xxv del Purgatorio : « …………………al bosco « Si tenne Diana, ed Elice caccionne « Che di Venere avea sentito il tosco. » E nominò anche Elice la stessa costellazione dell’Orsa nel C. xxxi del Paradiso : « Se i Barbari venendo da tal plaga, « Che ciascun giorno d’Elice si cuopra, « Rotante col suo figlio ond’ella è vaga ; » ecc. […] Quindi alcuni mitologi e poeti preferirono di sostituire ad Ecate la Dea Proserpina moglie di Plutone e regina dell’Inferno ; e lo stesso Dante seguì tale opinione ; poichè nel farsi predire da Farinata degli Uberti (nel C. x dell’Inferno) il suo esilio, e indicarne l’epoca fra circa 50 mesi lunari, esprime queste idee con frasi mitologiche nel modo seguente : « Ma non cinquanta volte fia raccesa « La faccia della Donna che qui regge « Che tu saprai quanto quell’arte pesa ; » ove apparisce manifestamente che l’ufficio di Proserpina e non di Ecate è accomunato da Dante con quel della Luna144. […] iv dell’ Eneide : « Tergeminamque Hecaten, tria virginis ora Dianæ. » E l’Ariosto nell’ Orlando Furioso, Canto XVIII : « O santa Dea, che dagli antichi nostri « Debitamente sei detta Triforme : « Che in cielo, in terra e nell’ inferno mostri « L’alta bellezza tua sotto più forme. » 136. […] Dante una sola volta nella Divina Commedia dà il nome di Trivia alla Luna : « Quale ne’plenilunii sereni « Trivia ride tra le ninfe eterne « Che dipingono il ciel per tutti i seni, ecc.
Gli Oracoli e tutti gli altri modi di divinazione preindicati erano altrettante solenni imposture del Politeismo, e sì abilmente organizzate da allucinare per molti secoli non solo i popoli rozzi e barbari, ma quelli ancora « ………..che fenno « L’antiche leggi e furon sì civili. » Che fossero un’impostura dei sacerdoti pagani non credo che sia d’uopo dimostrarlo ai tempi nostri, tanti secoli dopo che furon riconosciuti falsi e bugiardi gli stessi Dei a cui quegli oracoli erano attribuiti. […] Che mi va dunque fantasticando Plutarco nel suo trattato sulla Deficienza degli Oracoli coll’attribuire alla morte di alcuni Dèmoni o Genii che vi presiedevano la cessazione di alcuni oracoli, che derivò soltanto dal discredito in cui eran caduti ? […] Che i più celebri Oracoli abbiano avuto origine nei tempi preistorici è asserito non solo dai mitologi, ma da tutti i più antichi scrittori. […] Che più ? […] « Che partorir letizia in su la lieta « Delfica deità dovria la fronda « Peneia, quando alcun di sè asseta. » Nella qual terzina del Canto I del Paradiso, Dante adopra due perifrasi mitologiche : Delfica deità per Apollo, e fronda Peneia per l’alloro, in cui fu cangiata Dafne figlia di Peneo.
« Nel tempo che Giunone era crucciata « Per Semelè contra ’l sangue tebano, « Come mostrò già una ed altra fiata, « Atamante divenne tanto insano, « Che veggendo la moglie co’due figli « Andar carcata da ciascuna mano « Gridò : tendiam le reti sì ch’io pigli « La lionessa e i lioncini al varco : « E poi distese i dispietati artigli « Prendendo l’un ch’avea nome Learco, « E rotollo e percosselo ad un sasso ; « E quella s’annegò con l’altro incarco »221. […] Dante volendo raccontare che egli nell’ascendere al Cielo con Beatrice si sentì trasumanato e sospinto da forza soprannaturale verso il Cielo, ed in sì breve tempo, « ….. in quanto un quadrel posa « E vola, e dalla noce si dischiava, » trovò a proposito di citar l’esempio di Glauco per offrirci qualche immagine più sensibile del suo concetto : « Nel suo aspetto (di Beatrice) tal dentro mi fei « Qual si fe Glauco nel gustar dell’erba, « Che il fe consorto in mar cogli altri Dei »223. […] « Che di vederli in me stesso m’esalto. » (Inf. […] Il Giusti attribuisce principalmente alla famiglia dei Medici la distruzione delle libertà d’Italia, dicendo che essa ordì « Una tela di cabale e d’inganni « Che fu tessuta poi per trecent’anni ; » ed eran precisamente 300, quando il Giusti così scriveva, cominciando a contare da Cosimo I. […] Perciò il Tasso fa dire da Erminia al pietoso pastore che piangeva al suo pianto : « oh fortunato, « Che un tempo conoscesti il male a prova, « Se non t’invidii il Ciel sì dolce stato, « Delle miserie mie pietà ti mova. » E quindici secoli prima, Virgilio con maggiore efficacia ed eleganza, avea posto sulle labbra di Didone quell’affettuosissimo verso : « Non ignara mali, miseris succurrere disco. » 223.
Che cosa ne anderà alle leggi che sono in vigore nel regno, se essa è udita ? […] Che sorta di male, dico, del quale il reo si allegra, l’accusa del quale si brama, la pena del quale per felicità si considera ? […] Che maraviglia, se con tanta carità da noi si fanno de’conviti ? […] Che lungo spazio di tempo non avrebbero impiegato a rinascere le scienze obliate e perdute ! […] Che prima erano idolatri.
« Eglino impetuosi e ribellanti « Tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito, « Che ne trema la terra e n’urla il monte. […] « Dodici, sei d’un sesso e sei dell’altro, « Gli nacquer figli in casa ; ed ei congiunse « Per nodo marital suore e fratelli, « Che avean degli anni il più bel fior sul volto. […] Quand’egli dice nel Canto xi dell’Inferno, « Che i Pesci guizzan su per l’orizzonta « E’l Carro tutto sovra’l Coro giace, » accenna con precisione astronomica che eran due ore prima dello spuntar del Sole in quel giorno del mese di marzo che aveva prima indicato, poichè appunto in quell’ora che egli voleva significare appariva la costellazione dei Pesci sulorizzonte, e inoltre la costellazione del Carro, ossia dell’Orsa maggiore giaceva tutta sovra’l Coro, cioè fra settentrione ed occidente, ossia presso a poco a ponente-maestro o nord-ovest, come ora direbbesi. E quando nel Canto xxxii del Purgatorio vuole affermare che i 7 celesti candelabri ardenti non li spengerebbero i più opposti e gagliardi venti, egli dice « Che son sicuri d’Aquilone e d’Austro, » nominando i venti più opposti e più procellosi.
« Riprese allor la maestosa il guardo « Veneranda Giunon : gran tempo è pure « Che da te nulla cerco e nullo chieggo, « E tu tranquillo adempi ogni tuo senno. » (Trad. del Monti.) […] xxi, 46) afferma che nell’alto di quella montagna non ascendevano gli umidi vapori della terra, nè perciò producevansi le meteore acquee, e neppur l’arcobaleno, che si forma nell’aria dopo la pioggia : « Perciò non pioggia, non grando, non neve, « Non rugiada, non brina più su cade « Che la scaletta de’ tre gradi breve ; « Nuvole spesse non paíon, nè rade, « Nè corruscar, nè figlia di Taumante, « Che di là cangia sovente contrade. » Il nome d’Iride è comunissimo nel linguaggio poetico, ed anche in quello scientifico. […] Basterà che io citi Dante che così la chiama in rima e fuor di rima, come nel seguente esempio : « Nella profonda e chiara sussistenza « Dell’alto lume parvemi tre giri « Di tre colori e di una contenenza ; « E l’un dall’altro come Iri da Iri « Parea reflesso, e il terzo parea fuoco « Che quinci e quindi egualmente si spiri. » (Parad.
Perciò Dante oltre al chiamarli Demonii e Diavoli, li chiama ancora angeli neri, come nel Canto xxiii dell’ Inferno : « Senza costringer degli angeli neri, « Che vengan d’esto fondo a dipartirci. » Nelle Belle Arti spesso i Genii dei Pagani furono rappresentati in figura d’imberbi giovanetti colle ali come Cupido, e allora potrebbero facilmente confondersi cogli Angeli dei Cristiani ; ma per altro hanno quasi sempre qualche distintivo, perchè per lo più tengono nelle mani la patera o il cornucopia. […] Al suol romano « D’Augusto i tempi e di Leon tornarno. » Il Manzoni, nel suo mirabile Cantico il Cinque Maggio, chiama Genio la sua facoltà poetica : « Lui sfolgorante in soglio « Vide il mio genio e tacque ; « Quando con vece assidua « Cadde, risorse, e giacque, « Di mille voci al sonito « Mista la sua non ha : » Il Giusti nelle sue impareggiabili poesie usa molte volte il termine Genio, e per lo più nel significato d’ingegno straordinario e inventivo, come : « E anch’io in quell’ardua immagine dell’arte « Che al genio è donna e figlia è di natura, « E in parte ha forma della madre, in parte « Di più alto esemplar rende figura ; ecc. » (A Gino Capponi, strofa ultima.) […] « Che abominevol peste, che Megera « È venuta a turbar gli umani petti ? « Che si sente il marito e la mogliera « Sempre garrir d’ingiurïosi detti ; « Stracciar la faccia e far livida e nera ; « Bagnar di pianto i geniali letti ; « E non di pianto sol, ma alcuna volta « Di sangue gli ha bagnati l’ira stolta. » 280.
Il Pignotti nella favola Il Giudice e i Pescatori dice scherzevolmente : « Ci narrano i Poeti, « Che allorquando mancò l’età dell’oro « As’ rea fuggì dalle mortali soglie, « Ma nel fuggir le caddero le spoglie ; « E si dice che sieno « Quelle vesti formali « Che adornano i Legali, « Che nelle Rote, ovver nei Parlamenti « Prendono il nome illustre « D’auditori, avvocati e presidenti. » Il seguito però e la conclusione o morale della favola dimostrano che l’abito non fa il monaco.
« Vede la donna un’altra maraviglia « Che di leggier creduta non saria ; « Vede passare un gran destriero alato « Che porta in aria un cavaliero armato. […] « Non è finto il destrier, ma naturale, « Ch’una giumenta generò d’un Grifo : « Simile al padre avea la piuma e l’ale, « Li piedi anterïori, il capo e ’l grifo ; « In tutte l’altre membra parea quale « Era la madre, e chiamasi Ippogrifo, « Che nei monti Rifei vengon, ma rari, « Molto di là dagli agghiacciati mari. » 51.
Questa favola di Mida fu raccontata dall’Alighieri nel Canto xx del Purgatorio, in quel cerchio ove son puniti gli avari : « E la miseria dell’avaro Mida « Che seguì alla sua dimanda ingorda « Per la qual sempre convien che si rida. » Ma non meno risibile divenne Mida, allorquando Apollo gli fece crescere le orecchie d’asino per aver giudicato bestialmente che all’armonia dell’apollinea cetra fosse preferibile il suono della rusticana sampogna del Dio dei pastori. […] Che la parola corna in senso figurato, tanto in latino quanto in italiano, significhi più comunemente superbia e oltracotanza, si può dedurre principalmente da Orazio, da Ovidio, dall’ Ariosto e dal Tasso. […] « Fanno i pazzi beveroni « Quei Norvegi e quei Lapponi ; « Quei Lapponi son pur tangheri, « Son pur sozzi nel lor bere : « Solamente nel vedere « Mi fariano uscir de’gangheri. » A questo Nume non piacciono neppure la cioccolata, il tè e il caffè, appunto perchè queste sostanze e bevande non fanno lega col vino, e ne diminuiscono l’uso e il consumo : « Non fia già che il cioccolatte « V’adoprassi, ovvero il tè : « Medicine così fatte « Non saran giammai per me : « Beverei prima il veleno, « Che un bicchier che fosse pieno « Dell’amaro e reo caffè. » Sempre meglio però dei vini adulterati, o sofisticati (come dicono i chimici) con litargirio, con minio o sal di Saturno, che sono veri e proprii veleni.
Senza occuparci della distinzione che fanno i canonisti della Simonia a pretio, a precibus, ab obsequio, ci contenteremo della definizione che ne dà l’Alighieri pel 1° capo, cioè per la Simonia a pretio : « O Simon Mago, o miseri seguaci, « Che le cose di Dio, che di bontate « Deono essere spose, e voi rapaci « Per oro e per argento adulterate, « Or convien che per voi suoni la tromba, « Perocchè nella terza bolgia state. » 6. […] E non bastavano per saziar quella Lupa, « Che mai non empie la bramosa voglia, « E dopo il pasto ha più fame che pria. »
Dopo aver narrato che i golosi son puniti nel Purgatorio con una fame canina resa più acuta dal vedersi dinanzi agli occhi, come Tantalo nell’ Inferno pagano, i pomi e l’acqua senza poterne gustare ; il qual tormento rendeva talmente magre e scarne quelle anime, che « Negli occhi era ciascuna oscura e cava, « Pallida nella faccia e tanto scema « Che dall’ossa la pelle s’informava, cominciò a pensare « Alla cagione ancor non manifesta « Di lor magrezza e di lor trista squama ; » e non potendo trovarla da sè, finalmente, fattosi coraggio, domandò a Virgilio : « ……Come si può far magro « Là dove l’uopo di nutrir non tocca ? » E Virgilio a lui : « Se t’ammentassi come Meleagro « Si consumò al consumar d’un tizzo « Non fora, disse, questo a te sì agro. » Ma accorgendosi Virgilio che con questo esempio pretendeva di spiegare un mistero con un altro mistero, citò ancora un fenomeno fisico : « E se pensassi come al vostro guizzo « Guizza dentro allo specchio vostra image, « Ciò che par duro ti parrebbe vizzo. » E per quanto anche il poeta Stazio, a richiesta di Virgilio, gli desse bellissime spiegazioni scientifiche sulla generazione dell’uomo, sull’unione dell’anima col corpo e lo stato di essa dopo la morte, nulladimeno non sembra che Dante rimanesse tanto convinto quanto altra volta che Virgilio gli disse : « A sofferir tormenti e caldi e geli « Simili corpi la Virtù dispone « Che come sia non vuol che a noi si sveli. » E così con esempii mitologici, cattolici e scientifici viene a far conoscere che spesso s’incontrano nelle umane cognizioni misteri inesplicabili.
« La nobile virtù Beatrice intende « Per lo libero arbitrio ; e però guarda « Che l’abbi a mente, se a parlar ten prende. » (Purg. […] Ma se non è accettabile il concetto pagano che la Fortuna sia un essere soprannaturale esistente sin dalla origine del mondo o degli angeli (tra le altre prime creature), quando però ivi si afferma che « Colui lo cui saver tutto trascende, (cioè Dio) « Ordinò general ministra e duce « Che permutasse a tempo li ben vani « Di gente in gente e d’uno in altro sangue « Oltre la difension de’ senni umani, » s’intende facilmente che con questo linguaggio poetico si vogliono significare le occulte disposizioni della Provvidenza, imprevedibili ed inevitabili dai mortali.
Ben io t’affermo « Che nè bellezza gli varrà nè forza « Nè quel divin suo scudo, che di limo « Giacerà ricoperto in qualche gorgo « Voraginoso. […] Oh foss’io morto « Sotto i colpi d’Ettorre, il più gagliardo « Che qui si crebbe !
« Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio, « Che se quello in serpente e questa in fonte « Converte poetando, io non l’invidio ; « Chè due nature mai a fronte a fronte « Non trasmutò, sì ch’ambedue le forme « A cambiar lor nature fosser pronte. » Considerando poi storicamente Cadmo, ne troviamo determinata l’epoca nella Cronologia Greca verso il 1580 avanti l’èra cristiana. […] Che il nome di Cadmea fosse dato alla fortezza di Tebe e conservato pur anco a tempo della conquista dei Romani è notizia storica confermata anche da Cornelio Nipote nelle sue Vite degli eccellenti capitani greci.
XXII Marte « Marte superbo e fero « Che i cuori indura e serra » come dice il Petrarca, era il Dio della guerra selvaggia, feroce, di esterminio. […] Anche le colonie Romane adoravano Marte come loro Dio protettore : e tra queste Firenze che non fu già tutta plasmata da « ….quell’ingrato popolo maligno « Che discese di Fiesole ab antico « E tiene ancor del monte e del macigno, » ma vi fu mista ancora « …….la sementa santa « Di quei Roman che vi rimaser, quando « Fu fatto il nido di malizia tanta. » (Inf.
Dante afferrò subito questa idea, e la espresse maravigliosamente in quella sublime terzina, che tutti sanno, o saper dovrebbero, a mente : « Non v’accorgete voi, che noi siam vermi, « Nati a formar l’angelica farfalla « Che vola alla giustizia senza schermi ? […] Infatti Dante, nel Canto xxvii del Purgatorio, assomiglia la bellezza di Lia (che nello stile biblico e religioso significa la vita attiva) a quella di Citerèa, cioè di Venere, considerata come il pianeta che ne porta il nome : « Nell’ora, credo, che dell’orïente « Prima raggiò sul monte Citerèa, « Che di fuoco d’amor par sempre ardente, « Giovane e bella in sogno mi parea « Donna vedere andar per una landa « Cogliendo fiori, e cantando dicea : « Sappia qualunque il mio nome dimanda, « Ch’io mi son Lia, e vo movendo intorno « Le belle mani a farmi una ghirlanda. » 184.
Dante invocando Apollo così gli dice : « Venir vedra’ mi al tuo diletto legno, « E coronarmi allor di quelle foglie « Che la materia e tu mi farai degno. « Si rade volte, padre, se ne coglie, « Per trionfare o Cesare o poeta, « (Colpa e vergogna delle umane voglie), « Che partorir letizia in su la lieta « Delfica deità dovria la fronda « Peneia, quando alcun di sè asseta.
E’l disse in atto sì feroce ed empio, Che parve aprir di Giano il chiuso tempio. […] Che altro mai, dice Macrobio (3), furono i giganti che una qualche empia generazione di uomini, i quali negando l’esistenza degli Dei, fecero dire che volevano discacciarli dal cielo ? […] Il sole indarno il chiaro dì vi mena, Che non vi può mai penetrar coi raggi, Sì gli è la via da’ folti rami tronca ; E quivi entra sottera una spelonca. […] In questo albergo il grave Sonno giace, L’ozio da un canto corpulento e grasso ; Dall’altro la Pigrizia in terra siede, Che non può andare, e mal si regge in piede. […] Il silenzio va intorno e fa la scorta, Ha le scarpe di feltro e ’l mantel bruno, Ed a quanti n’incontra di lontano, Che non debban venir, cenna con mano.
Che più ? […] « Argenti bifores radiabant lumine valvæ : « Materiem superabat opus. » Tutti i poeti italiani hanno imitato o tradotto quest’ultimo celebrato emistichio, presso a poco come ha fatto l’Ariosto : « Chè vinta è la materia dal lavoro. » Messer Lodovico però gareggia non pur con Ovidio, ma collo stesso Omero a costruir palagi magnifici senz’ altra spesa che di parole e d’opera d’ inchiostro e può meritamente esclamare di quello che egli fa trovare ad Astolfo nel mondo della luna, « (Che più di trenta miglia intorno aggira), « O stupenda opra, o Dedalo architetto !
Noi possiamo ritenere come certo: 1º Che quel grandioso corpo di narrazioni ed immagini onde consta la mitologia classica, non s’ è formato d’ un tratto, ma sorse a poco a poco, incominciando da poche leggende ereditate dai progenitori ariani, e diffondendosi man mano con successivi allargamenti e trasformazioni dovute a varie cause. 2º L’ origine naturalistica dei miti è ipotesi preferibile a tutte le altre; senza dubbio le primarie divinità greche e romane, come quelle degli altri popoli ariani, si connettono col grandi fenomeni della natura, come dimostra l’ etimologia dei nomi loro; la loro immagine sorse dunque dalla personificazione delle forze naturali, aggiuntavi quell’ idea del divino, ossia l’ idea della somma intelligenza e del sommo bene, che è innata nell’ uomo. 3º La varietà dei luoghi e delle genti occasionarono diversa forma e sviluppo di leggende; essendo naturale che gli abitanti dei luoghi alpestri, per lo più cacciatori e pastori, concepissero le divinità loro diversamente dagli abitanti delle coste, dediti alla navigazione e al commercio. […] Che queste Deità siano spesso menzionate dai poeti è cosa ben naturale. […] Dice Dante: Nel tempo che Giunone era crucciata Per Semele contra il sangue tebano, Come mostrò una ed altra fiata, Atamante divenne tanto insano Che veggendo la moglie con due figli Andar carcata da ciascuna mano, Gridò: « Tendiam le reti, si ch’ io pigli La lionessa e i lioncini al varco; » E poi distese i dispietati artigli, Prendendo l’ un che avea nome Learco, E rotollo, e percosselo ad un sasso; E quella s’ annegò con l’ altro carco. […] Che gli antichi credessero alla presenza fra di loro dell’ ombre de’ trapassati è prova la festa delle Lemurie, il 9 maggio, in occasion della quale il capofamiglia s’ alzava di mezzanotte, e lavatesi tre volte le mani in acqua di fonte, si aggirava a piè scalzi per la casa tacendo schioccar le dita e mettendo in bocca fave nere che poi gettava dietro sè ripetendo una certa formola di scongiuro.
Che più ?
Il Monti fa dire ad Aristodemo, nella tragedia di questo nome : « Che l’uomo ambizioso è uom crudele.
Il Giust i nelle sue poesie estende la parola apoteosi a significare i monumenti sepolcrali posti nelle chiese e nei chiostri dalle famiglie private alla postuma boria dei loro parenti : « Largo ai pettegoli « Nani pomposi « Che si scialacquano « L’Apoteosi.
xxii del Purgatorio, relativamente a questi primi Cristiani : « Vennermi poi parendo tanto santi, « Che quando Domizian li perseguette, « Senza mio lagrimar non fur lor pianti.
« Non però che altra cosa desse briga, « Che la notturna tenebra, ad ir suso : « Quella col non poter la voglia intriga. » (Purg.
E se nei pubblici monumenti non vedonsi che personificazioni di Virtù e di novelli pregi derivati dall’incremento e dal perfezionamento delle Scienze e delle Arti, nei poeti moderni trovansi ancora descritti e personificati i Vizii del loro secolo ; e basterà per tutti citare il Giusti, che ci rappresentò quelli predominanti a tempo suo (cioè nella prima metà del presente secolo) facendone poeticamente l’apoteosi mitologica nei seguenti versi : « Il Voltafaccia e la Meschinità « L’Imbroglio, la Viltà, l’Avidità « Ed altre Deità, « Come sarebbe a dir la Gretteria « E la Trappoleria, « Appartenenti a una Mitologia « Che a conto del Governo a stare in briglia « Doma educando i figli di famiglia, « Cantavano alla culla d’un bambino, « Di nome Gingillino, « La ninna nanna in coro, « Degnissime del secolo e di loro. »
Vero è che lo stesso poeta aggiunge che i Penati avevano special culto anche nella reggia di Priamo : « Era nel mezzo del palagio all’aura « Scoperto un grande altare, a cui vicino « Sorgea di molti e di molt’anni un lauro « Che co’rami all’altar facea tribuna, « E coll’ombra a’Penati opaco velo35. » Ma se il capo dello Stato onorava di un culto speciale gli Dei protettori della sua città e del suo regno, questo fatto non toglie agli Dei Penati il loro carattere generale e il loro principale ufficio, che essi non avrebber perduto ancorchè in ogni famiglia avessero ricevuto un simil culto.
Anche il culto di Ercole Tebano fu introdotto nella stessa regione da Evandro ed accolto dai popoli limitrofi in ringraziamento dell’averli Ercole liberati da quel mostro dell’assassino Caco, « Che sotto il sasso di monte Aventino « Di sangue fece spesse volte laco. » Della qual liberazione e del qual culto non solo ragionano a lungo Virgilio nel lib.
Questa significazione è tanto chiara ed evidente, che un dei nostri poeti ha detto : quel Dio che a tutti è Giove, per dire che giova a tutti ; e Dante nel celeberrimo canto VI del Purgatorio, ove rimprovera la serva Italia di dolore ostello, ci presenta questa notabilissima perifrasi : « E se licito m’è, o sommo Giove « Che fosti in terra per noi crucifisso, « Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove ?
Dante allude più d’una volta a questa favola, come, per esempio, nel Canto xxx dell’Inferno, ove un dannato dice ad un altro : « Che s’io ho sete, e umor mi rinfarcia, « Tu hai l’arsura e ‘l capo che ti duole, « E per leccar lo specchio di Narcisso (cioè l’acqua) « Non vorresti a invitar molte parole. » E nel Canto III del Paradiso, descrivendo le anime beate che egli vide nel globo lunare, dice che gli eran sembrate immagini riflesse dall’ acque nitide e tranquille, anzi che esseri di per sè esistenti, conchiudendo con la seguente osservazione tratta dalla favola di Narciso : « Perch’io dentro l’error contrario corsi « A quel che accese amor tra l’uomo e ‘l fonte ; » cioè tra Narciso e l’immagine sua reflessa dall’acqua.
E particolarmente in questo senso filosofico l’usa Dante nel Canto xi del Purgatorio, facendo così parlare Omberto Aldobrandeschi dei conti di Santa Fiora, che fu ucciso per la sua superbia arrogante : « L’antico sangue e l’opere leggiadre « De’miei maggior mi fecer si arrogante, « Che non pensando alla comune madre, « Ogni uomo ebbi in dispetto tanto avante « Ch’io ne morii, come i Senesi sanno « E sallo in Campagnatico ogni fante. » (Purg.
Questo re di Tracia (o di Tessaglia) aveva atterrato per dispregio una selva sacra al culto di Cerere ; e la Dea lo punì col farlo invadere dalla Fame (considerata come una Dea malefica), la quale lo ridusse a divorarsi in poco tempo tutto il suo ricco patrimonio, vendendo perfino la figlia Metra, ed a morire ciò non ostante di estenuazione e di tal disperazione « Che in sè medesmo si volgea co’denti. » Dante rammenta questo celebre mito, e se ne vale per una similitudine della magrezza a cui per pena eran ridotti i golosi nel Purgatorio : « Non credo che così a buccia strema « Erisiton si fosse fatto secco « Per digiunar quando più n’ebbe tema. » E il Giusti, nella Scritta, rammenta una pittura che rappresenta Eresittone come simbolo di un insaziabile usuraio : « Da un lato un gran carname « Erisitone ingoia, « E dall’aride cuoia « Conosci che la fame « Coll’intimo bruciore « Rimangia il mangiatore56. » Il nome di Cerere in latino stava a significare, per figura rettorica di metonimia, il grano o le biade, come Bacco il vino, Minerva la sapienza ecc. ; e nello stesso Virgilio troviamo l’espressione Cerere corrotta dalle onde (Cererem corruptam undis), per indicare il grano avariato dall’acqua del mare.
« Temer si deve sol di quelle cose « Che hanno potenza di fare altrui male : « Dell’altre no, chè non son paurose, » diceva Dante nella Divina Commedia ; ma non tutti gli uomini e non sempre possono ragionare freddamente e conoscer subito la causa delle cose ; e per casi nuovi o ignorati o non preveduti avviene spesso che si alteri la fantasia, specialmente del volgo, e si tema ove nessuna ragion v’è di temere.
È questa una campagna « Con un aer più largo, e con la terra « Che d’un lume di porpora è vestita, « Ed ha ’l suo sole e le sue stelle anch’ella »236.
Esce talvolta « Da questo monte all’aura un’atra nube « Mista di nero fumo e di roventi « Faville, che di cenere e di pece « Fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse « Vibrano ad ora ad or luride fiamme, « Che van lambendo a scolorar le stelle ; « E talvolta le sue viscere stesse « Da sè divelte, immani sassi e scogli « Liquefatti e combusti al Ciel vomendo, « Infin dal fondo romoreggia e bolle79). » E Dante gareggiando col maestro, e, com’è suo stile, distinguendosi da esso e da qualsivoglia altro scrittore per insuperabile concisione, accenna con un solo verso l’opinione mitologica e dà la spiegazione della causa de’ vapori sulfurei dell’Etna, dicendo nel Canto iv del Paradiso, che la bella Trinacria, cioè la Sicilia, caliga, ossia cuopresi di caligine, fra Pachino e Peloro (ove appunto è situata l’Etna), « Non per Tifeo, ma per nascente zolfo. » Vedano ora i moderni geologi e chimici (se pure taluno di loro ha tempo di studiare il Dante), come il nostro divino poeta parlava cinque in sei secoli fa, secondo le loro odierne teorie ed analisi chimiche, accennando che lo zolfo nasce e si forma nei sotterranei abissi dei vulcani, e ne vengon tramandate le esalazioni nell’aria circostante ai crateri.
Sentiamo dunque su questo proposito ciò che ne scriveva il poeta Virgilio, « Che visse a Roma sotto il buono Augusto, » e che Dante chiama suo maestro « E quel savio gentil che tutto seppe. » Nel libro viii dell’Eneide descrive prima la fucina di Vulcano coi Ciclopi suoi garzoni che lo aiutavano a fabbricare i fulmini ; e quindi enumera gli elementi o materie prime di cui li componevano : « …….Stavan nell’antro allora « Sterope e Bronte e Piracmone ignudi « A rinfrescar l’aspre saette a Giove.
Semiramis, di cui si legge « Che libito fe’licito in sua legge. » I Naturalisti danno il nome di Satiri a certi insetti del genere dei Lepidotteri diurni ; e i Retori o Letterati chiamano Satira un componimento che ha per oggetto la censura più o meno mordace degli altrui detti o fatti14.
Pria che il Ciel fosse, il mar, la terra, e ’l fuoco : Era il foco, la terra, il Cielo, e ’l mare : Ma il mar rendea il Ciel, la terra, e ’l foco Deforme, il foco il Ciel, la terra, e ’l mare ; Che ivi era terra, e Cielo, e mare, e foco Dov’era, e Cielo, e terra, e foco, e mare : La terra, il foco, e ’l mare era nel Cielo, Nel mar, nel foco, e nella terra il Cielo. […] Il ferreo carro Attivitade guida ; I suoi spumanti indomiti destrieri, Spiran foco, saette, e nembi orrendi, Che il Mondo d’evitar invan procura. […] Salva tu l’orto mio, e ’l campicello Dalle trame di avaro, e rio vicino : Che ingordo ognor se d’usurpar pretende Parte de’ miei sudor, ah !
Fanciul superbo di sè stesso amante Era quel fior ; quell’altro al sol converso Vna ninfa, a cui nocque esser gelosa ; Quel lauro onor de’ forti e de’ poeti ; Quella canna che fischia e quella scorza, Che ne’boschi Sabei lagrime suda, Nella sacra di Pindo alta favella. […] Chi sia questo nume ben si scorge da un frammento delle Commedie di Alesside, e noi qui lo riproduciamo secondo la nostra istessa versione dal greco, quale fu prodotto in un’alra nostra opera(2), « A me che un dì rediva dal Peireo, Egra la mente dal pensier de’mali, Filosofare fu talento — Quale Amok si sia, nè pittor, ned altri, Che sculta immago a questo demon fece, Conoscer sembra : posciachè non maschio, Nè femmina, non uom, non è un divino, Non fatuo, non scaltro, è un misto, è un misto Di tutto questo : in un’immagin sola Presenta molti aspetti — un’ardimento Dell’uomo è in lui, muliebre tendenza, Vn’amenzia funesta, una ragione Cordata circospetta, una ferina Veemenza, indomabile fatiga, Vn’ambir prodigioso, e tutto degno Di maraviglia.