi, che tutti gli altri pittori, come se fosse di mestieri, lui seguitarono in ritrarre gli Dij, e gli Eroi, l’effigie da esso fatte imitando.
Dans :Parrhasios : orgueil(Lien)
, p. 50
[[2:XVI.]] Dipinse oltre a ciò con bizzarra maniera il Genio degli Ateniesi rappresentandolo egualmente vario, collerico, ingiusto, instabile, pieghevole, clemente, pietoso, altiero, ambizioso, mansueto, feroce, e pauroso ad un tempo. [[4:suite : Parrhasios Philoctète]]
Dans :Parrhasios, Le Peuple d’Athènes(Lien)
, « Postille alla vita di Parrasio », p. 73
XVI. Dipinse egli con bizzarra maniera il Genio degli Ateniesi ec. Plin. 35. 10. Pinxit demon Atheniensium argumento quoque ingenioso. Volebat namque varium, iracundum, iniustum inconstantem: eundem exorabilem clementem misericordem; excelsum, gloriosum, humilem, ferocem fugacemque et omnia pariter ostendere. Con qual’ arte, o invenzione Parrasio potesse esprimere tanta varietà d’inchinazioni, e d’affetti, io certamente non saprei dire: e fin’ ora confesso ingenuamente di non mel’ esser saputo immaginare. Ma chi si contentassi di vedere in cambio della pittura una bella descrizione del Genio d’Atene ricorra a Plutarco nel princ. de’ precetti per amministrar la Republica. Pausan. nelle cose dell’Attica dice, che Leocare scultore fece la statua del Popolo Ateniese. Del tempio del popolo Ateniese Giuseppe Ebreo Ant. Giud. l. 14. 16. Meurs. l. 2.11. Aten. Att. Aristolao figliuolo, e scolare di Pausia dipinse la plebe d’Atene, Plin. 35.11, Imago Atticae Plebis. Ma questa forse fu una cosa simigliante a quella frequenza di donne dipinta pure in Atene da Atenione Maronita, del quale poco sopra il medesimo Plinio, Athenis frequentiam quam uocauere Polygynaecon.
Dans :Parrhasios, Le Peuple d’Athènes(Lien)
, p. 50
E mentovato anche il Filottete, i travagli del quale rappresentò col pennello stupendamente. E sopra questa pittura si legge un bellissimo epigramma di Glauco da me largamente tradotto. [[1:Antolog. l. 4. c. 8. epigr. 26]]
Vide Parrasio gl’infiniti affanni
Di Filottete, e colorirgli elesse.
Sorde lagrime fan lunga dimora
Nell’asciutte palpebre, e dentro chiusa
Aspra cura mordace il cuor gli rode.
Saggio Pittore, e perché fare eterno
Il duol di questo eroe, che ben dovea
Dopo tanti travagli aver quiete?
Dans :Parrhasios, Philoctète(Lien)
, p. 53-60
[[1:XXIV]][[1:Seneca Contr. 34]] Volendo Parrasio figurare un Prometeo tormentato, e desiderando di vederlo dal naturale si diede appunto il caso che Filippo Rè di Macedonia vendeva i prigionieri d’Olinto, ond’egli ne comprò uno assai vecchio, e lo condusse in Atene. Quivi fieramente tormentandolo ricavò da esso un Prometeo. Il prigione si morì fra’ tormenti, onde ponendo egli questa tavola nel tempio di Minerva fu accusato d’aver gravemente offesa la maestà della Repubblica. Bella occasione diede questo accidente agli oratori di mostrar declamando la lor facondia. Fuvi uno, che cominciando esarrutto disse in cotal guisa contro a Parrasio.
[[1:Da Senec. l. 5. contr. 34]] Povero vecchio! Vide le rovine della patria distrutta, strappato dalla consorte calpestò le ceneri dell’arsa Olinto ; ed era tanto afflitto, che ben parea sufficiente a rappresentare un Prometeo. Così non parve a Parrasio. Adunque non è a bastanza afflitto un prigione d’Olinto, se non è schiavo in Atene ? Parrasio vuò tu dargli maggiori affanni ? Rimenalo a vedere la patria desolata, ov’egli restò privo di casa, di figli, di libertà. Parmi che tu mi dica. Basterebbe ad esprimer l’ira di Filippo, ma non quella di Giove. Che vuoi dunque Parrasio ? Si percuota, si scotti, si laceri. Ciò non fece Filippo inimico. Muoia fra’ tormenti. Ma tanto non volle ne anche Giove. Chi vide giammai fare affogare gli uomini per dipignere un naufragio ? Fidia non vede Giove, e pur lo fece tonante : non ebbe avanti a gli occhi Minerva, e tuttavia col suo spirito proporzionato a si grande artificio concepì, ed espresse gli dii. Che farà di noi s’è ti vien capriccio di dipignere una battaglia ? Bisognerà dividersi in varie squadre, e impugnar l’armi a vicendevolmente ferirsi ; sicché i vinti sieno incalzati, e insanguinati tornino i vincitori. E perché la mano di Parrasio non ischerzi co’ suoi colori a sproposito, s’ha da temere una strage. Adunque non si può dipignere un Prometeo senza ammazare un’uomo ? E tu non lo sai figurar moribondo, se non lo vedi morire ? E perché non più tosto dipignesti Prometeo allor ch’e’ faceva gli uomini, e dispensava il fuoco celeste ? Perché non lo ponesti anzi fra’ ministeri, che fra’ tormenti ? Vero è che Prometeo fu tormentato mediante gli uomini, ma tu tormenti gli uomini per cagion di Prometeo. Ne son pari i tormenti, perché più patisce il finto Prometeo se lo dipigne Parrasio, che non soffre il vero se lo punisce Giove, parendoti scarsa ogni pena se non uccidi. Quanto sia lesa l’umanità, non che la Repubblica ciascun se’l vede. Un’Olintio, che per tutto si credea d’aver pace, dove non era Filippo, e che appresso lui visse disciolto, fu poscia incatenato, tormentato, ed ucciso in Atene. Diensi adunque a Parrasio giustamente quelle pene, ch’egli ingiustamente diede al vecchio d’Olinto ; e nella persona del crudelissimo pittore rappresenti giusto carnefice, e col ferro, e col fuoco quel Prometeo, ch’egli desiderò tanto di ben’ esprimere co’ suoi pennelli.
Non sodisfatto soggiunse un’ altro. Mentre io mi pongo, o giudici, a descrivere il fuoco, le percosse, i tormenti d’un’ infelice vecchio d’Olinto, voi forse vi crederete, ch’io mi sia per querelar di Filippo. O Parrasio, mandinti pure in malora gli dii : perocché in tuo paragone hai fatto divenir Filippo clemente. Se a te si crede, in questo fatto imitasti Giove vendicatore ; se a noi superasti Filippo sdegnato. Alla fine quell’empio carnefice della Grecia non fece altro che venderlo. Fu esposto quel nobil vecchio macerato da tante, e si lunghe miserie, con occhi incavati, piangenti, e rivolti alla patria, e si maninconico, che sembrava già tormentato. Piacque a Parrasio sembianza tanto dogliosa, avendo assai di Prometeo anche innanzi a tormenti. Rasserenossi alquanto nel vedersi condur verso l’Attica, ma quand’egli si vide accostar le catene, pien di meraviglia e d’orrore esclamò. E che ci an da far queste ? Se io fussi prigione altrove fuggirei in Atene per aver libertà. Adunque più di me fortunati son quei, che servono in Macedonia ? In cotal guisa in Atene si ricettan gli Olintii ? Mentr’ egli così diceva, si pose Parrasio da una banda avendo in mano i colori, dall’altra il tormentatore co’ flagelli, e col fuoco. Cio veggendo gridava lo sventurato. Io non sono Euticrate, io non son Lastene, io non ho tradito la patria. Ateniesi se io sono innocente soccorretemi, se nò rimandatemi a Filippo. Fra tanto Parrasio, non so se più disposto a dipignere, o vero a incrudelire, dicea. Percuoti, tormenta ; per tal maniera barbaramente temperando i colori. E non soddisfatto. Seguita, tormenta dell’altro. Così sta bene, mantienlo in questo stato. Tale appunto esser dee il volto d’un lacero e d’un moribondo. Ma questo, o Parrasio, è fare, e non dipigner Prometeo. Anzi se costui si muor fra’ tormenti è un passar di là da Prometeo. E più incrudelisci tu nel dipignere, che Giove non incrudelì nel punire. Ma dimmi se tu avevi necessità di straziar qualcheduno, perchè prenderlo d’Olinto ? Perchè un’ innocente, e non più tosto un reo, pigliando, e dando in un tempo il naturale, e la pena ? Ne ti suffraga il dire, io l’ho comperato, e mi prevaglio di mie ragioni. Sendo tu d’Atene, ed egli d’Olinto non l’hai compero, ma riscattato. E poi, perché mettere in pubblico questa tavola, quasi trofeo della tua crudeltà, tormentando con si fiero spettacolo gli occhi di tutta Atene ? A che effetto collocarla in quel tempio, dove facilmente furon firmati gli strumenti della confederazione fra Olinto ed Atene ? In quel tempio in cui s’offeriscono agli dii sacrificij, e voti in pro degli Olintij ? Che più si desidera, che più si cerca per mettere in chiaro, che da Parrasio fu lesa la Reppublica, la quale difende, e conserva, e non tormenta, e non uccide gli amici, e i confederati ? Qual gastigo si convenga a chi è palesemente reo di tanto delitto a me non tocca, o giusti e savi Giudici, il dirlo, per non far torto alla vostra dirittura, e alla vostra prudenza.
Dopo i due accusatori parlò il terzo oratore in difesa. O quanto è sottoposta agl’ inganni la mente umana nel ben discernere il vero, mentre questo non l’è mostrato al vivo lume della ragione, e con le giuste maniere, e che la perspicacia altrui resta offesa, ed abbagliata dalle passioni, e il diritto giudicio dell’apparenze travolto ! Leviamoci, o giudici, dinanzi agli occhi le nebbie, e terghiamo gli umori, ne riguardiamo il fatto che vien proposto per mezzo di specchi, e di colori ingannevoli, ma riconosciamo nell’oggetto reale ignuda e pura la verità. Viene accusato Parrasio di lesa Repubblica per aver tormentato un’ uomo, perchè questi era Olintio, per aver’ imitato i supplici degli dij nella sua pittura, e per aver posta la tavola nel tempio di Minerva. In che offese Parrasio la Repubblica ? Perché tormentò un’ uomo. Anzi possiamo dire un cadavero ; così era egli macilente, mal condotto, e vicino a spirare ; e talmente miserabile che bramava la morte come ristoro. Ne vi crediate che Filippo venduto l’avesse s’e’ non si fosse accorto, che il vivere gli era pena. Perchè dunque lo comperò Parrasio ? Perchè tale appunto lo cercava per esprimer Prometeo. Ned egli l’uccise, ma ben si valse della morte di lui, che per natura moriva. E poi, quand’ anche l’avesse comperato per valersene ne’ soliti ministeri, giacchè costui era moribondo, e volontieri moriva, che mal fece Parrasio a cavare quant’ egli più poteva da quel cadavero, servendosi di lui per lo natural di Prometeo ? In che dunque fu lesa la Maestà della Repubblica ? Parmi d’ascoltar chi mi dica. Bisogna dir tutto ; il vecchio ch’egli ha straziato era Olintio. Ponghiamo ch’e’ fosse Ateniese. Certo è che se io ammazzerò anche un senatore d’Atene non sarò accusato di lesa Repubblica, ma d’omicidio. Sarà per avventura soggiunto, che ciò pregiudica al buon concetto d’Atene, e che gli Ateniesi sono in riputazione per la clemenza. E quando mai fu corrotta la fama pubblica dall’operazioni d’un solo ? Il buon concetto, che s’ha degli Ateniesi è così ben fondato, che non può distruggersi per aver’altri tormentato un prigione. E poi (dirà Parrasio) questi è mio schiavo, e per ragione di guerra da me comprato. Mette conto a voi, o Ateniesi, mantenere il ius della guerra. Altrimenti bisognerà tornare agli antichi confini, e restituire tutti gli acquisti. Voi mi direte ; costui può esser servo d’ogn’altro compratore, che d’uno Ateniese. Pretenderebbe Parrasio forse il medesimo s’egli avesse comperato da Filippo un cittadino d’Atene ? Egli molto ben sapeva che gli Olintij erano nostri confederati. Ma Parrasio a questo replicherà : Volete voi vedere che gli Olintij potevano, anche presso a noi esser servi ? Egli è stato poi fatto un decreto da voi Ateniesi, nel quale si dispone ch’e’ sieno liberi, e cittadini. E perché si da loro questo ius, che già secondo i miei avversari essi avevano ? Di più, non si determina in questo decreto, che gli Olintij sieno liberati, ma che si stimino liberi. Si stabilì, direte voi, che gli Olintij fossero nostri cittadini, e così colui eziandio era nostro cittadino. Signori nò. Il decreto risguarda il futuro, e non il passato. Ne volete la prova ? Non chiunque ha servi d’Olintio sarà accusato di tenere in servitù un cittadino. Ma fu accusato Parrasio per averlo mal trattato, ed ucciso. Potrebb’ egli essere accusato d’ingiuria chi servendosi d’un suo schiavo ne’ soliti uffici lo percuotessi ? Per quanto s’appartiene alla ragione non è differenza veruna dall’ammazzarlo al percuoterlo. Imperciocchè se non lece l’ucciderlo, nè meno lece il bastonarlo. Non fa male adunque chi ritien per servo un’ Olintio, che tale era avanti al decreto, e di lui si vale come di servo ch’egli è, e come servo lo tratta. In che dunque, torno a dire, fu lesa la Repubblica da Parrasio ? Forse per aver fatto una cotal pittura crudele, e poscia per averla posta nel Tempio ? Offendono la Repubblica coloro, che le tolgono non quei, che le danno. Quei che rovinano, non quei che adornano i templi. Errarono adunque anche i sacerdoti, che ricevettero la tavola. Ma perchè dovevan non riceverla ? Son dipinti gli adulteri degli dij, ci son pitture d’Ercole uccisor de’ figliuoli, e mill’ altre peggiori : e non cè chi se ne scandalezzi. Molto dee alcuno chiamarsi offeso da questa, in cui si punisce la temerità di Prometeo, e si rappresenta la giustizia di Giove ? Non si dia per tanto, o Giudici, alcun gastigo a Parrasio, ma ben sì premio, ed onore, il quale non offese la Repubblica, ne fu crudele in prevalersi d’un servo, anzi con l’arte sua recò ornamento alla città nostra, e terrore agli empi (sic), perché non ardiscano da qui avanti opporsi al voler degli dii, e veggano come si puniscono i trasgressori delle leggi divine.
Qual’esito avesse questa causa non saprei dirlo, perciocchè presso agli scrittori non se ne trova memoria.
Dans :Parrhasios, Prométhée(Lien)
, « Postille alla vita di Parrasio », p. 77-78
XXIV, « Volendo Parrasio figurare un Prometeo tormentato ec. »
Seneca retore nell’argomento della Controv. 34 racconta questa storietta. Il P. Andrea Schotto nelle note dubita se l’accidente sia vero, o finto per esercizio de i declamatori. Come assolutamente non ha per vera la voce, che corre del nostro Michelagnolo Buonarotti, ch’egli ponesse in croce un’ uomo, e lo vi lasciasse morire, per esprimere al vivo l’imagine del Salvador Crocifisso. A questo aggiungo, che essendo fiorito Parrasio intorno all’ Olimpiade 95. e la presa, e desolazione d’Olinto nella 108. Poteva questo artifice a quel tempo ben’ esser vivo, ma però decrepito : La qual cosa cresce assai di dubbio alla verità della storia. Tuttavia a me è paruto (però senza pregiudizio del vero) di non tralasciare così curioso racconto ; e da’ concisi pareri de’ sofisti raccolti da Seneca ho formato per ornamento di questa Vita le Declamazioni continuate contro, e in favore a Parrasio. Una simil causa propone Ermogene nelle Partiz. Sez. 7. cioè un pittore accusato d’avere offeso il Comune, perché dipinse naufragi, e quelli espose nel porto : onde spaventandosi i naviganti, ne restava il traffico danneggiato.
Dans :Parrhasios, Prométhée(Lien)
, p. 155-156
[[4:suit Protogène Ialysos]] [[1:Plin. 8. 38]] Dicono alcuni che Demetrio Espugnatore non diede fuoco a Rodi per non abbruciar questa tavola posta dalla parte delle mura ove doveva attaccarsi l’incendio; [[1:Plin. 35. 10]] e che non potendo impossessarsi altronde di quella piazza, per aver rispettato quella pittura perdesse l’occasione della vittoria. [[1:Plutar. Apotem. 83. Demetr. a 898]] Altri aggiungono, che avendo preso Demetrio i sobborghi di Rodi s’impadronì di quest’opera dipinta, e quasi perfezionata da Protogene, perlochè i Rodiani mandarono ambasciadori a pregarlo, ch’egli perdonasse al Gialiso, ne lo guastasse. Al che Demetrio rispose, che più tosto averebbe abbruciate, e guaste l’immagini di suo padre, che così degno lavoro. [[1:A. Gell. l. 15 c. ult.]] Assai meno fondata è la storia di chi scrisse che Demetrio insignoritosi d’alcuni edifici mal guardati addiacenti a Rodi, ne’ quali era la celebre immagine di Gialiso si preparava per abbruciargli, come quegli che essendo forte sdegnato co’ Rodiani invidiava loro la bellezza, e l’eccellenza di quell’opera singularissima. E che essi al Re inviarono messaggi parlanti in questo tenore. E per qual ragione vuoi tu mandar male questa figura dando fuoco alle case ? Se tu di tutti noi resterai vincitore, e prenderai la città nostra, quella pure intera, e salva sarà tua. Se con l’assedio con ci potrai superare, preghiamoti a far considerazione, se a te fia brutta cosa, che non avendo potuto vincere i Rodiani abbi fatto guerra con Protogene morto. E che ciò avendo udito Demetrio, levato l’assedio perdonasse alla pittura, ed alla città. Per molte ragioni non è da prestar fede a questo racconto, ma particlarmente dicendosi, che Protogene fosse già morto per l’assedio di Rodi, essendo certissimo ch’egli era vivo. [[1:Suida Plutar. in Demetr. 898. Plin. 35. 10]] Anzi abitando, com’ era suo costume, in una casetta congiunta all’ orto poco lungi da Rodi, dov’ appunto erasi accampato Demetrio, non si mosse, ne per gli assalti levò mano dall’ opere incominciate. Chiamollo il Re, e interrogatolo con qual confidenza dimorasse fuor delle mura; rispose, che ben sapeva lui aver guerra co’ Rodiani, e non con l’arti. Laonde quel Principe generoso mise gente a guardarlo, godendo di conversar quelle mani, che sin’ allora erano state salue. E per non lo scioperare egli stesso andava sovente da lui, e lasciando i desiderati progressi della vittoria tra l’armi, e tra le batterie stavasi a vederlo lavorare per passatempo. La tavola ch’egli allora faceva ebbe questa fama, che Protogene sotto la spada la dipignesse. [[4:suite : Protogène satyre]]
Dans :Protogène et Démétrios(Lien)
, p. 154-155
[[2:V.]] Tra tutte queste portò la palma il Gialiso di Rodi, il quale fu poi dedicato in Roma nel tempio della Pace, e da tutti ammirato per uno sforzo maraviglioso dell’arte. Raccontano che Protogene in dipigner quest’ opera si cibasse di lupini indolciti, si per saziare in un tratto, e la fame, e la sete, si per non ingrossare in sensi coll soavità de’ sapori. [[1:Elian. Var. St. 12. 41]] E ciò sarebbe stata gran cosa, perchè si legge che in condurla consumasse sett’anni. [[2:VI]] Quattro volte colorì questa tavola per assicurla dall’ingiurie del tempo, acciò mancando il color di sopra succedesse il di sotto. In essa era quella pittura, che fece stupire Apelle, benche non vi trovasse grazia eguale alla diligenza, ed alla fatica. [[2:VII.]] Fu sempre in dubbio, e si disputa ancora, di quel che fosse rappresentato in Gialiso: chi crede la veduta d’una città, o d’una contrada di Rodi, chi l’immagine d’un cacciatore, chi di Bacco, e chi d’altri. Io per me in tanta varietà, e dubbiezza inclinerrei a credere, che in quella tavola si scorgesse effigiato un bellissimo Giovane rappresentante l’Eroe Gialiso fondatore d’una delle tre città di Rodi, da esso denominata, o pure il Genio tutelare, e l’ideal sembianza della medesima. [[1:Plin. 35.10]] Di certo sappiamo esservi stato un cane fatto di maraviglia, sendosi accordati a dipignerlo l’arte, e la fortuna. Non giudicava Protogene di potere esprimere in esso la schiuma orginata dall’ansamento, essendosi egli in ogn’altra parte (il che era difficilissimo) pienamente sodisfatto. Dispiacevagli l’arte medesima, ne sapeva come scemarla, parendogli troppa, e lontana fuor di misura dal vero, perchè la schiuma rassembrava dipinta, e non nasceva nella bocca dell’animale. Questo a lui recava travaglio non ordinario, bramando la verità, e non il verisimile nella pittura. Aveva perciò spesse fiate nettati, e mutati i pennelli, non piacendo a se stesso. Finalmente sdegnatosi coll’arte, che si scopriva, gettò la spugna in quel luogo della tavola, il quale gli era quasi venuto a noia, ed ella quivi ripose i colori poco avanti levati, come appunto averebbe voluto la diligenza; sicchè la fortuna in dipignere fè da natura.
Dans :Protogène, L’Ialysos (la bave du chien faite par hasard)(Lien)
, « Postille alla vita di Protogene », p. 167-170
V. Tra tutte queste portò la palma il Gialiso di Rodi.
Plinio l. 35. c. 10. Palmam habet tabularum eius Ialysus, qui est Romae dicatus in templo Pacis: quem cum pingeret traditur madidis lupinis vixisse, quoniam simul famem sustineret, et sitim, ne sensus nimia dulcedine obstrueret. Eliano, e Plutarco alle somme lodi, aggiungono che Protogene in far questa pittura consumasse sett’anni. E l’ultimo nella Vita di Demetrio asserisce ch’ ella fu portata a Roma, dove abbruciò. Sicchè secondo Plinio a tempo di Vespasiano era in essere, per detto di Plutarco sotto Traiano era già consumata dal fuoco. Cicerone sempre la pone tra l’opere maravigliose. Nel principio dell’Oratore a Bruto. Sed ne artifices quidem se artibus suis removerunt, qui aut Ialysi, quem Rhodi vidimus, non potuerunt, aut Coae Veneris pulchritudinem imitari. Nella Quarta Verrina. n. 60. Quid Thespienses ut Cupidinis signum, propter quod unum visuntur Thespiae ? Quid Cnidios ut Venerem marmoream ? quid ut pictam Coos ? quid Ephesios ut Alexandrum ? quid Cizicenos ut Aiacem, aut Medeam ? Quid Rhodios ut Ialysum ? Quid Athenienses, etc. E l. 2 epist. ad Attico. Et ut Apelles si Venerem, aut si Protogenes Ialysum suum coeno oblitum videret, manum credo acciperet dolorem. Oltre a quello che ne dicono Gellio, Strabone, e altri.
VI. Quattro volte colorì questa tavola, ec.
Plinio l. 35 c. 10. Huic picturae quater colorem induxit subsidio injuriae, et vetustatis, ut decedente superiore inferior succederet. Come ciò possa farsi, mi rimetto a’ Professori. Pare che Plinio intenda, che Protogene in un certo modo facesse quattro volte questa pittura l’una sopra l’altra, e che consumata l’una, l’altra venisse a scoprirsi. E se tale è il sentimento di Plinio, m’arrisico a dire che questo non si può fare. Credo bene, che Protogene volendo dare un buonissimo corpo di colori a quest’opera, nell’abbozzarla e nel finirla, la ripassasse e sopra vi tornasse sino a quattro volte sempre migliorandola, e più morbida riducendola, come se proprio di nuovo la dipignesse. E questo è certissimo che molto giova alle pitture per conservarsi fresche, e vivaci.
VII. Fu sempre in dubbio, e si disputa ancora quel che fusse rappresentato in Gialiso.
Tutti gli antichi, i quali parlano di questa pittura, non dicono tanto che basti per chiarir questa difficultà. Da Suida solamente si cava che il Gialiso, esser potesse una figura di Bacco, affermando che Protogene secondo le storie dipinse il Dionigi di Rodi, quell’opera maravigliosa, la quale anche Demetrio Espugnatore sommamente ammirò quando per due anni continui assediò Rodi con mille navi, e con cinquantacinque mila soldati. E perchè ciò si racconta pur del Gialiso, si deduce che il Gialiso, e’l Bacco fossero la medesima cosa. A questo parere tanto, o quanto aderisce il Corrado sopra il Bruto di Cicerone a 128. Tocca anche questa tra l’altre opinioni Marcantonio Maioraggio sopra l’Oratore di Cicerone a 11. ma però stima la migliore, e la più sensata quella di chi reputa, che il Gialiso di Protogene rappresentasse una delle tre contrade, o città di Rodi. E tal concetto pare a me che avesse anche Ermolao Barbaro sopra Plinio l.35 cap. 10. Io non volio in questo luogo rinvenire la vera genealogia dell’Eroe Gialiso, ne meno la denominazione della città, che da esso ebbe l’origine, e’ l nome, per farlo una volta con più agio, e con più maturo consiglio. Basti per ora leggere quanto diffusamente ne scrissero Bernardo Martini l. 4 c. 20 delle Var. Lez. e Lelio Bisciola l. 3 c. 13 dell’Ore Sussecive, i quali di proposito esaminarono quel che veramente fosse figurato per lo Gialiso. L’ultimo di questi tiene che in essa tavola fosse rappresentata la città di tal nome con diverse altre cose; il primo pure la città, ma sotto sembianza d’un bellissimo giovane; dalla quale opinione io non sarei lontano, benchè per avventura più mi piacesse, come piacque eziandio al Dalecampio, che in quel giovane fosse espresso l’Eroe Gialiso, per detto di Pindaro, di Cicerone, di Diodoro, d’Arnobio, e d’altri descendente del Sole. Questo mi muove, anzi mi sforza a credere il non sapere immaginarmi artificio maggiore nella pittura, che il ben delineare figura umana. E tale mi persuado che fosse quanto in quella tavola dipinse Protogene, accennato da Plinio con quelle parole, quem cum pingeret, e dichiarato da Gellio con quell’altre, memoratissima illa imago Ialysi; la quale immagine fù sempre da Cicerone accoppiata con la Venere d’Apelle, come abbiamo visto nella V. Postilla di questa Vita. Onde a me parebbe sproposito il paragonare le fabbriche d’una città ben dipinte, alle fattezze gentilmente delineate d’una bellissima femmina, e molto ragionevole il mettere di rincontro alla figura d’un leggiadro garzone la pittura d’una vaga donzella. E anche da avvertire l’errore del Martini, il quale a confermazione di cosa a mio giudicio verissima porto per ultimo una falsissima conghiettura, quand’egli disse. Denique meam illam de Protogenis Ialyso opinionem penitus firmat πέριηγήσεως Dionysii commentator, et interpres Eustathius, qui de Rhodo agens, de colosso ingenti, de que rebus aliis insignioribus, quae ibi visebantur, addit, ἐκεῖ, δὲ καὶ ὁ καλὸς πέρδιξ ἦ τὸ τοῦ πρωτογένους ὑμνούμενον ἔργον. Ubi πέρδιξ, opinor, sumi debet pro delicatulo, et formosulo puello. Ma donde cav’ egli per vita sua che ὁ καλὸς πέρδιξ significhi mai un delicato e bel giovanetto ?
[[4:suite : Protogène Satyre]]
Dans :Protogène, L’Ialysos (la bave du chien faite par hasard)(Lien)
, "Vita di Apelle", p. 94-95
[[1:XXV.]] Bellissimo è il caso, che gli[[5: Apelle]] avvenne in delineare un’altro destriero, e ciò si racconta pur di Nealce. Erasi egli messo in testa di figurare un corsiere, che tornasse appunto dalla battaglia. Fecelo adunque alto di testa, e surto di collo, con orecchi tesi, occhi ardenti, e vivaci, narici gonfie, e fumanti, e come se proprio uscisse di zuffa ritenente nel sembiante il furore conceputo nel corso. Parea che battendo ad ogni momento le zampe si divorasse il terreno, e incapace di fermezza sempre balzasse appena toccando il suolo. Raffrenavalo il cavaliere, e reprimeva quell’impeto guerriero tenendo salde le briglie. Era ormai condotta l’immagine con tutti i requisiti, sicchè sembrava spirante. Null’altro mancavale, che quella spuma, la quale mischiata col sangue per l’agitazione del morso, e per la fatica suole abbondar nella bocca a’ destrieri, e gonfiandosi per l’anelito dalla varietà de’ restessi prende vari colori. Più d’una volta, e con ogni sforzo, ed applicazione tentò di rappresentarla al naturale, e non appagato cancellò la pittura tornando a rifarla, ma tutto indarno; onde sopraffatto dalla collora, come se guastar lo volesse, avventò nel quadro la spugna, di cui si serviva a nettare i pennelli tutta instrisa di diverse colori; la quale andando a sorte a percuotere intorno al morso lasciovvi impressa la schiuma sanguigna, e bollente similissima al vero. Rallegrossi Apelle, e gradì l’insolito beneficio della fortuna, dalla quale ottene quanto gli fu negato dall’arte, essendo in questo fatto superata dal caso la diligenza. Talmentechè alla mano di lui puossi adattar quel verso fatto per la destra di Scevola [[1:Causs. l. 12. 40. S. Simbol. Marz. l. 1. ep. 22]] Ell’avea fatto men se non errava.
Dans :Protogène, L’Ialysos (la bave du chien faite par hasard)(Lien)
, « Postille alla Vita d’Apelle », p. 141
XXV. Bellissimo è il caso, che gli avvenne in delineare un’altro destriero, ec.
Raccontano questo caso della spugna come seguito ad Apelle Dione Grisostomo Oraz. 64. Della Fortuna a 590. E Sest. Emp. l. 1 c. 12. dell’ipotesi Pirronie. Il medesimo, ma senza nominar l’artefice, narrano Plutarco d. Fortuna a 99. E Valer. Mass. l. 8 c. 11 n. 7. Plinio l. 35 c. 10 dice, che ciò avvenne a Nealce nel figurare parimente un cavallo, e a Protogene nel dipignere un cane.
Dans :Protogène, L’Ialysos (la bave du chien faite par hasard)(Lien)
, « Postille alla vita d’Apelle », p. 129
Ne doveva Apelle far si gran conto dell’inganno de’ cavalli, cosa molto più facile, che l’ingannare gli uomini; come non fece molta stima Protogene, della pernice dipinta nella tavola famosa del Satiro, la quale veggendo le pernici addomesticate pigolavano, e la cancellò, perché s’accorse che il volto stima più queste bagatelle, che la sustanza dell’arte. Strabone l. 14. a 652.
Dans :Protogène, Satyre et parergia(Lien)
, « Postille alla vita di Protogene », p. 157-158
[[4:suit Protogène Ialysos]] La tavola ch’egli allora faceva ebbe questa fama, che Protogene sotto la spada la dipignesse. Questa fu il Satiro detto per soprannome il Riposantesi, che per maggiormente mostrare la sicurezza di quel tempo teneva in mano gli zufoli. [[1:Strabone l. 14]] Questo è sicuramente quel satiro, che altri scrissero vedersi in Rodi appoggiato alla colonna sopra cui era posata una pernice. Essendo questa tavola messa fuori di fresco, piacque tanto all’universale la pernice, che il Satiro, ancorchè molto studiato ne scapitava. Accrebbero la maraviglia le pernici addomesticate portatevi dagli uccellatori, perchè postele a dirimpetto elle pigolavano verso la dipinta dando spasso alla brigata. Il perchè Protogene accorgensodi, che l’opera principale retava addietro alla giunta, con averne prima ottenuta facoltà da’ superiori del tempio, venne, e cassò quell’ uccello.
Dans :Protogène, Satyre et parergia(Lien)
, « Postille alla vita di Protogene », p. 170
[[4:suit Protogène Ialysos]] Dice Eustatio che, fra l’altre cose celebri in Rodi eravi la pernice di Protogene così ben lavorata che si contrapponeva al Colosso. E questa è quella pernice, di cui parla Strabone nel l. 14 a 652. e da lui il Rodig. l. 29 c. 26. dove il geografo dopo aver mentovato il Gialiso fa menzione del Satiro appoggiato, o vicino ad una colonna, sopra la quale era la pernice, di cui nella Vita di Protogene abbiamo parlato a sufficienza. E ben vero che in leggere il luogo di Strabone averei desiderato maggiore attenzione nel Bisciola, ponendo egli il Satiro sopra la colonna, dov’era veramente la pernice, e non il Satiro. E ciò sia detto per avvertimento a’ lettori, non per censura.
Dans :Protogène, Satyre et parergia(Lien)
, p. 5-6
[[4:suit Zeuxis et Parrhasios]] […] essendo certo che Zeusi era anzi ambizioso, ed altiero, che modesto, ed umile; come l’averebbe dimostrato la sua schietta confessione. E che ciò sia vero cen’assicura l’elogio, ch’egli fece di se stesso in quei versi [[1:Aristid. d. Ris. Sprop. a 552]]
E la mia patria Eraclea, e Zeusi ho nome:
Chi si tien giunto di nostr’arte al colmo
Mostrandol vinca; io non sarò secondo.
Ne sia chi lo difenda con dire, che altri per avventura fu che gli pose quell’inscrizione; perchè ne egli la ricusò come troppo gonfia, ne comandò ad alcuno de’ suoi scolari dopo ch’ella fu scritta il darle d’intonaco. Non fu meno fastosa quell’altra ch’egli scrisse sotto all’Elena fatta in Crotone, di cui parlerassi a suo luogo, ne quella ch’egli fece alla figura d’un athleta, del quale tanto si compiaceva, ch’e vi scrisse quel verso per lui farto notissimo [[1:Plin. 35. 9]]:
Fia chi l’invidi più, che chi l’imiti. [[1:VII.]]
Dans :Zeuxis, l’Athlète(Lien)
, "Postille alla Vita di Zeusi", p. 22-23
VII. Fia chi l’invidii più, che chi l’imiti. Plin. l. 35. 9. Adeoque sibi in illo placuit ut versum subscriberet, celebrem ex eo, Invisurum aliquem facilius quam imitaturum. L’Adriani tradusse. Troverassi chi l’invidi sì, ma ch’il rassembri nò. Plutarco della Gloria degli Ateniesi lo porta come soscritto all’Opere d’Apollodoro Ateniese; in questa maniera. Μωμήσεταί τις μᾶλλον ἢ μιμήσεται. Altr’anzi biasmerà, che imiterà. Ma questo verso è molto difficile a tradursi col medesimo spirito, che ha nel Greco idioma per la simiglianza de’due verbi significanti biasimare, e imitare.
Dans :Zeuxis, l’Athlète(Lien)
, p. 12-13
Gloriandosi Agatarche in presenza di esso di dipignere con gran facilità, e prestezza, diss’egli; e io adagio: accennando per avventura che la facilità, e la prestezza non arrecano all’opere lunga durata, o perfezione, ma che il tempo congiunto con la fatica le rende eterne. [[1:Plutarc. d. molt. d. amic. 94]] E che questo fosse il suo concetto si scorge chiaro da quanto egli rispose a coloro i quali lo biasimavano, perché egli dipignesse adagio. Confessò egli di consumare assai tempo in dipignere, perché voleva che assai tempo durassero le sue pitture. Non è però che quantunque questo artefice dipignesse con diligenza, che l’opere fossero condotte a stento, poiché vien riferito [[1:Suidas in Jacobus]] ch’e’ lavorava di vena, ed era nelle invenzioni spiritoso e bizzarro al più alto segno.
Dans :Zeuxis et Agatharcos(Lien)
, p. 4-5
Ma frà quest’ultimo[[5:Parrasio.]] e lui in particolare fu tanta emulazione, che si venne al cimento. [[1:Plin. 35. 10]] Dipinse Zeusi così felicemente alcuni grappoli d’uva che gli uccelli ad essi volarono per mangiarne. A quest’uva dipinta pare che alludesse quel greco poeta in quei versi, « da’ colori ingannato/ Quasi la mano a prender l’uva io stesi » [[1:Antol. L. 4. c. 4. ep. 23.]] [[1:Plin. 35. 10]] Portò all’incontro Parrasio una tavola sopra cui era dipinta una tela così al vivo, che gonfiandosi Zeusi per lo giudicio degli uccelli, fece instanza a Parrasio, che rimossa la tela mostrasse la sua pittura. Avvedutosi dell’errore, e vergognatosi cedè liberamente la palma, perchè se egli aveva ingannato gli uvvelli, Parrasio aveva ingannato l’artefice. Dicesi in oltre ch’egli dipinse un fanciullo, il quale avena in mano dell’uva, e che ad essa pure volando gli uccelli, con la medesima ingenuità s’adirò con l’opera, e disse. Io ho fatto meglio l’uva, che il fanciullo, perchè se io l’avessi ridotto a perfezione gli uccelli ne dovevano aver paura. Altri scrivono [[1:Sen. Contr. l. 5. 5.]], che non egli, ma uno degli spettatori, disse: che gli uccelli stimavan poco buona la tavola, perchè non vi si sarebbero gettati, se il fanciullo fosse stato simile al vero; e che Zeusi cancellò l’uva serbando quel ch’era meglio nel quadro, non quel ch’era più simigliante. Io per me inclino più volontieri al secondo racconto, essendo certo che Zeusi era anzi ambizioso, ed altiero, che modesto ed umile; come l’averebbe dimostrato la sua schietta confessione. [[4:suite: Zeuxis orgueil]]
Dans :Zeuxis et Parrhasios : les raisins et le rideau(Lien)
, p. 11
[[1:Plin. 35. 9.]] [[2:XV]] Non meno maravigliosa fu la Penelope del medesimo artefice, in cui pareva proprio ch’egli avesse dipinto i costumi: perchè in lei risplendea la modestia non meno che la bellezza. Ond’io non so rinvenirmi per qual cagione Aristotile negasse a Zeusi così dovuta prerogativa, cioè l’espressione de’ costumi.
Dans :Zeuxis et Polygnote : action et caractères(Lien)
, « Postille alla vita di Zeusi », p. 30-31
XV. In cui pareva proprio ch’egli avesse dipinto i costumi.
Plin. l. 35. c. 9. Fecit et Penelopen, in qua pinxisse mores videtur. Ritengo questa lezione nonostante che Ermolaeo Barbaro nelle Castig. Pliniane affermi non esser ben detto, mores pingere, e che quello che i Greci dissero ἤθη si debba anzi esplicare per la voce sensus. Fondato forse sopra quel che disse Plin. L. 35. 10 dove parla d’Aristide. Is omnium primus animum pinxit, et sensus omnes expressit, quos vocant Graeci ethe: item perturbationes etc. Ma qui Plinio intese de’ moti e delle passioni dell’animo, e non de’ costumi semplicemente, come pare ch’e’ voglia dire quando ci figura la Penelope di Zeusi, nel cui volto risplendeano i costumi e le doti interne dell’animo. Onde il nostro Adriani nel tradur queste parole si allargò dichiarando il sentimento di Plinio. Dipinse (dic’egli) una Penelope, nella quale, oltre alla forma bellissima si conoscevano ancora la pudicizia, la pazienza, e altri bei costumi che in onesta donna si ricercano. E tanto veramente cred’io che vaglia mores pingere; o vero mores effingere usato da Marziale l. 10. ep. 32.
Ars utinam mores, animumque effingeret posset,
Pulchrior in terris nulla tabella foret.
Né mi potrò mai indurre a leggere in Plinio col Barbaro. In qua pinxisse amores videtur. Seguitando l’opinione di coloro, che affermano Penelope essere stata impudica. Prima perchè io non trovo questa lezione, la quale egli chiama antica in alcuno, o MS. o stampato, cominciando da quello di Parma del 1480. In secondo luogo considero che se noi esamineremo bene le parole : fecit et Penelopen in qua pinxisse amores videtur. In che maniera figurò Zeusi Penelope, talmente che apparisse aver egli in essa dipinti gli amori ? Se si prende Penelope per l’opera, nella quale ella si vedesse amoreggiare co’ proci, perchè si dice pinxisse videtur, se realmente vi erano dipinti gli amoreggiamenti ? E poi che pregio della pittura era il far vedere questo particolare ? Ben era cosa mirabile lo scorgere, e gli affetti, e i costumi e le virtù di quella gran dama, che fu esemplo alle donne di tutta la posterità. Onde Filostrato il Giovane nel proemio alle sue Immagini esorta i professori della pittura a ben intendere la natura dell’uomo per abilitarsi ad esprimere vivamente ἠθῶν σύμβολα. Cioè, i contrassegni de’ costumi, e delle passioni anche di coloro, che si tacciono. Ma di questo più esattamente nella Vita di Polignoto e nel Trattato della Pittura antica, dove si parlerà dell’espressione de’ costumi e degli affetti. Veggasi per ora quel che dottamente osserva Franc. Giug. in diversi luoghi dell’Opera sua, e spezialmente l. 3 c. 4.
Dans :Zeuxis et Polygnote : action et caractères(Lien)
, p. 6-8
[[1:XI.]] [[1:Cic. L. 2 d. Invenz. in princ. Dionis. Alic. Giud. d. Scrit. Gr. Proem.]] Mossi da si gran fama di questo artefice, che in quell’età avanzava ogn’altro di valore, e di stima, i Crotoniati per la gran copia d’ogni bene reputati i più felici popoli dell’Italia lo chiamarono con largo stipendio ad abbellire con le sue insigni pitture il tempio di Giunone Lacinia da loro tenuta in somma venerazione. Fece adunque Zeusi in detto luogo buon numero di tavole, alcune delle quali vi si conservarono assai, stante la devozione, e il rispetto del tempio. Ma desiderando di farne una che rappresentasse la più perfetta idea della beltà feminile si dichiarò di voler dipignere un’Elena. Volentieri ascoltaron questo i Crotoniati, che ben sapevano quant’egli sopra tutti fosse prode in dipigner femmine; e si diedero a credere che facendo egli uno sforzo in quello, in che egli valeva molto, averebbe lasciata in quel tempio un’opera segnalatissima. Ne s’ingannarono; posciachè Zeusi tosto domandò loro, come avessero belle fanciulle: ed essi conducendolo incontanente alla palestra mostrarongli molti giovanetti dotati di gran bellezza. Conciosiacosachè i Crotoniati in que’ tempi trapassavano tutti nella dispostezza, e avvenenza della persona, e nella robustezza del corpo, onde con molta gloria riportarono alle case loro onoratissime vittorie da’ giuochi più celebri dalla Grecia. Maravigliandosi fortemente Zeusi per la vaghezza de’giovanetti, abbiamo (soggiunsero i Crotoniati) altrettante fanciulle loro sorelle, quanto leggiadre, fa tuo conto dalla bellezza di questi. Datemi adunque (diss’egli) le più belle mentre io vi dipingo la figura promessa, acciocchè io transporti quel più ch’io potrò di vero dall’esemplo animato nell’imagine muta. Allora i Crotoniati condussero per consenso pubblico le fanciulle in un tal luogo, e diedero facoltà d’accommodarsi al pittore. Cinque ne trascelse, i nomi delle quali furon celebri presso i poeti, per esser’ elleno state approvate dal giudicio di colui, che di buona ragione doveva avere un’ ottimo gusto della bellezza. Non pensò pertanto Zeusi di poter trovare in un corpo solo quanto gli abbisognava per la venustà da lui ricercata; imperciocchè la natura non fa mai un suggetto solo in tutto, e per tutto, perfetto, e come se non le restasse che donare agli altri, s’ella a uno desse ogni cosa, a tutti dona del bene con qualche giunta di male. Sciegliendo adunque da tutte quelle donzelle quanto esse aveano di perfetto, e di vago, ne formò con la mano quella bellezza ch’egli s’andava immaginando col pensiero, superiore ad ogni eccezione, e libera da qualsivoglia difetto. Onde cantò il grand’Epico di Ferrara in celebrando la bellissima Olimpia [[1:Ariost. Fur. c. 11 st. 71]]
E se fosse costei stata a Crotone
Quando Zeusi l’immagine far volse,
Che por dovea nel tempio di Giunone,
E tante belle nude insieme accolse;
E che per farne una in perfezione,
Da chi una parte, e da chi un’altra tolse,
Non avea da torr’ altra che costei,
Che tutte le bellezze erano in lei.
[[1:Val. Mass. l. 3 c 7. 3. Aristid. T. 3 a 552]]. Dopo aver terminata quest’ opera conoscendone l’eccellenza, non aspettò che gli uomini ne giudicassero, ma tosto v’oppose que’ versi d’Omero [[1:Iliad. l. 3 v. 156.]]
Degno ben fù che i Frigi, e i forti Achivi
Soffrirer per tal donna un lungo affanno.
Volto ha simile all’immortali Dee.
Tanto arrogò alla sua mano questo artefice, ch’egli si stimò d’esser giunto a comprendere in quella figura quanto Leda potè partorire nella sua gravidanza celeste, e Omero esprimere col suo ingegno divino. [[1:XII.]] Egli è di più da sapere, che da quest’ opera Zeusi cavò molti denari, perchè oltre al prezzo, che da’ Crotoniati gli fu sborsato, prima d’esporla in pubblico non ammetteva così ognuno a vederla, ne senza qualche mercede. Che però facendo egli (come si dice) bottega sopra questa pittura, i Greci di que’tempi la chiamarono, Elena meretrice. [[1:XIII.]] Nicomaco pittore veggendola restò sbalordito per lo stupore: accostossegli un certo goffo, e interrogollo perchè ne facesse tanti miracoli. Non me ne domanderesti, diss’egli, se tu avessi i miei occhi: pigliali, e parratti una dea.
Dans :Zeuxis, Hélène et les cinq vierges de Crotone(Lien)
, « Postille alla vita di Zeusi », p. 28-30
XI. Mossi da sì gran fama i Crotoniati.
Cicer. nel princ. del l. 2 dell’Invenzione racconta ciò lungamente. Conferma il medesimo Dionigi Alicarn. nella Censura degli Scrittori Greci più singolari, ma brevemente. Diversifica Plinio nel nome de’popoli l. 35 c. 9. Alioquin tantus diligentia, ut Agrigentinis facturus tabulam, quam in templo Iunonis Laciniae publicè dicarent, inspexerit virgines eorum nudas, et quinque elegerit, ut quod in quaque laudatissimum esset, pictura redderet. Gio: Battista Adriani, che sempre seguita Plinio, accostandosi a Cicerone, accortamente in questo luogo l’abbandonò, perchè in verità, o egli errò gravemente, o pure il testo è scorretto. Agrigento, o Gergento è città di Sicilia, e il tempio di Giunone Lacinia era in Calavria poco lontano da Crotone. Del che veggasi il dottissimo Cluverio nel l. 4 dell’Ital. Ant. a f. 1309. alle molte autorità portate del quale aggiungasi Strab. l. 6. a 261, e 262. Furon seguaci di Plinio Lodov. di Mongioioso nel tratt. d. Pittura a 146. e il Volterrano nel l. 19. dell’Antrop. e vi aggiunse di suo, che Zeusi dovea fare per gli Agrigentini una Venere, e non un’Elena. E in questo secondo fallo ebbe compagni Giulio Cesare Buleng. l. 2. c. 13. della Pitt. e Statuar. e M. Gio: della Casa nel Galateo. E per avventura (dic’egli) che quel dipintore, che ebbe ignude dinanzi a se le fanciulle calabresi, niuna altra cosa fece, che riconoscere in molte i membri che elle aveano quasi accattato, chi uno, e chi un’altro da una sola: alla quale fatto restituire da ciascuna il suo, lei si pose a ritrarre, imaginando che tale e così unita dovesse essere la bellezza di Venere. Seguitò parimente ed accrebbe l’error di Plinio il celebre Giusto Lipsio scrivendo nel l. I. c. I. degli Avvertimenti politici, che Zeusi fece agli Agrigentini l’effigie di Giunone: Ita sicut Zeuxis ille pictor olim, Junonem effigiaturus, virgines Agrigentinorum pulcherrimas conduxit, et è singulis aptavit quod praestantissimum in unaquaque esset; ita, inquam, pinceps et politici viri, ab exemplis, factisque illustribus potentiam (ea Iuno est) et prudentiam suam forment. Ne gli sovvenne d’avere scritto l. 3 c. 4. Var. lez. Quod Zeusim illum praestantem artificem in effingenda Helenae eximia pulchritudine fecisse memoriae proditum est, ut virgines omnes, quarum excellens formae dignitas esset, unum in locum conduceret, in easque intuens, uti quodque pulchrum esset, ad eius partis similitudinem, artem, et manum dirigeret: Ita videlicet etc. Dell’industria di Zeusi, e degli altri artefici in effigiare una bellezza perfetta da molti oggetti, veggasi per ora Francesco Giugni l. I. c. I. della Pittur. degli Ant. e leggasi attentamente Mass. Tir. discors. 7 e quanto dice Socrate a Parrasio nel l. 3 de’ Memorabili di Senofonte. Non è per ultimo da tacere, che Zeusi medesimo ritraente Elena dalle fanciulle di Crotone fu eletto per grazioso argomento di sua pittura da Domenico Beccafumi. G. Vasar. Part. 3. Vol. 2 a 374.
XII. Da quest’opera Zeusi cavò molti danari etc.
Raccontò questo Eliano Var. st. l. 4. c. 12 e da lui Poliz. Misc. c. 74. Cel. Rodig. 19. 27. E però da notare che il Volterrano nell’Antropol. l. 19. trascrivendo la stessa cosa, nominò il pittore Serse, e non Zeusi; la pittura Venere, e non Elena; come fece anche altrove.
XIII. Nicomaco pittore vedendo quest’opera etc.
Così lo chiama Plutarco nel Tratt. d’Amore presso Stobeo serm. 61. Elian d. Var. St. l. 14. c. 47 racconta il medesimo con poca diversità, ma nomina il pittore Nicostrato. Ho ritenuto più tosto Nicomaco, pittore insigne, di cui parlerassi nel Catalogo degli Artefici; dove Nicostrato l’ho udito nominare se non da Eliano, che per avventura in questo luogo potrebbe esser corrotto.
Dans :Zeuxis, Hélène et les cinq vierges de Crotone(Lien)
, p. 17
[[1:Verr. Fl. app. Festo in Pictor. V. le note.]] [[2:XX]] Aveva egli dipinto una vecchia, la quale poi attentamente riguardando rise tanto di cuore, ch’e’ si morì, come anche d’altri si legge essere adivenuto.
Dans :Zeuxis mort de rire(Lien)
, « Postille alla Vita di Zeusi », p. 40
XX. Aveva egli dipinto una vecchia. Festo Pompeo alla V. Pictor. Pictor Zeuxis dum ridet effusè pictam a se anum γραῦν. Cur hoc relatum sit a Verrio cum de significatu verborum scribere propositum habuerit, equidem non video, cum versiculos quoque addere… tulerit, et ineptos pati, sed nullius praetoris praetesto nomine, qui tamen sunt ii. Nam quid modi facturus risu denique ? Nisi pictor fieri vult, qui risu mortuus est. Sopra le quali parole molte sono le varie lezione de’MS. e particolarmente de’frammenti farnesiani, le quali veggansi nelle migliori edizioni da chi n’avesse vaghezza. Solamente osservo che lo Scalig. leva la voce anum come soverchia, e che forse fu posta per chiosa della voce greca γρανῦ che così andrebbe corretta. Leva in oltre la voce praetoris, la quale altri leggevano auctoris, o poetae, e legge. Sed nullius praetexto nomine. Trovasi questa voce in tutti gli stampati e MSS. e quel che importa negli stracci dell’antichissimo testo Farnese. Ond’io m’indurrei più tosto a correggere, che a cancellare, benchè io sia molto nemico dell’usanza moderna di emendare così arditamente per conghiettura; e direi. Nullius pictoris praetexto nomine. Perchè vero è che de’ due versi citati non si pone l’autore, ma egli è anche vero che in essi non si legge il nome del pittore che si morì per le risa. Ma lasciamo la critica, e torniamo alla storia.
Come d’altri ancora si legge essere adivenuto. Di Crisippo lo racconta Laerzio a 209. Di Filemone Val. Mass. L. 9. c. 12. Di P. Crasso Tertull. d. Anim. n. 52. Ved. M. Menag. nelle Dotiss. Osserv. a Laerz. a 200. Ant. Laurent. de Ris. l. 2. Elpid. Berrettar de Ris. c. 10.
La morte stravagante di questo artefice mi diede già occasione di comporre il presente sonetto.
Nacque piangendo, al fin ridendo muore
Chi dar vita a’ colori ebbe ardimento,
Dunque è grave cordoglio il nascimento,
E conforto la morte, e non dolore.
Ma se’l riso è mortale, e qual terrore
Porterà seco il pianto ? e qual contento,
Se gli arreca il gioir fiero tormento,
Potrà sperare in questa vita un core ?
Misero chiamerem dunque chi ride,
Fortunato chi gli occhi aperse al pianto,
Se da l’essere il pianto, e’l riso uccide.
Anzi folle direm chi si dà vanto
Di non pianger vivendo ore omicide,
Folle chi ride, ed ha la morte accanto.
Dans :Zeuxis mort de rire(Lien)
, p. 6; 23-27
Imperciocchè era egli per le molte opere divenuto si ricco, e per gli applausi talmente superbo, [[1:VIII.]] che per far mostra di sue ricchezze in Olimpia, portava nel mantello a lettere d’oro intessuto il suo nome. Giuuse finalmente a tanta presunzione, [[1:IX.]] ch’egli cominciò a donare l’opere sue, dicendo, che non v’era prezzo che le pagasse, [[1:X.]] com’egli fece d’un’Almena al Comune di Gergento, e d’un Dio Pane al Rè Archelao, da cui fu condotto in Macedonia per gran somma a dipignere il palagio Reale [[1:Elian Var. St. 24. 17]]. [[4:suite: Zeuxis Hélène]]
Postille alla vita di Zeusi, p. 23-27 :
VIII. Che per far mostra di sue ricchezze in Olimpia portasse nel mantello a lettere d’oro intessuto il suo nome. Plin. l. 35 c. 9. Opes quoque tantas acquisivit, ut in ostentatione earum Olimpiae aureis litteris in palliorum tesseris intextum nomen suum ostentarit. Questo luogo è stimato difficilissimo, e quasi che disperato da Ottavio Ferrari chiarissimo lume del Liceo Padovano, e grandissimo illustrator di Plinio e della materia vestiaria[[3:Note de G. Pelli, éd. 1806 : V. quello abbia poi scritto negli Analetti di cose vestiarie al cap 13 c. 47.]]: ond’io sarò molto degno di scusa se non mi rincuoro di spiegarlo a bastanza. Il Dalecampio e il Pinciano trovano in alcuni MSS. Insertum nomen suum ostentaret. E così parimente è nel testo a penna della Vaticana. Onde potrebbe dubitarsi se fosse da tradursi tessuto, o posto, inserito[[3:Note de G. Pelli, éd. 1806 : V. anche il Gronovio nelle note a Plin. l. 35 c. 19 a 73.]] etc. Ma la maggior difficoltà non è questa, quel che importa più per l’intelligenza di questo luogo è sapere che cosa fossero palliorum tesserae, nelle quali aveva Zeusi collocato il suo nome. Gio: Batt. Adriani nella lett. al Vasari voltò largo, e fuggì la difficultà traducendo. Per pompa a lettere d’oro nel mantello portava scritto il nome suo. Ermolaro Barbaro nel Glossario pliniano alla V. Clavatae vestes. Erant et tessellatae quaedam tunicae. E lo prova con questo luogo di Plinio senza più, che è appunto quanto il non dir cosa alcuna. Da principio dubitai che tesserae potessero essere gli spartimenti quadrati dell’opera tessuta, o ricamata d’oro. Mi passò anche per la mente che in vece di tesseris si dovesse leggere texturis. Ma ne nell’una voce, ne dell’altra in questo sentimento mi venne incontrato esemplo. E tanto più francamente rifiutai queste conghietture quando sentii che i medesimi pensieri erano venuti al Ferrari, ma non avevano ottenuta lungamente l’approvazione di quel purgatissimo ingegno; perchè essendo il pallio di lana bianca, che opera, o che tessera intessuta poteva in essa spiccare, che in un medesimo tempo mostrasse il nome di Zeusi, ed ostentasse ricchezza? In secondo luogo considerai se queste tesserae fossero quadretti d’oro sodo, che servissero anche di fibbie, nel qual caso tornerebbe meglio insertum. Ma il medesimo Ferrari, da me richiesto del suo parere, mi avverte in una sua cortesissima lettera d’aver fatto vedere nella dottissima opera sua, che nel pallio comune non erano fibbie, ne frange, ne lembi, ne veruno altro ornamento. Al che riverentemente replicherei, che ciò era verissimo del pallio comune; ma parlandosi d’un pittore capriccioso, può verisimilmente sospettarsi che per bizzarria uscisse dell’uso facendo pallii colorati, a opera ricca d’oro, come pure con fibbie e ornamenti straordinari; ma non però l’affermerei.
Valerio Chimentelli mio amico singolarissimo, e professore eruditissimo dell’eloquenza, e della politica nell’Accademia pisana, mi suggerì un luogo assai bello d’Apuleio l. 6. delle Metam. per prova, che nell’estremità delle vesti si scrivessero i nomi a lettere d’oro secondo l’occorrenze. Videt dona speciosa, et lacinias auro literatas, ramis arborum postibusque suffixas: quae cum gratia facti nomen Deae, cui fuerant dicata testabantur. E di più mi pose in considerazione, che essendo il pallio secondo alcuni veste quadrata, aveva forse Zeusi negli angoli di esso in alcuni spazii riquadrati, perciò da Plinio chiamati tesserae, a lettere d’oro scritto il suo nome. Ma essendo ciò fatto da lui per ostentazione di ricchezza torno a dubitare, se il nome di Zeusi si leggesse per tutto il pallio, o pure in qualche luogo conspicuo. Non voglio qui lasciare di far memoria di Castruccio, di cui disse il nostro Villani l. 10. c. 60. Essendo Castruccio in Roma col Bavero in tanta gloria e trionfo, come detto avemo d’esser fatto Cavaliere a tanto onore, e confermato Duca, e fatto Conte di Palazzo, e Senatore di Roma; e più che al tutto era Signore, e Maestro nella corte del detto Imperadore, e più era temuto e ubbidito che’l Bavero; per leggiadria e grandigia fece una roba di sciamito cremesì, e dinanzi al petto con lettere d’oro che diceano: EGLI È QUELLO, CHE DIO VUOLE, e ne nelle spalle di dietro simile: E’ SI SARA’ QUELLO, CHE DIO VORRA’. Il qual fatto fu notato da Monsignor della Casa nel Galateo per cosa di poco decoro in un principe con queste parole: Questa roba credo io, che tu stesso conosca, che si sarebbe più confatta al trombetto di Castruccio, ch’ella non si confece a lui.
Mentre appunto questa mia opera stà per entrare sotto il torcolo, Francesco Redi Gentiluomo aretino mio strettissimo amico, non meno per le sottili e curiose Osservazioni naturali, che per la elegante, e varia letteratura degno d’ammirazione, mi suggerisce un luogo di Ricordano Malespini da non passarsi senza qualche riflessione. E passavano (dice egli al cap. 161) la maggior parte d’una gonnella stretta, e di grosso iscarlattino di proino, e di camo, e cinte d’uno ischeggiale all’antica, e uno mantello foderato di vaio col tassello di sopra etc. Dove l’Accademia della Crusca. Tassello quel pezzo di panno attaccato di fuora sotto’l bavero del mantello, foggia rimasa oggi a’ contadini. Se Tassello derivi da tessella, o da taxillus, si vedrà nell’Origini della Lingua Toscana di già compilate in grandissimo numero per pubblicarsi da diversi accademici. In qualunque modo ciò sia tassello vale pezzo quadrato, o che tiri a detta figura di qualunque materia. E tale per avventura doveva essere il tassello, che ponevano i nostri vecchi sopra il mantello. Onde non sarebbe strano concetto il dubitare se il medesimo, o simile portassero gli antichi Greci nel pallio, e che in questi tasselli, o tessere portasse Zeusi tessuto, o ricamato il suo nome. E tutto ciò sia detto per giunta. E per tornare, come si dice, un passo a dietro; che il nome di Zeusi potesse esser tessuto, lo provano tre epigrammi d’Ausonio fatti per una illustre tessitrice e poetessa della Sabina, la quale tessendo scriveva i suoi versi.
De Sabina textrice, et carmina faciente.
Sive probas Tyrio textam sub tegmine vestem,
Seu placet inscripti commoditas tituli.
Ipsius hoc dominae concinnat utrumque venustas,
Has geminas artes una Sabina colit.
Versus in veste contexti de eadem Sabina.
Laudet Achemenias Orientis gloria telas,
Molle aurum palliis Graecia texe tuis.
Non minus Ausoniam celebret dum fama Sabinam
Parcentem magnis sumptibus arte parem.
De eadem Sabina.
Licia qui texunt, et carmina, carmina Musis,
Licia contribuunt, casta Minerva, tibi.
Ast ego rem sociam non dissociabo Sabina,
Versibus inscripsi, quae mea texta meis.
In questo proposito è anche da vedere quanto scrive Ermanno Ugone nel suo eruditissimo libretto De prima scribendi origine al cap. 12. fac. 105. De bysso (dic’egli) omnicolore, aliùsve generis licio, mentio est apud diversos. Martial l. 9. ep. 14.
Nomen Acidalia meruit quod arundine pingi,
Quod Cytherea sua scribere gaudet acu.
Auson. Epigr. 91.
Hermiones zonae textum ἐλεγεῖον erat
Qui legis hunc titulum, Paphie tibi mandat ames me,
Exemploque tuo neminem amare vetes.
Item epigr. 37. ad Sabinam.
Versibus inscripsi quae mea texta meis.
Boet. l. 1 d. Consol. Philosoph.
Harum vestium in extremo margine Π in supremo vero Θ, legebatur intextum. Ovid. l. 6 Metamorphos. de Philomela, quae Terei corruptoris sui nomen (cum ab eo lingua sibi esset exsecta) liciis intexuit, misitque ad Prognen Sororem. Plinius denique l. 13 c. 10 vers. ult. Nuper circa Babylonem in Euphrate nasci papyrum intellectum est, et eumdem usum habere chartae; et tamen adhuc malunt parthi vestibus literas intexere. Tanto Ermanno Ugone[[3:Note de G. Pelli, éd. 1806 : Osserva il luogo di Plinio, perché ancor io l’ho notato, e non intendo come s’attacchi il discorso del Papiro col costume de’parti d’intesser lettere nelle vesti dichiarato, credo ben che faccia assai a proposito per l\'altro luogo di Plinio, che qui s’illustra e si pondera.]].
Per ultimo corollario a questa lunga postilla, l’ambizione di Zeusi mi fa sovvenire di Dello pittore fiorentino, il quale avendo acquistate grandissime facoltà al servizio del Re di Spagna, volle tornare a farne mostra alla patria, dove ricevuto, e trattato come Cavaliere (che tale era stato fatto dal suo Signore) vi entrò a cavallo con le bandiere, vestito tutto di brocato; onde dagli amici suoi che l’aveano conosciuto in bassa fortuna, ne fu in passando deriso, e proverbiato. Giorgio Vasari, Vite de’ pittori, part. 2. a 258.
IX. Cominciò a donare l’opere sue, dicendo, che non v’era prezzo, che le pagasse.
Plin. l. 35. 9. Postea donare opera sua instituit, quod ea nullo satis digno pretio permutari posse diceret. A questo arriva la superbia degli uomini. Pleraque hoc ipso possint videri vilia quod pretium habent. Quint. 12. 7. Il medesimo che Zeusi fece d’una sua tavola Nicia pittore Ateniese.
Plin. l. 35. c. 11. Hanc vendere noluit Attalo regi talentis LX. potiusque patriae suae donavit abundans opibus.
Ma di tali donativi fatti per ambizione tratterà ampiamente nella sua eruditissima opera de’Doni degli antichi Valerio Chimentelli poco fà mentovato. Anche Polignoto dipinse gratis nel Pecile d’Atene, come nella Vita di esso diffusamente.
X. Un Almena al Comune di Gergento. Plin. l. 35. c. 9. Sicuti Alcmenam Agrigentinis, Pana Archelao. L’Adriani scambiò, e pose in vece d’Almena Atalanta contro a tutti i MSS. e stampati. Qui non voglio così per passaggio lasciar di dire, che dove poco appresso si legge comunemente. Fecit, et Penelopem, in qua pinxisse mores videtur, et Athletam. Nel MS. Vatic. in cambio d’Athletam, si trova Atalantam. Della quale lezione si leggesse altrove, che Zeusi avesse dipinto Atalanta. Ma per un solo MS. non è da muovere cosa veruna.
Dans :Zeuxis et la richesse(Lien)