Prefazione.
Molte sono le opere che trattano della Mitologia, e dotte, e voluminose ; ma poche sono le elementari, e che servir possano utilmente alla gioventù d’introduzione a questo studio non meno interessante che ameno, e necessario sopratutto all’intelligenza de’ Classici antichi, e moderni. Il ristretto che ora vien presentato al Pubblico per uso dei Reali Collegj, è stato ricavato con sobrietà e giudizio dai migliori mitologi tanto Italiani, che oltramontani, e si è pensato di▶ escluderne non solo quanto riguardar poteva la parte più sublime ◀di▶ questa Scienza, e non ancora a portata de’ principianti, ma benanche tutte le superflue dilucidazioni della favola, e tutte l’espressioni che avessero potuto, benchè in minima guisa, ledere le caste orecchie, e la più pura morale de’ giovani studiosi. Ecco dunque nuovamente alle stampe un libro elementare, utile, istruttivo : accresciuto e corretto dall’autore, e colla giunta ◀di▶ un trattato sulle Divinità favolose adorate dai Napoletani ne’ secoli vetusti, colla spiegazione delle anticaglie, che oggigiorno anche si ammirano nella nostra Città. Sperasi che questo lavoro sia come altra volta benignamente accolto dal Pubblico, e contribuisca ad accrescere la coltura de’ popoli soggetti al felice Governo dell’ottimo Re Ferdinando primo.
Mitologia elementare.
Parte prima
Della Mitologia in generale.
La Mitologia1 non è altro che la Storia, e la spiegazione della favola. L’indica il suo nome composto ◀di▶ due voci Greche, le quali unite significano discorso sulla favola.
La serie numerosa delle avventure, che andando innanzi osserveremo, non sono in sostanza per noi che semplici favole : noi le consideriamo come piacevoli invenzioni, o tratti ◀di▶ spirito destinati talvolta a spiegare, o piuttosto a gentilmente nascondere varj precetti della morale.
Gli Egiziani, presso de’ quali ebbero la loro origine, i Greci che le accolsero, ed i Romani, che parimente le adottarono, riguardavano questi immaginarj racconti, come gerghi misteriosi da non doversene punto dubitare, e non vedevano nel tutto, che il sistema ◀di▶ religione dagl’Iddj ad essi presentato, e che i Poeti, ed i Savj colle cure più sollecite avevano custodito1.
I dotti si sono a maggior segno affaticati per rintracciare la sorgente ◀di▶ tali invenzioni : essi hanno azzardato le più plausibili congetture con fabbricare altresì de’ sistemi, che potessero appagare almeno la fantasia : ma non mai loro è riuscito ◀di▶ poter dire : ecco la verità. Taluni hanno rinvenuto nelle favole l’abbozzo ◀di▶ varj effetti naturali2 : altri hanno creduto, che contenessero precetti ◀di▶ morale ; parecchi si sono avvisati, che racchiudessero istoriche verità sfigurate dalla bizzarria ◀di▶ una immaginazione amica della menzogna : non esclusi coloro, che hanno ravvisato nella favola diverse figure simboliche de’ lavori dell’agricoltura. A qual dunque ◀di▶ tanti sistemi ci appiglieremo ? L’incertezza, e l’oscurità del problema non lascia luogo alla scelta. Vi sono bensì delle favole, il ◀di▶ cui sviluppo è si chiaro, che per negarlo bisognerebbe rinunciare all’istessa evidenza. In quelle solamente non si può perdere ◀di▶ vista l’oggetto misterioso, che l’antichità si ha prefisso, senza determinarci ad alcun partito per tante altre, la cui spiegazione ci è affatto ignota.
Ma tali sistemi, ed interpetrazioni sarebbero all’intutto fuori ◀di▶ proposito in un’ opera fatta per darci le idee precise della favola, e lo sarebbero sempre più, senz’aver prima formato un quadro delle idee suddette. Se le abbiamo noi accennate, ciò è stato per fare intendere alla gioventù studiosa, che le favole non sono puerili invenzioni a capriccio immaginate. Le favole delle antiche nazioni le più illuminate appartenenti alla religione, formavano un oggetto assai rispettabile qual’era l’istruzione, e la pubblica felicità, come chiaramente rilevasi dalle opere ◀di▶ Omero, e ◀di▶ Esiodo1.
Del vantaggio della Mitologia.
Ma diranno i nostri giovani lettori, se Giove, Giunone, e tanti altri non
sono più Dei per noi : se la scienza della favola si è perduta, o almeno
è incerta, qual vantaggio ricaveremo noi dallo studio della Mitologia ?
Ecco la risposta. In rapporto alla morale, il frutto non può essere che
scarsissimo : ma per l’opposto ci fornirà ◀di▶ grandi vantaggi per bene
intendere le opere degli antichi, per la lettura de’ poeti, e per
l’intelligenza ◀di▶ tanti lavori dell’ultima perfezione usciti dallo
scarpello, o dal pennello de’ più valenti artisti. La Mitologia se più
non ha rapporti colla Religione, ha però un tempio nel Regno delle belle
arti : le sue antiche bizzarrìe sono tuttogiorno in moda fra noi, ed
hanno un incantesimo tanto lusinghiero da farci ravvisare sempre in esse
delle
nuove bellezze. « Ivi tutto è
illusione. Tutto ha corpo, anima, spirito, sembianza. Ogni virtù
diventa una Divinità. Minerva è il simbolo della prudenza, Venere
della bellezza. Lo scroscio del tuono non è l’effetto dei vapori, è
Giove armato per ispaventare i mortali. Sorge una tempesta, che
sgomenta il Nocchiero, è Nettuno sdegnato, che mette le onde in
sconquasso. L’eco non è più un suono che rimbomba nell’acre, è una
Ninfa, che si duole, o piange la morte ◀di▶ Narciso. Così il poeta
nella nobile combinazione ◀di▶ tante finzioni aleggia nella sua
fantasia : adorna, innalza, abbellisce, ingigantisce le sue
invenzioni, e si aprono i fiori sotto la sua mano in ogni stagione.
Boileau. »
Piano, e divisione dell’opera.
Avendo assai spesso i poeti cangiato le favole a lor talento, non è facile ◀di▶ tenere un metodo esatto delle loro vantate invenzioni. Omero non è sempre ◀di▶ accordo con Esiodo : e Ovidio, che visse molto dopo, ha sovente opinioni diverse dagli altri. Questa circostanza ci avverte, che gli antichi scrittori si assumevano il dritto ◀di▶ far parlare, ed agire a lor talento gli Dei : e talvolta abusavano pur troppo ◀di▶ un tal privilegio.
Se non è agevole cosa il conciliare tra loro i Mitografi, difficile è pur anche il far la diceria del gran numero degli Dei. Nel creare una divinità non avevano limiti gli antichi : un timore, una meraviglia, un accidente casuale bastava a far ottenere un posto nel cielo ad un novello Dio1. Ma fa d’uopo osservare, che la maggior parte ◀di▶ questi Dei sconosciuti nel sistema mitologico, o molto poco vi sono nominati, o per nulla vi entrano. La divisione ◀di▶ quest’opera ci darà un’ idea della Mitologia in generale.
Noi faremo immediatamente la numerazione degli Dei, che riscuotevano un culto più esteso, e perciò detti Dii magni, Dii Consentes, quasi consentientes. Venti se ne contano : fra’ quali dodici soltanto erano ammessi nel consiglio celeste, cioè Giove, Giunone, Nettuno, Cerere, Mercurio, Minerva, Vesta, Apollo, Diana, Venere, Marte, Vulcano. I rimanenti otto numi ◀di▶ prim’ordine erano il Destino, Saturno, Genio, Plutone, Bacco, Amore, Cibele, e Proserpina 2.
Vedremo in seguito le Divinità ◀di▶ secondo ordine, che preseggono ai campi, ai fiori, agli arbori, in guisa che Pane, Pomona, Vertunno, e tanti altri sono allegati da Ovidio tra ’l basso popolo degli Dei.
La terza classe sarà composta de’ Semidei così detti, per esser nati da un Dio, ed una mortale, o da un Uomo, ed una Dea, come Ercole, Castore, e Polluce, e tanti altri. Parleremo in seguito degli Eroi, quali erano i Re, e gl’illustri guerrieri, soggetto del canto de’ poeti. Tra questi Agamennone, Ulisse, ec. ec.
Vi ha altresì una moltitudine ◀di▶ favole accoppiate alla storia degli Dei, ma che per altro non forma una parte del sistema religioso. Tali erano le favole ◀di▶ Bauci, e Filemone, ◀di▶ Piramo, e Tisbe, ed altre consimili.
Finalmente gli Uomini fermi nel principio ◀di▶ un’idea sublime, e consolante, che la Divinità regnasse sovranamente da pertutto, assegnarono un posto nel Cielo alle Virtù, alle Passioni, ed alle Miserie puranche dell’uman genere. Quindi furono innalzati i templi alla Concordia, alla Fedeltà, alla Prudenza, alla Povertà, alla Morte, alla Febbre, ec. ec. ma noi riguardiamo tali Divinità come semplici figure allegoriche1.
Divinità ◀di▶ prim’ordine.
Il Destino.
Non perchè abbiamo situato in primo luogo il Destino, dobbiamoper questo noi considerarlo come il più degno fra gli Dei, e nel dritto ◀di▶ riscuotere gli omaggi de’ mortali : che anzi a lui non si faceva offerta ◀di▶ veruna sorta, poichè niente poteva sperarsi dal medesimo. I suoi decreti erano immutabili, e la sua volontà inflessibile. Gli Dei istessi a lui erano soggetti1, e perciò noi gli abbiamo assegnato il primo posto nell’opera. Il Destino era figlio della Notte : vien dipinto con una benda avanti gli occhi. Egli è, a dire il vero, un Nume cieco, e ’l suo governo ha per guida una invincibile necessità1. Giace a suo fianco un’ urna, e racchiude la sorte degli uomini, e tien un libro ove è descritto il futuro : gli Dei avevano la facoltà ◀di▶ poter consultare cotesto libro2. Spesse fiate i poeti confondono il nome del Destino con quello ◀di▶ Legge immutabile, privandolo della Divinità.
Il Caos.
Il Caos 3 è il più antico fra gli Dei. Egli fu l’Autore della separazione delle materie, ond’è composto l’Universo. Vien egli rappresentato in atto ◀di▶ assegnare ad ogni elemento il suo posto. Agitandosi in un ammasso ◀di▶ luce sembra dissipare da per ogni dove la densità delle nuvole. Una picciola parte del zodiaco comincia a comparire sulla sua testa.
Si dà ancora il nome ◀di▶ Caos alla mole indigesta, che formavano gli elementi prima che fossero segregati.
Ecco il sublime tratto ◀di▶ Ovidio tradotto dall’Anguillara, nel quale troviamo descritto cotesto scioglimento.
Pria che il Ciel fosse, il mar, la terra, e ’l fuoco : Era il foco, la terra, il Cielo, e ’l mare :Ma il mar rendea il Ciel, la terra, e ’l focoDeforme, il foco il Ciel, la terra, e ’l mare ;Che ivi era terra, e Cielo, e mare, e foco Dov’era, e Cielo, e terra, e foco, e mare : La terra, il foco, e ’l mare era nel Cielo, Nel mar, nel foco, e nella terra il Cielo.………………………………Non v’era chi portasse il nuovo giornoCol maggior lume in Oriente acceso,Nè rinnovava mai la luna il corno,Nè l’altre stelle avean lor corso preso ;Nè pendeva la terra intorno intornoLibrata in aere dal suo proprio peso.Nè il mar avea col suo perpetuo gridoFatto intorno alla terra il vario Lido.………………………………Quindi nascea, che stando in un compostoConfuso il Ciel, e gli elementi insieme,Faceano un corpo informe, e mal dispostoPer donar, forma al mal locato seme :Anzi era l’un contrario all’altro oppostoFea guerra il lieve al grave, il molle al saldo :Contro il secco l’umor, col freddo il caldo.………………………………La natura migliore, e ’l vero Dio,Tutti quei corpi al suo luogo dispose,Secondo il proprio lor primo desio.D’intorno il Cielo, e nel suo centro poseLa terra, indi dal mar la dispartìo ;E il passo aperto, onde esalasse il foco,Se ne volò nel più sublime loco.………………………………
Abbiamo quì rapportato un picciolo squarcio ◀di▶ questo celebre pezzo ◀di▶ Ovidio, per far conoscere l’idea, che avevano gli antichi della Creazione : credevano essi, che la materia fosse eterna, e che l’alta potenza del Creatore l’avesse posta in moto per formarne l’universo. Il dippiù si potrà leggere nel testo ◀di▶ Ovidio, e presso il suo anzidetto traduttore.
Il Cielo.
Urano (parola che significa il Cielo) è il più antico degli Dei. Egli era il figlio del Giorno, e sposò sua sorella Gè, o Titèa, eioè la Terra. Ebbero molti figli, che da Titèa furon detti Titani, o figli della Terra. I principali furono Titano, l’Oceano, Iperione, Giapeto, Tia, Saturno, Rea, ossia Cibele, Terni, Mnemosine, Teti, Bronte, Sterope, Argèo, Briarèo, Gige. La terra altresì concepì dal Tartaro il gigante Tifeo, che molto si distinse nella guerra degli Dei.
Urano, che temeva per parte de’ figli, li rinchiuse secondo che nacquero in un abisso, ove il giorno non penetrava. Tale precauzione a lui fu fatale : imperciocchè giunti quelli ad una certa età, si rivoltarono contro lo stesso loro padre, ad eccezione ◀di▶ Oceano. Ma Urano ebbe il ◀di▶ sopra, e li condannò ad essere eternamente legati : il solo Saturno andò esente da tal pena per cura ◀di▶ Titea per essere il prediletto. Questi animato dallo spirito ◀di▶ vendetta spezzò le catene de’ suoi fratelli, e s’impossessò dell’Empireo : ed aggiungendo all’usurpazione il parricidio, mutilò suo padre con una falce ◀di▶ ferro, che sua madre gli avea dato. Dal sangue ◀di▶ Urano, che si sparse sulla terra nacquero i Giganti, e le tre Furie : quella parte, che si mischiò colla schiuma del mare produsse Venere detta altresì Afrodite, perchè nata dalla spuma.
Saturno.
Titano, perchè il primogenito, dovea essere l’erede ◀di▶ Urano : egli dunque reclamò l’imperio : ma Saturno non volle cederlo, e lo ritenne per se. Si venne pertanto ad un aggiustamento, che gli propose Titano, col quale Saturno si obbligava ◀di▶ non allevar figli maschi, affinchè il governo fosse ritornato nella famiglia ◀di▶ Titano. Tantoppiù Saturno prestò orecchio a tale trattato, per avergli Urano presagito stando presso a morte, che uno de’ suoi figli lo avrebbe sbalzato dal Trono, appunto come avea esso praticato con suo padre. Egli dunque divorò tutt’i figli, ai quali aveva data la vita. Il solo Giove fu esente da tale disgrazia, mercè le cure ◀di▶ Cibele sua madre, che accorgendosi essere incinta, volle questa volta salvare la prole futura. Consigliata segretamente da Titèa si ritirò in una grotta Chiamata Dittèa nell’isola ◀di▶ Creta, ed ivi partorì Giove, e Giunone ; affidò il primo alle Ninfe Ida, e Adrastèa dette Melisse, e lo raccomandò ai Cureti, o sieno Coribanti, Sacerdoti vestiti a foggia ◀di▶ guerrieri ; ma bensì ritenne presso ◀di▶ se Giunone, poichè il trattato stabilito con Titano, riguardava la sola prole maschile. Giove divenuto adulto debellò i Titani, che nuovamente avevano dichiarata la guerra a Saturno1. Diede inoltre una bevanda allo stesso suo padre, colla quale gli fece recere i figli da lui precedentemente divorati.
Il Regno ◀di▶ Saturno però non ebbe molta durata. Il torbido suo umore, e ’l coraggio ◀di▶ Giove turbarono la sua felicità. Egli in fine fu rovesciato dal Trono, e discacciato dall’Olimpo da Giove suo figlio.
Ritirossi perciò in Italia, e propriamente nel Lazio, detto così dal
Latino latere, perchè ivi si nascose per sottrarsi
dall’ira ◀di▶ Giove. Fu accolto da Giano, principe Tessalo, che
regnava allora nel Lazio. Col consiglio, ed assistenza ◀di▶ questo
Dio, Giano civilizzò i suoi popoli, insegnò loro il corso dell’anno,
l’agricoltura, l’uso della moneta, le regole della giustizia, e la
norma del ben vivere sotto il governo delle leggi. Finalmente
durante il tempo che Saturno conversò con gli uomini, fu sì grande
la felicità, che tal’epoca fu chiamato l’età
dell’oro. Giano
entrò a parte
della riconoscenza, che questo Nume meritava dagli uomini. Fu
ascritto egli stesso al numero degli Dei, col titolo ◀di▶ Dio della
pace. Il suo Tempio era chiuso, allorchè la guerra era finita : onde
in seguito dicevasi ◀di▶ qualche principe Romano, che aveva data la
pace all’imperio :
Egli ha chiuso il tempio ◀di▶
Giano
. Egli era effigiato a due facce : sia perchè avendo
egli il dritto sul mese ◀di▶ Gennajo riguardasse l’anno scorso, e
quello, che cominciava, sia perchè avesse egli la conoscenza del
passato, e del futuro, o finalmente perchè avesse diviso il suo
regno con Saturno, non formando entrambi che un Re solo. Vien
figurato talvolta con quattro facce, per indicare le quattro
stagioni. Ha dippiù una bacchetta nelle mani, perchè presedeva alle
pubbliche strade, o pure una chiave, perchè creduto l’inventore
delle porte.
Saturno avrebbe potuto pacificamente vivere fra gli uomini, se il suo genio torbido non lo avesse indotto ad unirsi nuovamente con i Titani per fare la guerra a Giove. Fu vinto anche questa volta, e sopraffatto dalla disperazione ritirossi nella Sicilia, ove morì ◀di▶ dispiacere.
Questa è la favola ◀di▶ Saturno : una delle più chiare, e facili a spiegarsi. I Greci lo chiamarono Cronos, cioè il tempo, ed era naturale, che i poeti lo facessero nascere dal Cielo, e dalla Terra. I suoi attributi indicano le sue funzioni, Egli è vecchio, perchè da gran tempo creato : L’età sua avanzata non gli scema nè attività, nè le forze. Ha le ali sul dorso per dinotare, che il tempo veloce giunge, ed al momento sen fugge : porta seco una falce per tutto mietere, e consumare. L’ampollina al suo fianco ci mostra il corso sempre eguale, e misurato del tempo, ed il serpente, che si morde la coda formando un cerchio, è simbolo dell’eternità, che non ha cominciamento, nè fine.
Le sue vicende, al dire de’ commentatori, sono altresì misteriose. Egli mutilò suo padre, perchè dopo la creazione del mondo, tutto era compito. Ingozzò i suoi figli, perchè il tempo tutto divora : indi li ributtò dallo stomaco, perchè il tempo medesimo alternativamente ci restituisce i giorni, e le notti.
Cibele.
Cibele figlia ◀di▶ Urano, presso i Greci Cibebe, era la sorella, e la sposa ◀di▶ Saturno, a cui partorì molti figli.
Varj furono i suoi nomi. Ebbe il nome ◀di▶ Cibele da una montagna della Frigia : come pure Titèa, cioè, Terra, perchè presiede al nostro Globo. Fu detta Rèa del Greco Rhèo, fluo per le piogge, ed i fiumi, che scorrono sulla Terra, ed Opi pel soccorso che apprestava agli uomini.
Migdonia, Pessinunzia, Frigia, Berecinzia, Idea dai diversi luoghi ove ella era adorata ; fu chiamata Magna Mator, o Mater Deum, qual Madre delle Divinità ◀di▶ prim’ordine ; come altresì Vesta l’antica per distinguerla dalla figlia del nome medesimo : tal nome ebbe anche Titèa sua madre.
Questa Dea ci viene rappresentata sotto le sembianze ◀di▶ una donna robusta, coronata ◀di▶ foglie ◀di▶ quercia, avendo in mano una chiave, ed un timpano con sopravveste sparsa ◀di▶ fiori, assisa sopra ◀di▶ un carro tirato da’ lioni1. Talvolta è figurata all’impiedi, o cavalcando un lione, e non ◀di▶ rado con un piede in terra, ed un altro sul rostro ◀di▶ una nave, per dinotare il ◀di▶ lei dominio sull’uno, e l’altro elemento. In parecchi templi dell’antichità, le statue ◀di▶ Cibele altro non erano, che semplici piramidi, per simboleggiare la fermezza, e solidità della terra(2).
Giove.
Giove era il primo, e’ l più potente degli Dei. Al solo inarcare del suo sopracciglio tremava l’Universo : il Fato solamente aveva su ◀di▶ lui la preminenza(1).
Dopo aver vinto Saturno, egli divise il suo imperio cogli altri fratelli. Nettuno ebbe il mare, Plutone l’inferno, ed esso l’empireo. Per mano de’ Ciclopi fu formato un elmo per Plutone, un tridente per Nettuno ; a Giove fu riserbato il fulmine composto ◀di▶ grandine, ◀di▶ acqua, ◀di▶ fuoco, ◀di▶ vento, con frammischiarvi la luce, lo scoppio, il rumore, lo spavento, e lo sdegno.
Il suo regno però non fu sempre tranquillo. I Titani mal contenti de’ dritti ad essi usurpati, gli suscitarono contro i Giganti, ch’eran figli della terra. Questi per attaccarlo fin dentro la sua reggia, sovrapposero montagne sopra montagne. Temendo Giove ◀di▶ soccombere, chiamò in suo ajuto tutte le divinità. La Dea Stige, che regnava sopra ai fiumi, le ◀di▶ cui acque circondavano l’inferno, fu la prima ad accorrere in soccorso ◀di▶ Giove, recando seco la Vittoria, il Potere, l’Emulazione, la Forza da lei nati. Per compenso volle Giove, che i giuramenti fatti in nome ◀di▶ Stige neppure i Dei potessero violare. Il Destino avea altresì predetto, che per ultimar questa guerra ci voleva la destra ◀di▶ un uomo : Giove a tal tempo si servì ◀di▶ Ercole, che diede non equivoci contrassegni del suo valore. Ciascuno degli Dei ebbe parte in questa mischia, e soprattutto si distinse Minerva, che seppellì Encelado sotte l’Etna, i ◀di▶ cui sforzi si risentono tuttavia, al dire de’ Poeti, con gittar fiamme, e sassi per liberarsi dal grave peso, che l’opprime. Per mano ◀di▶ Minerva cadde pur il Gigante Pallante, della ◀di▶ cui pelle ella si coprì, con prenderne anche il nome ad eterna ricordanza ◀di▶ tale vittoria. Cadde finalmente in questa guerra Briarèo il più terribile tra i Giganti, che aveva cento braccia ; e pareva, che già la guerra fosse terminata, allorchè uscì in campo un altro nemico per se solo formidabile, quanto tutti gli altri presi insieme, per nome Tifèo. La terra lo cacciò dal suo seno per vendicare la morte de’ suoi fratelli.
Questo Gigante era si spaventevole, che la sua forza sorpassava il terrore, che ispirava. Egli aveva cento teste con serpenti armati ◀di▶ lingue nere, ed avvelenate, vibranti urli che incutevano spavento, sfavillando dagli occhi infuocate scintille. A tal vista impauriti gli Dei presero la fuga, e si nascosero colà nell’Egitto sotto le sembianze ◀di▶ diversi animali ; ma Giove più coraggioso abbattè col suo fulmine sì potente nemico : lo rovesciò, e restituì la pace all’Olimpo.
In seguito ◀di▶ tale vittoria, che sommamente accrebbe la potenza ◀di▶ Giove, volle questi occuparsi del governo del Mondo, e più ancora de’ suoi piaceri, ai quali si diede in preda sì fattamente, che la sua maestà fu più degradata ◀di▶ quello, che sarebbe avvenuto ad un uomo. Noi avremo sovente occasione ◀di▶ parlare delle diverse sembianze, sotto le quali si cangiò con avvilire la sua dignità.
Omero, che ci ha data fra i poeti un’idea più nobile ◀di▶ Giove, ce lo dipinge accigliato, colla fronte coverta da nuvole, coll’aquila accanto, ed armato del fulmine. A’ suoi piedi fanno sgabello il Rispetto, e l’Equità : ed in poter suo sono i beni, ed i mali, che a suo talento distribuisce. Talvolta è rappresentato assiso sopra ◀di▶ un carro, e spessissimo sopra l’aquila, che per tale ragione chiamasi comunemente l’Augello ◀di▶ Giove.
L’armatura, che difendeva questo Dio, era l’Egida, vale a dire uno scudo formato dalla pelle della Capra Amaltea, che aveva nutrito Giove, e ne armava il braccio sinistro. Questa Capra dopo la sua morte fu situata da Giove per gratitudine fra le costellazioni, e della sua pelle ne compose l’Egida, voce che in Greco indica Capra, che in progresso fu donata a Minerva, che ci appiccò la testa ◀di▶ Medusa.
Vedremo non ◀di▶ rado Giove sotto la figura ◀di▶ un ariete, o almeno colle corna ◀di▶ questo animale, detto perciò Giove Ammone, o sia Giove delle Arene 1. Una favola particolare gli procurò tale ornamento. Inoltrandosi troppo Bacco fra gli arenosi deserti della Libia, non trovò acqua per cavarsi la sete. Appena che questo Dio ebbe implorato il soccorso ◀di▶ Giove, si vide innanzi un ariete, che battendo la terra col suo piede ne scaturì una sorgente ◀di▶ acqua. Bacco riconoscente innalzò un altare al suo benefattore sotto la denominazione ◀di▶ Giove Ammone (2).
Giunone.
Giunone era sorella, e moglie ◀di▶ Giove. Per tale gli Dei la
riconoscevano. La sua bellezza corrispondeva alla maestà del suo
grado : ma il suo orgoglio era insoffribile. Parlando ◀di▶ se stessa,
ella dicea « Io sposa, e sorella ◀di▶ chi regge il tuono,
Regina degli Dei, del Cielo, e della Terra : ah si salvi l’onor
mio, e facciamo palese al Mondo, che questi Dei sì potenti nulla
possono al paragone ◀di▶ me »
! Virg.
I risultati ◀di▶ questo rispettabile matrimonio non furono altrettanto felici. Giove per sua indole era incostante. Giunone sommamente gelosa : e sovente l’Olimpo era testimonio de’ loro pettegolezzi. La Dea non perdeva giammai ◀di▶ vista tutti gli andamenti del suo sposo, e perseguitava a morte chiunque poteva darle ombra ◀di▶ sospetto.
Sfogò il suo sdegno principalmente sopra ◀di▶ Io, Europa, Semele, e Latona. Argo fornito ◀di▶ cent’occhi, che aveva in guardia Io cangiata da Giove in vacca, fu ammazzato da Mercurio, e transformato in pavone. La Dea in compenso della ◀di▶ lui fedeltà appiccò gli occhi del suddetto alla coda del suo pavone.
Giunone fu detta pronuba, come colei che presedeva alle nozze. Quindi le matrone Romane le offerivano voti per le loro figliuole : chiamandola pure Domiduca, perchè accompagnava la sposa alla casa del marito. Per testimonianza ◀di▶ Cicerone fu altresì detta Moneta dal Latino monere per una voce, che fu udita nel suo tempio in occasione ◀di▶ un fiero terremoto, colla quale si avvertivano i Romani ◀di▶ sacrificare una troja gravida per placare lo sdegno degli Dei. Il sacrifizio fu adempito, e cessò il pericolo.
Nacquero da questa Dea tre figli, Vulcano, Ebe, e Marte. I due primi li concepì da Giove, il terzo nacque da essa particolarmente. Crucciata Giunone per essere nata Minerva dal cervello ◀di▶ Giove senz’averci avuta parte, volle altresì ella fare un consimile miracolo. Dopo avere affidato il suo segreto a Flora, le fu da questa indicato un fiore, che appena toccato dalla Dea la fece diventar madre ◀di▶ Marte.
La sempre bella Ebe era la Dea della giovinezza. Il suo impiego era ◀di▶ porgere il nettare agli Dei : ma cessarono le sue funzioni, dacchè ebbe la disgrazia ◀di▶ cadere una volta al ◀di▶ loro cospetto. A tale uffizio fu destinato il gentile Ganimede, che Giove fingendosi un’aquila aveva al padre suo Troe involato.
Vulcano nacque sì brutto, e scontraffatto, che avendone Giove rossore lo fece precipitare dal Cielo sulla terra con un calcio. Vulcano non curò questo maltrattamento ◀di▶ suo padre, ma non perdonò a sua madre, che lo aveva dato alla luce così storpio, e mal fatto, e volle vendicarsene in una brillante occasione.
Giunone aveva preso parte nella guerra degli Dei : Giove volle punirla, e del castigo Vulcano volle essere il ministro. Egli sospese in aria Giunone per mezzo ◀di▶ due pietre ◀di▶ calamita colle incudini attaccate ai calcagni, dopo averle legate le mani dietro le spalle con una catena d’oro. Invano gli Dei si affaticarono ◀di▶ liberarla : il solo Vulcano poteva darle ajuto : ma questi non si determinò ◀di▶ farlo, se non a condizione, che gli si darebbe in isposa Venere la più bella fralle Dee.
Oltre ◀di▶ Argo aveva Giunone al suo servizio anche una messaggiera per nome Iride figlia ◀di▶ Taumante, e ◀di▶ Elettra, e sorella delle Arpìe. Ella era assai cara a Giunone, perchè i suoi annunzj erano sempre lieti, e perciò fu convertita dalla Dea in Arco celeste.
Giunone è rappresentata riccamente vestita, assisa sopra ◀di▶ un carro tirato da pavoni, portando lo scettro in mano, ed un pavone al suo fianco.
Cerere.
Cerere figlia ◀di▶ Soturno, e ◀di▶ Cibele era la Dea delle biade, e de’ campi. Ella fu la prima ad insegnare l’arte dell’agricoltura, consistendo il vitto degli uomini per l’addietro in ghiande, radici, ed animali presi alla caccia.
Questa diva benefica ebbe da Giove la rinomata Proserpina, infelice cagione ◀di▶ tante sue sciagure. Mentre un giorno questa giovane Dea in compagnia ◀di▶ alcune Ninfe passeggiava per le praterìe ◀di▶ Sicilia accanto la fontana ◀di▶ Enna, incontrossi con Plutone, che lasciato per poco l’Inferno, volle visitar l’Etna. Questo Dio concepì per lei un amor violento ; e malgrado che non fosse corrisposto, la rapì, e la fece sedere nel suo carro tirato da cavalli ◀di▶ color nero a dispetto delle lagnanze ◀di▶ Minerva, e Cianea, che fu punita per tal cagione da Plutone, con averla cangiata in un fonte ne’ contorni ◀di▶ Siracusa.
Al momento, che Cerere si accorse della mancanza ◀di▶ sua figlia, l’andò ◀di▶ notte, e ◀di▶ giorno cercando per tutta la terra con fiaccole accese nell’Etna. Ritrovò ella il velo, che a Proserpina era caduto sul lago ◀di▶ Siracusa nel volersi difendere dalla violenza ◀di▶ Plutone : e dalla Ninfa Aretusa, le cui acque scorrevano fino a Stige, fu pienamente informata dell’accaduto. Per liberare Proserpina, Cerere ricorse a Giove, che per altro esaudì i suoi voti : ma si ci opponeva un decreto del Destino, che Proserpina non sarebbe giammai useita dall’Inferno, che nel solo caso ch’ella non avesse gustato alcun nutrimento ◀di▶ qualunque sorta. Ascalafo l’accusò ◀di▶ aver mangiato de’ granelli ◀di▶ un pomo granato, per la qual denuncia fu cangiato in gufo : ma fu accordato a Proserpina ◀di▶ poter passare sei mesi con sua madre, ed altrettanti con Plutone, che l’aveva sposata.
Calmatasi Cerere si applicò nuovamente all’agricoltura con insegnarne i principj a Trittolemo figlio ◀di▶ Celèo Re ◀di▶ Eleusi, inculcando al medesimo che ne avesse istituiti altresì gli uomini. In vista ◀di▶ tal comando scorse Trittolemo l’Asia, e l’Europa. Mancò poco però, che nella Scizia non fosse perito per parte ◀di▶ Linco geloso della preminenza, che in tal mestiere a Trittolemo aveva Cerere accordata. In pena ◀di▶ sua perfidia Linco fu trasmutato in Lince, animale ch’è simbolo della crudeltà. Cadde la vendetta ◀di▶ questa Dea altresì sopra ◀di▶ Erisittone, uno de’ primi ◀di▶ Tessaglia per aver questi tagliata una foresta consagrata a questa Dea, che gli comunicò una fame sì terribile, che lo ridusse a consumare tutt’i suoi averi per soddisfarla.
Cerere vien rappresentata ordinariamente coronata ◀di▶ spighe con una fiaccola in una mano, e nell’altra un fascio ◀di▶ biade1.
Vesta.
Parimente figlia ◀di▶ Saturno, e Cibele era Vesta Dea della verginità, e del fuoco, per cui portava una fiaccola nelle mani. Il principale suo culto consisteva a tenere sempre vivo il fuoco, che ai raggi solari ogni anno si raccendeva nelle calende ◀di▶ Marzo. Le sue Sacerdotesse dette Vestali erano obbligate ad esser vergini : e guai a chi non osservava un tale divieto, come pure a chi non manteneva il fuoco acceso sopra il suo altare. La pena era ◀di▶ essere seppellita viva all’istante.
Apollo.
Apollo fra gli Dei è de’ più celebri. Egli è il capo delle Muse, ed
il Dio della poesia, onde vien invocato dai poeti ; come pure lo è
della musica, dell’eloquenza, della medicina, e ◀di▶ tutte le belle
arti. Riguardavano gli antichi
questo Dio
come padre del giorno, e della luce : come regolatore del carro del
Sole : anzi era considerato come il Sole medesimo. Lo chiamavano
altresì Febo, assiso sopra ◀di▶ un carro
sfavillante, e tirato da quattro furiosi cavalli. « Nume del giorno,
e della luce sei tu, che regoli il corso de’ giorni, delle stagioni,
degli anni. Per te la verde campagna produce fiori, e frutta, e
mercè il calore de’ tuoi raggi la natura è ricca da per tutto. Dove
tu non sei, tutto è lutto, orrore, e spavento : regna il brìo, il
riso, la sorpresa dove tu spandi i tuoi raggi. »
Quinault.
L’Aurora figlia ◀di▶ Titano, e della Terra apre ogni mattina le porte del Cielo al carro del Sole. Questo carro circondato dalle Ore figlie ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Temi, impiega dodici ore a fare il suo giro. Al far della sera scende verso il mare, e Febo va a riposarsi in grembo a Teti.
Come Dio delle arti ci rappresentano i poeti Apollo colla lira fralle mani, e corteggiato dalle Muse. La sua Reggia è in Parnaso, in Pindo, in Elicona ; sulle rive ◀di▶ Permesso, del fonte Castalio, o d’Ippocrene, luoghi poco discosti dall’amene valli ◀di▶ Tempe nella Tessaglia. Talvolta questo Dio annuncia ai mortali la loro sorte ; l’oracolo più celebre ◀di▶ questa divinità era a Delfo. Lo vediamo altresì seguir Diana sua sorella nel più forte delle boscaglie sotto la forma ◀di▶ un giovine leggiadro, con capelli ondeggianti sugli omeri, con turcasso dorato, pieno ◀di▶ frecce, e con arco alla mano, come appunto si osserva nella superba statua dell’Apollo ◀di▶ Belvedere. L’artista servendosi del marmo ◀di▶ Carrara ignoto ai Greci, ma il più atto a potere felicemente eseguire il suo pensiero, e dare all’opera la più viva espressione, gli ha data un’aria fra la fierezza, e ’l disprezzo dopo aver ucciso il serpente Pitone in atto ◀di▶ guardarlo mentre spira.
Di questo mostro ecco la favola.
Latona era figlia ◀di▶ Ceo e ◀di▶ Febe, e madre ◀di▶ Apollo, e ◀di▶ Diana. Accortasi Giunone della propensione ◀di▶ Giove per questa giovanetta, ebbra ◀di▶ sdegno la scacciò dal Cielo, e per non darle tregua in verun luogo, obbligò la Terra a giurare ◀di▶ non darle un asilo neppure nel suo seno. Di più fece nascere dal limo lasciato dalle acque un orribile serpente detto Pitone, che inseguiva da per ogni dove la sventurata Latona. Un giorno stanca dalla fatica, e sommamente assetata fermossi presso uno stagno ; i terrazzani che tagliavano giunchi, le proibirono ◀di▶ dissetarsi. Sdegnato Giove dal Cielo ◀di▶ tanta barbarie, e mosso dai prieghi ◀di▶ Latona, cangiò questi uomini insensibili in ranocchi, e li condannò ad abitare ne’ pantani.
Ad onta però del potere ◀di▶ Giove, non avrebbe Latona ritrovato un sito ove sgravarsi, se Nettuno mosso a compassione con un colpo del suo tridente non avesse fatta sorgere dal fondo del mare l’isola ◀di▶ Delo, non inclusa nel giuramento fatto dalla Terra. Colà rifugiossi Latona, e sotto una pianta ◀di▶ palma partorì Apollo, e Diana. Apollo per gratitudine fissò quest’isola fralle Cicladi pria errante nel mare : e tosto che fu adulto, ed istruito nell’arte ◀di▶ maneggiar l’arco, ammazzò il serpente Pitone, che aveva sì crudelmente perseguitato Latona. Questo mostro aveva cento teste : lanciava fiamme dalla bocca, ed i suoi urli arrivavano fino al Cielo. Il suo corpo coverto ◀di▶ piume al ◀di▶ sopra, e ◀di▶ serpenti al ◀di▶ sotto toccava il cielo, e la terra.
Moltiplici furono le avventure ◀di▶ Apollo, riguardandolo in qualità ◀di▶ un giovane gajo ◀di▶ età sempre fresca, ed istruito nelle belle arti. Egli amò varie Ninfe ; ma fu sempre infelice nelle sue intraprese. Dafne figlia del fiume Penèo in Tessaglia, fu l’oggetto primiero delle sue cure : malgrado però tutt’i suoi pregi, non fu mai corrisposto da questa Ninfa. Un giorno mentre l’inseguiva a tutta possa, ella per timore ◀di▶ cadere fralle ◀di▶ lui mani, chiamò in suo ajuto Penèo suo padre, e fu tosto cangiata in alloro. Il Dio, ad eterna memoria ◀di▶ questa Ninfa, volle adornare le sue tempia, e la lira delle foglie ◀di▶ questa pianta, e volle altresì, che la corona ◀di▶ alloro fosse in seguito il premio de’ guerrieri, e de’ poeti.
Amò ancora Leucotoe figliuola ◀di▶ Orcamo Re ◀di▶ Babilonia, presso la quale egli s’introdusse sotto l’aspetto ◀di▶ Eurinome sua madre. Clizia figlia dell’Oceano, che inutilmente amava Apollo, scoverto l’inganno, nè avvertì Oreamo, che infuriato contro sua figlia la fece sotterrare viva ; ma Apollo, che non potè salvarla, la tramutò in una pianta, che dà l’incenso. Il rimorso ◀di▶ un tal attentato condusse a morte Clizia cangiata pur essa in Eliotropio (Girasole), pianta che gira guardando sempre il sole, come volendo rinfacciargli la sua poca corrispondenza.
Nacque da Apollo, e Coronide Esculapio, che da bambino fu dato ad allevare al Centauro Chirone, da chi fu istruito della virtù delle piante Diventò così celebre Esculapio nella medicina, che giunse a risuscitare anche gli estinti, e fra questi a restituire la vita ad Ippolito figlio ◀di▶ Tesèo. Un potere così grande ingelosì lo stesso Giove, che con un fulmine troncò i giorni ad Esculapio, e lo situò poi nel Cielo sotto l’aspetto ◀di▶ una costellazione detta Serpentario, ascrivendolo al numero degli Dei come Dio della medicina. Era rappresentato questo Dio sotto la figura ◀di▶ un uomo grave, coperto da un mantello con bastone, a cui sta una serpe attortigliata in una mano, ed una tazza nell’altra, ed un gallo a’ suoi piedi. Il tempio più famoso ◀di▶ questo Dio era in Epidauro, dove i Sacerdoti pretendevano, che loro si manifestasse sovente in forma ◀di▶ serpente.
La morte ◀di▶ Esculapio fu cagione ◀di▶ una ben seria sventura ◀di▶ Apollo. Non potendo questo Dio attaccar Giove ◀di▶ fronte per vendicarsi, ammazzò a furia ◀di▶ frecce i Ciclopi, che avevano fabbricato il fulmine. Riputando Giove fatta a lui stesso tale ingiuria, privò Apollo per qualche tempo della qualità divina, e lo cacciò dall’Olimpo. Il più amabile, il più saggio fra gli Dei fu costretto, per non perir della fame, ad avvilirsi a pascolare gli armenti ◀di▶ Admeto Re ◀di▶ Tessaglia. Qual impiego avendo lasciato per i furti ◀di▶ Mercurio, non trovò altra via, che ◀di▶ fare il muratore con offrire unito a Nettuno, parimente privato della divinità, al Re Laomedonte la sua opera nella fabbrica delle mura ◀di▶ Troja. La mercede fu convenuta : ma questi che non aveva molta dilicatezza, terminato il lavoro, gli mancò ◀di▶ parola. Lo sdegno ◀di▶ Apollo fu cagione, che una pestilenza attaccò gli stati ◀di▶ questo principe spergiuro. Da Nettuno contemporaneamente furono fatti inondare dalle acque del mare, con inviar colà per giunta un mostro orribile per accrescere la desolazione, e lo spavento. In sì fiera traversìa fu consultato l’Oracolo, la cui risposta fu che Laomedonte poteva disarmare la collera degli Dei nel solo caso ch’esponesse al mostro la sua figliuola Esione. Bisognò cedere : ed oramai questa principessa sarebbe stata la vittima infelice, se non fosse sopraggiuuto a tempo Ercole per salvarla. Laomedonte l’aveva promessa in isposa a questo Eroe : ma al suo solito pure gli mancò ◀di▶ parola.
Infuriato Ercole per tale indegnità, assediò Troja, e preso Laomedonte, lo ammazzò. Volle in seguito, che Telamone figliuolo ◀di▶ Eaco Re ◀di▶ Salamina sposasse Esione, in guiderdone del coraggio da esso mostrato per essere stato il primo nell’assalto.
Rimesso finalmente Apollo in grazia ◀di▶ Giove, comparì nuovamente nel Cielo rivestito della sua gloria. Ma siccome Esculapio fu l’innocente cagione del suo esilio, così un altro de’ suoi figliuoli gli attirò una nuova disgrazia. Fetonte a lui nato da Climene figlia ◀di▶ Teti, e dell’Oceano, ebbe un giorno delle brighe con Epafo figlio ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Jo, per avergli quest’ultimo rinfacciato ◀di▶ non essere nato da Apollo, come egli credeva. Il giovane Fetonte portò le sue doglianze a Climene sua madre, che gl’insinuò ◀di▶ recarsi ad Apollo per assicurarsene, locchè senza ritardo fu eseguito.
Apollo depose tutt’i suoi raggi luminosi, e giurò per la Stige, che avrebbe acconsentito a tutto ciò che suo figlio gli domandasse in contrassegno della paterna tenerezza. Fetonte gli chiedette in grazia ◀di▶ poter condurre per un sol giorno il suo carro per le vie del Cielo. Tal dimanda fece tremare Apollo, che si pentì del giuramento, che rivocare non era permesso agli Dei. Cercò dissuadere suo figlio, ma in vano. Il giovine temerario ne pretese l’adempimento.
Monta Fetonte il carro risplendente, e si allontana pur troppo, malgrado il divieto ◀di▶ suo padre. Ma i cavalli indocili all’insolita voce, e mal diretti dall’inesperta mano si scostano dalla via ordinaria, e slanciandosi troppo verso il Cielo talora, talora verso la terra, portano dappertutto la forza ◀di▶ un fuoco distruttore. I monti s’incendiano, le pianure si abbruciano, i fiumi s’inaridiscono, il mare si abbassa, e la madre Terra spaventata dal pericolo che le sovrasta, indirizza a Giove i suoi prieghi. Il Re degli Dei mosso a compassione diede ◀di▶ piglio al suo fulmine, e lo scagliò contro Fetonte, con averlo fatto precipitare nell’Eridano, o sia Pò. Le Eliadi figlie del Sole Lampetusa, Lampezia, e Faetusa, sorelle ◀di▶ Fetonte sentirono il più vivo dolore ◀di▶ sua morte : furono cangiate in pioppi, e le ◀di▶ loro lagrime diventarono granelli ◀di▶ ambra. Cicno amico ◀di▶ Fetonte ne morì ◀di▶ dolore, e fu trasformato in Cigno.
Apollo dopo aver vendicata sua madre contro il Serpente Pitone, volle altresì vendicarsi dell’orgoglio, e del disprezzo ◀di▶ Niobe Regina ◀di▶ Tebe, figliuola ◀di▶ Tantalo, e moglie ◀di▶ Anfione. Ella superba per aver sette figli maschi, e sette femmine ardì ◀di▶ aver la preminenza su ◀di▶ Latona, che non ne aveva che due, portando la sua empietà al segno ◀di▶ frastornare le feste, che si celebravano in onore ◀di▶ questa Dea, che per punirla si rivolse a’ suoi figli. Apollo a colpi ◀di▶ frecce uccise i maschi, che si esercitavano in un circo : e Diana nella stessa guisa tolse la vita alle femmine, che si aggiravano intorno ai roghi de’ loro germani.
Quantunque Apollo fosse il Dio degl’ingegni ; non fu perciò stimato quanto egli meritava ; fu soggetto ai colpi dell’invidia. Pane ebbe l’ardire ◀di▶ mettere al paragone il suo flauto alla lira del figlio ◀di▶ Latona : gli propose una disfida, che Apollo volentieri accettò. Tmolo Re ◀di▶ Lidia fu scelto per giudice, ed il suo voto fu per Apollo. Mida ivi pur presente fu ◀di▶ contrario avviso ; Apollo sdegnato della sua temeraria ignoranza gli fece nascere gli orecchi simili a quelli dell’asino. Il povero Mida disperato per tal regalo, cercò ◀di▶ nascondergli sotto un’alta berretta. Per disgrazia era al suo servizio un barbiere d’indole cicalone, che non osando svelare l’arcano fece un buco sotterra, ed ivi depose il segreto, che celar non sapeva. Intorno a questo buco nacque un canneto, e le canne che tutto il giorno crescevano, palesavano ai viandanti, che il Re Mida aveva gli orecchi dell’asino.
Apollo non fu però così discreto con Marsia satiro, e musico valentissimo, che parimente ebbe il coraggio ◀di▶ sfidare il Dio delle Muse. Accettò Apollo la sfida a patto, che chi restava al ◀di▶ sotto, fosse stato a discrezione del vincitore. Marsia fu vinto, indi legato ad un albero, vivo fu scorticato. Le Ninfe si dilettavano delle cantilene ◀di▶ questo satiro, e lo piansero tanto, che colle ◀di▶ loro lagrime crebbe ◀di▶ molto il volume delle acque ◀di▶ un fiume della Frigia detto Marsìa.
Questi sono i principali avvenimenti della storia ◀di▶ Apollo.
Diana.
Diana figlia ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Latona, sorella gemella ◀di▶ Apollo veniva riguardata in tre diversi aspetti, che le davano una triplice situazione ; cioè nel Cielo, nella terra, e nell’inferno. Nel Cielo sotto il nome ◀di▶ Selene, o ◀di▶ Febe, durante la notte, guidava il carro lunare, ed era altresì considerata per la luna istessa. In terra ella era tutta dedíta alla caccia, e chiamavasi Diana. Il nome ◀di▶ Ecate a lei si appropriava nell’inferno, dove il suo potere era considerabile, e veniva implorata da’ maghi, e dai ciurmadori. Triplice Ecate talvolta perciò la chiamavano.
Era ella ◀di▶ più la Dea della verginità, e de’ parti. Come nacque alquanti momenti prima ◀di▶ Apollo, non sì tosto vide la luce del giorno, che apportò degli ajuti a Latona, e tocca dai dolori, che provava sua madre nel partorire, giurò ◀di▶ serbare in perpetuo la sua verginità.
Il suo pudore fu si grande, che arrivò a punire severamente Attèone, ch’ebbe la sventura ◀di▶ vederla nel bagno. Questi era un insigne cacciatore, figliuolo ◀di▶ Aristèo, e nipote ◀di▶ Cadmo. Sdegnato la Dea per l’involontario fallo, lo cangiò in cervo. L’infelice Attèone volle darsi alla fuga, ma i suoi cani, che sotto tale aspetto nol riconobbero, l’inseguirono, e lo fecero in brani.
Ella castigò altresì le Ninfe, che la seguivano. Callisto figliuola ◀di▶ Licaone fu amata da Giove, che per sedurla più facilmemte, prese l’aspetto ◀di▶ Diana istessa. La Dea venuta in cognizione del tutto, discacciò ignominiosamente Callisto, che dopo qualche tempo diede alla luce Arcade. Furono a notizia ◀di▶ Giunone i nuovi intrighi del suo sposo, e Callisto pagò il fio del reato ◀di▶ Giove : Giunone implacabile trasformò in orsa questa Ninfa sventurata, che andò vagando per ben quindici anni sotto tal forma, finchè non fu incontrata da Arcade suo figlio, e valente cacciatore. Questi non era al caso ◀di▶ riconoscerla, stava già sul punto ◀di▶ scagliarle i suoi dardi, se Giove non si fosse affrettato ◀di▶ evitare un parricidio con aver sottratto la madre al figlio, che amendue situò nel cielo tra ’l numero delle costellazioni. Callisto ebbe il nome ◀di▶ Orsa maggiore, ed Arcade quello ◀di▶ Orsa minore, o Boote, Bifolco.
Diana assai gelosa de’ suoi dritti avvolse ne’ malanni la casa ◀di▶ Enéo Re ◀di▶ Calidonia, per non essersi questi ricordato ◀di▶ lei in un sacrifizio che offrì a tutti gli Dei, con aver inviato un cignale ◀di▶ enorme grandezza negli stati ◀di▶ questo principe. Molti de’ primi guerrieri della Grecia si unirono per dargli caccia. Atalanta figlia ◀di▶ Glasio Re ◀di▶ Arcadia fu la prima a ferirlo. Meleagro figliuodi Enèo finì ◀di▶ ucciderlo, e spinto dal coraggio che aveva mostrato questa giovane principessa, le offrì il teschio del cignale. I fratelli ◀di▶ Altea moglie ◀di▶ Enèo credettero, che questa spoglia dovesse essere ◀di▶ loro pertinenza. La contesa andò avanti, si venne alle mani, o riuscì a Melagro ◀di▶ vincere i suoi nemici : in seguito egli sposò Atalanta.
Malgrado che Diana giurasse ◀di▶ esser casta, e sommo fosse il suo contegno, s’invagchì ◀di▶ Endimione leggiadro pastorello ◀di▶ Caria, nipote ◀di▶ Giove, e dal medesimo condannato a dormire per sempre nell’inferno, per avere osato ◀di▶ pretendere sopra Giunone. Ma Diana, che sotto il nome ◀di▶ Ecate aveva una grande influenza nell’impero ◀di▶ Plutone, ◀di▶ là il trasse, e lo nascose in una grotta del monte Latmos nella Caria.
Vedesi Diana ordinariamente rappresentata in abito ◀di▶ cacciatore col turcasso sulle spalle, e coll’arco alla mano : la sua veste è succinta, ed il suo cane corre presso a lei. Doppia treccia annodata si eleva sulla testa, e se le adatta talvolta sulla sommità della fronte una mezza luna, le cui estremità sono rivolte verso il Cielo : ornamento, che indica, il suo impiego ◀di▶ condurre il carro della luna. Talvolta è tirata su ◀di▶ un carro da due cervi : qualche volta porta una fiaccola in mano per isnidare gli animali selvaggi da’ loro covili1.
Le Muse.
Nove sono le Muse, che sovrastano alle scienze, alle arti, ai talenti. Hanno Giove per padre : Mnemosina (la memoria) è la loro madre. Eccone i nomi : Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Terpsicore, Erato, Polimnia, Calliope, e Urania. Apollo è il loro capo, e perciò vien chiamato Musagete, cioè conduttore delle muse.
Clio, parola che significa gloria, era destinata ad eternare col suo canto gli Eroi. La sua effigie è coronata ◀di▶ allori con qualche papiro alla mano, o con un libro, ed un piccolo stile.
Euterpe, voce indicante piacere, contento, presedeva alla musica, ed alla poesia boschereccia, circondata da istrumenti musicali, e dal doppio flauto.
La Musa della commedia era Talìa : la sua corona era ◀di▶ ellera, recando in mano una maschera, e ’l pedum, o sia bastone pastorale.
Ornata ◀di▶ corona regale Melpomene spiegava i suoi dritti sulla tragedia collo scettro in una mano, e nell’altra una coppa avvelenata. Il suo portamento è nobile, e fiero : la sua figura è maestosa, e ’l suo piede calza il coturno.
Terpsicore dirige il ballo, e suona la lira, o pur batte il timpano. Ella ha seco una tazza, ed un tirso.
Erato si occupa della bellezza degli amorosi componimenti. La lira è il suo istrumento musicale, ed è corteggiata da piccoli amori.
Polimnia è la musa della memoria. L’indole ◀di▶ tal nome porta seco il significato ◀di▶ molti Inni, per indicare i diversi soggetti, che canta questa Musa. Ella regola altresì il gesto, e la pantomima.
Calliope presiede alla poesia epica. Ella tiene in mano un poema, ed una corona : nell’altra una tromba.
Urania non ha altr’oggetto, che il Cielo, ed è perciò la Musa dell’astronomia. La sua testa è coronata da un diadema ◀di▶ stelle : ha per insegna un compasso, un globo, ed altri istromenti matematici, oltre una bacchetta, colla quale fa le dimostrazioni delle sue lezioni.
Ecco ne’ seguenti versi espressi gl’impieghi tutti delle Muse.Ne’ suoi rapidi voli Urania svelaDi natura i segreti, e dell’Olimpo.Celebra Clio la sorte degl’imperi,Con rendere immortali uomini, e Dei.Ed alte imprese scopo son del canto.Con vaga illusion mista d’ingegnoTalia scherzando, al vizio ognor fa guerra.Con gravità Melpomene narrandoTragici eventi, a pianger ci riduce.Di piccol flauto i suoni anima Euterpe,E d’innocente gioja asperge i carmi.Il mutulo parlar Polimnia insegna,Atteggiando cogli occhi, e col sembiante.Terpsicore, e danzar snella si vede.Col spirto animator dell’opre belleLe guida ognor, e l’immortale schieraD’ogni sapere il merto in se racchiude.
Venere.
Venere la Dea della bellezza, e la Regina degli amori, nacque, come si è detto, dal sangue, che versò nel mare Urano, allorchè fu ferito da Saturno suo figlio. Appena uscita alla luce questa Dea, Zefiro la condusse all’Isola ◀di▶ Cipro, dove le Ore presero cura della sua educazione : quindi fu detta Ciprigna, come pure Citerea da Citera Isola dov’ella regnava. Venere fu maritata a Vulcano, dal quale ebbo molti figli ; fra questi i più rinomati sono Cupido, Priapo, Imeneo, Dio che sovrastava alle nozze. Furono anche suoi figli Enea. e le tre Grazie1.
La sua bellezza era tale che fu giudicata la più bella fra le Dee, ed a lei in concorso ◀di▶ Pallade, e Giunone, fu dato da Paride il pomo ◀di▶ oro, che la Discordia aveva gittato dove si celebrarono le nozze ◀di▶ Teti, e ◀di▶ Peleo. Ma altrettanto indecente e sconvenevole fu la sua condotta : e noi in grazia della modestia volentieri passiamo sotto silenzio le varie sue vicende, specialmente con Marte, e con Adone. Crediamo quì piuttosto miglior partito indicare un’ altra Venere celeste, ◀di▶ cui parla Platone, tutta spirante decenza, e grazie non affettate, e riposta saviezza. La Venere ◀di▶ cui parliamo, non è certamente un sogno ◀di▶ Platone. Parecchi accreditati scrittori ci assisicurano che a questa Venere virtuosa si erano eretti magnifici templi in Cipro, in Atene, e presso i Fenicj, dove non era permesso agli uomini ◀di▶ entrare1.
Osserviamo ordinariamente Venere accompagnata dalle Grazie, o da Amore, assisa su ◀di▶ un carro tirato da cigni, o da colombe. Queste furono a lei sacrate al proposito ◀di▶ un picciolo avvenimento. Stava la Dea un giorno cogliendo dei fiori in un boschetto : Amore vantossi ◀di▶ esser egli più sollecito in raccoglierli : ed agile saltellando da fiore in fiore mercè le ali, l’avrebbe vinta, se una Ninfa chiamata Peristera non avesse ajutata Venere. Crucciato perciò Amore cangiò la Ninfa in colomba.
L’ornamento principale ◀di▶ Venere era una zona, o sia cintura, che aveva la proprietà ◀di▶ darle sempre nuove attrattive. Giunone una volta la chiese in prestito per comparir più bella al suo sposo.
I luoghi dove si esercitava il culto ◀di▶ Venere, erano principalmente Gnido, Amatunte, Pafo, Idea, Citera 1.
Cupido, o sia Amore.
Amore era figliuolo ◀di▶ Venere, e ◀di▶ Marte. Egli è sempre figurato qual fanciullino pieno ◀di▶ grazie, e ◀di▶ astuzie con un arco alla mano, ed un turcasso su gli omeri2. Le sue picciole ali sono ◀di▶ colore azzurro, ◀di▶ porpora, e dorate. Il Riso, il Gioco, il Piacere, il Vezzo vengono espressi egualmente che lui sotto le forme ◀di▶ alati Amoretti. Sul nascere ◀di▶ Cupido ognuno prevedeva, che sarebbe il più tristo fra gli Dei. Giove voleva obbligar Venere sua madre a disfarsene : ma ella per sottrarlo allo sdegno del Sovrano dell’Olimpo, lo nascose ne’ boschi, ove succhiò il latte delle bestie feroci. Appena che Amore arrivò all’età ◀di▶ poter maneggiare l’arco, se ne formò uno ◀di▶ frassino, e si servì de’ rami ◀di▶ cipresso per fare le frecce. I primi suoi saggi furono sugli animali, per indi dirigerli ai cuori degli uomini. Amò Psiche, e la fece da Zefiro trasportare in un luogo ◀di▶ delizie, ove la trattenne per molto tempo, senza che costei lo avesse conosciuto. Venere afflitta per vedere il suo figlio fatto suddito ◀di▶ questa giovane, la perseguitò con tanta stizza, che infelicemente alla fine se ne morì. Ma Giove, ch’era della parte ◀di▶ Cupido, restituì a Psiche la vita, e gliela destinò per isposa. Psiche è rappresentata come una ragazza ingenua, e colle ali ◀di▶ farfalla.
Vulcano.
Si è già detto, che Vulcano1 nacque talmente brutto, che Giove con un calcio lo fece cadere dal Cielo. Il nume bambino si rotolò lungo tempo nell’aria, e sarebbe senza dubbio morto, se gli abitatori ◀di▶ Lenno non lo avessero raccolto nel cadere fralle ◀di▶ loro braccia. Egli si ruppe ciò non ostante una coscia, e restò zoppo1. Come era ingegnoso, ed inventore, abbracciò una professione dove poteva far mostra de’ suoi rari talenti, che fu appunto quella ◀di▶ fabbro ; e stabilì la sua fucina nell’isola ◀di▶ Lenno, in quella ◀di▶ Lipari, e secondo alcuni poeti, sotto l’Etna2. Compagni de’ suoi lavori erano i Ciclopi, specie ◀di▶ giganti figli della Terra, che avevano un occhio solo nella fronte. I più conosciuti erano Bronte, Sterope, e Piracmone. Vulcano fece uscire dalla sua fucina una quantità ◀di▶ capi d’opera, che formavano l’ammirazione degli Dei, e degli uomini. Opera delle sue mani furono il fulmine ◀di▶ Giove, e le saette ◀di▶ Amore. Alle preghiere ◀di▶ Teti egli s’indusse a lavorare l’armatura ◀di▶ Achille, e ad istanza ◀di▶ Venere fece quella ◀di▶ Enea. Vulcano finalmente era il Dio del fuoco, e la sua figura è poco vantaggiosamente espressa, cioè, con una gamba più corta dell’altra, e con un martello alla mano, per lo più assiso innanzi alla sua incudine. Vulcano ad onta del suo rozzo impiego sulla terra, ne aveva non pertanto un altro nel Cielo molto più decente, qual’era quello ◀di▶ porgere il nettare agli Dei. Vero è, che la poca grazia, colla quale esercitava le funzioni ◀di▶ coppiere, fu cagione che Ebe avesse un tale incarico. Questa giovane, e leggiadra Dea, essendo caduta in presenza degli Dei, lasciò pur essa un tale impiego, dato poi da Giove al suo caro Ganimede1.
Minerva.
Minerva nacque in una maniera del tutto singolare. Giove dopo la guerra de’ Titani sposò Meti ; ma avendogli detto Urano, che questa donna avrebbe dato alla luce una bambina dotata ◀di▶ una perfetta saviezza, ed uu fanciullino a cui il Destino aveva riserbato l’impero del mondo, egli divorò Meti. Dopo qualche tempo gli venne un male ◀di▶ capo, ed essendo ricorso a Vulcano, questi con un colpo ◀di▶ accetta gli aprì il cervello, ed immantinente ne uscì fuori Minerva già fatta grande, ed armata. La Dea appena nata cominciò ad eseguire un ballo detto Pirrico, annunciandosi con soverchia gentilezza per una Divinità, che durante la sua vita doveva mantenere un portamento oltremodo sostenuto.
Minerva al pari delle altre Dee fu egualmente gelosa de’ suoi dritti. Ella non la perdonò ad Aracne figlia ◀di▶ Idimone nativo ◀di▶ Colofone per essersi vantata ◀di▶ sapere l’arte del ricamo al pari ◀di▶ Minerva istessa. La Dea in segno ◀di▶ disprezzo le diede varj colpi ◀di▶ navicella sulla testa. Disperata Aracne per tale affronto voleva impiccarsi : ma impietositi gli Dei la sostennero nell’aria, e la cangiarono in ragno.
La controversia ch’ ebbe con Tiresia, terminò all’istante. Avendo questi avuta la temerità ◀di▶ guardarla mentre stava nel bagno, fu privato della vista.
Questa Dea si contrastò il dritto con Nettuno pel nome, che doveva darsi alla nascente città ◀di▶ Atene. I Dei decisero, che chi de’ due rendesse un più utile servizio alla nuova città, avesse tal facoltà. Nettuno con un colpo del suo tridente battè la terra, e fece uscire un cavallo. Minerva ivi fece nascere una pianta ◀di▶ ulivo, ed ottenne l’intento. Iu seguito questo arbore fu il segno della pace, ed a lei fu consagrato.
Minerva chiamavasi anche Pallade1. Sotto la prima denominazione ella era la Dea della sapienza, ed aveva la preminenza sulle scienze, sulle belle arti, e sulla pace. Sotto la seconda presedeva alla guerra, ed era la protettrice degli Eroi. La sua figura era nobile, ed alta la sua statura : la fisonomia era bella, ma fiera nel tempo istesso. Portava in testa un caschetto con una civetta, uccello sno favorito2 : un’asta alla mano, ed il braccio armato dell’Egida, ch’era per l’appunto uno scudo fatto dalla pelle ◀di▶ un mostro chiamato Egi, che Minerva aveva ammazzato nella guerra de’ Giganti. Ella aveva sopra questo scudo fatto incidere la terribile testa ◀di▶ Medusa con i capelli ◀di▶ serpenti. Vi ha chi dice, che l’Egida era fatta dalla pelle della capra Amaltea da Giove a lei donata.
Marte Dio della guerra.
Piccata Giunone contro Giove, che da se solo aveva fatto nascere Minerva, volle ella fare altrettanto, creando un Dio, senza che Giove ci avesse parte1. Forte nel suo proposito si consigliò con Flora, che le indicò un fiore, che al solo toccarlo concepì Marte. Questa è l’origine per altro gentile della nascita ◀di▶ un Dio così terribile, qual’era quello della guerra. Tal favola ci hanno tramandato i poeti latini : ma1 i Greci, che in lingua loro chiamano Marte Ares lo dicono figlio ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Giunone.
Marte è rappresentato armato da capo a piedi, avendo un gallo a lui vicino, simbolo della vigilanza. Il suo carro ◀di▶ acciajo è guidato da Bellona Dea similmente della guerra : i suoi cavalli nati da Borea, ed Erìnni chiamansi il Terrore, e lo Spavento. Parecchi mostri sono effigiati sulla ◀di▶ lui carrozza : il Furore, e lo Sdegno formano l’ornamento del suo elmo : la Fama lo precede da lontano, ed il Terrore gli sta d’accanto. Eccone ne’ seguenti versi il ritratto.
Con minaccevol voce, e insanguinalaDestra s’apre il sentiero innanzi al Nume,E in fuga va la Tema, e lo spavento :Intrepido il Valor gli siede accanto,Con occhi torvi, e spada in alto alzata,Seco traendo la sfidata morte,Dell’industre Vulcano opra lodata.Il ferreo carro Attivitade guida ;I suoi spumanti indomiti destrieri,Spiran foco, saette, e nembi orrendi,Che il Mondo d’evitar invan procura.Calpesta al suo passar scettri, e corone,E de’ troni si fa sgabello al piede ;Scaglia i fulmini, l’orbe ognor scotendo,Di estinti un folto stuol empie l’inferno 1.
Mercurio
Dio del commercio, e messaggiero degli Dei. Atlante figliuolo ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Climene ebbe sette figliuole, chiamate le Atlantidi. Maja la maggiore ◀di▶ esse fu la madre ◀di▶ Mercurio2. Egli nacque il mattino ; al mezzo giorno inventò la lira, e la sera aveva gia rubato lo scettro a Giove, il martello a Vulcano, il tridente a Nettuno, i dardi ad Apollo, ed a Venere il cinto. Come aveva tutte le disposizioai a saper rubare, così fra tanti suoi attributi ebbe quello ◀di▶ Dio de’ ladroncelli, e rubatori. Non ancor grande in età egli rubò alcune vacche degli armenti del Re Admeto, e da Apollo custodite, che trasportò nei boschi. Un pastore per nome Batto fu il solo, che se ne avvide. Mercurio per timore ◀di▶ essere scoverto gli donò la più bella delle vacche, che aveva involate : ma non fidandosi interamente ◀di▶ lui, finse ◀di▶ ritirarsi : e ricomparso sotto un altro aspetto gli offerì una vacca, ed un bue a condizione, che avesse svelato il luogo, ove il furto stava nascosto. Batto sedotto dal guadagno svelò ciò, che sapeva : allora Mercurio diedesi a conoscere, e lo trasformò in pietra ◀di▶ paragone : pietra che ha la virtu ◀di▶ scoprire la natura de’ metalli da essa toccati.
Nacque da Mercurio, e da Venere un figliuolo chiamato Ermafrodito, voce greca indicante il nome de’ suoi genitori, cioè ◀di▶ Ermete Mercurio, e ◀di▶ Afrodite Venere.
Mercurio era fra gli Dei il più occupato : era il confidente ◀di▶ tutti, ed in particolare ◀di▶ Giove, ed il Messaggiere dell’Olimpo. Egli si mischiava in tutti gli affari, regolava gl’intrighi, si occupava della guerra, e della pace : presedeva ai giuochi, alle adunanze, ascoltava i pubblici indovini, che lo consultavano, e dava ad essi le risposte. Era il Dio dell’eloquenza, del commercio, e dei ladri, come si è detto. Vedevasi da per tutto nel cielo, nella terra, e nell’Inferno, e per potere da per tutto accorrere, aveva le ali nella testa, e nei piedi. Come direttore degli affari tiene in mano un caducèo, cioè una verga intorno a cui sono attorcigliati due serpenti. Come protettore del commercio porta una borsa ◀di▶ cuojo : allorchè poi è incaricato ◀di▶ condurre le ombre de’ morti all’inferno, gli si dà una semplice bacchetta1.
Bacco Dio del Vino.
Bacco è figliuolo ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Semele nata da Cadmo2. Ella ad insinuazione ◀di▶ Giunone, che le comparve sotto l’aspetto ◀di▶ Beroe sua nutrice, chiedette a Giove una grazia, obbligandolo a giurare per Stige, che glie l’accorderebbe : questa fu che Giove venisse a visitarla con tutto l’apparato celeste. Tremò Giove per Semele a tale inchiesta, ma non avendo potuto rimuoverla dal suo proposito, fu astretto ad eseguire il suo giuramento. Egli rimontò all’Olimpo, ed indi ne discese decorato da’ suoi raggi, ed armato della folgore. All’accostarsi tutto avvampò, e la stessa Semele fu divorata dalle fiamme. Mercurio, che accompagnava il Sovrano degli Dei, ebbe appena il tempo ◀di▶ salvare il picciolo Bacco, che stavasi ancora nel seno ◀di▶ sua madre. Ma siccome non era giunto il tempo, che doveva nascere, Giove aprì una sua coscia, ed ivi racchiuse il bambino. Quando nel trasse, il diede a Mercurio, che lo consegnò a Niso. Questi lo educò nelle caverne del Monte Nisa nell’Arabia. Le figliuole ◀di▶ Atlante, e ’l vecchio Sileno satiro, che amava molto il vino, ebbero cura della sua infanzia. Bacco a suo tempo contestò la sua gratitudine, cangiando le figliuole ◀di▶ Atlante in stelle dette Jadi, e facendo presso ◀di▶ se restare il giocoso Sileno, che lo seguiva sopra un asinello, sul cui dorso talvolta appena si reggeva, perchè semiebrio.
Bacco combattè con ardire nella guerra de’ giganti : indi disceso in terra conquistò le Indie. Tutta la sua armata era composta ◀di▶ uomini, e donne, che portavano un tirso, cioè frecce circondate ◀di▶ pampini, e ◀di▶ edere, che ne nascondevano la punta. Per tale conquista Bacco fu detto il domatore delle Indie, o del Gange, fiume che attraversa questa contrada.
Era cosa pericolosissima l’irritare questo Nume, che acremente volle vendicarsi ◀di▶ Penteo, e ◀di▶ Licurgo.
Avendo Penteo Re ◀di▶ Tebe proibito a’ suoi sud diti ◀di▶ celebrare le feste ◀di▶ Bacco, questo Dio ispirò alla madre del Re, ed alle sue Menadi, o siano Baccanti un sì fatto furore, che esse lo ammazzarono senza conoscerlo. Licurgo Re della Tracia, che aveva osato ◀di▶ dichiararsi nemico ◀di▶ Bacco, si ruppe le gambe, mentre s’impegnava ◀di▶ tagliare tutte le vigne che stavano ne’ suoi stati.
Vedesi ordinariamente rappresentato Bacco sotto l’aspetto ◀di▶ un bel giovane imberbe1 con capelli biondi inanellati, e coronati ◀di▶ edera2, o ◀di▶ pampini. In una mano tiene un tirso, e nell’altra de’ grappoli d’uva, o un vaso da bere. Una pelle ◀di▶ pantera gli covre gli omeri si talvolta assiso sopra una botte, e tirato da due tigri1.
Nettuno Dio del mare.
Nettuno figliuolo ◀di▶ Saturno, e ◀di▶ Clbele nella divisione del Mondo ebbe, come si è detto, l’impero del mare, dove principalmente esercitava il suo potere, come Sovrano ◀di▶ tutt’i Dei delle acque. Si suole rappresentare in piedi sopra un carro, formato ◀di▶ conchiglie, tirato da cavalli marini : tiene in mano il tridente, col quale comanda ai flutti ◀di▶ sollevarsi, o ◀di▶ mettersi in calma : impone altresì ai venti, o ◀di▶ spirare per tutta la terra, o ◀di▶ rinserrarsi nelle loro caverne. La sua corte è composta ◀di▶ Tritoni, che fanno echeggiare l’aere al suono delle conche marine, e degli Dei del mare, che tutti circondano, e sieguono a nuoto il suo carro, che galleggiando vola sulle acque.
Noi abbiamo già osservato le principali vicende ◀di▶ Nettuno : ve ne ha ◀di▶ più ancora ; ma è inutile ◀di▶ quì rapportarle.
Egli sposò Amfitrite figliuola dell’Oceano, e ◀di▶ Dori Dea del mare.
Plutone Dio dell’inferno.
Plutone figliuolo ◀di▶ Saturno, e ◀di▶ Cibele, germano ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Nettuno, ebbe in porzione il regno degli estinti, e stabili la sua sede nell’inferno, che stava nelle viscere della terra. Si figura assiso sopra un trono ◀di▶ ebano, avendo uno scettro a due punte in una mano, e nell’altra delle chiavi, per dinotare, che a chi entrava nel suo regno, non era permesso ◀di▶ più uscirne. Cerbero cane con tre teste stava immobile ai ◀di▶ lui piedi.
Abbiamo già osservato in qual maniera egli involò Proserpina figliuola ◀di▶ Cerere, per farla divenir sua moglie. Questo Dio non era sicuramente bello : la sua reggia non era la più ridente ; ed in conseguenza non si sarebbe ritrovata una Dea, che ◀di▶ tutto suo genio si fosse a lui accoppiata.
Descrizione dell’Inferno.
Situavasi dagli antichi l’inferno fra le immense sotterranee voragini, ove risplendeva una luce diversa da quella, che sfavilla sotto le volte de’ Cieli. L’Averno era una dell’entrate principali per ivi penetrare. Alla porta dell’inferno stava una moltitudine ◀di▶ Esseri malefici, fra i quali soprattutto le Malattie, la Vecchiaia, la Paura, la Fame, la Guerra, la Discordia, ec. ec. : ma questi erano veri fantasmi, e non già immagini effettive.
Lasciati questi mostri fantastici, vedevasi Acheronte fiume grande, e torbido, che deponeva il suo limo nello stagno ◀di▶ Cocito, dopo avere attraversato l’impero ◀di▶ Plutone. Bisognava tragittarlo. Appena che Mercurio armato della sua verga, aveva condotte le ombre novelle alla riva ◀di▶ questo fiume, Caronte figlio dell’Erebo, e della Notte le riceveva nella sua barca al prezzo ◀di▶ una piccola moneta, e le trasportava nella ripa opposta. Questo rigido barcajuolo poteva ricevere quello ombre soltanto, che avevano avuto gli onori della sepoltura1, allontanando a colpi del suo remo le altre che si affollavano per passare. L’orrida sua ciera bastava a destare lo spavento. La sua barba era bianca, ed arricciata : gli occhi vivaci, e penetranti : vecchio, ma la sua vecchiaja era sempre fresca, e vigorosa. Un pezzo ◀di▶ stoffa ◀di▶ color bigio legata sopra delle spalle era il suo vestire2.
Sulla riva opposta ◀di▶ Acheronte stava Cerbero, cane ◀di▶ enorme grandezza, che aveva tre teste, e tre gole spaventevoli. Questi abitava in un antro, e vegliava eternamente per impedire alle ombre l’uscita.
Il Tartaro, ed i Campi Elisj formavano la divisione dell’Inferno Cinque fiumi ivi scorrevano, cioè l’Acheronte ◀di▶ cui abbiamo già parlato : il fiume Stige, le cui acque giravano nove volte per que’ contorni, e per le quali i giuramenti fatti neppure gli Dei potevano mandare a vuoto : Cocito da sole lagrime formato : Flegetonte, che in vece ◀di▶ acqua correva in fiamme : e ’l fiume Lete, o sia dell’Obblìo 1, le ◀di▶ cui acque facevano perdre la memoria del passato. Gli Elisj erano il soggiorno delle ombre degli Eroi, e de’ giusti. Esse passeggiavano tranquillamente per que’ boschetti pieni ◀di▶ ogni delizia, si sollazzavano in mille guise per quelle vaste praterie, e godevano ◀di▶ una felicità non mai interrotta.
Ben diverso era il Tartaro, detto talvolta anche Tenaro da’ poeti, ove stavano ristrette le ombre de’ delinquenti soggette ad una moltitudine ◀di▶ pene.
Da tale separazione ◀di▶ buoni, e ◀di▶ cattivi si argomenta, che tutte le ombre erano giudicate al loro arrivo all’Inferno. Discese dalla barca ◀di▶ Caronte, all’istante erano condotte innanzi a tre giudici, cioè Minosse, Eaco, e Radamanto, che colà perpetuamente dimoravano, sedendo nel ◀di▶ loro tribunale con una bacchetta alla mano in segno della loro dignità.
Le Furie aspettavano le ombre de’ condannati per soggettarle alle pene ad esse applicate. Tre erano le terribili esecutrici delle sentenze de’ giudici infernali, Tisifone, Megera, ed Aletto, nomi indicanti rabbia, carnificina, ed invidia. Chiamavansi altresì Eumenidi, cioè dolci, ma per antitesi, cioè per dinotare l’opposto. Il loro aspetto avrebbe sgomentato i più intrepidi : erano macilenti, scarne, con lunghe smunte mammelle, e da per tutto spiravano ferocia : il loro abbigliamento era un gruppo ◀di▶ colubri, con una fiaccola accesa in una mano, e nell’altra una sferza ◀di▶ serpenti, colla quale ffagellavano le ombre a loro consegnate.
Varie erano le pene, che si soffrivano nel Tartaro1. Sisifo, che durante la sua vita aveva colmata ◀di▶ delitti la Grecia, era condannato a trascinare per sempre un enorme sasso alla cima ◀di▶ una montagna, d’onde gravitando pel proprio peso ricadeva immantinente.
Flegia, che aveva appiccato il fuoco al tempio ◀di▶ Apollo, stava inchiodato a’ piedi ◀di▶ una rupe, che sembrava ad ogn’istante ◀di▶ schiacciarlo colla sua caduta.
Il gigante Tizio, che ardì ◀di▶ attentare all’onore ◀di▶ Latona, sentiva lacerarsi i visceri da un avoltojo, che li divorava a misura, che si rinnovavano.
Issione era attaccato ad una ruota, che girava ◀di▶ continuo. Egli aveva osato ◀di▶ aspirare al possesso ◀di▶ Giunone. Giove per assicurarsi del suo delitto, gli avea consegnata una figura fantastica formata ◀di▶ nuvole, e che s’assomigliava perfettamente alla Dea.
Tantalo quel Re crudele, che per mettere a prova la divinità degli Dei in una festa diede loro a mangiare il proprio suo sigliuolo, sente eternamente gli stimoli della fame, e della sete, malgrado che una pianta carica ◀di▶ frutta gli penda sulla testa, ed egli stesso stìa fino al mento tuffato nell’acqua. Quando vuol dissetarsi, le acque spariscono a misura che vi porta le labbra : se stende la mano per cogliere delle frutta, il ramo da se stesso si allontana. Supplizio proporzionato al suo delitto.
Le Danaidi, alle quali era concesso tregua, e riposo allora che avessero riempiuta una botte, che non avea fondo.
La loro istoria esige qualche dettaglio. Danao Re ◀di▶ Argo padre delle suddette, le aveva promesse in matrimonio ai cinquanta figliuoli ◀di▶ Egitto suo fratello Re dell’Egitto : ma fu un tempo istesso l’avanzare questa promessa, e concepire un orribile disegno. Come l’oracolo avea predetto, che uno de’ figli del suo germano lo avrebbe rovesciato dal trono, egli diede ◀di▶ nascosto a ciascuna delle sue figlie un pugnale con ordine ◀di▶ ammazzare i loro sposi nella prima notte, che ad essi si univano. La sola Ipermnestra rifiutò ◀di▶ obbedire, salvando il suo sposo Linceo, che amava teneramente ; e questi verificò il presagio dell’oracolo, con detronizzare Danao in vendetta della morte de’ suoi fratelli.
Parte seconda
Divinità del second’ordine.
GL’Iddj maggiori, ◀di▶ cui abbiamo già letta la storia, partecipavano della natura reale, e della natura immaginaria. Il ◀di▶ loro potere era più, o meno esteso. Essi avrebbero potuto senza dubbio governare l’universo : ma la cecità degli uomini, che non potevano concepire le divinità separate da tutte le passioni, ed esenti dalle umane debolezze, credette indispensabile l’immaginare delle divinità ◀di▶ second’ordine, che si occupavano dei dettagli, che per necessità dovevano sfuggire agli Dei del prim’ordine. Per conseguenza furono gli uomini obbligati a creare altrettanti Dei, secondo quel che loro suggeriva la fantasia riscaldata, o a misura che il bisogno lo richiedeva.
Divinità Campestri.
Pane.
Pane occupa il primo luogo tra gl’Iddj campestri, ed è specialmente il Dio de’ pastori. La sua figura non lusinghiera pareva che dovesse spaventare i pastori piuttosto che riscuotere da essi un culto. Vedesi rappresentato metà uomo, e metà becco, avendo le corna sulla testa, il volto umano, le cosce irsute, ed i piedi ◀di▶ capra. Il flauto composto ◀di▶ più canne, che porta fralle mani, ci fa sovvenire ◀di▶ un avvenimento de’ più particolari ◀di▶ sua vita. Amò questo Dio Siringa ninfa del seguito ◀di▶ Diana : ma come questa non voleva per niente ascoltarlo, tentò egli ◀di▶ usare la forza : la ninfa si diede alla fuga, e si rifugiò in un canneto del fiume Ladonte suo padre, dal quale fu cangiata in canna. Pane per consolarsi ◀di▶ tal perdita, tagliò alcune canne accozzandole insieme colla cera, e ne formò uno strumento musicale, chiamato Siringa dal nome della ninfa.
Fauno.
Fauno figliuolo ◀di▶ Pico Re del Lazio cra altresì il Dio de’ pastori, ed è rappresentato sotto la forma medesima ◀di▶ Pane. Pico suo padre non avendo voluto ascoltar Circe, fu da questa trasformato in un uccello detto Picchio.
Satiri,ABCD e Fauni.
Sono rappresentati così gli uni, come gli altri colle corna, e piedi ◀di▶ becco, non altrimenti che Fauno, e Pane.
Sileno.
Sileno figliuolo ◀di▶ una ninfa, aveva educato Bacco, e passò tutti i suoi giorni in ubbriacarsi, piacendogli assai il buon vino. Bacco lo amava moltissimo, e lo portò seco al conquisto delle Indie. Un giorno, che il buon uomo viaggiava per la Lidia, smontato dal suo asinello si fermò presso ◀di▶ un fonte, ed ivi prese sonno. Mida che lo seppe, bramando ◀di▶ averlo per un poco nella Corte, mentre dormiva, fece empire la fontana ◀di▶ vino in luogo dell’acqua che conteneva. Svegliatosi il piacevole vecchio, e credendo ciò un prodigio, volle contestarne la sua gratitudine a modo suo, e si ubbriacò secondo il solito suo costume. Mida allora lo fece trasportare alla sua Reggia, e lo trattò così bene, che Sileno ritornato presso ◀di▶ Bacco parlava sempre in lode ◀di▶ questo re. Bacco in compenso ◀di▶ tanti favori prestati al suo caro Sileno, disse a Mida che avesse dimandato ciò che voleva. Questi chiese al Nume, che avesse convertito in oro tutto ciò che toccava, credendo questo un bene inestimabile. Tal grazia ottenne : ma si accorse ben tosto ◀di▶ aver ottenuto un dono dei più funesti. Allorchè volle mangiare, il cibo che accostava alle sue labbra, diventava oro sotto i suoi denti, in guisachè sarebbe morto per inedia in mezzo alle ricchezze, se Bacco da lui nuovamente chiamato in soccorso non lo avesse consigliato ◀di▶ andare a lavarsi le mani nelle acque del fiume Pattolo, ove perderono la proprietà dianzi ricevuta. D’allora questo fiume colla sua corrente trasporta scagliette d’oro.
Ritornando da’ suoi viaggi Sileno si fermò nell’Arcadia, dove in tutt’i giorni si ubbriacò al suo solito, e si fece amare moltissimo dai pastori, e dalle pastorelle, a’ quali cantava delle tenere canzoni, atteso il suo dolce carattere. Una volta due ninfe lo sorpresero nel fondo ◀di▶ una grotta, ove egli erasi addormentato : da lungo tempo Sileno aveva loro promesso alcuni versi che mai non diede, le ninfe lo legarono con alcune ghirlande, e gli tinsero il volto ◀di▶ mora spina : sorrise Sileno svegliato nel vedersi fralle loro mani : dimandò loro ◀di▶ esser posto in libertà, e non l’ottenne, che dopo ◀di▶ avere adempiuto alla sua promessa.
Silvano.
È questi uno degli Dei delle foreste, che talvolta si confonde con Pane, perchè rappresentato come il medesimo. I Satiri, i Fauni, i Silvani si rassomigliano perfettamente fra loro.
I Centauri.
I Centauri erano mostri per la metà uomini, e per l’altra cavalli ; la parte superiore fino al principìo delle cosce era in forma umana ; il più apparteneva al cavallo. Si crede nata l’invenzione ◀di▶ questi esseri favolosi, per designare i primi uomini domatori de’ cavalli.
Chirone.
Chirone figliuolo ◀di▶ Saturno, e ◀di▶ Filira ninfa dell’Oceano, era il più saggio ed istruito tra i centauri. Celebri furono i suoi allievi, fra quali si distinse Esculapio, Giasone, Castore, Polluce, ed Achille. Egli suonava benissimo l’arpa, scoccava l’arco perfettamente, conosceva la forza dei semplici, ed era eccellente medico. Come figlio ◀di▶ Saturno aveva il dono dell’immortalità : ma essendosi fatta cadere sopra ◀di▶ un piede una freccia avvelenata ◀di▶ Ercole, provò un dolore tanto sensibile che cercò in grazia agli Dei ◀di▶ poter morire : il suo voto fu esaudito, e dopo morte ottenne un luogo nel Zodiaco sotto il nome ◀di▶ Sagittario. Ociroe sua figlia parimente istruita nelle scienze che possedeva suo padre, sapeva altresì presagire il futuro : ella volla annunziare il destino ◀di▶ Esculapio, e ne fu punita con perdere la sua figura essendo divenuta una cavalla1.
Pale.
Pale è la Dca de’ pascoli, de’ pastori, e degli armenti. Il suo culto era in voga presso i Romani : i Greci però non han punto conosciuta questa Divinità.
Flora.
Flora così conosciuta dai Greci, come Pale fu adorata dai Romani, era la Dea de’ fiori, e le si dava Zefiro per amante, o per isposo.
Vertunno,ABCD e Pomona.
Vertunno era il Dio dell’autunno, e sposo ◀di▶ Pomona Dea de’ frutti. Allorchè arrivarono entrambi all’età avanzata, riacquistarono la loro giovinezza, e non ismentirono quella fedeltà, che a vicenda avevano giurato ◀di▶ mantenere.
Era rappresentato Vertunno sotto l’aspetto ◀di▶ un bel giovine coronato ◀di▶ foglie ◀di▶ diverse piante, portando nella sinistra mano delle frutta, e nella destra il corno dell’abbondanza. Una giovanetta armata ◀di▶ una biscia, e recando un ramo carico ◀di▶ frutta, era l’effigie ◀di▶ Pomona.
Termine.
Il Dio Termine, la cui statua non era altro che una pietra, o un tronco ◀di▶ albero, vegliava ai confini delle campestri possessioni.
Termine sii tu pietra, o informe tronco,Salva tu l’orto mio, e ’l campicelloChe ingordo ognor se d’usurpar pretendeParte de’ miei sudor, ah ! dal tuo seggioOve immobil ti stai, lunge là grida,Lunge o vicin, non attentar miei dritti :Ricalca il tuo terren : io sol quì impero.
Priapo.
La statua ◀di▶ Priapo collocavasi ne’ giardini ad uso ◀di▶ fantoccio per ispauracchio : questo basta per dimostrare, che questo Dio non era bello : aveva l’aspetto ◀di▶ un satiro. La sua effigie consisteva nella sola parte superiore del corpo : il rimanente era un tronco, o pietra. Talvolta gli si adattava una falce alla mano.
Ancorchè brutto, era pertanto figliuolo ◀di▶ Venere, e fratello ◀di▶ Cupido. Giunone che per effetto ◀di▶ rivalità odiava Venere, mercè i suoi incantesimi, trovò il mezzo per rendere mostruoso il bambino che questa Dea portava nel seno : fu inoltre così proclive al vizio, che se ne formò il Dio del libertinaggio. A lui fu sagrato l’asino.
I fiumi.
I Fiumi, o per dir meglio i Genj che preseggono alla sorgente, ed al corso de’ fiumi, erano altresì Dei. La loro figura era ◀di▶ vecchi con capelli, e barba grondanti acqua, e sovente in vece ◀di▶ barba, e capelli avevano minutissime canne. Essi stanno sdrajati sulla nuda terra poggiati ad un’ urna situata a rovescio, d’onde l’acqua scorre in abbondanza. Questa è la sorgente dei fiumi sottoposta alla loro sorveglianza. Spesso portano le corna ◀di▶ bue, e talvolta l’intiera testa ◀di▶ questo animale.
Le Ninfe.
Nereo, e Dori figli dell’Oceano, e ◀di▶ Teti diedero alla luce un’ infinità ◀di▶ figliuole conosciute sotto il nome ◀di▶ Ninfe. I particolari loro nomi derivavano dai diversi attributi, che loro si davano. Chiamavansi Driadi, e Amadriadi quelle che presedevano alle foreste : Napèe quelle delle praterie, e de’ boschetti : Najadi le ninfe che vegliavano alla sorgente dei fiumi, e delle fontane : Oreadi le ninfe che guardavano i monti : tutte quelle che avevano l’impero sulle acque del mare, erano dette Nereidi da Nereo loro genitore.
Eco.
Eco figlia dell’Aria, e della Terra era una ninfa, che si nascondeva ne’ boschi fralle rupi, e le montagne. Ella abitava le sponde del Cefiso. Aveva la proprietà ◀di▶ parlare tutte le lingue : ma abusò ◀di▶ un tal dono, e quindi fu condannata a ripetere soltanto le ultime voci degli altrui discorsi.
Ridotta a tale stato infelice vide il bel Narciso figliuolo del fiume Cefiso, e della ninfa Liriope. Era questi insensibile verso tutte le ninfe, che lo amavano. Eco fu egualmente che le altre sfortunata : fu tale il suo dolore, che si ritirò ne’ siti i più solitarj, ed ivi fu cangiata in rupe. Sopravisse solamente la sua voce, per ripetere le ultime parole ◀di▶ chi la interrogava.
Narciso.
Narciso passò i suoi giorni alla caccia. Un giorno mentre si riposava sulla riva ◀di▶ un fonte, vide la sua immagine che traspariva nell’acqua : fu talmente sorpreso della sua bellezza, che divenne amante ◀di▶ se stesso. Ma inutilmente egli si studiava ◀di▶ ottenere l’oggetto de’ suoi desiri : le onde cristalline non offrivano che una lusinghiera immagine. Non volle pertanto abbandonarla, e si contentò ◀di▶ morire sulla riva ◀di▶ quel fonte ; fu cangiato in un fiore, che conserva anche oggi il suo nome.
Divinità del mare.
L’Oceano, e Teti.
Dopo Nettuno, il più grande de’ Dei marini, era Oceano figliuolo ◀di▶ Urano, e ◀di▶ Titea, o sia la Terra. Sposò Teti sua germana, dalla quale ebbe Nereo, e Dori che si maritarono insieme. Questi, come si è detto, procrearono le Ninfe, e le Nereidi. Tra il numero ◀di▶ quest’ultime vi ha Teti, che bisogna distinguere da Teti sua madre. Giove la guardava ◀di▶ buon occhio : ma avendo saputo dal Destino che da quella nascerebbe un bambino, che avrebbe un giorno superato la gloria ◀di▶ suo padre, la maritò con Peleo, dalla qual coppia nacque Achille il più celebre fra gli Eroi della favolosa antichità.
Tritone.
Tritone figliuolo ◀di▶ Nettuno, e della ninfa Salacia, altri dicono Amfitrite, aveva la figura ◀di▶ uomo fino alla cintura : il resto del corpo terminava in pesce con doppia coda. Il suo impiego era ◀di▶ dar fiato ad una conca avanti il carro ◀di▶ Nettuno. I suoi figliuoli chiamavansi al par ◀di▶ lui Tritoni.
Proteo.
Proteo figliuolo dell’Oceano, e ◀di▶ Teti era il conduttore degli armenti ◀di▶ Nettuno. Questo gregge componevasi ◀di▶ foche, ed altri mostri marini. Proteo possedeva il dono ◀di▶ presagire il futuro : ma bisognava stentare moltissimo per carpirne una risposta sull’avvenire. Ciò si otteneva con fargli violenza, involandosi in ogni momento con prendere sempre nuova forma, e figura. Virgilio ci ha fatta la descrizione ◀di▶ questo Dio nel quarto libro delle sue Georgiche. Il pastore Aristeo avendo perduto l’intero sciame delle api, recossi a sua madre Cirene, che così gli parlò :
Est in Carpathio Neptuni gurgite vatesCaeruleus Proteus, magnum qui piscibus aequor,Et juncto bipedum curru metitur equorum.Hic nunc Emathiae portus, patriamque revisitPallenem : hunc et Nymphae venerantur, et ipseGrandaevus Nereus : novit namque omnia vates,Quae sint, quae fuerint, quae mox ventura trahantur.Quippe ita Neptuno visum est, immania cujusArmenta, et turpes pascit sub gurgite phocas.Hic tibi, nate, prius vinclis capiendus, ut omnemExpediat morbi caussam, eventusque secundet.Nam sine vi non ulla dabit praecepta, neque illumOrando flectes ; vim duram, et vincula captoTende : doli circum haec demum frangentur inanes :Ipsa ego te medios cum sol accenderit aestus,In secreta senis ducam, quo fessus ab undisSe recipit, facile ut somno aggrediare jacentem.Verum ubi correptum manibus, vinclisque tenebis ;Tum variae illudent species, atque ora ferarum.Fiet enim subito sus horridus, atraque tigris,Squamosusque draco, et fulva cervice leaena :Aut acrem flammae sonitum dabit : atque ita vinclisExcidet, aut in aquas tenues dilapsus abibit.Sed quanto ille magis formas se vertet in omens,Tanto, nate, magis contende tenacia vincla :Donec talis erit mutato corpore, qualemVideris, incepto tegeret cum lumina somno.Haec ait, et liquidum ambrosiae diffudit odorem.Virg. Geor. lib. IV.
Portunno,ABCD o Melicerta.
Portunno Dio presidente ai porti chiamavasi Melicerta nella sua infanzia. Ino figliuola ◀di▶ Cadmo, e ◀di▶ Ermione fu la terza moglie ◀di▶ Atamante re ◀di▶ Tebe, dalla qual coppia nacque Melicerta, Frisso, ed Helle figli ◀di▶ Atamante nati da un altro matrimonio divennero l’oggetto dell’odio ◀di▶ Ino loro madrigna. Intimoriti volendo sottrarsi da tale indignazione, sen fuggirono seco portando un superbo Ariete, la cui pelle era ◀di▶ oro. Traversando il mare sul dorso ◀di▶ questo magnifico Ariete, Helle cadde nelle onde, dove si annegò. Il sito ove morì fu detto Hellesponto. Frisso proseguì il suo viaggio, e giunse felicemente in Colco, ove sasagrificò a Marte il suo ariete, che dopo fu situato fra i dodici segni del zodiaco. Questa fuga afflisse molto Atamante, che trasportato dalla rabbia volle ammazzare Ino col suo figliuolo Melicerta. Ella non potè salvarsi, se non che precipitandosi nel mare col figlio, dove furono ammessi fra i Dei marini. Ino prese il nome ◀di▶ Leucotoe, e Melicerta quello ◀di▶ Palemone, che i Romani chiamarono Portunno.
Glauco.
Glauco era un celebre pescatore della Città ◀di▶ Anteona nella Beozia. Un giorno si avvide, che alcuni pesci che aveva nascosti sotto una cert’erba, ripresero nuove forze, e si slanciarono nelle acque. Egli si assicurò, che quest’erba aveva una proprietà particolare : ne mangiò, e si senti al momento la voglia ◀di▶ tuffarsi nelle onde. I Dei marini lo accolsero, e lo ascrissero alla loro classe.
Eolo Dio dei venti.
Eolo regnava nelle isole chiamate ◀di▶ Vulcano poste fra la Sicilia, e l’Italia, e dipendeva dai cenni ◀di▶ Nettuno, che gli ordinava ◀di▶ mettere i venti in libertà, o d’incatenarli nelle loro caverne. Quattro erano i principali venti conosciuti dai poeti. Borea il più impetuoso partiva dal settentrione. Egli rapì Orizia figliuola ◀di▶ Erettèo re ◀di▶ Atene, dalla quale ebbe Zeto, e Calai effigiati cogli omeri coverti da scaglie dorate, e co’ piedi alati. Austro che spira dal mezzodì ; Euro che parte dall’Oriente ; e Zefiro che viene dall’Occidente. Fra’ venti è questi il più dolce, e lusinghiero : lo invocano, e lo credono uno de’ compagni ◀di▶ Amore. I poeti sovente lo dipingono in aria ◀di▶ un bel garzone colle ali ◀di▶ farfalla.
Le Sirene.
Le Sirene erano tre ninfe leggiadre chiamate Leucosia, Ligia, e Partenope 1, dotate ◀di▶ estrema bellezza, e ◀di▶ una voce bellissima, seguaci ◀di▶ Proserpina. Allorchè questa Dea fu rapita da Pluto, chiesero le ali agli Dei per andarla cercando : ma nell’impossibilità ◀di▶ trovarla, fissarono la loro sede sulla sommità delle rocce, occupandosi ◀di▶ dar la morte ai naviganti tirati dalla dolcezza del loro canto. Tanto loro aveva promesso il Destino, finchè non si fosse ritrovato chi sapesse ingannarle. Al saggio Ulisse spettò l’esecuzione ◀di▶ un tale decreto. Evitò il loro canto insidioso, turando con cera gli orecchi de’ suoi compagni, e facendosi egli stesso legare ad un albero del naviglio. Per la rabbia ◀di▶ essere stata elusa la loro arte, le Sirene si precipitarono nel mare, ove furono cangiate in pesci dalla sola cintura in giù.
Le Arpie.
Malgrado che le Arpie fossero figlie ◀di▶ Nettuno, e della Terra, non appartenevano però alla classe della divinità marine. Erano mostri col viso ◀di▶ donna fornite ◀di▶ ali con orecchi ◀di▶ orso, ed artigli alle mani, ed a’ piedi.
Cariddi, e Scilla.
Cariddi era una donna crudele, che dava addosso, o assassinava i passeggleri. Fu ammazzata da Ercole, al quale aveva rubato alcuni bovi : indi cangiata in mostro marino.
Scilla figliuola ◀di▶ Forco Dio del mare, e ◀di▶ Ecate, o sia della Notte era altresì un altro mostro del mare. Per lo innanzi era stata una ninfa bellissima amata da Glauco : ma Circe sua rivale avvelenò la fontana, ove questa ninfa era solita bagnarsi. Appena che Scilla si tuffò in quest’acqua, disparvero all’istante le sue dolci attrattive, e la bellezza istessa cangiò figura. Ella comparve con sei teste orribili, con altrettante gole, tre ordini ◀di▶ denti, e dodici braccia armate ◀di▶ artigli. Ingozzava i vascelli tutt’intieri, e la sua cintura era armata ◀di▶ cani che abbajavano senza interruzione, e che divoravano chiunque aveva la disgrazia ◀di▶ cadere in poter loro.
Scilla, e Cariddi spogliate degli ornamenti della favola sono due scogli pericolosi. Scilla è un golfo tra Reggio, e Messina, il ◀di▶ cui fragore rassomiglia all’abbajare de’ cani. Cariddi altro golfo a lui opposto giace poco lontano. Come spesso accadeva che i naviganti mentre volevano evitare uno ◀di▶ questi scogli incorrevano nell’altro, ebbe origine il proverbio, che incontrava Scilla, chi fuggir voleva Cariddi, allorchè taluno per isfuggire un malanno corre incontro ad un altro.
Divinità dell’Inferno.
Le Parche.
Tre erano le Parche nate dall’Erebo, e dalla Notte. Abitavano nel Tartaro per dinotare l’oscurità che vela l’avvenire. I loro nomi erano Cloto, Lachesi, ed Atropo. Cloto la più giovane presedeva al momento della nascita degli uomini, e teneva in mano la conocchia, Lachesi filava i varj accidenti della vita, ed Atropo ne tagliava il filo colle forbici. Sorde ai prieghi dei mortali seguivano il loro lavoro, e lo interrompevano all’ora stabilita dal Destino.
La Notte.
La Notte figlia del Caos, sposa dell’Erebo, madre del Sonno, e della Morte regna fralle tenebre. In mancanza del Sole ella percorre la superficie della terra in un carro tirato da due cavalli neri. Il suo velo, e la veste sono ◀di▶ color nero ornato ◀di▶ stelle. Porta talvolta una fiaccola rivolta verso la terra. Gli antichi sacrificavano alla Notte il gallo, perchè turba il suo silenzio, ed a lei era sagrato il gufo uccello amico delle tenebre.
La Morte.
La Morte figlia della Notte, e germana del Sonno, è la Dea che presiede agli ultimi istanti della nostra vita. Ella è dipinta come uno scheletro colle ali, ed una falce. Gli antichi non offrivano voti, nè fabbricavano templi a questa Divinità, perchè la più dura, ed implacabile.
Il Sonno.
È annoverato fra gli Dei il Sonno, perchè sospende i nostri mali, e ci toglie ogni inquietudine. Era figlio della Notte, e fratello della Morte, ch’è un sonno perpetuo. La pittura, che fa Ovidio ◀di▶ questo Dio, è sì bella, che ci fa chiaramente conoscere la natura, e gli effetti del sonno. Situa egli il suo palazzo nel paese de Cimmerj1 ove raggio ◀di▶ luce non penetra, ed altro non si sente che il solo mormorio del fiume Lete, che c’invita a dormire. Innanzi alla sua abitazione si trovano de’ papaveri, ed altre erbe, che hanno la virtù d’addormentare i mortali. Riposa il Nume in una stanza sopra il letto coverto ◀di▶ piume circondato da cortine ◀di▶ color nero. Gli si vede appresso una quantità ◀di▶ sogni, che dormono ammonticchiati l’uno sopra l’altro. Morfeo, Fobetore, e Fantaso, erano i tre figli del Sonno. Il suo altare era collocato presso quello delle Muse per dinotare, che gli uomini ◀di▶ lettere hanno bisogno del riposo, e della calma dello spirito1.
Le Ombre.
Manes erano dette dai Latini le ombre degli estinti, o i Genj, che assistevano ai sepolcri.
Nemesi.
Figliuola dell’Erebo, e della Notte era Nemesi Dea della vendetta, e vendicava i delitti in questo mondo, e nell’altro ; abbassava l’orgoglio, e dispensava a suo arbitrio il male, ed il bene. È rappresentata in diverse guise or come Furia, or con sembianze più dolci : talvolta porta un velo sulla testa per dinotare, che la celeste vendetta è impenetrabile, e colpisce all’istante i colpevoli, che si credono in sicurezza. Vedesi altresì assisa sopra un timone, o pur avendo a suoi piedi una ruota per correre da pertutto, e giudicare del merito ◀di▶ ognuno.
Divinità domestiché.
I Dei Lari, ed i Penati.
Fa ◀di▶ mestieri distinguere ◀di▶ Lari dai Penati. I Lari erano Dei particolari delle famiglie, ed i Penati delle Città, o altri luoghi. Nell’ingresso delle abitazioni stavano i Lari per allontanare una qualche disgrazia che avesse potuto entrare. Questi Dei erano piccole statuette, o Idoletti convenevoli al culto particolare del padrone della casa : spesso era un semi-Dio, o un Eroe della famiglia trapassato. Presso queste immagini stava anche un cane, che egualmente era rispettato.
I Genj.
Credevano gli antichi, che i Genj fossero destinati alla custodia degli uomini, che erano assistiti secondo il proprio naturale da due Genj, uno buono, l’altro cattivo1. Tal credenza è stata tramandata fino a’ tempi nostri, e persiste tuttavia in questa opinione una moltitudine ◀di▶ sciocchi, ed ignoranti2.
Di varie altre Divinità del second’ordine.
Pluto, o sia il Dio delle ricchezze.
Era questi il Dio delle ricchezze figliuolo ◀di▶ Cerere, e Giasone. Vedesi rappresentato qual vecchio zoppo, ma alato per dinotare che le ricchezze con pena si ammassano, e con celerità possono svanire. Come ha gli occhi bendati, dovunque passa questo Dio, spande a capriccio l’oro, l’argento, che cava dal corno dell’abbondanza che porta con se.
La Fortuna.
La Fortuna è dipinta, come Pluto, col corno dell’abbondanza, e gli occhi bendati con un piede in aria, e l’altro su ◀di▶ una ruota, che gira con velocità. Gli antichi credevano ch’ ella dispensasse capricciosamente i beni, ed i mali, ed era soggetta alle imprecazioni degli uomini, allorchè gli affari non avevano un esito felice, come fanno anche oggidì i giuocatori, quando perdono tutto.
Ha dippiù la Fortuna le ali ai piedi, indizio della sua incostanza, ed un ciuffo ◀di▶ capelli sulla testa, che fa d’uopo afferrare, perchè non iscappi dalle mani. La Fortuna, al dir ◀di▶ Cicerone, è un nome vano ; e si potrebbe credere lo avesse l’antichità inventato per evitare l’occasione ◀di▶ lagnarsi contro la Providenza1.
Arpocrate.
Arpocrate era il Dio del silenzio, in origine filosofo Greco. Egli è rappresentato con un dito sulla bocca, è vestito ◀di▶ una pelle ◀di▶ lupo picchiettata d’occhi, e ◀di▶ orecchi per indicare, che bisogna vedere, e sentir molto, e parlar poco. I Latini avevano ascritto anch’essi il silenzio nel numero degl’Iddii, e lo dipingevano in forma ◀di▶ una donna che chiamarono Muta.
Temi.
Figliuola del Cielo, e della Terra era Temi Dea della Giustizia. Fu creduta da Eusebio quella tale Carmenta donna savissima ◀di▶ Arcadia, che presagiva il futuro. Le matrone Romane le avevano eretto un tempio con istituire le feste Carmentali. I pagani supponevano in lei una grande penetrazione, per indicare che la giustizia scopre la verità più nascosta. È rappresentata assisa sopra una pietra quadrata per dimostrare la solidità de’ suoi giudizj, colla bilancia in una mano, e con una spada nell’altra per vendicare egualmente i dritti della gente bassa, e dei grandi.
Astrea.
Vi ha tra poeti, chi crede Temi la stessa che Astrea, figliuola ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Temi. Durante il secolo ◀di▶ oro Astrea conversò cogli uomini : ma stanca, ed annojata dai delitti che si commettevano, involossi dalla terra, e volle ritornare al Cielo, ove fu situata nel Zodiaco : oggi detta la Vergine.
Como.
Dio de’ piaceri, e della mensa era Como. Egli è rappresentato coronato ◀di▶ fiori, e con una fiaccola in mano, perchè gran parte della notte era a lui consagrata.
Momo.
Era questo l’amico stretto ◀di▶ Como. La buffoneria ben si accoppia con i piaceri della mensa. Il primo degli oggetti ◀di▶ Momo era mettere in ridicolo le azioni degli Dei, e degli uomini. Avendo Nettuno formato un toro, Vulcano un uomo, e Minerva una casa, questo Dio ebbe a ridirci qualche cosa. Le corna del toro dovevano essere più vicine agli occhi per potersi difendere a colpo sicuro. Dirimpetto al cuore dell’uomo doveva situarsi un finestrino per osservar tutto. La casa era male immaginata, perchè non poteva cangiar sito, dove ci fosse un vicino pericoloso. L’origine ◀di▶ Momo non sembra conveniente al suo carattere, giacchè lo fanno figlio del Sonno, e della Notte. Il suo fare è grottesco, e porta in mano una maschera, ed un bamboccio.
Imenèo.
Imene, o Imenèo era il Dio delle nozze. Egli per aver salvate alcune donzelle dalle mani de’ corsari, e che restituì ai proprj genitori, era dalle donne invocato allorchè si maritavano. Vedesi Imenèo sotto l’aspetto ◀di▶ un giovane leggiadro, coronato ◀di▶ rose, e con una fiaccola in mano.
Le Grazie.
Le Grazie eran figlie ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Venere. Seguivano per lo più la loro madre, ed assistevano al suo abbígliamento. Erano tre Aglaja, Talia, ed Eufrosine. Erano contente delle semplici attrattive che avevano sortite dalla natura. Vengono rappresentate ignude, dandosi fra ◀di▶ loro la mano. Avevano picciola statura ; ma un’aria dolce, e ridente, accompagnata da una fisonomia parlante, ed atta a conquistare i cuori più duri.
Divinità allegoriche.
Oltre le tante fin quì da noi descritte Divinità, avevano i Greci, ed i Romani fatta l’apoteosi alle passioni umane, non che alle virtù, ed ai vizj, ai beni, ed ai mali. Non altrimenti che a Giove, si erano a questi Dei innalzati templi, ed altari, ed erano rappresentati con que’ caratteri, ed attributi che avvertivano gli uomini ◀di▶ quanto potevano temere, o sperare. Eccone un esempio. Assisa una donna con ispada in una mano, e nell’altra una bilancia rappresenta Temi, Dea della giustizia. Colla bilancia ella pesa le azioni ◀di▶ ciascuno, ed egualmente giudica del merito ◀di▶ chicchessia : colla spada punisce i malfattori. Il ◀di▶ lei tranquillo aspetto annunzia, che i suoi giudizj sono sceveri ◀di▶ qualunque prevenzione. Talvolta è dipinta con benda avanti gli occhi, perchè non vegga chi si presenta al suo tribunale : sia ricco, sia povero, ognuno è uguale innanzi a lei.
Queste Divinità per noi sono semplici allegorie. I poeti, i pittori, gli scultori lor danno per lo più tali attributi per aggiungere naturalezza, e vivacità ai loro lavori.
Eudemonia, o sia la Felicità.
Era questa Dea rappresentata assisa sul trono qual Regina, tenendo in una mano un caducèo, e nell’altra il corno dell’abbondanza. Gli Ateniesi le avevano eretto un tempio : altrettanto fece Lucullo, dopo aver vinto Mitridate, e Tigrane. Crede il Vossio che la Felicità adorata da Greci col nome ◀di▶ Ευδαιμονια sia la stessa che Salus la salute pubblica.
L’Abbondanza.
Vedesi l’abbondanza sotto la figura ◀di▶ una donna robusta, rovesciando un corno pieno ◀di▶ frutta ◀di▶ ogni sorta.
La Povertà.
Era questa figliuola del Lusso, e dell’Ozio dipinta come una donna pallida, magra, e coverta ◀di▶ cenci, spesso in atto ◀di▶ darsi alla disperazione.
La Speranza.
A questa Divinità due tempj erano dedicati in Roma. In doppia guisa è rappresentata : cioè col corno dell’abbondanza con frutta ◀di▶ ogni specie, e fiori : ma per lo più vedesi appoggiata ad un’ancora.
La Virtù, e l’Onore.
Avevano queste due Divinità ciascuna il suo tempio in Roma, ma fatto in modo che non si poteva entrare nel tempio dell’onore senza passare per quello della virtù. L’allegoria era tanto bella, quanto istruiva, per insegnare agli uomini che bisogna essere virtuoso per poter aver dritto all’onore.
La virtù è figlia della verità. La sua figura era quella ◀di▶ una donna ◀di▶ fresca età con veste bianca, e sedendo sopra ◀di▶ pietra quadrata per indicare la fermezza, ed aggiustatezza del suo carattere.
La Verità.
La sua figura è ◀di▶ una giovane vergine vestita ◀di▶ un abito bianco, e semplicissimo, e talvolta vedesi nuda con uno specchio alla mano. Era figlia ◀di▶ Saturno, o piuttosto del Tempo.
La Menzogna.
Vediamo la Menzogna spesso rappresentata sotto l’aspetto ◀di▶ Mercurio Dio dell’eloquenza, bugiardo e facile ad ingannare.
La Prudenza.
Si ravvisa la Prudenza allo specchio, a cui si attorciglia un serpente.
La Fama.
I Moderni la dipingono qual donna con alí larghissime, e due trombe
per palesare il bene, ed il male. Gli antichi la credevano
messaggiera ◀di▶ Giove. Virgilio ce la rappresenta come una donna ◀di▶
statura orribile, e gigantesca, ornata ◀di▶ piume, occhi, lingue, e
bocche. « Ella, al dir ◀di▶ un poeta, è una Diva, o piuttosto un
mostro ◀di▶ straordinaria grandezza coverto ◀di▶ occhi, e ◀di▶ orecchi, la
cui voce imita lo scroscio del tuono : i piedi poggiano in terra, e
la testa si nasconde tra le nuvole. Messaggiera indifferente della
verita, e della bugia, corre tutti gli angoli della terra, spargendo
veri, e falsi rumori. »
Leggasi la bella descrizione che fa Ovidio del palazzo della Fama.
La Concordia.
Due tempj aveva in Roma la Concordia. Era figliuola ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Temi. Il suo potere si estendeva sulle famiglie, e sulla Città. La sua figura era simile a quella della Pace. I Greci la chiamarono Ὀμονοια, ed aveva un tempio in Olimpia.
La Pace.
Era altresì figlia ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Temi la Pace. Vien ella rappresentata con corona ◀di▶ alloro, con una immaginetta ◀di▶ Pluto in una mano, e nell’altra un ramo ◀di▶ ulivo. Questa Dea si ricovera nel Cielo, allorchè la guerra la discaccia dalla terra.
Dalle volte del Ciel aureo lucentiDiscendi, o bella Pace, e col tuo ciglioArresta Tu del Ciel la troppo giustaMeritata da noi tarda vendetta.
La Fedeltà.
La fedeltà, o la buona Fede aveva il suo culto nel Lazio prima ◀di▶ Romolo. Ella presedeva ai trattati, alle alleanze, al commercio. Inviolabili erano i giuramenti concepiti per lei. Vien dipinta con veste ◀di▶ color bianco, e colle mani giunte, segno della fede data, e ricevuta. A lei non si offriva alcuna vittima, ed i suoi sacerdoti avevano una veste parimente bianca.
Le Preghiere.
Omero le chiama figlie ◀di▶ Giove. Egli le rappresenta umili, timide, e zoppicanti, e sovente malconce1.
Il Pudore.
Vedesi il Pudore in sembianza ◀di▶ una donna coverta da un velo.
La Sanità.
Vien espressa con una coppa alla mano, ed accanto un altare, intorno al quale un serpente si aggira. Ella è denominata anche Igia.
La Voluttà.
Una femina nuda coronata ◀di▶ rose con coppa d’oro dove beve una biscia, è l’effigie della Voluttà.
La Legge.
Da Giove, e da Temi è nata la Legge. Porta in mano uno scettro per simbolo del suo impero.
La Sfrenatezza o la Licenza.
Compariva fulminata da Giove, mentre ella si sforzava d’infrangere una tavola delle leggi, e la bilancia della Giustizia.
La Natura.
Era questa la Dea che sovrastava a quanto esiste, e vediamo. Vien ella rappresentata qual donna robusta, avendo doppio ordine ◀di▶ mammelle per indicare la sua fecondità, e la cura che si prende per la sussistenza ◀di▶ quanto ha creato.
La Providenza.
Gli antichi la dipingevano sotto l’aspetto ◀di▶ una venerabile matrona col corno dell’abbondanza in una mano, e nell’altra una bacchetta, che si stende nell’intero globo.
L’Amicizia.
Meritava questa Dea degli altari, ed in fatti gli antichi a lei ben molti ne innalzarono. I Romani la figuravano qual donna vestita ◀di▶ una tunica, nel ◀di▶ cui lembo si leggeva questo motto : la morte, e la vita. Sulla ◀di▶ lei fronte era altresì scritto : l’està, e l’inverno. Il suo fianco era aperto fino a vedersi il cuore che mostrava col dito, ov’era il detto, da vicino, e da lontano : simboli ingegnosi per mostrare, che l’amicizia è la stessa in ogni tempo, in ogni luogo inalterabile nella felicità, e nelle disgrazie. Il suo cuore aperto indicava che non ha ella segreti per gli oggetti a lei cari.
La Fatica.
Era espressa in figura gigantesca, e circondata da tutti gli strumenti che indicavano la sua attività. I suoi genitori erano l’Erebo, e la Notte.
L’Inerzia.
Aveva per genitori il Sonno, e la Notte. Erano a lei sagrati due animali ◀di▶ lentissimo moto, la tartaruga, e la lumaca. Gli antichi la chiamavano anche Vacuna.
La Frode.
La sua fisonomia era ridente per meglio ingannare. Il resto del corpo terminava in serpente colla coda ◀di▶ scorpione. Una stretta ◀di▶ questa coda cagionava la morte1.
Il Terrore.
Una testa ◀di▶ lione sopra il corpo ◀di▶ una donna disegnava il Terrore. Portava in mano un pugnale, una fiaccola, e de’ serpenti.
L’Occasione.
È rappresentata presso a poco come la Fortuna con un piede sopra ◀di▶ una ruota che gira rapidamente. La sua testa è calva al ◀di▶ dietro : nella parte d’avanti presenta soltanto un ciuffo che bisogna afferrare. La sua mano era armata ◀di▶ un rasojo1.
La Necessità.
Figlia della Fortuna comandava agli Dei, ed agli uomini. Le sue mani erano ◀di▶ bronzo, ed avevano una caviglia ed una zeppa. Gli abitanti ◀di▶ Corinto le avevano innalzato un tempio.
L’Invidia.
L’Invidia abita sotto la volta ◀di▶ una rupe sterile, e senza verdura. Si asconde in un antro spaventevole, ove raggio ◀di▶ luce non penetra. Smunta, pallida, con ciglio torvo, e viso malinconico. Il veleno che ha nel cuore sbocca dalle labbra. Ella non ride mai, se non per le nostre disgrazie, o per i disastri ch’essa stessa ci cagiona. Le lodi e gli encomj offendono il suo orecchio. Il suo supplizio è ◀di▶ vedere innalzati i talenti. In somma è un mostro, che da se stesso si macera, e da tutti è detestato.
La Vittoria.
Era figlia ◀di▶ Stige, e del gigante Pallante. Si dipinge alata con un ramoscello ◀di▶ palma in una mano, e nell’altra con una corona tessuta ◀di▶ alloro, e ◀di▶ ulivo.
La Primavera.
È rappresentata sotto l’effigie ◀di▶ Flora con ghirlanda, ed un cestellino ◀di▶ rose.
L’Està.
Per esprimere questa stagione vedesi Cerere col corno dell’abbondanza, e una corona ◀di▶ spighe.
L’Autunno.
Un giovane con corba ◀di▶ frutta, e carezzando un cane rappresenta l’Autunno.
L’Inverno.
Vedesi ordinariamente dipinto l’Inverno sotto l’aspetto ◀di▶ un vecchio che si riscalda, o stassene rinchiuso in una grotta. Egli è vestito ◀di▶ un abito che tutto lo circonda ; i suoi capelli, e la barba bianca sono coverti ◀di▶ ghiaccio1.
La Discordia.
Una donna con serpenti sulla testa, una fiaccola in una mano, e nell’altra una biscia, ed un pugnale rappresentava la Discordia detta puranche Erinni. Il suo volto era livido, e tetro : torvo lo sguardo, e la bocca spumante. Giove l’aveva scacciata dal Cielo, perch’ella destava continue risse fra gl’Iddii.
Gli antichi, come si è detto, avevano ascritto nel numero degli Dei tutt’i mali, che circondano l’umano genere. Essi li credevano tanti Esseri capaci ◀di▶ allontanare, o ◀di▶ attirarci le disgrazie. Così sagrificavano alla Febbre per non esserne attaccati, I Romani invocavano la Paura, perchè non li avesse sorpresi quando combattevano. Il delirio andò tanto innanzi, che immaginarono un Nume, che non abbiamo l’ardire ◀di▶ nominare in lingua nostra, detto crepitus ventris 1
La serie ◀di▶ tante stravaganze, nel momento che prova la debolezza dello spirito umano, ci avverte del bisogno che abbiamo della mano ◀di▶ Dio in tutti gli eventi della nostra vita. Non avendo potuto gli antichi aver l’idea giusta ◀di▶ un Dio vero, unico, e creatore dell’Universo, formarono altrettanti Dei ◀di▶ tutti gli attributi, che al vero Ente supremo si convenivano.
Parte terza
De’ semidei, e degli eroi.
Semidei chiamavansi quei ch’ erano nati da un Dio, e da una mortale, oppur da un uomo, e da una Dea. Davasi il titolo ◀di▶ Eroe a chi per qualche impresa segnalata o illustre azione si fosse distinto, con aver richiamata l’attenzione degli Dei, e la meraviglia degli uomini. Così nella prima classe bisogna situar Ercole, Perseo, Cadmo, Castore, e Polluce, ec. Alla seconda classe appartengono Teseo, Agamennone, Ulisse, e tanti altri. Le gesta dei primi vanno sotto il nome ◀di▶ Storia favolosa, perchè combinata da un miscuglio ◀di▶ fatti veri, e ◀di▶ favole. Storia eroica diremo quella che narra i fatti, e le azioni degli uomini, e de’ guerrieri, che hanno meritato un tale distintivo.
Questa storia porta l’epoca della nascita del mondo, al momento che Prometeo formò il primo uomo, e l’animò con una particella del fuoco celeste.
Prometeo.
Prometeo figliuolo ◀di▶ Giapeto, e ◀di▶ Climene figlia dell’Oceano, era il più ingegnoso de’ Titani. Egli per emulare la potenza ◀di▶ Giove ardì creare, un uomo, servendosi del semplice limo della terra cui diede l’anima con una particella ◀di▶ quel fuoco celeste, che dal carro del sole aveva rapita. Ingelosito Giove, che un mortale si fosse usurpato il dritto della creazione, che a lui solo si apparteneva, diede l’ordine a Mercurio, o a Vulcano d’incatenar Prometeo in una roccia del monte Caucaso, ove un’ aquila, o un avoltojo gli rodeva il fegato, che la notte si rinnovellava per essere al dì vegnente divorato ◀di▶ nuovo. Eterno sarebbe stato il suo supplizio, se Ercole che si trovò ◀di▶ là passando, non lo avesse liberato.
Non contento Giove ◀di▶ tale vendetta, e per punire gli uomini delle loro temerarie intraprese ordinò a Vulcano, che avesse formata una statua. Volle altresì che ciascuno degli Dei le avesse comuuicato qualche pregio. In fatti Venere le diede la bellezza, Minerva il senno, Mercurio la parola, Apollo il talento per la musica. Finalmente ricevette tutt’i doni immaginabili, e fu chiamata Pandora, nome composto da due voci Greche indicanti ch’ ella aveva tutt’i doni. Volle altresi Giove adempiere la parte sua. Egli le donò un vaso, che doveva presentare a Prometeo, forse allora non ancora condannato al testè detto supplizio. Epimeteo meno sospettoso, e diffidente ◀di▶ suo fratello Prometeo, volle aprir questo vaso donde scapparon fuori tutt’i mali che inondarono la terra. La sola speranza. restò nel fondo del vaso1.
Licaone.
Moltiplicatisi gli uomini vissero in una perfetta innocenza. Qual tempo fu detto l’età dell’oro, tanto decantala da’ poeti sotto il regno ◀di▶ Saturno. A questa tenne dietro l’età dell’argento, ed ebbe meno puri costumi. Nell’età ◀di▶ bronzo spuntarono i primi semi della guerra, e dei delitti. Finalmente nell’età ◀di▶ ferro non potendo più gli Dei tollerare la perversità degli uomini, Giove si decise a schiantarne la cattiva razza ; ma per non confondere i giusti cogli empj, intraprese colla guida ◀di▶ Mercurio un viaggio sulla terra, e si fermò presso ◀di▶ Licaone re dell’Arcadia. Questi dubitando della divinità de’ suoi ospiti, immaginò una prova terribile. Fece scannare un ostaggio, che abitava nella sua reggia, e ne apprestò delle vivande alla mensa degli ospiti Numi. Irritato Giove per tale indegnità, incenerì con un fulmine il palazzo ◀di▶ questo mostro. Licaone tentò sottrarsi alla vendetta, ed all’istante diventò un lupo, che cerca immacchiarsi nel fondo delle foreste.
Inesorabile allora Giove giurò la perdita del genere umano ; ma senza far danno alla terra, che voleva popolare ◀di▶ una nuova specie. Ordinò ai venti, che avessero unite insieme le nuvole, d’onde caddero le acque in tanta copia, che tutta ne fu inondata la terra.
Deucalione, e Pirra.
Da questo generale diluvio due sole persone furono preservate, cioè Deucalione, e Pirra sua sposa che non avevano partecipato dei delitti degli uomini. Questi si salvarono in una barchetta che si fermò nella cima del monte Parnaso, e dopo aver ringraziato i Dei, pensarono alla maniera ◀di▶ ripopolare la terra. A tale oggetto consultaron Temi, la quale loro rispose, che avessero scavate le ossa della gran madre, e col capo velato le avessero gittato dietro i loro passi. Pareva in apparenza questo oracolo che contenesse un sacrilegio, ma riflettendo, che la gran madre era la terra, e le pietre le ◀di▶ lei ossa, eseguirono a puntino il consiglio. Dai sassi gittati da Deucalione nacquero gli uomini, e da quei che gittava Pirra ne usciron fuori le donne1.
Cecrope.
Cecrope dall’Egitto venne a stabilirsi nella Grecia, e propriamente nel luogo, dove Atene fu fabbricata. Sposò la figliuola ◀di▶ Attèo re del paese, e della sua colonia se ne formarono dodici borghi, che diedero principio al Regno ◀di▶ Atene. Al culto degli Dei del paese aggiunse quello de’ suoi, e sopra tutto quello ◀di▶ Minerva, e ◀di▶ Giove, e ◀di▶ tanti che aveva dall’Egitto portati.
Cadmo.
Figliuolo fu ◀di▶ Agenore re ◀di▶ Fenicia, e fratello della bella Europa rapita da Giove sotto l’aspetto ◀di▶ un toro. Disperato Agenore, che non aveva nouve ◀di▶ sua figlia, impose a Cadmo ◀di▶ andarla cercando sin che la trovasse. Essendo stata vana ogni ricerca, Cadmo consultò l’oracolo, dal quale gli fu risposto che avesse fabbricato una città in una contrada della Grecia, e propriamente dove avesse veduto fermarsi un bove. La novella sua patria fu detta per tal ragione Beozia. Prima ◀di▶ edificare la città capitale, volle offrire de’ sacrifizj agli Dei, a quale oggetto avendo spediti alcuni suoi compagni ad attinger dell’acqua in una fontana consagrata a Marte, un dragone che ivi era in guardia, li divorò tutti. Cadmo non vedendoli ritornare, si recò egli stesso sulla faccia del luogo, e gli riuscì ◀di▶ ammazzare quel mostro. Per ordine ◀di▶ Minerva seminati i denti del dragone produssero de’ nuovi soldati che si scannarono fra ◀di▶ loro, restandone soli cinque che lo ajutarono alla fabbrica della famosa Tebe. Cadmo regnò lungo tempo con Ermione sua sposa, ma sopraffatto dalle disgrazie si ritirò nell’Illiria perseguitato dalla gelosia ◀di▶ Giunone, e finalmente dagli Dei fu cangiato in serpente.
Perseo.
La nascita ◀di▶ Perseo fu assai singolare. Acrisio re ◀di▶ Argo aveva una figliuola ◀di▶ rara bellezza chiamata Danae. Come l’oracolo gli aveva predetto, che da costei nascerebbe un bambino, che avrebbe dato la morte all’avo, rinchiuse Acrisio la sua figliuola in una torre ◀di▶ bronzo. Spinto Giove dalla curiosità ◀di▶ vedere questa giovane, si trasformò in pioggia ◀di▶ oro, e mentre i custodi erano intenti a raccorre l’oro, riuscì a Giove ◀di▶ penetrare nella torre. Divenne Danae madre ◀di▶ Perseo : del che accortosi Acrisio la fece mettere in una barchetta, e l’abbandonò alla discrezione del mare. Battuta dai venti Danae per azzardo arrivò ad una delle isole Cicladi dove regnava Polidette, che volentieri accolse la madre col bambino, con prendere somma cura dell’educazione ◀di▶ questo principe. Ma in seguito Polidette divenuto amante ◀di▶ Danae, e temendo ◀di▶ Perseo, cercò ◀di▶ allontanarlo fingendo ◀di▶ volere sposare una principessa ◀di▶ Grecia, ed in tale occasione per ostentare il suo fasto voleva quanto ◀di▶ più raro esistesse nel mondo. Per rendere adunque il viaggio ◀di▶ Perseo più lungo, e pericoloso gli ordinò ◀di▶ andare in cerca della testa ◀di▶ Medusa, ch’ era una delle tre Gorgoni figliuole ◀di▶ Forco Dio marino, che regnavano nelle isole Gorgonidi. Medusa, Stenio, ed Euriale chiamavansi queste tre sorelle, che avevano un occhio solo, ed un solo dente, che s’improntavano a vicenda. La loro chioma era composta ◀di▶ serpenti, che si rizzavano, e fischiavano ◀di▶ continuo. Taluni poeti credono che tal sorte infelice avesse avuta solamente Medusa per odio ◀di▶ Minerva, che in tal guisa la sfigurò perchè amata da Nettuno, che con poco rispetto ◀di▶ questa Dea attestò la sua premura per questa giovane nel tempio ◀di▶ Minerva.
Poichè Perseo fu allontanato dalla reggia da Polidette, i Dei ebbero cura della sua salvezza. Minerva gli diede l’egida, Mercurio le ali, ed un cimiero lavorato da Vulcano. Allora l’Eroe si levò rapidamente a volo per l’aria, e giunse tosto alle isole Gorgonidi. Nascosto sotto l’egida vinse le tre Gorgoni, e ritornò in Argo colla testa ◀di▶ Medusa, ◀di▶ cui si servì per cangiar gli uomini in pietra. Tal sorte toccò ad Atlante re della Mauritania, che gli aveva negata l’ospitalità. Chi guardava questa testa era soggetto ad un tale destino, e le stille ◀di▶ sangue che ne grondarono, divennero serpenti.
Continuando i suoi viaggi per l’Etiopia, Perseo liberò Andromeda1 legata nuda ad uno scoglio per esser preda ◀di▶ un mostro marino, che uccise all’istante, ed in premio sposò questa giovane figliuola ◀di▶ Cefèo, e ◀di▶ Cassiope. Perseo sbrigatosi da’ suoi nemici ritornò da Polidette : indi con sua madre Danae ritornò ad Argo. Ivi ammazzò Preto che aveva cacciato Acrisio dai suoi stati, col quale si riconciliò. Ma fatalmente giuocando al disco, con un colpo imprevisto uccise suo avo, con essersi così verificato l’oracolo.
Bellerofonte.
Ascoltiamone la storia per bocca ◀di▶ Glauco suo discendente. « Questo Eroe
(diceva a Diomede durante la guerra Trojana) era figliuolo ◀di▶ Glauco re
◀di▶ Corinto : Giove lo aveva sottoposto a Preto re d’Argo. Come aveva una
vantaggiosa figura, Antea moglie ◀di▶ Preto ebbe per lui
qualche inclinazione, ma senza esserne corrisposta.
Irritata questa principessa dal disprezzo, volle vendicarsene con
un’infame calunnia. Preto soverchiamente credulo diede orecchio
all’accusa, ma per non violare il diritto delle genti, lo mandò a
Giobate suo suocero re della Licia con ordini segreti ◀di▶ prendere
vendetta dell’oltraggio a lui fatto. Bellerofonte partì colla scorta
degli Dei protettori dell’innocenza, e della virtù. Giobate lo accolse
con gioja, e nove giorni durarono le feste, ed i divertimenti nella
reggia per il suo arrivo. Nel giorno decimo avendo aperto le lettere del
re d’Argo, impose immantinente all’Eroe ◀di▶ andare a combattere con un
mostro terribile chiamato la Chimera, ◀di▶ razza immortale colla testa ◀di▶
lione, il corpo ◀di▶ capra, la coda ◀di▶ serpente, e che gittava fiamme
dalla gola. L’intrepido figliuolo ◀di▶ Glauco alla vista de’ segnali a lui
mostrati dagli Dei obbedì al comando, disfece il mostro, e ne riportò
compiuta vittoria. Conoscendo allora Giobate, che il valore ◀di▶
Bellerofonté era superiore ai perigli, gli diede sua figlia in isposa
colla metà del suo regno »
.
Minosse.
Gli Ateniesi avendo assassinato Androgeo figliuolo ◀di▶ Minosse re ◀di▶ Creta, questo principe alla testa ◀di▶ una armata poderosa assediò Atene, e non si ritirò fino a che non fu segnato un trattato, col quale gli Ateniesi si obbligarono ◀di▶ dargli annualmente sette donzelle, ed altrettanti garzoni, che dovevano essere divorati dal Minotauro, mostro metà uomo, e metà toro. Vedremo nell’articolo Teseo in qual maniera Teseo ammazzò questo mostro, e liberò Atene da sì crudele tributo. Minosse servendosi dell’opera ◀di▶ Dedalo architetto ingegnosissimo, formò un edifizio detto Laberinto, nel quale chi entrava non ritrovava mai l’uscita, consistendo la struttura in mille tortuosi giri inestrigabili. Ivi Minosse fece rinchiudere il Minotauro ; e lo stesso Dedalo ch’ era incorso nella ◀di▶ lui disgrazia con il suo figlio Icaro. Questi però escogitò la maniera come uscire ◀di▶ prigione coll’ajuto delle ali composte ◀di▶ cera, e ◀di▶ penne per se, e per Icaro. Avvertì pertanto il figlio che spiccandosi a volo non si levasse troppo in alto, mentre il calore del Sole avrebbe potuto liquefare la cera. Lanciaronsi dunque nell’aria : ma Icaro vedutosi in libertà, poco profittando del consiglio del padre temerariamente s’innalzò tanto, che staccatesi le penne per l’ardore del Sole, cadde infelicemente nel mare, cui diede per tale occasione il suo nome. Icarus Icariis nomina fecit aquis, Ovidio.
Minosse fu padre ◀di▶ molti figli : i più conosciuti furono Androgèo, Fedra, ed Arianna. Il suo governo fu sì giusto, e regolato, che divenne il modello de’ principi. Per la sua giustizia, ed esattezza fu Minosse eletto dopo morto per uno dei tre giudici nell’inferno con Eaco, e Radamanto.
Teseo.
Etra, ed Egèo re ◀di▶ Atene furono i genitori ◀di▶ Teseo. Volendo questo Eroe fin dalla fanciullezza imitare il valore ◀di▶ Ercole, e ritrovandosi nella Corte ◀di▶ Piteo re ◀di▶ Trezenia, e padre ◀di▶ Etra volle intraprendere un viaggio per Atene per vedere Egèo suo genitore. Cammin facendo diede i primi saggi del suo valore. Passando pel territorio ◀di▶ Epidauro, uccise Perifeto che lo aveva sfidato a battersi seco. Di là traversando l’istmo ◀di▶ Corinto, punì Sinni assassino, che aveva una forza prodigiosa, solito ad attaccare le vittime che cadevano fra le ◀di▶ lui mani, a due rami ◀di▶ pino curvati, che poscia si raddrizzavano collo squarcio de’ loro corpi. Teseo lo fece morire nella stessa guisa. Passando per le frontiere ◀di▶ Megara precipitò dall’alto ◀di▶ una rupe l’infame Scirrone che spogliava i viandanti, e li faceva rotolare nel mare. In Eleusi vinse alla lotta Cercione, ed arrivato a Termione diede la morte all’empio gigante Procruste. Questo scellerato faceva stendere i forestieri sopra ◀di▶ un letto ◀di▶ ferro, e tagliava le parti che sporgevano in fuori. Coll’istesso supplizio pagò la pena delle sue crudeltà.
Giunse finalmente ad Atene, dove non potendosi vedere ozioso volle combattere col toro ◀di▶ Maratona, che menò vivo in Città per sacrificarlo ad Apollo. Vennero dopo poco tempo i deputati ◀di▶ Minosse a chiedere per la terza volta il solito tributo de’ sette giovani, ed altrettante donzelle. Volle Teseo ascriversi fra quelli, e malgrado le lagrime ◀di▶ suo padre si pose in viaggio ad oggetto ◀di▶ combattere col Minotauro, e liberare Atene da sì umiliante tributo. Sarebbe però senza dubbio perito in questa per altro gloriosa impresa, se Arianna figliuola ◀di▶ Minosse non lo avesse consigliato ◀di▶ attaccare un filo all’entrata del Laberinto ove il mostro abitava. Si valse Teseo dell’avviso : uccise in battaglia il Minotauro, e coll’ajuto del filo uscì dagl’intrighi tortuosi ◀di▶ quel luogo. Volle Arianna seguire i passi ◀di▶ quest’Eroe, che amava per il suo valore : ma questi ebbe la crudeltà ◀di▶ abbandonare nell’isola ◀di▶ Nasso colei, che gli aveva salvata la vita. Restò l’infelice Arianna in quell’isola fino all’arrivo ◀di▶ Bacco, che ritornava vincitore dall’Indie ; questo Dio asciugò le sue lagrime, e la sposò.
Teseo nel partire, aveva promesso ad Egèo, che se ritornava vittorioso avrebbe fatto inalberare al suo vascello una bandiera bianca in vece della nera che ivi si trovava. Disgraziatamente tanto egli, che il piloto obbliarono questa promessa. Egèo che impaziente attendeva sulla riva il ritorno del figlio, osservando il bruno segnale, che indicava la morte dell’Eroe, per disperazione gittossi nel mare, che dal suo nome fu chiamato Egèo. Teseo montò sul trono ◀di▶ Atene : promulgò delle leggi, che contribuirono moltissimo ad accrescere la potenza ◀di▶ quel popolo.
Il resto ◀di▶ sua vita fu un misto ◀di▶ azioni grandiose, e riprensibili talvolta, come altresì ◀di▶ felicità, e ◀di▶ disgrazie. Trovò in fine da pertutto occasioni per accrescere la riputazione che godeva. In compagnia ◀di▶ Ercole fece la guerra alle Amazoni, donne sommamente guerriere, e sposò la loro regina Antiopa, dalla quale nacque Ippolito. Fu Teseo uno degli Argonauti, che andarono alla conquista del Vello d’oro. Accompagnò Meleagro alla caccia del cignale Calidonio. Dopo la morte ◀di▶ Antiopa, Teseo sposò Fedra figliuola ◀di▶ Minosse, e sorella ◀di▶ Arianna. Ben sapendo egli, che le madrigne guardano ◀di▶ mal occhio i figli del primo letto, inviò Ippolito presso il suo avo Piteo. Divenne questo figlio in seguito l’odio del padre per una nera calunnia ◀di▶ Fedra. Volendo Teseo vendicarsene, pregò Nettuno che gli promise ◀di▶ esaudire i suoi voti. Un giorno, mentre Ippolito passeggiava alla riva del mare, fece venir fuori delle acque un mostro metà uomo, e metà serpente, che gittava fiamme per la bocca. Spaventati i cavalli a tal vista non sentirono nè la voce, nè la mano d’Ippolito. Il carro si fracassò fra i dirupi, e l’infelice giovine spirò l’anima protestandosi della sua innocenza. Fedra lacerata dai rimorsi confessò il suo delitto, e si diede da se stessa la morte.
Contrasse Teseo un’amicizia strettissima con Piritoo re de’ Lapiti. Alla fama del valore ◀di▶ questo Eroe, Piritoo volle farne la pruova, e lo sfidò a singolar tenzone. Nel punto però ◀di▶ azzuffarsi, furono entrambi sorpresi del proprio coraggio : quindi mossi da sentimenti ◀di▶ vera stima, si diedero vicendevolmente la mano, e giurarono un’eterna, e verace amicizia. Dopo qualche tempo Piritoo sposò Ippodamia. I Centauri invitati alle nozze ebbri, ed impazzati tentarono ◀di▶ rapire la sposa. I Lapiti diedero ◀di▶ piglio alle armi, e Teseo non si fece pregare per fare lo stesso.
In ricompensa Piritoo contribuì al ratto ◀di▶ Elena figliuola ◀di▶ Tindaro, e ◀di▶ Leda, per averla veduta Teseo ballare con molta grazia nel tempio. Questa indegna azione ◀di▶ Teseo fu causa ◀di▶ una guerra terribile. Castore, e Polluce germani ◀di▶ Elena ostilmente entrarono ne’ suoi stati, ed i sudditi l’obbligarono ad andare in esilio.
Questa lezione non bastò a correggere Teseo. Piritoo suo amico, e compagno d’armi volendo imitarlo, gli venne la smania ◀di▶ rapir Proserpina. Arrivati all’Inferno, Plutone fu avvertito della trama, e fatte sciogliere le catene ◀di▶ Cerbero, si avventò questi a Piritoo, e lo strangolò. Teseo fu preso vivo, e condannato a restar per sempre nel Tartaro. Per sua fortuna Ercole gli ottenne ◀di▶ potere abbreviare la sua pena. Teseo ◀di▶ ritorno alla terra procurò ◀di▶ rientrare ne’ suoi stati che aveva occupati Mnesteo : ma i sudditi malcontenti ◀di▶ un re che loro attirava una folla ◀di▶ sventure, non vollero in niun conto riceverlo. Quindi si ritirò nell’isola ◀di▶ Sciro, ove Licomede regnava. Ivi visse miserabilmente, e dopo la sua morte gli furono renduti gli onori, che vivendo aveva meritati.
Castore, e Polluce.
Rapito Giove dalla bellezza ◀di▶ Leda sposa ◀di▶ Tindaro re ◀di▶ Sparta, volle un dì visitarla trasformatosi in cigno perseguitato da un’aquila. Questa principessa lo accolse nel seno, e ritrovandosi incinta dopo nove mesi si sgravò ◀di▶ due ovi, in uno de’ quali stava rinchiuso Polluce, ed Elena, nell’altro Castore, e Clitennestra. I primi due furono riguardati come figli ◀di▶ Giove, e gli altri due per figliuoli ◀di▶ Tindaro, detti in seguito indifferentemente tutti e quattro Tindaridi.
Divenuti adulti i due germani, si distinsero nel valore, Polluce riuscì il più bravo fra gli Atleti, avendo ucciso il terribile Amico al giuoco del cesto. Castore si segnalò nel corso, e nell’arte ◀di▶ domare i cavalli. Entrambi andarono al conquisto del vello d’oro, e fecero la guerra a Teseo che aveva rapita Elena germana. Essi punirono soltanto quei che avevano preso parte al ratto. Tal moderazione loro fece meritare la stima e l’ammirazione degli Ateniesi. Mercè la nobile cura che entrambi si presero ◀di▶ purgar l’Arcipelago dai corsari che lo infestavano, furono riguardati quai Numi da’ marinari. Nel corso della tempesta che assalì gli Argonauti, si viddero de’ fuochi scintillare sul capo de’ due fratelli, e cessò tosto quel fiero temporale. Le fiamme ◀di▶ tal sorta che apparivano nel sorgere, o nel mezzo ◀di▶ qualche tempesta si credevano segni felici, chiamati i fuochi ◀di▶ Castore, e ◀di▶ Polluce.
Amarono i due fratelli nel tempo istesso le figliuole ◀di▶ Leucippe, Febe, e Talaria, che bisognò rapire, perchè promesse a Ida, e Lincèo. Si venne alle mani per giustificare, e per sostenere l’oltraggio. Castore uccise Lincèo, che da Ida fu vendicato colla morte del primo. Polluce vendicò parimente Castore colla morte ◀di▶ Ida.
Polluce perchè figlio ◀di▶ Giove era immortale. Ma il vivere gli era insoffribile perchè, diviso da Castore. Quindi supplicò Giove o che lo avesse privato della vita, o avesse divisa la sua immortalità col fratello. Esaudì Giove i suoi voti, e fu deciso, che i due germani passassero sei mesi nell’inferno, ed altrettanti sulla terra. Finalmente furono trasportati nel cielo, e diedero il nome a due segni del Zodiaco chiamati i Gemelli 1.
Giasone.
Regnando in Tessaglia Esone principe debole, ed incapace ◀di▶ difendere i dritti del suo popolo ; fu sbalzato dal trono da Pelia suo fratello. Questi per palliare l’usurpazione promise ◀di▶ restituire il regno a suo nipote Giasone, allorchè venisse all’età ◀di▶ poter governare. Divenuto adulto gli fu proposto dallo zio la conquista del vello d’oro, che il giovane avido ◀di▶ gloria non esitò punto d’intraprendere a traverso ◀di▶ tanti pericoli, che ne impedivano il possesso. Bisogna sovvenirsi quì ◀di▶ quanto sì è detto riguardo a Frisso, ed Elle figliuoli ◀di▶ Atamante re ◀di▶ Tebe. Perseguitati questi da Ino loro madrigna, sen fuggirono sul dorso ◀di▶ un ariete, la cui lana era ◀di▶ oro, e traversarono un canale del mar nero. Elle ebbe la disgrazia ◀di▶ cadere, e diede il nome ◀di▶ Ellesponto a quel mare. Frisso più fortunato guadagnò l’opposta riva, e continuando il suo viaggio arrivò in Colco, ove offerì in sacrifizio a Marte quel bello ariete, che fu poi collocato in un campo consagrato a quel Dio, e sotto la custodia ◀di▶ un dragone terribile. Fu Marte tanto contento ◀di▶ questa offerta che promise immense ricchezze a chi avrebbe il possesso ◀di▶ quella lana, e ne propose a tutti gli Eroi la conquista.
Giasone risoluto ◀di▶ partire, chiamò a parte della gloria ◀di▶ quell’impresa tutti gli Eroi della Grecia. Il vascello detto Argo fu quello che trasportò questa schiera ◀di▶ Eroi, perciò detti Argonauti. Noi non ci daremo la pena ◀di▶ fare la diceria ◀di▶ tutte le avventnre precedenti al viaggio, e degli ostacoli che sormontarono mercè l’assistenza ◀di▶ Giunone, e ◀di▶ Minerva. Il viaggio però era il minore de’ mali a fronte ◀di▶ quelli dell’acquisto del vello. Bisognava in primo luogo rompere una barriera custodita da due tori (dono ◀di▶ Vulcano) che avevano le corna, e i piedi ◀di▶ bronzo, dalle cui fauci correvano torrenti ◀di▶ fuoco, indi assoggettarli al giogo, e lavorare un campo vergine con seminarci i denti ◀di▶ un dragone, da’ quali dovevano venir fuora alcuni uomini armati, che faceva d’uopo sterminare fino a che non ve ne restasse un solo : finalmente uccidere un mostro, che stava alla guardia ◀di▶ sì prezioso deposito. Il più difficile era che tutto questo doveva effettuarsi nel breve corso ◀di▶ un giorno. L’impresa avrebbe sgomentato lo stesso Ercole : e Giasone ci avrebbe perduta la vita, se Minerva, e Giunone non avessero ispirato amichevoli sentimenti per Giasone a Medèa figliuola del re ◀di▶ Celco, maga espertissima, al cui potere ubbidiva il cielo, e la terra. Venuto il giorno prefisso si accinse al cimento il valoroso Giasone. Appena che comparve, i tori diventarono manieri, si sottoposero al giogo, fu lavorata la terra, uscirono dal ◀di▶ lei seno gli armati, che in vista ◀di▶ una pietra ad essi lanciata posti in iscompiglio a vicenda si scannarono : fu assopito, indi ucciso quel mostro mercè l’efficacia ◀di▶ alcune erbe, o ◀di▶ una bevanda apprestata da Medèa. S’impadronì Giasone dell’aureo vello che portò sulla nave con istupore de’ suoi compagni, che si erano scoraggiti all’aspetto ◀di▶ tanti pericoli.
Ciò fatto ◀di▶ concerto con Medèa, che sposò, pensarono ◀di▶ fuggirsene col favore della notte trasportando seco i tesori ◀di▶ Eta padre ◀di▶ Medèa. Questi senza perdita ◀di▶ tempo cominciò ad inseguirli : ma la perfida figlia avvezza ad ogni delitto, preso Absirto suo fratello minore lo trucidò, spargendo le membra lungo la strada che doveva battere suo padre, perchè si occupasse il medesimo a raccogliere gli avanzi dell’infelice garzone.
Il ritorno ◀di▶ Giasone, e degli Argonauti riempì ◀di▶ gioja tutta la Tessaglia. Ivi si celebrarono delle feste in tale occasione. Cessò intanto la buona intelligenza fra i due sposi. Medèa ritirossi a Corinto dove Giasone la seguì. Ma incostante quest’ultimo cercò la mano ◀di▶ Creusa figliuola ◀di▶ Creonte re ◀di▶ Corinto, e l’ottenne. Sdegnata Medèa per tanta infedeltà, finse ◀di▶ volere intervenire alle nozze per felicitare la nuova coppia, con aver fatto il dono a Creusa ◀di▶ una veste avvelenata, ma coverta ◀di▶ diamanti. La sventurata figlia ◀di▶ Creonte appena ne fu vestita, che fu consumata da un fuoco sul momento. Non contenta la maga ◀di▶ tale strepitosa vendetta prese i figli che aveva avuti da Giasone, ed al cospetto del padre barbaramente li trucidò : indi montato un carro s’involò alla vista ◀di▶ tutti, e recossi ad Atene, dove procurò ◀di▶ sedurre il vecchio Egèo.
Passò Giasone il resto de’ suoi giorni ora in un luogo, ora in un altro. Finalmente ritornò in Tessaglia, dove standosi un giorno sul vascello Argo che stava sulla riva, fu schiacciato dalla caduta ◀di▶ una trave che si era staccata.
Ercole.
Nacque quest’Eroe da Alcmena, e da Giove, che la sedusse sotto l’aspetto del suo sposo Anfitrione figliuolo ◀di▶ Alcèo. Come Giove aveva detto nel concilio degli Dei, che il bambino, che doveva nascere, sarebbe divenuto un Eroe, irritata Giunone spiegò un odio implacabile contro ◀di▶ Ercole, detto anche Alcide, perchè nipote ◀di▶ Alcèo. Standosi ancora in culla, la Dea gli aizzò due serpi per farlo affogare. In questo rincontro fece Ercole conoscere ◀di▶ esser egli figliuolo ◀di▶ Giove, avendo preso ambo i serpenti, e stretti talmente, che li schiacciò.
Creonte re ◀di▶ Tebe prese cura della sua educazione, che fu qual si conveniva ad un Eroe. Ercole gli mostrò tutta la gratitudine, avendo liberata Tebe nell’età ◀di▶ anni dieci dal giogo de’ Miniani. Ammazzò Ergino loro re, e saccheggiò Orchomeno città capitale de’ medesimi. Creonte in compenso gli diede in isposa Megaride sua figlia.
Questi non furono che piccioli saggi del suo valore, e preludj de’ travagli, che gli aveva riserbati lo sdegno ◀di▶ Giunone, che noi in un fiato accenneremo. Il primo tratto della sua fortezza fu l’aver ucciso un lione che infestava la selva Nemèa, della cui pelle si vestì. Il secondo fu contro l’Idra, che desolava le paludi ◀di▶ Lerna presso Argo. Questo mostro aveva cento colli, che terminavano in altrettante teste spaventevoli rinascendo a misura, che si tagliavano. Ercole le sterminò coll’ajuto ◀di▶ Jolo suo cugino, a cui impose ◀di▶ bruciarle appena ch’egli le recidesse. Temprò egli in seguito le sue frecce nel sangue ◀di▶ quest’Idra, che conteneva un veleno potentissimo. Per mano ◀di▶ Ercole caddero caddero altresì gli augelli straordinarj del Lago Stimfalo in Arcadia. Era tanto numeroso il loro stuclo che oscurava l’aria. Avevano il becco ◀di▶ ferro, e dal rostro lanciavano delle particelle dello stesso metallo. Furono questi mostri abbattuti, e scacciati dal rumore ◀di▶ alcuni timpani ◀di▶ bronzo, che Minerva gli aveva donati. La quarta spedizione fu la presa della cerva del monte MenaIo, che aveva i piedi ◀di▶ bronzo, e le corna ◀di▶ oro, che per un anno intero inseguì. Fu ucciso parimente da Ercole il famoso cinghiale ◀di▶ Erimanto che trasportò vivo sulle spalle. Era tanto grande, e terribile, che in vederlo ritornare Euristeo si nascose per la paura in una botte ◀di▶ bronzo. Erano tante sporche le stalle ◀di▶ Augìa re ◀di▶ Argo, che l’Eroe per nettarle deviò il corso del fiume Alfeo. Un toro che gittava fiamme dalle narici desolava l’isola ◀di▶ Creta. Nettuno colà lo aveva spiccato perchè Minosse non gli aveva sagrificato un bove ◀di▶ maravigliosa bellezza, come gli aveva promesso. Ercole vinse anche questo mostro. Punì questo Eroe anche Busiride, e Diomede. Il primo immolava a Nettuno tutt’i forestieri, ch’entravano ne’ suoi stati. Il secondo pasceva ◀di▶ carne umana i suoi cavalli. La pena medesima fu loro applicata. Fece in seguito la guerra alle Amazoni, e diede in isposa a Teseo la loro regina. Uccise Gerione, che aveva tre corpi. Essendosi altresì fatto iniziare ne’ misteri Eleusinj discese poscia all’inferno, ove dopo aver liberato il suo amico Teseo, costrinse Cerbero per la prima volta a vedere la luce, ed incatenato lo trascinò sulla terra. Finalmente conquistò i pomi d’oro, che stavano agli orti dell’Esperidi guardati da un dragone che ammazzò. L’Esperidi erano tre, Egle, Aretusa, ed Esperusa figliuole ◀di▶ Espero germano ◀di▶ Atlante, che fu cangiato in una stella che comparisce al levarsi, ed al tramontare del sole, detta perciò Lucifer, ed Hesperus. Osservammo già che Atlante era stato trasformato in una montagna, che sostiene il cielo ; le sue quattordici figlie cangiate in altrettante stelle dette Plejadi, ed Jadi.
Oltre tanti fin quì descritti travagli illustrò quest’Eroe la sua vita con tante altre brillanti azioni. Egli fu che diede la morte a Caco, che abitava in un antro sotto le falde dell’Aventino1. Questo insigne, ma accorto ladrone nel rubare ad Ercole alcuni bovi ebbe l’avvertenza ◀di▶ condurli nella sua caverna, tirandoli per la coda per non far conoscere la strada che avevano battuta. Ercole li avrebbe affatto perduti, se non avesse udito il muggìto de’ bovi. Pagò Caco la pena del suo delitto : si riprese Ercole i bovi, ed uccise l’indegno ladrone. Stupenda è la descrizione, che fa Virgilio ◀di▶ questa grotta nel lib. 8. Dell’Eneide.
Stava nelle arene della Libia un famoso gigante chiamato Antèo, che attaccava i viandanti. Aveva questi promesso a Nettuno suo padre d’innalzargli un tempio ◀di▶ cranj, ed ossa umane. Ercole andò a fargli una visita, gli diede addosso, e lo stramazzò più volte ; ma come figlio della Terra ripigliava nuove forze Antèo sempre che la toccava ; del che avvedutosi Ercole lo tenne sospeso in aria finchè spirò l’ultimo fiato. Una fucinata ◀di▶ uomini che avevano picciolissima statura detti Pigmei per vendicare la morte ◀di▶ Antèo loro re si affollò intorno ◀di▶ Ercole, che ridendo li pose in fuga.
Questo Eroe diseese duc volte all’Inferno per liberare Teseo, indi Alceste figliuola ◀di▶ Pelia, ed Anassabia. Suo padre per sottrarla dalle premure degli amanti che la circondavano, fece loro sentire che per ottenerla in isposa dovevano condurla sopra ◀di▶ un carro tirato da due bestie feroci ◀di▶ differente specie. Admeto ebbe la fortuna d’impalmare questa principessa, avendo adempito a tale condizione mercè un lione, ed un cinghiale che Apollo gli diede. Ma il Destino geloso della felicità ◀di▶ Admeto era presso a troncare i suoi giorni, quando Alceste che lo amava alla follìa, si offrì ◀di▶ morire per lui. Fu questa l’unica fiata che le Parche s’intenerirono : recisero quindi il filo della vita ◀di▶ Alceste, e lasciarono vivere Admeto. Mentre si celebravano i funerali ◀di▶ questa grande Eroina, esempio dell’amor conjugale, arrivò Ercole alla corte ◀di▶ Admeto. Commosso dalla sposizione del fatto non volle, che un’azione sì grande restasse senza compenso. Scese tosto all’inferno : combattè colla Morte : la vinse, e rimenò la tenera Alceste al suo sposo fedele, malgrado la renitenza ◀di▶ Plutone.
Volle Ercole per la seconda volta maritarsi, e chiese la destra ◀di▶ Jole figliuola ◀di▶ Eurito, che domandò tempo per pensarci, sull’idea che sua figlia non potesse essere contenta accoppiata ad un uomo, che aveva ammazzato ◀di▶ propria mano i suoi figli. Ercole che fra le sue virtù non contava la pazienza, credendo tal pretesto un vero rifiuto, crucciato si portò via i cavalli ◀di▶ Eurito : suo figlio Ifito, che volle reclamarli, cadde vittima ◀di▶ Ercole. Il suo rimorso avendo costretto Ercole a consultare l’oracolo, gli fu risposto, che l’uccisore avrebbe espiato il suo delitto a solo patto che si fosse pubblicamente lasciato vendere. Ercole vi acconsentì, e diventò schiavo ◀di▶ Onfale regina ◀di▶ Lidia Da schiavo divenne amante, e per guadagnarsi l’affetto ◀di▶ Onfale si ridusse colla conocchia a filare tra le sue donne.
Vedesi quì tra le Meonie ancelleFavoleggiar colla conocchia Alcide ;Se l’inferno espugnò, resse le stelle,Or torce il fuso, Amor se ’l guarda, e ride.Tasso Gerusal. Canto 16.
Navigò Ercole l’Oceano fino a Calpe, ed Abila, quali due monti prima erano uniti, ed esso li separò, dove innalzò una colonna col motto Non plus ultra.
Finalmente ritornando nella Grecia sposò Dejanira sorella ◀di▶ Meleagro, che volendo condurre alla patria, pregò Nesso centauro a trasportarla ◀di▶ là del fiume Eveno. Nesso gli avrebbe nel passaggio del fiume involato la sposa, se Ercole non lo avesse arrestato con una freceia avvelenata. Questo mostro si vendicò in una maniera terribile. Consigliò prima ◀di▶ morire alla credula Dejanira ◀di▶ conservare una camicia intrisa nel suo sangue perchè la dasse allo sposo, allorchè aveva motivo ◀di▶ sospettare della ◀di▶ lui fedeltà. Questa principessa volendo interamente frastornarlo dall’affetto per Jole gl’inviò questa fatale camicia, mentre andava a fare un sagrifizio sul monte Eta. Appena Ercole ne fu rivestito che sentì divorarsi da un fuoco interno, indi preso da furore precipitò dall’alto della montagna il suo schiavo Lica, che gli aveva recato quel dono così funesto. Finalmente gittossi in un rogo, pregando i suoi amici ◀di▶ appiccarvi il fuoco. Il solo Filottete fra tanti che ricusarono, secondò il suo volere. Per compenso n’ebbe l’arco, e le frecce, senza le quali non poteva cader Troja. Le fiamme consumarono solamente quel tanto che aveva ◀di▶ mortale ; ma come figlio ◀di▶ Giove dopo morto fu dal medesimo trasportato nel Cielo.
Filottete.
Filottete figliuolo ◀di▶ Peano mercè l’amicizia ◀di▶ Ercole fu collocato nel numero degli Eroi. Dicemmo già ch’egli aveva assistito alla morte ◀di▶ questo Eroe con aver giurato ◀di▶ non rivelare il luogo della sua tomba ; ma i Greci, che avevano bisogno delle frecce che ivi erano rinchiuse per poter prendere Troja, lo fecero mancare al giuramento. Egli intanto credette ◀di▶ eludere il sacro voto battendo col piede la terra, in quel luogo ove stavano le ceneri ◀di▶ Ercole : ma gli Dei lo punirono egualmente che se avesse colla viva voce indicato quel sito. Appena imbarcatosi per recarsi a Troja, gli cadde sul piede che aveva battuta la terra, un dardo avvelenato dal suo amico ricevuto. Il veleno s’insinuò negli umori, e la sua ferita divenne insanabile. L’infezione, ed il fetore era tale, che i Greci lo lasciarono nell’isola ◀di▶ Lenno, ove menò un vita miserabile. Intanto come le sue frecce erano necessarie per la presa ◀di▶ Troja, i Greci dopo la morte ◀di▶ Achille furono costretti ◀di▶ ricorrere a lui. Crucciato Filottete dal tradimento ricevuto, non volle vederli : ma Ulisse ch’era destro nel tempo istesso, ed aveva il dono della lingua, calmò la sua collera, e lo persuase a venire ancor egli a Troja. Partì dunque, e giunto al campo de’ Greci, il bravo medico Macaone figliuolo ◀di▶ Esculapio trovò la maniera ◀di▶ guarire la ◀di▶ lui piaga.
Orfèo.
La saggia antichità ha onorato la memoria non solo degl’illustri guerrieri, ma quella ancora degl’iusigni poeti. Orfèo fu celebre antichissimo legislatore, e poeta, e meritò altresì il culto al pari delle altre Divinità, ch’aveva nella Grecia introdotte. Egli era figlio ◀di▶ Eagro re della Tracia, e della Musa Calliope. Apollo conoscendo in lui un raro talento per la musica gli regalò la sua lira, alla quale Orfèo aggiunse due altre corde. Allorchè questo famoso musico insieme, e poeta scioglieva la voce al canto, uscivano da’ loro covili le bestie feroci, e divenivano altresì sensibili le piante, ed i sassi.
Dopo i suoi viaggi per l’Egitto si ripatriò, ed ebbe per sua sposa la bella Euridice. Ma disgraziatamente nel giorno stesso delle nozze, cogliendo Euridice de’ fiori in una prateria, fu morsicata al calcagno da una biscia, e dopo pochi momenti infelicemente morì. Orfèo inconsolabile per questa perdita volle scendere all’inferno per chiedere in grazia a Plutone la sua sposa, lusingandosi ◀di▶ ammansire que’ mostri al suono della sua lira. Gli riuscì in fatti ◀di▶ riavere da Plutone la cara sua sposa a condizione però, che non si fosse rivoltato indietro fino a che non fosse uscito dall’inferno. Lo smanioso Orfèo dimenticò l’ordine ◀di▶ Plutone, e sparì per la seconda fiata Euridice. Questa perdita lo afflisse in modo, che giurò ◀di▶ fuggire per sempre la compagnia delle donne. Le femmine ◀di▶ Tracia furono sì offese da tale disprezzo, che avendolo incontrato mentre celebravano le feste ◀di▶ Bacco, lo fecero in pezzi, e ne dispersero le membra, che poi le Muse raccolsero, e seppellirono in un luogo decente : la sua lira fu situata nel Cielo1. Non possiamo dispensarci qui dal rapportare il divino squarcio ◀di▶ Virgilio su tale proposito. Descrivendo questo sublime poeta la morte ◀di▶ Euridice, ne attribuisce la cagione al pastore Aristèo che la inseguiva mentre coglieva de’ fiori, e nella fuga fu da una serpe morsicata. Quindi Aristèo a consigli ◀di▶ sua madre avendo consultato Proteo, così questi gli parlò.
Non te nullius exercent numinis irae :Magna lues commissa : tibi has miserabilis OrpheusHaudquaquam ob meritum poenas (ni fata resistant)Suscitat, et rapta graviter pro conjuge saevit.Illa quidem, dum te fugeret per flumina preaceps,Immanem ante pedes hydram moritura puella,Servantem ripas, alta non vidit in herba.At chorus aequalis Dryadum clamore supremosImplerunt montes : flerunt Rhodopeiae arces,Atque Pangaea, et Rhesi Mavortia tellus,Atque Getae, atque Hebrus, atque Actias Orithyia.Ipse cava solans aegrum testudine amorem,Te, dulcis conjux, te solo in litore secum,Te, veniente die, te decedente canebat.Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,Et caligantem nigra formidine lucumIngressus, manesque adiit, Regemque tremendum,Nesciaque humanis precibus mansuescere corda.At canlu commotae Erebi de sedibus imisUmbrae ibant tenues, simulacraque, luce carentum :Quam multa in silvis avium se millia condunt,Vesper ubi, aut hybernus agit de montibus imber :Matres, atque viri, defunctaque corpora vitaMagnanimum heroum pueri, innuptaeque puellae,Impositique rogis juvenes ante ora parentum.Quos circum limus niger, et deformis arundoCocyti, tardaque palus innabilis undaAlligat, et novies Styx interfusa coercet.Quin ipsae stupuere domus, atque intima lethiTartara, caeruleosque implexae crinibus anguesEumenides : tenuitque inhians tria Cerberus ora,Atque Ixionei vento rota constitit orbis.Jamque pedem referens, casus evaserat omnes :Redditaque Eurydice superas veniebat ad auras,Pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),Cum subita incautum dementia cepit amantem(Ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes) :Bestitit, Eurydicemque suam jam luce sub ipsaImmemor, heu ! victusque animo respexit, ibi omnisEffusus labor, atque immitis rupta tyranniFoedera : terque fragor stagnis auditus Avernis.Illa, quis et me (inquit) miseram, et te perdidit Orpheu ?Quis tantus furor ? en iterum crudelia retroFata vocant, conditque natantia lumina somnus.Jamque vale : feror ingenti circumdata nocte,Invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas.Dixit, et ex oculis subito, ceu fumus in aurasCommixtus tenues, fugit diversa : neque illumPrensantem nequicquam umbras, et multa volentemDicere praeterea vidit : nec portitor OrciAmplius objectam passus transire paludem,Quid faceret ? quo se rapta bis conjuge ferret ?Quo fletu manes, qua Numina voce moveret ?Illa quidem Stygià nabat jam frigida cymba.Septem illum totos perhibent ex ordine menses,Rupe sub aeria, deserti ad Strymonis undamFlevisse, et gelidis haec evolvisse sub antris,Mulcentem tigres, et agentem carmine quereus ;Qualis populea moerens Philomela sub umbraAmissos queritur foetus, quos durus aratorObservans nido implumes detraxit : at illaFlet noctem, ramoque sedens miserabile carmenIntegrat, et moestis loca questibus implet.Nulla Venus, nullique animum flere HymenaeiSolus Hyperboreas glacies, Tanaimque nivalem,Arvaque Riphaeis nunquam viduata pruinisLustrabat, raptam Eurydicem, atque irrita DitisDona querens, spretae Ciconum quo munere matresInter sacra Deum, nocturnique Orgia BacchiDiscerptum latos juvenem sparsere per agros.Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum ;Gurgite cum medio portans Oeagrius HebrusVolveret, Eurydicem vox ipsa, et frigida lingua,Ah, miseram Eurydicem anima fugiente vocabat :Eurydicem toto referebant flumine ripae.Haec Proteus, etc.Virg. Georg. IV.
Edipo.
Lajo re ◀di▶ Tebe aveva sposata Giocasta figliuola ◀di▶ Creonte, che aveva prima ◀di▶ Lajo parimente regnato in Tebe.Gli fu predetto dall’oracolo, che il figlio che nascerebbe da questo matrimonio avrebbe a suo tempo ammazzato il genitore ; quindi sgravatasi la regina, ordinò ad un suo familiare, che avesse esposto il bambino in un deserto. Ma questi in vece ◀di▶ abbandonarlo alle bestie feroci, lo legò ad un albero per un piede. Per tal ragione il faneiullo ebbe il nome ◀di▶ Edipo, voce Greca, che dinotò piè gonfio. Forba guardiano degli armenti ◀di▶ Polibo re ◀di▶ Corinto a caso lo trovò, e mosso a compassione de’ suoi vagiti lo staccò dall’albero, e lo presentò al re, che lo fece educare con attenzione, adottandolo anche per figlio.
Edipo divenuto adulto seppe, che Polibo non era il padre suo. Volle a tale oggetto consultare l’oracolo, da cui gli fu risposto, che giammai non pensasse a far ritorno alla patria, perchè avrebbe ucciso suo padre, ed indi sposata la propria madre. Intanto credendo egli Corinto la sua patria non volle ritornarci, e prese la strada della Focide. In uno stretto del monte Citerone ebbe la sventura d’incontrarsi con Lajo, che avendogli imposto bruscamente ◀di▶ scostarsi, Edipo che nol conosceva, credendosi offeso tirò fuori la sua spada, e dopo essersi battuto uccise Lajo, e l’oracolo fu pienamente adempiuto.
Questa fu la sorgente delle disgrazie che afflissero Tebe. Un mostro alato chiamato Sfinge colla testa, e mani ◀di▶ donna, il corpo ◀di▶ un cane desolava le campagne ◀di▶ Tebe, e standosi in aguato in un passo del monte Ficèo, assaliva i passaggieri, che uccideva dopo aver proposto ai medesimi degli cnigmi indissolubili.
Creonte, che dopo la morte ◀di▶ Lajo aveva ripreso le redini del governo, fece noto al publico, che colui che uccidesse la Sfinge, sarebbe divenuto l’immediato successore del trono, ed avrebbe sposato Giocasta. La vita del mostro dipendeva dallo scioglimento ◀di▶ uno degli enigmi che proponeva. Edipo intraprendente, ed ardito, malgrado che tanti prima ◀di▶ lui fossero periti, ebbe il coraggio ◀di▶ presentarsi al mostro, che gli dimandò qual era quell’animale che sul matino và brancolando a quattro piedi, sul mezzo dì a due, e verso la sera con tre piedi. Edipo senza punto esitare rispose che questi era l’uomo, che nell’infanzia si rotola sovente anche colle mani per terra ; nello stato della sua robustezza camina a due piedi ; e nel declinare dell’età si poggia ad un bastone. Appena spiegato questo enigma, la sfinge si precipitò dall’alto ◀di▶ una roccia, e spirò. Così Tebe fu liberata : Edipo sposò sua madre, e divenne re. Da questa coppia incestuosa nacquero Eteocle, e Polinice, e due femine Antigone, ed Ismene.
Gli Dei vollero far presenti ad Edipo tali per altro involontarj delitti. Suscitarono una pestilenza spaventevole in Tebe ; si ebbe ricorso all’oracolo, e la risposta fu, che il flagello cesserebbe allora quando l’uccisore ◀di▶ Lajo fosse stato riconosciuto, e punito. Lo sventurato Edipo convinto del delitto, e vedendo che al parricidio aveva aggiunto l’incesto, andossene volontariamente in esilio, ed increscendogli la propria esistenza, si cavò anche gli occhi.
Giocasta spaventata egualmente dalla sua posizione, si diede da se stessa la morte.
Eteocle, e Polinice.
Il delitto ◀di▶ Edipo fu cagione ◀di▶ altre disgrazie nella sua famiglia. Eteocle, e Polinice suoi figli convennero ◀di▶ regnare un anno per ciascuno. Eteocle come primo ◀di▶ età prese le redini del governo : ma terminato l’anno, non si sentì la voglia ◀di▶ deporre il comando. Sdegnato Polinice ritirossi in Argo, dove regnava Adrasto che gli fece grande accoglienza, e gli diede una sua figliuola in isposa. Questi tentò ◀di▶ aggiustare le differenze tra i due fratelli, inviando Tidèo altro suo genero ad Eteocle, che violando il dritto delle genti fece tendere un’imboscata all’ambasciatore. Tidèo potè appena salvarsi, e ritornato ad Argo raccontò il fatto ad Adrasto, che si accinse tosto a vendicare i suoi dritti colle armi. Dopo lunga, e varia fortuna ◀di▶ questa guerra, stanchi i due fratelli risolvettero ◀di▶ terminarla in un combattimento a corpo a corpo. Si azzuffarono dunque entrambi, ed era tale l’accanimento, che l’odio reciproco loro ispirava, che dopo aversi dato de’ colpi terribili, restarono nel tempo istesso morti sul campo. La loro rabbia si manifestò anche dopo la morte, giacchè le ceneri de’ due fratelli non si poterono mai unire nella tomba, ed allorchè furono esposti sul rogo per bruciarsi i cadaveri, le fiamme si separarono con meraviglia, e spavento degli astanti.
Nomi de’ principali Guerrieri, che si distinsero nella guerra ◀di▶ Tebe.
La guerra ◀di▶ Tebe fu una delle più famose nei tempi eroici. Ella è stata il soggetto del canto ◀di▶ molti poeti, come quella ◀di▶ Troja, che diede occasione al poema ◀di▶ Omero. Tra i capi che allora si distinsero, si contano Adrasto, Polinice, Tidèo, Amfiarao, Capanèo, Ippomedonte, e Partenopèo.
Adrasto, come si è già detto, fu la molla principale ◀di▶ questa guerra, avendo aceolto nella sua reggia Polinice.
Tidèo contemporaneamente con Polinice rifuggissi ad Argo, dopo avere ucciso i suoi zii. Adrasto parimente lo ricevè, e gli diede una sua figliuola in isposa. Tidèo era bravo, ed esperto capitano, e disfece più volte Eteocle ; incontrò non ostante la morte all’assedio ◀di▶ Tebe. Egli fu padre del celebre Diomede, che si segnalò nella guerra ◀di▶ Troja.
Amfiarao famoso indovino, sposo ◀di▶ Erifile figliuola ◀di▶ Adrasto, fu anche pressato ad armarsi : ma sapendo egli che doveva perire in questa guerra, si ritirò dalla corte ◀di▶ suo cognato, e si nascose. La sola Erifile sapeva il luogo della sua ritirata, che non tardò a scoprire mercè ◀di▶ una bella collana a lei donata da Polinice. Amfiarao fu obbligato a partire con aver però imposto al suo figlio Alcmeone, che appena intesa la nuova ◀di▶ sua morte, avesse tolta ◀di▶ vita Erifile. Morì egli in fatti : ed Alcmeone esegui l’ordine paterno. Ma tosto il sangue ◀di▶ Erifile fu vendicato, essendo stato consegnato alle Furie l’empio matricida, il quale per liberarsene si rifugiò a Psofi in Arcadia, per ivi fare de’ sacrifizj colla speranza ◀di▶ riacquistare la perduta tranquillità. Fegèa re del paese lo accolse, e gli diede per moglie Alfesibea sua figlia, a cui Alcmeone donò la fatale collana. Avendola però dopo ripudiata per Calliroe figliuola ◀di▶ Acheloo, chiese ◀di▶ nuovo questa collana ai fratelli, che vendicarono l’affronto fatto alla sorella colla morte del perfido Alcmeone.
Capanèo è l’Eroe, che forma il soggetto del poema ◀di▶ Stazio intitolato la Tebaide. Questo principe era fornito ◀di▶ un feroce coraggio, ma accompagnato dalla prudenza. Sprezzava il fulmine ◀di▶ Giove, che credeva incapace ◀di▶ offendere. Giove volle punire tale empietà, e col fulmine appunto lo schiacciò sulle mura ◀di▶ Tebe, ove era salito il primo ◀di▶ tutti. La sua sposa Evadne figliuola d’Ifi per lo contrario era il modello della dolcezza. Ella non potè sopravvivere a suo marito. Colla massima indifferenza si gettò sul rogo, ove si bruciava il cadavere ◀di▶ Capanèo, e mischiò le sue ceneri con quelle del marito.
Ippomedonte, e Partenopèo ebbero poca fama, e perirono sotto le mura ◀di▶ Tebe.
Adrasto fu il solo, che ritornò alla patria. Del resto questa guerra fu fatale a tutti coloro, che ci avevano preso parte.
Fra i personaggi, che si segnalarono in questa celebre epoca, non possiamo dispensarci dal nominare Tiresia famoso indovino, che per sette anni fu donna. Suscitatasi fra Giove, e Giunone la quistione sugli attributi de’ due sessi, fu chiamato Tiresia, che decise a favor ◀di▶ Giove, e contro ◀di▶ Giunone. Spiacque alla Dea una tale decisione, e per vendicarsi ◀di▶ Tiresia, lo privò della vista. Giove però lo compensò ◀di▶ tanta perdita conpermettergli ◀di▶ poter leggere nel libro dell’ avvenire, e col dono della vita cinque volte ◀di▶ più del resto de’ mortali.
Dopo la morte de’ figli ◀di▶ Edipo, cioè Eteocle, e Polinice, Creonte fratello ◀di▶ Giocasta salì sul trono ◀di▶ Tebe, e la prima delle sue cure fu ◀di▶ proibire che si desse la sepoltura alle ceneri ◀di▶ Polinice, perchè aveva chiamati de’ forestieri per difendere i suoi dritti contro la patria ; ma Antigone non tollerando quest’ultimo insulto fatto al suo fratello, uscì ◀di▶ notte, e rendette al fratello gli ultimi uffizj. Ciò saputosi dal re, condannò Antigone a morte, che ◀di▶ sua mano precedentemente si era uccisa prevedendo lo sdegno ◀di▶ Creonte. Tal morte fu seguita da quella ◀di▶ Emone amante ◀di▶ Antigone, e figliuolo ◀di▶ Creonte : e la madre ◀di▶ Emone non potendo reggere al dolore parimente da se stessa si uccise. Creonte visse soltanto per sentire il peso delle sue disgrazie, e benchè regnasse sovranamente, era non pertanto considerato qual tutore ◀di▶ Leodamante, figliuolo ◀di▶ Eteocle. Giunto questi all’età della ragione, si riaccese la guerra ◀di▶ Tebe per opera ◀di▶ Adrasto, che stuzzicava i guerrieri della Grecia a vendicare le ombre de’ loro padri. Questa seconda guerra fu detta degli Epigonidi : Leodamante fu spogliato del trono, e vi ascese Tersandro figliuolo ◀di▶ Polinice.
Tantalo.
Rimontiamo frattanto ai tempi eroici, per indagare l’origine della famiglia de’ Pelopidi, che figurò molto in tal’epoca. Tantalo ne fu il capo : egli era figliuolo ◀di▶ Giove, e della ninfa Plota, e regnava nella Frigia. Non essendo questi stato chiamato da Troe in una festa che si celebrò nella città ◀di▶ Troja, per vendicarsi ◀di▶ tale oscitanza, rapì al padre il gentile Ganimede. Ecco la prima scintilla, che produsse a suo tempo l’incendio ◀di▶ Troja.
Abbenchè ◀di▶ stirpe divina, Tantalo non fu punto attaccato all’idea della religione. Un giorno avendo accolti gli Dei in sua casa, volle mettere alla pruova la divinità, con preparar loro in un banchetto le membra ◀di▶ Pelope suo figlio. Fremettero ◀di▶ orrore gli Dei : la sola Cerere stordita dal dispiacere della rapita sua cara Proserpina, si rivolse a tali odiose vivande, e mangiò una spalla ◀di▶ Pelope. Con un fulmine Giove incenerì Tantalo : indi ordinò a Mercurio, che lo avesse confinato in un lago dell’inferno, incatenandolo in guisa che vedesse bensì l’acqua, ma senza poter giammai dissetarsi ; nè tampoco cavarsi la fame, mentre l’acqua gli arrivava al mento, e le frutta gli pendevano sul capo.
Pelope.
Tornò in vita Pelope per opra degli Dei, che in luogo della spalla mangiata da Cerere, gliene sostituirono un’ altra ◀di▶ avorio. Suo padre gli lasciò in retaggio una guerra cagionata dal ratto ◀di▶ Ganimede, onde fu obbligato ◀di▶ abbandonare la Frigia, e ritirarsi presso Enomao re ◀di▶ Elide. Questo principe aveva una figliuola chiamata Ippodamia, che voleva maritare a condizione, che lo sposo dovesse superare al corso i suoi cavalli, ch’erano velocissimi, perchè figli del vento. Pelope che anelava ◀di▶ ottenerla, se la intese con Mirtilo auriga ◀di▶ Enomao, che gli promise ◀di▶ spezzare l’asse che sosteneva le ruote del carro, a patto però, che Pelope gli desse per un solo giorno Ippodamia. Ciò fatto, Enomao si uccise in mezzo della corsa, e Pelope s’impossessò de’ suoi stati, facendo gittare nel mare Mirtilo sotto il pretesto ◀di▶ vendicare la morte ◀di▶ Enomao. Pelope s’impadronì del paese, che fu detto in seguito Peloponneso, oggi la Morea.
Atrèo, e Tieste.
Fra i figli ◀di▶ Pelope sono celebri Atrèo, e Tieste. Ad insinuazione d’Ippodamia loro madre ammazzarono il loro fratello Crisippo nato da una concubina ◀di▶ Pelope chiamata Astiochea ; perlochè furono cacciati dalla Corte ◀di▶ Crisippo insieme con Ippodamia. Rifuggironsi presso Euristeo re ◀di▶ Argo, la cui figlia Erope sposò Atrèo, che divenne re, essendo stato ucciso Euristeo dagli Eraclidi nell’Attica. Tieste che restò in sua corte corruppe il cuore ◀di▶ Erope, e ne ottenne due figli. Avendo Atrèo scoverto l’incestuoso commercio, si contentò da prima ◀di▶ cacciare il fratello dalla sua corte : ma non credendosi vendicato abbastanza, finse ◀di▶ riconciliarsi con lui. Lo richiamò quindi alla Corte, dove invitatolo a solenne banchetto, svenati i due figli del fratello, li diede a mangiare allo stesso padre, ed alla madre Erope. Dicono i poeti, che in quel giorno il sole si oscurò, per non vedere un sì atroce misfatto.
Tieste non aveva a rinfacciarsi che un solo delitto. Avendo una volta incontrata una giovanetta in un bosco consagrato a Minerva, la violentò. Questa era Pelopea sua figlia, che da gran tempo aveva perduta. Ella gli strappò la spada, e la conservò. Nacque Egisto da questa violenza, che esposto dalla madre fu allevato da’ pastori. Atrèo, seguita la morte ◀di▶ Erope, sposò Pelopea che non riconosceva per sua nipote, facendo allevare nella sua reggia anche Egisto insieme con Agamennone, e Menelao. Tanta complicazione ◀di▶ errori finalmente si scoprì. Atrèo spirando nuova vendetta, mandò Agamennone, Menelao, ed Egisto in cerca ◀di▶ Tieste, che lo colsero nel tempio ◀di▶ Delfo. Alla vista ◀di▶ quella spada Tieste riconobbe il suo figlio Egisto ; Pelopea sopraggiunta, ed istruita del fallo involontariamente commesso si diede la morte con quella spada medesima. Avendola Egisto portata tutta insanguinata ad Atrèo, si credette questi vendicato abbastanza, e ringraziò gli Dei. Egisto ben presto lo disingannò con dargli la morte, e con far salire sul trono d’Argo Tieste, che non vi stette gran tempo.
Agamennone, e Menelao.
Agamennone, e Menelao detti gli Atridi perchè figli ◀di▶ Atrèo, cacciati dalla patria dopo la morte del padre, si ritirarono presso Polifide re ◀di▶ Sicione, che gl’inviò ad Eneo re dell’Ecalia. Maritati entrambi per opra ◀di▶ questo principe generoso alle due figliuole ◀di▶ Tindaro Clitennestra, ed Elena, giurarono la vendetta ◀di▶ Atrèo, e perseguitarono Tieste, che per altro non uccisero. Allora nel tempo stesso Agamennone ascese sul trono d’Argo che trasferì a Micene, e Menelao divenne il successore ◀di▶ Tindaro re ◀di▶ Sparta. Essi regnarono in pace, quando Paride figliuolo ◀di▶ Priamo re ◀di▶ Troja recossi alla Grecia per reclamare Esione sua zia, che Telamone altra volta aveva menata via sotto il regno ◀di▶ Laomedonte. Il giovane ambasciadore, che spirava galanteria, ebbe l’attività ◀di▶ sedurre Elena moglie ◀di▶ Menelao, indi la rapì. Furono spedite a Priamo in tale circostanza diverse ambascerie : ma il veochio re in vece ◀di▶ restituir Elena, affacciò fuori tempo diverse ragioni, e sopratutto l’affare ◀di▶ Ganimede figliuolo ◀di▶ Troe, rapito da Tantalo. Ecco la terribile guerra, che interessò tanto tutta la Grecia contro ◀di▶ Troja. Agamennone fu il generale in capo ◀di▶ quest’armata, che doveva vendicare l’insulto fatto a suo fratello. Questo re prima ◀di▶ partire si riconciliò sinceramente con Egisto, a cui con poca prudenza affidò Clitennestra, ed i figli. Il perfido Egisto lungi dal corrispondere all’amicizia ◀di▶ Agamennone, sedusse la ◀di▶ lui sposa, e fece uccidere un rapsodo 1, che il re aveva lasciato presso la regina, per sapere tutto ciò che si faceva nella sua corte. Giunse tant’oltre la ◀di▶ lui scandalosa condotta, che fece assassinare Agamennone nel proprio palazzo in una festa, nel giorno medesimo che ritornò dalla guerra.
Oreste, e Pilade.
Clitennestra vedutasi libera dopo la morto ◀di▶ Agamennone sposò Egisto, e lo fece montar sul trono. Oreste suo figlio sarebbe stato parimente vittima ◀di▶ sua madre, se Elettra sua sorella non lo avesse celato, ed indi fatto partire per la Focide, ove regnava Strofio, che aveva in moglie la sorella ◀di▶ Agamennone. Colà Oreste trovò Pilade figlio ◀di▶ Strofio, ed alla parentela unì puranche la più stretta amicizia, che divenne celebre. Dopo qualche anno volle Oreste vendicare la morte del padre ; arrollò delle truppe, e prese congedo da Strofio insieme col caro suo Pilade. Elettra segretamente lo fece entrare in Micene, e sparse dei falsi rumori ◀di▶ sua morte. Egisto, e Clitennestra caddero nella retc, e recatisi al tempio ◀di▶ Apollo per rendere grazie al nume, entrato Oreste con i suoi soldati ◀di▶ propria mano ammazzò la rea coppia. Ciò fatto, Oreste fu assalito dalle Furie, che malgrado tante espiazioni non lo lasciarono giammai fino a che non liberò sua sorella Ifigenìa, che languiva sotto la tirannia ◀di▶ Toante. Da costci fu riconosciuto in Tauride, e nel punto ◀di▶ dover essere sacrificato a Diana, il suo amico Pilade gli diede i più veraci segui della sua sincera amicizia. Avendo finalmente Oreste ricuperato il trono ◀di▶ suo padre, diede Elettra per isposa a Pilade, e visse fino ad età avanzata.
Tutto questo, se si eccettuino le ultime cose, accadde prima della guerra ◀di▶ Troja, ◀di▶ cui daremo una minuta descrizione nella seguente quarta parte del presente corso ◀di▶ Mitologia.
Parte quarta
Origine della guerra ◀di▶ Troja.
L’origine ◀di▶ questa guerra bisogna ripeterla, al dir de’ poeti, dal Cielo. Giove sempre infedele a Giunone sentiva una forte inclinazione per Teti figliuola ◀di▶ Nereo, e ◀di▶ Dori, che fa d’uopo distinguere da Teti moglie dell’Oceano. Sapendo però per detto ◀di▶ Temi, che il figlio che nascerebbe da Teti avanzerebbe ◀di▶ gran lunga la gloria ◀di▶ suo padre, rinunziò ◀di▶ buona gana agl’impulsi del suo cuore, e maritò Teti a Peleo figliuolo ◀di▶ Eaco re della Ftiotide nella Tessaglia. Achille, che superò la gloria del padre, nacque da questa coppia.
Tali nozze furono celebrate con gran pompa. Crucciata la Discordia ◀di▶ non esservi stata chiamata gittò un pomo ◀di▶ oro nella sala del festino, col motto alla più bella. Ecco sorgere una briga fra Giunone, Minerva, e Venere. Da Giove fu eretto in giudice Paride, detto anche Alessandro, per decidere a chi delle tre Dive spettasse quel pomo. Era questi figliuolo ◀di▶ Priamo re ◀di▶ Troja, e ◀di▶ Ecuba, allora occupato a custodire i suoi armenti sul monte Ida, colà confinato da Ecuba senza che Priamo lo sapesse, giacchè gli era stato predetto, mentre Ecuba era incinta, che il bambino che stava per nascere, sarebbe stata la causa della ruina della patria : quindi diede ordine ad Archelao, che appena nato lo facesse morire ; ma avendone compassione quest’uffiziale ◀di▶ Priamo, lo consegnò ad alcuni pastori. Alla fama della bellezza ◀di▶ questo pastorello volle Priamo vederlo : ne restò sorpreso ; seppe altresì ch’era suo figlio, e malgrado la minaccia dell’oracolo, ebbe la debolezza ◀di▶ volerlo tenere presso ◀di▶ se nella reggia. Mercurio intanto condusse le tre Dive da questo fortunato pastore. Ciascuna ◀di▶ esse procurò ◀di▶ corrompere il ◀di▶ lui cuore. Giunone gli promose degli onori : Minerva la saggezza : Venere la più bella donna ch’ esistesse. La lite fu decisa a favore ◀di▶ quest’ultima. Giunone, le Minerva giurarono ◀di▶ vendicarsene, e mantennero esattamente la loro parola. Venere adempì fedelmente alla sua promessa. Essendo Paride partito per la Grecia per ordine ◀di▶ suo padre, ebbe colà l’occasione ◀di▶ vedere Elena la più bella tra le donne ◀di▶ que’ tempi : se ne invaghi, e favorito dalla Dea degli amori ebbe la fortuna ◀di▶ piacerle. Egli tentò un volo più sublime. Menelao marito ◀di▶ Elena er’assente : la rapì, e la condusse seco a Troja.
L’ingiuria fatta a Menelao pose in rivolta tutta la Grecia, e tutti lo assicurarono ◀di▶ secondare la sua vendetta. Furono non pertanto inviati ambasciatori a Priamo per finir colle buone la faccenda, ma tali mezzi ◀di▶ riconciliazione non ebbero l’effetto desiderato, opponendo Priamo, che i Greci non avevano data alcuna soddisfazione ai Trojani, allorchè fu rapito Ganimede, come sopra si è detto. Fu quindi risoluto ◀di▶ farsi la guerra, e dopo lunghi preparamenti si fece in Argo la rassegna del numero de’ combattenti.
Questa bella armata radunatasi in Aulide incontrò il primo ostacolo nel mare, dove regnando una calma perfetta, non potè passare l’Ellesponto. Consultato in tale circostanza Calcante celebre indovino rispose, che la flotta non avrebbe avuto giammai favorevole il vento, se prima non si fosse placato lo sdegno ◀di▶ Diana contro ◀di▶ Agamennone, che le aveva uccisa una cerva a lei cara : questo delitto non poteva espiarsi, se non col sangue ◀di▶ una principessa della famiglia del reo. Mostrossi pronto Agamennone a sacrificare sua figlia Ifigenia alla collera della Dea, che placatasi dell’offerta sostituì in luogo ◀di▶ quella una cerva, e trasportò Ifigenia in Tauride, destinandola ad assistere ai suoi altari.
Fecero vela finalmente i Greci, e trovarono i Trojani ben disposti a riceverli. Durante il corso ◀di▶ nove anni varia fu la fortuna delle armi. La presa ◀di▶ Troja, che accadde nel decimo anno della guerra, non dipendeva soltanto dal coraggio degli aggressori, ma dall’adempimento ancora ◀di▶ molte fatalità. In primo luogo doveva trovarsi in quest’armata uno de’ discendenti ◀di▶ Eaco, che aveva in compagnia ◀di▶ Apollo, e ◀di▶ Nettuno faticato ad edificare le mura ◀di▶ Troja. Achille discendeva da questo principe : ma Teti sua madre sapendo che il figlio morirebbe nell’assedio, lo aveva vestito sotto le spoglie ◀di▶ donna col nome ◀di▶ Pirra, e lo aveva inviato alla corte ◀di▶ Licomede re ◀di▶ Sciro fra le damigelle ◀di▶ Deidamia sua figlia. Ulisse il più astuto, e prudente fra i Greci s’incaricò ◀di▶ condurre Achille alla guerra. Egli si mascherò per la strada, ed introdottosi nella reggia ◀di▶ Licomede, espose innanzi alle donne varj giojelli, e fra questi si fece scappare delle armi. A tal vista sentì Achille destarsi gli spiriti marziali, e svelò egli stesso il segreto. Ulisse allora presa l’occasione, parlò forte a questo giovane Eroe : gli fece conoscere quanto era preferibile la gloria ad una vita così vergognosa. Un altro decreto del fato comandava, che si cercassero le frecce ◀di▶ Filottete lasciategli da Ercole, che i Greci avevano vilmente abbandonato, come si è detto, nell’isola ◀di▶ Lenno : riuscì anche ad Ulisse ◀di▶ condurlo a Troja. Ma la più difficile tra le leggi imposte dal Fato era ◀di▶ portar via una statuetta ◀di▶ Minerva chiamata Palladium, nella quale consisteva la salvezza della città. Ulisse, che accorreva da per ogni dove, colla sua destrezza seppe involarla coll’ajuto bensì ◀di▶ Diomede. Impedì parimente che i cavalli ◀di▶ Reso re della Tracia bevessero nel fiume Xanto. Trovò anche la maniera ◀di▶ far venire Telefo figliuolo ◀di▶ Ercole ferito da Achille con un colpo ◀di▶ lancia, e che si era dichiarato nemico de’ Greci. Come questi non poteva guarire, se non per mezzo ◀di▶ quella lancia medesima, il saggio re d’Itaca glie ne portò la ruggine. Tolti ◀di▶ mezzo questi ostacoli, sarebbe Troja caduta prima del tempo, se lo spirito ◀di▶ partito, e ◀di▶ divisione non fosse entrato nell’armata : divisione appunto che forma il soggetto del divino poema del grande Omero.
Analisi dell’Iliade.
Al par nell’odio, e nell’amor sublimeL’opra maggior, la memorabil morteDel Trojano campion, morte che a TrojaFu d’eccidio final terribil pegno,Cantami, o Musa etc. etc.
Nella divisione del bottino dopo la presa ◀di▶ Tebe spettò ad Agamennone Criseide figliuola ◀di▶ Crise gran sacerdote ◀di▶ Apollo. Si affrettò questi ◀di▶ venire al campo de’ Greci carico ◀di▶ doni per riscattare la sua figlia, che Agamennone volle onninamente tenere presso ◀di▶ se. Sdegnato Apollo suscitò nell’armata una fiera pestilenza. Consultato Calcante rispose, che il flagello non cesserebbe, finchè non si restituisse Criseide. A sì giusta dimanda Agamennone non volle ostinatamente condiscendere. Si destò allora un bisbiglio fra i capi dell’esercito. Achille il più risentito giunse a minacciare Agamennone, che vinto dalle premure ◀di▶ tutti, fu costretto a cedere la prigioniera, ma per vendicarsi spedì due araldi alla tenda ◀di▶ Achille, che rapirono Briscide schiava del figliuolo ◀di▶ Pelco, e che amava alla follìa.
Montato in furie Achille giurò ◀di▶ non combattere più per la Grecia, se prima non si fossero vendicati i suoi torti. Teti fin dal fondo del mare intese le querele ◀di▶ suo figlio, ed immantinente volò sull’Olimpo per indurre Giove a punire i Greci con far vincere i Trojani, perchè ognuno conoscesse il danno che poteva produrre alla Greca armata il riposo ◀di▶ Achille. Mosso Giove ai prieghi ◀di▶ Teti, inviò ad Agamennone un sogno ingannatore onde ne deduceva un esito felice, dando un assalto alla città. Credette vero questo sogno Agamennone : tosto si sveglia, balza dal letto, raduna i capi dell’esercito, loro espone quanto aveva sognato. All’istante fumano gli altari per implorare il favore degli Dei, e le due parti schierate in battaglia vengono alle mani.
Nel forte dell’azione Paride, cagione ◀di▶ questa guerra, uscito dalle file propose una pugna a corpo a corpo con Menelao per terminare così le contese. La dissida fu accettata dal momento a condizione, che il vincitore sarebbe il pacifico possessore ◀di▶ Elena. Ma al semplice balenar delle armi Paride ch’ era un vile cominciò a tremare, e prevedendo ◀di▶ dover restarci ◀di▶ sotto, si raccomandò alle gambe. Il poeta per palliare questa fuga l’abbellisce con dire, che Venere inviluppò in una nuvola il guerriero da lei protetto, e lo ricondusse in città. I suoi fratelli, i parenti, i Trojani tutti, e la stessa sua sposa diedero del ridicolo a questa fuga vergognosa. Pretesero giustamente i Greci l’adempimento del trattato, ma gli Dei che si erano radunati per decidere sulla sorte ◀di▶ Troja, vollero che l’assedio si fosse prolungato. Minerva stessa, che non sapeva perdonarla ai Trojani per il giudizio ◀di▶ Paride, discese sulla terra, e regolò la mano ◀di▶ uno de’ combattenti a lanciare una freccia diretta al re ◀di▶ Sparta. Il colpo arrivò leggiermente a Menelao ; ed Agamennone, spirando nuova vendetta schierò il suo esercito, e cominciò la pugna con maggior accanimento ◀di▶ prima.
L’invincibil Diomede, figliuolo ◀di▶ Tidèo, oprò prodigj in questa battaglia. Lo spavento, e la morte camminava innanzi a suoi piedi. Egli si rendette formidabile agli Dei medesimi. Ferì Venere, che voleva torgli d’innanzi Enea al punto ◀di▶ essere sagrificato : diede altresì un colpo a Marte Dio della guerra. Finalmente Ettore il solo de’ Trojani, che ardì ◀di▶ farglisi innanzi, ritornò in città a consiglio ◀di▶ Eleno suo fratello a fine ◀di▶ persuadere sua madre, e le matrone Trojane ◀di▶ recarsi al tempio ◀di▶ Pallade, per pregare la Dea, che allontanasse Diomede dalla mischia. Andromaca sua sposa per sottrarlo al pericolo, che correva, gli presentò il piccolo Astianatte suo figlio : ma l’Eroe dopo aver abbracciato il fanciullo, e la sposa volò ◀di▶ nuovo al campo, portando lo scompiglio nelle file de’ Greci. Discende Minerva dal Cielo : Apollo, che favoriva i Trojani, s’incontra colla Dea, ed insieme stabiliscono ◀di▶ suggerire ad Ettore il progetto ◀di▶ chiedere una tenzone singolare col più forte de’ Greci. Tal dimanda sgomentò i più bravi : il solo Menelao accettò la disfida : ma nol permise Agamennone. Finalmente nove guerrieri animati dal saggio, e vecchio Nestore si fecero innanzi, e gittarono i loro nomi in un elmo : cadde la sorte sopra ◀di▶ Ajace figliuolo ◀di▶ Telamone. Corre questi alla pugna, che malgrado terribile, restò dubbia. Spossati i due guerrieri proposero una tregua, per aver campo da rendere gli onori della sepoltura ai cadaveri degli estinti.
Gli Dei, che avevano preso grandissimo interesse per questa guerra, furono convocati nell’Olimpo, e Giove ordinò, che nessuno avesse sposato partito per l’una, e per l’altra parte : indi montò sul suo carro, e si diresse sul monte Ida.
Disperando intanto Agamennone ◀di▶ poter sottoporre i Trojani, pensò ◀di▶ sciogliere l’assedio : ma i Greci tutti credendo ciò una viltà, furono ◀di▶ contrario avviso. Ciascun diceva essere miglior consiglio ◀di▶ persuadere ad Achille ◀di▶ tornare, e fargli presente quanto fosse necessario il suo braccio. Ne fu dato l’incarico ad Ulisse, ed Ajace, che partirono all’istante. Ulisse procurò d’interessare Achille a favore della Grecia con fargli conoscere quanto potrebbe giovare il suo valore : che la sua collera finalmente doveva aver fine, e gli promise da parte ◀di▶ Agamennone dieci talenti ◀di▶ oro, venti vasi dello stesso metallo, sette tripodi, altrettante donzelle ◀di▶ Lesbo, e quel ch’era più, la sua cara Briseide. Queste grandiose promesse, accompagnate dall’eloquenza ◀di▶ Ulisse, furono inutili : Achille fu inflessibile.
Nel dì seguente le due armate si schierarono in ordine ◀di▶ battaglia. Ma Giove, che voleva donare la vittoria ai Trojani, inviò Iride ad Ettore con ordine ◀di▶ ritirarsi dal campo, e ricomparirvi, allorchè Agamennone ferito fosse stato obbligato a ritirarsi nella sua tenda. Così fu fatto, e la presenza ◀di▶ Ettore animò talmente i Trojani, che respinsero i Greci, e li astrinsero a ricovrarsi ai loro vascelli. Agamennone nuovamente parlò ◀di▶ levare l’assedio, ma Ulisse lo distolse.
Mentre Giove dal Monte Ida proteggeva i Trojani, Giunone per l’opposto implacabile cercava tutt’i mezzi, come distruggerli. Ella dimandò a Venere una zona, o sia cintura, che aveva la proprietà ◀di▶ aggiungere nuovi vezzi, e maggior pregio alla bellezza, e rendeva amabile quella Dea che la portava. Giove non potè resistere a tale incantesimo : dimenticò i Trojani, e corse fra le braccia della sua sposa, dove tranquillamente fu preso dal sonno. Dormiva Giove, ma vegliava Nettuno a danno de’ Trojani, che furono posti in fuga, allorchè Giove si svegliò. Accortosi del cambiamento per arte ◀di▶ sua moglie, la rimproverò fortemente : ma riuscì a Giunone ◀di▶ placarlo prima ◀di▶ partire.
Vedendo Giove il bisogno ◀di▶ aiutar Priamo, spedisce Iride a Nettuno con ordine ◀di▶ ritirarsi, e nel tempo stesso comanda ad Apollo ◀di▶ recarsi al padiglione ◀di▶ Ettore ferito da Ajace figliuolo ◀di▶ Telamone. L’Eroe erasi già ristabilito, e questo Dio gl’ispirò un coraggio quasi divino. Marcia Ettore guidato da Apollo : abbatte le trincee de’ Greci, che per la seconda volta dovettero ritirarsi ai loro vascelli. I Trojani erano al punto ◀di▶ attaccarvi il fuoco, ed Ettore si era già accostato ad uno de’ più belli, quando sopraggiunse arditamente Ajace, per opporsi al figliuolo ◀di▶ Priamo.
Patroclo intanto vedendo minacciata la flotta corse ad implorare l’ajuto ◀di▶ Achille : lo scongiurò a prendere le armi : ma tutto fu inutile. Gli permise soltanto ◀di▶ servirsi delle armi, e de suoi soldati a condizione però ◀di▶ niente intraprendere all’infuori della difesa della flotta. Vestito Patroclo delle armi ◀di▶ Achille, e seguito da’ Tessali si gitta in mezzo ai nemici, che credendolo il figlio ◀di▶ Peleo, si danno alla fuga. Superbo pel terrore che spargeva, e per la morte data a Sarpedone re della Licia, obbliò l’ordine del suo amico : più voleva inoltrarsi, ma Apollo si oppose ai suoi progressi. Questo Dio per la terza volta spinse Ettore a combattere, che venuto a battaglia con Patroclo, dopo un’ ostinata tenzone, l’uccise. Patroclo nel cadere gli predisse la sua morte per mano ◀di▶ Achille. Ettore si burlò del presagio, e lo spogliò delle sue armi.
Appena che giunse a notizia ◀di▶ Achille la morte ◀di▶ Patroclo, il suo dolore non ebbe limiti. La sentì sì vivamente che l’avrebbe vendicata all’istante, se avesse avute le sue armi. Assisa al fianco del vecchio Nereo, intese Teti negli abissi dell’Oceano il pianto ◀di▶ suo figlio : si affrettò ◀di▶ asciugare le sue lagrime con promettergli le armi pel dì vegnente. Infatti recossi ella da Vulcano che spese tutta la notte a fabbricarne delle nuove, ◀di▶ cui armato Achille ricomparve fra i capi dell’Armata, con protestarsi che scordava l’antica sua collera. Agamennone per non farsi vincere in generosità, mandò alla tenda ◀di▶ Achille la cara Briseide, carica ◀di▶ que’ doni, che gli aveva inutilmente prima offerti.
Impaziente Achille ◀di▶ sfogare la sua rabbia col sangue de’ Trojani, appena diede tempo ai Greci ◀di▶ prendere il necessario riposo. Fu deciso ◀di▶ darsi una nuova battaglia, e’ gli Dei stessi fra loro si attaccarono. Achille intanto immolava all’ombra del suo amico estinto chiunque gli si opponeva : ma queste vittime erano per lui volgari : anelava ◀di▶ versare tutto il sangue ◀di▶ Ettore. S’incontrarono alla fine i due guerrieri, e insieme si azzuffarono. Era tanto fiera, ed ostinata la pugna, che gli stessi Numi erano ondeggianti per chi si decidesse la vittoria. Achille finalmente la vinse, e la trista rimembranza del suo amico perduto lo rendette inesorabile fino alla ferocia : negò allo spirante nemico fino la consolazione ◀di▶ sapere, se la sua spoglia mortale si recasse all’afflitto padre. Il barbaro legò il cadavere al suo carro, e lo trascinò intorno le mura della città. Funesto spettacolo agli occhi ◀di▶ un vecchio padre, ◀di▶ una madre, d’una sposa ! Priamo, Ecuba, Andromaca dalle torri ◀di▶ Ilio ebbero la sciagura ◀di▶ guardare l’infelice Ettore intriso ◀di▶ sangue, ed asperso ◀di▶ polvere. Le lagrime ◀di▶ dolore, e le grida arrivarono al Cielo : l’aria risuonava de’ loro lamenti : l’intera città era in lutto.
La prima cura ◀di▶ Achille fu d’innalzare un rogo alla riva del mare, sopra del quale fece collocare il corpo del suo amico, e vi appiccò il fuoco. Indi recise la sua bella chioma, che divenne preda delle fiamme : volle inoltre, che quattro de’ suoi più belli cavalli con alcuni cani fossero gittati nel fuoco, chiudendo la cerimonia con immolare dodici prigionieri Trojani scelti dai più valorosi, ed appartenenti alle famiglie più distinte. Poichè il fuoco consumò tutto, furono raccolte le ceneri, e rinchiuse entro ◀di▶ un’ urna d’oro, e portate nel padiglione ◀di▶ Achille. Per celebrare ancora con maggior pompa la memoria dell’estinto amico, Achille intimò de’ giuochi, e de’ combattimenti, facendo preparar premj grandissimi, ed adattati ad eccitare l’emulazione.
Tutto questo non bastò a soddisfare la collera ◀di▶ Achille. Per lo spazio ◀di▶ nove giorni trascinò tre volte il mattino il cadavere del suo nemico, che Apollo covrì col suo scudo per non farlo corrompere. Finalmente si contentò ◀di▶ cederlo al vecchio Priamo, che in persona era venuto supplichevole a dimandarlo, e che offrì de’ doni ◀di▶ gran valore rifiutati peraltro da Achille.
Ecco il contenuto dell’Iliade. Omero non ci dice in questo poema in qual maniera fu presa Troja, contento soltanto ◀di▶ aver descritto gli effetti dell’ira ◀di▶ Achille. Si accenna nell’Odissea la distruzione ◀di▶ quest’ infelice città, e l’artifizio che usarono i Greci per rendersene padroni.
Achille morì per mano del più vigliacco de’ figliuoli ◀di▶ Priamo. Quest’Eroe divenne amante ◀di▶ Polissena figliuola ◀di▶ Priamo, che aveva veduta sulle mura ◀di▶ Troja. La chiedette a suo padre con promessa ◀di▶ rivolgere le sue armi a difesa degli stati ◀di▶ questo re. Priamo accettò l’offerta ; ma nel punto che tali nozze si celebravano, da Paride fu lanciata una freccia, che Apollo diresse al calcagno ◀di▶ Achille. Era questa la sola parte del suo corpo soggetta ad essere ferita, poichè Teti sua madre lo aveva tuffato nelle acque del fiume Stige per renderlo invulnerabile : il solo tallone, per il quale lo teneva, non fu bagnato da quest’acque salutari. È inutile quì notare, che Omero non abbia fatta menzione ◀di▶ tale favola : il suo Eroe sarebbe stato meno grande, se lo avesse dipinto fornito ◀di▶ un tal dono. I poeti che scrissero dopo ◀di▶ Omero, immaginarono questa favola, come accessoria alla storia ◀di▶ Achille.
Fu un punto stesso l’esser ferito, e morire il figliuolo ◀di▶ Peleo. I Greci per potergli fare gli onori della sepoltura, furono obbligati a fare altrettanto che fece Priamo per avere il corpo ◀di▶ Ettore. Pel corso ◀di▶ dieciassette giorni furono celebrate l’esequie coll’intervento ◀di▶ Teti, e delle Nereidi. A lui fu eretta una superba tomba sulle rive dell’Ellesponto presso il promontorio Sigèo. Presa Troja, Pirro suo figlio immolò sulla sua tomba Polissena, innocente cagione della morte ◀di▶ quest’Eroe. Ajace figliuolo ◀di▶ Telamone, ed Ulisse si contrastarono le sue armi al cospetto ◀di▶ tutta l’armata : ma questa volle che si dessero ad Ulisse. Ajace ne fu tanto indispettito, che giunse a massacrare una moltitudine ◀di▶ porci, credendo ◀di▶ sacrificare Agamennone con tutt’i Greci. Ritornato in se, n’ebbe tanta vergogna, che si diede da se stesso la morte, ed indi fu cangiato in un fiore.
Analisi dell’Odissèa.
L’Iliade ◀di▶ Omero ci ha presentate delle sanguinose battaglie, e degli Eroi, che diedero pruove non equivoche del più sublime coraggio. Abbiamo osservato in persona ◀di▶ Achille un esempio funesto delle umane passioni. L’orgoglio, e la collera indussero questo Eroe a far morire il migliore dei suoi amici, ed una quantità ◀di▶ guerrieri, che avrebbe potuto soccorrere. Abbiamo per l’opposto veduto gl’Iddj dominati da uno spirito ◀di▶ partito : il ritratto che il poeta ce ne ha lasciato sarebbe pur troppo a giorni nostri umiliante, e poco orrevole per gli uomini, tralasciando per brevità altre riflessioni che potrebbero farsi.
L’ Odissèa, ◀di▶ cui ci accingiamo a fare l’analisi, racchiude la storia de’ viaggi ◀di▶ un Eroe, la cui prudenza e saviezza abbiamo già ammirata. Questo poema ci offre de’ quadri ben diversi, ma preziosi, ed interessanti per la società. Vedremo Ulisse senza perdersi ◀di▶ coraggio far fronte ai perigli, ed alle disgrazie, e trar profitto da suoi lunghi, e penosi viaggi.
Dic mihi, Musa, virum captae post tempora Trajae
Qui mores hominum multorum vidit, et urbes.
Traduce così Orazio il principio ◀di▶ questo secondo parto ◀di▶ Omero.
Ulisse partì alla volta della Grecia dopo la presa ◀di▶ Troja : ma ritenuto da Calipso nell’isola ◀di▶ Ogigia, ove regnava, aveva quasi perduto la speranza ◀di▶ ritornare ad Itaca sua patria. Bramava Calipso ◀di▶ divenire sua sposa : ma questo principe stancava gli Dei, pregandoli ◀di▶ fargli rivedere la sua cara Penelope, e’ l giovanetto Telemaco. Minerva intanto, che aveva spiegata per lui la sua protezione, discesa dall’Olimpo sotto l’aspetto ◀di▶ Menta Re de’ Tafj, si presentò a Telemaco, consigliandolo a recarsi presso ◀di▶ Nestore, o pure alla corte ◀di▶ Menelao, dove probabilmente avrebbe avuto nuove ◀di▶ suo padre. Si avvide Telemaco, che Minerva stessa gli parlava per essersi ritirata la Dea sotto la figura ◀di▶ un uccello, come altresì perchè si sentì animato da una forza più che naturale. Intima pel dì vegnente un’assemblea generale : si duole aspramente ◀di▶ quei che aspiravano alla mano ◀di▶ sua madre : ordina che siano cacciati dalla reggia, scongiurando i suoi sudditi ◀di▶ ajutarlo a reprimere la loro temerità. La notte s’imbarca, dirige la prora verso Pilo per ivi trovar Nestore, dal quale non avendo avuto notizie soddisfacenti, si reca a Sparta da Menelao. Colà appena arrivato, è chiamato ad una festa che si celebrava per le nozze ◀di▶ una figliuola ◀di▶ quel re, che gli disse aver inteso da Proteo Dio marino, che suo Padre Ulisse è trattenuto da una ninfa in un’isola, dove sospira notte, e giorno il ritorno alla patria. Tal novella comecchè non consolante, apportò nondimeno grande sollievo alle angustie ◀di▶ Telemaco.
Lascia quì il poeta questo giovanetto principe a Sparta, e per far passare i leggitori da un luogo all’altro, espone quel che accadeva nel Cielo.
Conoscendo Giove, che si accostava il giorno fissato dal Destino, in cui Ulisse doveva uscire dall’isola ◀di▶ Calipso, spicca Mercurio a questa ninfa coll’intimazione ◀di▶ lasciarlo partire. Convenne ubbidire, il figliuolo ◀di▶ Laerte si aveva già costruito un battello : lo ascende, e si dà tosto in balìa del mare. Per il corso ◀di▶ dieciassette giorni la sua navigazione fu felice con avere approdato all’isola de’ Feaci : ma Nettuno sempre a lui contrario suscita una burrasca cotanto furiosa, che il naviglio ◀di▶ Ulisse ne resta fracassato, ed egli stesso resta seppellito negli abissi dell’oceano. Non si perde l’Eroe ◀di▶ coraggio : in preda del pericolo comparisce sulla superficie del mare, ed abbracciandosi ad un piccolo avanzo del suo naviglio, stretto a quello si tiene, errando a discrezione dell’onda furiosa.
Ino ◀di▶ fresco ammessa fralle divinità del mare viene a soccorrerlo : lo consiglia ◀di▶ andare a nuoto nell’isola de’ Feaci, dove ritroverà la sua salvezza : gli dà un velo, che lo garantisce da ogui periglio, con ordine ◀di▶ gittarlo nel mare allorchè avrà afferrato il lido. Ulisse ubbidisce, e dopo dieci giorni, ed altrettante notti ◀di▶ fatica, e ◀di▶ timori arriva all’imboccatura ◀di▶ un fiume, e prende terra alla fine. Fuor ◀di▶ pericolo, ma nudo si veste ◀di▶ secche foglie ◀di▶ alberi, e si mette placidamente a dormire. Minerva intanto sempre intenta a proteggerlo corre a volo alla reggia ◀di▶ Alcinoo, re de’ Feaci : apparisce in sogno a Nausicae sua figlia, e la consiglia a lavare le più belle sue vesti, con dirle ◀di▶ più, che le sue nozze erano vicine a celebrarsi. Appena svegliatasi la principessa, espone quanto ha sognato ai genitori, e caricato un carro de’ suoi pannilini, si affretta colle sue compagne ◀di▶ andare al fiume per lavarli. Ciò fatto, e dopo breve campestre ristoro, si fermano alquanto chi per bagnarsi, chi per giocare alla palla. Desta allora Minerva il figliuolo ◀di▶ Laerte, che prima ◀di▶ farsi innanzi a Nausicae si avvolge in un vestito formato ◀di▶ foglie, e ◀di▶ piccoli ramicelli. Ma asperso ancora ◀di▶ polvere spaventa le giovani donzelle, che fuggono da pertutto. La sola figliuola ◀di▶ Alcinoo non si sgomenta, che anzi lo aspetta. Ulisse la prega d’indicargli la strada che conduce alla città, e dargli qualche panno per vestirsi. Nausicae dopo aver chiamate, ed assicurate le sue compagne, gli dà degli abiti, della biancheria, ed un’ampollina d’oro piena ◀di▶ odori per potersi profumare. L’eroe essendosi lavato nel fiume, e vestito degli abiti che aveva ricevuto, si presenta alla sua benefattrice con nobile contegno, e con aria maestosa, onde guadagnò il cuore ◀di▶ tutti. Aveva gran bisogno ◀di▶ ristorar la sua fame : gli si apprestano de’ cibi, indi vien condotto alla città. Lasciata Nausicae alle porte, si presenta ad Aleinoo in qualità ◀di▶ uno straniero, rifiuto delle onde furiose. Il buon re lo accoglie con quella bontà che forma il carattere ◀di▶ quei temdi remoti. Ulisse in contracambio del gentile accoglimento espone la cagione, ond’era stato spinto dalla tempesta negli stati ◀di▶ Alcinoo : soggiunge, che un fulmine ◀di▶ Giove avendo sfasciato il suo naviglio, egli si salvò su ◀di▶ una panca nell’isola ◀di▶ Ogigia ; isola dove regnava Calipso, Dea pericolosissima per le sue attrattive. Ella dopo averlo bene accolto, lo ha trattenuto per otto anni in quest’isola, impegnandolo a divenire suo sposo. Finalmente il destino ha permesso che scappasse da questa terra fatale, e battuto da nuova burrasca è stato gittato sul lido de’ Feaci, dove ha trovato la più sincera ospitalità. Dopo tale racconto, si ritira Ulisse a goder le dolcezze del riposo.
Il dì seguente il buon re Alcinoo raduna l’assemblea de’ grandi del Regno : loro presenta il suo ospite : espone la ◀di▶ lui trista situazione, e li dispose a fargli de’ doni proporzionati alle loro ricchezze. Tal dimanda è bene accolta. All’istante si danno le disposizioni per allestire un vascello, che debba condurlo alla patria : un’ecatombe1 si offre in sacrifizio agli Dei, alla qual tien dietro un solenne banchetto. Diversi giuochi successero alla mensa : Ulisse dà pruova non dubbie della sua destrezza nel maneggiare il disco, e ne riporta la vittoria. Il cantore Demodoco fa sentir la melodia della sua voce, cantando varie avventure, durante l’assedio ◀di▶ Troja. Alla rimembranza de’ fatti colà accaduti non potè Ulisse frenare le lagrime. Alcinoo che se ne avvide gliene dimanda la cagione, ed Ulisse narra quanto gli era accaduto Ecco la sua narrativa.
Dopo la presa ◀di▶ Troja, egli con i suoi compagni si pose alla vela, e sbattuto da una tempesta approdò alle Coste de’ Ciconi dove fece un gran bottino. Se ne vendicarono ben tosto questi popoli, uccidendo sei uomini per ogni vascello. Scappato dalle loro mani dopo una pugna sanguinosa, uscì ◀di▶ strada per la seconda fiata con averlo il vento sbalzato ai liti de’ Lotofagi nell’Africa. Ivi fu maggiore il pericolo : gli abitanti offrirono a suoi compagni il loto2, frutto che aveva la proprietà ◀di▶ far dimenticare la patria a chi lo mangiava. Ulisse usò l’accortezza ◀di▶ far legare sulle panche de’ navigli chiunque aveva avuta la disgrazia ◀di▶ gustarlo. Lo stesso vento portò la ◀di▶ lui flotta all’isola de’ Ciclopi, fermandosi in una picciola isoletta della Sicilia che stava a fronte del porto. Avendo posto piede a terra con i suoi compagni entrò in una vasta caverna dove abitava Polifemo figliuolo ◀di▶ Nettuno, gigante ◀di▶ enorme grandezza, che avea un occhio solo nel mezzo della fronte. Questo mostro che riconduceva i suoi armenti, accortosi che vi era gente nella caverna, ne chiuse l’ingresso con un sasso, che la forza ◀di▶ venti uomini non avrebbe potuto smuovere. Al primo incontro divorò due marinari : e ’l dì vegnente altri due gli servirono ◀di▶ colezione. Ulisse che per tutte le vie trovava mezzi per salvarsi, tenne a bada il Ciclope con i suoi racconti, e lo ubbriacò con vino generoso, che aveva portato, e ch’ ebbe la forza d’immergerlo in un sonno profondo. Profittando allora del momento, Ulisse preso un forte bastone, che aveva aguzzato, lo ficcò nell’occhio ◀di▶ Polifemo, che al sentirsi ferito cominciò ad urlare altamente. Accorsero i vicini Ciclopi, e gli dimandarono la cagione delle strida : Uti, cioè Nessuno mi ha ferito, ripigliò Polifemo1 : (aveva Ulisse avuta l’accortezza ◀di▶ dirgli che questo era il suo nome). Credettero i Ciclopi, che avesse perduta la ragione, e lo lasciarono così. Trattavasi ◀di▶ uscire dalla grotta : anche a questo pensò l’astuto Ulisse. Impose a suoi compagni, che nell’uscire gli armenti, si fossero tenuti fermi sotto i montoni, per non essere schiacciati dal gigante. Nello staccare la pietra si situò Polifemo in maniera, che i montoni potessero ad uno ad uno passare fra le gambe. Allorchè si avvide che eran fuori Ulisse con i compagni, volle inseguirli, e gittò a caso un macigno ◀di▶ straordinaria mole, ◀di▶ cui fu facile evitare l’incontro. Indi corsero al lido, e s’imbarcarono colla perdita ◀di▶ soli quattro socj dal gigante ingojati.
La flotta spiegò le vele verso l’isola Eolia, dove regnava Eolo re de’ venti : Volendo questi favorire la navigazione ◀di▶ Ulisse, dopo avergli fatto una gentile accoglienza, ordinò, che tutt’i venti si fossero rinchiusi in un otre, con lasciare in libertà il solo Zefiro. Erano già a vista d’Itaca : si vedevano oramai torreggiare i palagi ◀di▶ quest’isola, quando i socj ◀di▶ Ulisse, credendo che in quell’otre si conservasse qualche sorta ◀di▶ vino prezioso, lo aprirono. All’istante scapparono fuori tutt’i venti che posero in iscompiglio le onde, e suscitarono una fiera tempesta.
La nave sbalzata quà, e là a discrezione dell’onde, si diresse alla fin fine verso il paese dei Lestrigoni, popoli che si dilettavano ◀di▶ mangiar la carne umana, ed in fatti furono divorati due compagni del figliuolo ◀di▶ Laerte. Di là la flotta approdò all’isola ◀di▶ Circe, famosa maga figlia del Sole, i ◀di▶ cui incantesimi sorpassavano le forze della natura istessa. Gli esploratori osservarono nell’atrio della sua reggia degli uomini da Circe cangiati in leoni, in orsi, in lupi. La maga, dopo aver fatto gentile accoglimento agl’inviati, loro offrì una bevanda, che li trasformò al momento in porci. Avvisato l’Eroe ◀di▶ questo nuovo disastro, strada facendo ricevè da Mercurio un’ erba, che lo garantiva dalle più funeste malìe. Ulisse al coverto ◀di▶ ogni pericolo snudò la spada minacciando Circe ◀di▶ ucciderla, se tentasse a sorte d’ingannarlo. Intimorita la Dea cadde a suoi ginocchi : giurò ◀di▶ far quanto avrebbe dimandato, e restituì allo stato ◀di▶ prima i suoi compagni. Ulisse si trovò così contento del trattamento, e dell’amor della Dea, che si trattenne volentieri per un anno nell’isola. Di là partito si recò al paese de’ Cimmerj1, per ivi invocare le ombre de’ morti, e consultare l’anima ◀di▶ Tiresia Tebano. Istruito dalla maga seppe evitare evitare gl’inganni delle Sirene, ed i rischi nel passaggio fra Scilla, e Cariddi.
Circe lo aveva altresì avvertito a non toccare i bovi, che faceva pascere la bella Lampezia in un’isola consacrata al Sole presso le coste della Sicilia. I suoi compagni nella sua assenza sagrilegamente ne rubarono alcuni. Lo sdegno degli Dei si manifestò all’istante : le carni de’ bovi scannati muggivano sopra le braci, e le pelli da per se si stendevano. Un tale prodigio li spaventò in modo, che sen fuggirono alle navi : ma la collera degli Dei colà li raggiunse. Un fiero temporale pose le onde in sconquasso, e tutta la flotta fu subissata : Ulisse soltanto si salvò con essersi abbracciato ad un albero della nave. Le onde lo portarono all’isola ◀di▶ Ogigia, come si è detto, dove regnava, la vaga Calipso, sovrana dell’isola.
Questo fu il contenuto della narrativa ◀di▶ Ulisse, che Alcinoo, ed i Feaci ascoltarono con ammirazione. Essi riconobbero in lui un Eroe favorito dal Cielo. Ognuno fece a gara per offrirgli un dono corrispondente al suo rango, come pure fu allestito un naviglio ben equipaggiato per condurlo alla patria.
La navigazione fu felice : il dì seguente furono a vista d’Itaca. Allorchè il vascello vi abbordò Ulisse placidamente dormiva : i marinari non, vollero per rispetto destarlo, e lasciatolo sopra ◀di▶ un letto ◀di▶ verdura, ripresero il camino verso l’isola de’ Feaci. Svegliatosi Ulisse, non riconobbe affatto il proprio suo regno : ma Minerva sotto l’abito ◀di▶ un pastore l’avvertì del luogo ov’egli si trovava. Mai sempre prudente riunì i tesori, e li pose in serbo entro una caverna. Indi la Dea toccandolo con una bacchetta, cangiò gli abiti ◀di▶ Ulisse in tanti cenci, ed immantinente involandosi recossi a Sparta, dove stava Telemaco. Sotto la figura ◀di▶ pitoccante, e fingendosi un vecchio Cretese, il figliuolo ◀di▶ Laerte portossi alla casa ◀di▶ Eumeo suo amico, dove bene accolto si tenne sconosciuto fino al ritorno ◀di▶ Telemaco, a cui Minerva aveva ispirato il desiderio ◀di▶ lasciare Sparta1. Poichè Ulisse e Telemaco furono riuniti, pensarono a mezzi onde disfarsi de’ persecutori ◀di▶ Penelope. Entrano separatamente in città. Ulisse da pitoccante entra nella sua reggia per dimandare la limosina ai principi radunati a solenne banchetto. Fattosi introdurre nell’appartamento della saggia Penelope, le narra una falsa istoria delle sue avventure, con aggiungere ◀di▶ aver egli in Creta accolto Ulisse in sua casa, e che a momenti avrebbe riveduto. Le dà parimente de’ consigli, onde ben regolarsi con i suoi persecutori.
Nel dì vegnente questa principessa promette ◀di▶ dar la sua mano a chi meglio sapesse maneggiare l’arco ◀di▶ Ulisse. Tutt’i pretendenti sono radunati, non escluso lo stesso Telemaco, ma inutilmente si affaticano per tendere quest’areo maraviglioso. Ulisse parimente si fa innanzi : i principi danno del ridicolo alla ◀di▶ lui pretenzione, e non gli permettono d’impugnar l’arco, se non a forza degli ordini ◀di▶ Penelope. L’Eroe prende l’arco, lo carica ◀di▶ una freccia, e la fa passare per dodici anelli attaccati ad altrettante colonne. Questo era il segnale convenuto con Telemaco, che avvicinatosi a lui snuda la sua spada, e piomba sopra ai persecutori ◀di▶ Penelope. In un istante le strade sono inondate dal sangue ◀di▶ questi perfidi, e da quello dei loro aderenti.
I sudditi che attendevano con impazienza il ritorno del re, fanno risuonare la reggia delle loro grida : va l’avviso a Penelope, che Ulisse è in Itaca : egli viene riconosciuto, e corre da suo padre Laerte, che piangeva la perdita ◀di▶ un figlio, che credeva ◀di▶ non mai più rivedere. Restituito Ulisse a suoi stati, vi stabilì la pace, e fece fiorire le arti, e la tranquillità nel suo regno.
Analisi dell’Eneide.
Virgilio ad imitazione ◀di▶ Omero ha cantato i viaggi, e le imprese guerriere ◀di▶ Enea, figliuolo ◀di▶ Venere, e ◀di▶ Anchise. Questo poeta Latino nell’Eneide ha imitato le bellezze dell’Iliade, e dell’Odissea : il suo protagonista va errante come Ulisse, ed all’occasione è coraggioso, quanto Achille. L’oggetto che si ha prefisso Virgilio, è quello ◀di▶ dare una origine illustre ai Romani, facendoli discendere da un principe Trojano. L’eroe da lui scelto non occupa un posto luminoso nell’Iliade : ma fa grande comparsa nell’Eneide, dove Virgilio ce lo dipinge in qualità ◀di▶ un uomo pietoso, saggio, e valoroso. Seguiamolo pertanto.
Era memore ancora Giunone del giudizio ◀di▶ Paride, e voleva perseguitare gli avanzi ◀di▶ Troja scappati dal ferro de’ Greci. Col veleno nel cuore discese nell’Eolia, e scongiurò il re de’ venti perchè avesse posto il mare in iscompiglio, ed avesse ingojato i vascelli del figliuolo ◀di▶ Venere. Eolo ubbidisce, ed all’istante una terribile burrasca si alza dal profondo degli abissi del mare : una porzione della flotta si separa, e sarebbe sicuramente perita, se Nettuno sorpreso da tanto tumulto che regnava nel suo impero, non fusse uscito dall’umida sua reggia, ordinando ai venti ◀di▶ rientrare nelle proprie caverne. Enea che vedeva appena sette de’ suoi vascelli credendo non senza fondamento che i rimanenti fossero divenuti preda dell’infuriato elemento, entra in una picciola baja ◀di▶ Libia. Ivi frattanto i suoi compagni pensano a ristorare la flotta ; egli si avanza lungo la costa, per vedere se scopriva il resto de’ legni.
In questo mentre Venere si dà moto per suo figlio : si presenta a Giove, e gli rammenta le promesse fatte in ◀di▶ lui favore. Questo Dio le rinnova, ed assicura Venere, che il suo figliuolo arriverà felicemente in Italia, ove la sua discendenza regnerebbe per lungo tempo. Spedisce intanto Mercurio a Didone regina ◀di▶ Cartagine per indurla a bene accogliere il principe Trojano. Venere intanto discesa dall’Olimpo avvisa Enea, che i suoi vascelli sono salvi, menochè un solo, in un porto vicino, indi dopo averlo coverto per mezzo ◀di▶ una nuvola per involarlo alla vista ◀di▶ tutti, gli ordina ◀di▶ recarsi a Cartagine. Seguito dal suo fedele Acate s’incamina l’Eroe verso Cartagine, e coverto da un velo che lo rende invisibile, si approssima alla bella Didone detta anche Elisa1. Dopo un istante vede i suoi compagni, che credeva annegati, avanzarsi, e dimandare l’ospitalità a Didone, che gentilmente li ricevette, e diede gli ordini che si andasse in cerca del principe Trojano. Venere allora fa sgombrare la nuvola, e vedesi Enea in atto ◀di▶ offrire i suoi omaggi alla regina. Didone incantata dall’aria nobile ◀di▶ questo Eroe, e sensibile alle ◀di▶ lui disgrazie, gli contesta la gioja che sente pel suo arrivo, dando le disposizioni per una grandiosa festa. Sul finir del banchetto è richiesto Enea ◀di▶ fare il racconto dell’assedio ◀di▶ Troja, e dei malanni da lui sofferti dopo un’epoca così funesta.
« Stanchi i Principi della Grecia, Enea imprese a dire, ◀di▶ anni dieci ◀di▶ assedio, che li teneva lontani dalla patria, escogitarono uno stratagemma per sorprendere Troja. Costruirono un cavallo ◀di▶ legno ◀di▶ straordinaria grandezza, e rinchiusero nel ◀di▶ lui fianco i più accreditati guerrieri. Indi fingendo ◀di▶ sciogliere l’assedio si nascosero dietro l’isola ◀di▶ Tenedo.
Credendo allora i Trojani ◀di▶ essere sicuri corrono a vedere questo smisurato cavallo, che i Greci lasciarono nel sito dove stavano accampati. Varj sono i sentimenti sopra questa macchina immensa : alcuni pretendono che si butti nel mare : altri che ci si attacchi il fuoco : taluni la vogliono introdurre nella città. Laocoonte sacerdote ◀di▶ Nettuno è ◀di▶ avviso che si abbatta questo mostruoso cavallo, ed egli stesso lancia un dardo nel fianco ◀di▶ quello. Arrestano intanto i Trojani un giovine Greco per nome Sinone, che andava errando. Quest’impostore inganna i Trojani con un falso racconto, dicendo, esser egli l’odio de’ Greci : soggiunge, che il cavallo ◀di▶ legno è un’offerta fatta a Minerva prima ◀di▶ partire per placarla : ◀di▶ più li consiglia ad introdurre questo colosso nella città, che conservando un tal pegno, sarebbe sotto la protezione della Dea, e diventerebbe inespugnabile. Mentre ondeggiavano i Trojani, un avvenimento terribile interamente li determinò.
Laocoonte che aveva scagliata la sua asta contro del cavallo, stando in atto ◀di▶ fare un sagrifizio a Nettuno, fu assalito da due grossi serpenti, che uscirono dal mare. Questi rettili prodigiosi si attorcigliarono al corpo de’ due figli ◀di▶ Laocoonte, e si avviticchiarono sopra ◀di▶ lui medesimo, ch’era venuto per soccorrerli. Ciò credettero i Trojani un segno manifesto della collera degli Dei, che gradivano le offerte de’ Greci. Quindi ognun crede al perfido Sinone : si abbatte un’ ala delle mura, e s’introduce a forza ◀di▶ uomini il cavallo fatale nella città : indi ciascuno si ritira, e pieni ◀di▶ sicurezza si danno in preda ai piaceri della mensa.
Intanto al far della notte i Greci s’incaminano colla flotta verso Troja : sbarcano le truppe, penetrano nella città per la breccia dianzi aperta. Lo scellerato Sinone avendo aperto il fianco del cavallo, ne fa uscire gli armati ivi nascosti ; in un istante l’infelice città è piena ◀di▶ soldati, che portano da per tutto il ferro, il fuoco, e la desolazione.
Durante un tale disordine una gran parte degli abitanti tranquillamente dormiva : dormiva parimente Enea. Ettore gli apparisce in sogno, lo avverte dell’arrivo de’ Greci, e ◀di▶ essere oramai giunto l’esterminio ◀di▶ Troja. Enea vuol morire colle armi alla mano, ed alla testa ◀di▶ pochi suoi amici attacca quanti Greci incontra. Ma i suoi essendosi serviti delle armi stesse tolte ai nemici nella mischia, restano nel tempo istesso inviluppati fra i Greci, e fra i concittadini, che non li riconoscono. Corre pertanto Enea in soccorso ◀di▶ Priamo, assediato nel suo palazzo da Pirro, che ivi l’uccide con quanti a lui si presentano.
Non avendo potuto Enea salvare la vita del vecchio re, si affretta per la difesa della sua sposa Creusa, del figlio suo, e ◀di▶ Anchise suo padre. Presi gli Dei Penati, che diede in mano ◀di▶ Anchise, si accolla questo vecchio rispettabile sulle sue spalle, traversa l’incendiata città col disegno ◀di▶ ritirarsi sul monte Ida. Fuori le porte inseguito dai Greci perde Creuso. Col favore delle fiamme ritorna colla speranza ◀di▶ rinvenirla, ma gli apparve l’ombra soltanto della sposa morta nell’incendio, che lo consiglia a fuggire, con predirgli ch’egli anderebbe lungo tempo ramingo, ma sarebbe finalmente felice in Italia : così disse, e sparì.
Ritornato al luogo dove aveva lasciato Anchise, ed Ascanio suo figlio con tutti quelli che avevano abbracciata la stessa sua sorte, Enea forma il progetto ◀di▶ andare in cerca ◀di▶ quella terra che il Destino gli prometteva. Fa costruire all’infretta una flotta con alberi tagliati sul monte Ida, e si scosta dai patrj lidi con venti legni. Dopo ◀di▶ essersi fermato nella Tracia, in Delo, in Creta, nelle Strofadi, a Leucade, aborda finalmente a Trapani nella Sicilia, dove regnava Alceste Principe Trojano : ivi morì il vecchio suo padre Anchise. Trapani fu il termine de’ suoi viaggi, allorchè volendo ◀di▶ là far vela per l’Italia, un Dio tutelare l’aveva condotto nell’impero ◀di▶ Didone. »
Avendo Enea dato fine al suo racconto, si ritira negli appartamenti che gli aveva assegnati la regina. Rapita intanto Didone dalla virtù ◀di▶ Enea, confessa la sua inclinazione ad Anna sua germana, che la consiglia a farlo suo sposo. Giunone per impedire il corso dei destini a favore ◀di▶ Enea propose a Venere queste nozze, che finse ◀di▶ acconsentirvi. Profittano le due Dive del momento ◀di▶ una tempesta suscitatasi mentre tutta la Corte della regina era impegnata in una caccia : Enea con Didone si rifugiano in una caverna, con uscirne divenuti già sposi.
Ma Giove, che aveva riserbato quest’Eroe a più sublimi imprese, gli spedisce Mercurio che lo persuade ad abbandonare Cartagine. Docile Enea agli ordini del Sovrano degli Dei, si dispone alla partenza, e fa preparare segretamente la flotta. Penetra Didone il ◀di▶ lui disegno : lo rimprovera, e si duole ◀di▶ sì barbaro tradimento. Cerca Enea ◀di▶ scusarsi, ma nel tempo stesso dispone il tutto per la partenza, e col favore della notte scioglie le vele da un lido, dove era stato accolto con tanta cortesia.
Accortasi del tradimento Didone monta il piano ◀di▶ una loggia a vista delle fuggenti vele : carica l’ingrato Enea ◀di▶ maledizioni, che dopo molti socoli si verificarono fra i Cartaginesi, ed i Romani, e non potendo resistere al dolore risolve ◀di▶ darsi la morte. Fingendo ◀di▶ volere fare un sagrificio agli Dei dell’inferno, innalza un rogo : lo ascende, e si ammazza con quella spada medesima che aveva donata ad Enea, e che colà aveva questi lasciata. Accorre Anna mente colle donne per impedirla : muore l’infelice Didone, trafitta dalla disperazione, e dal dolore.
Enea intanto sopraffatto da una burrasca fu costretto a fermarsi in Trapani, ove da un anno era morto il vecchio suo padre Anchise, in onore del quale fece celebrare de’ giuochi dopo avere adempiuto alle funebri cerimonie. Stanche le donne Trojane dalla navigazione, e temendo d’incontrare nuovi pericoli, ad insinuazione d’Iride inviata da Giunone sotto l’aspetto ◀di▶ una vecchia, appiccarono il fuoco alle navi. La flotta sarebbe divenuta preda delle fiamme, se Giove non avesse fatta a tempo cadere una pioggia abbondante : quattro soli vascelli non pertanto furono bruciati.
Nella seguente notte apparve in sogno ad Enea l’ombra ◀di▶ Anchise, che lo consigliò a lasciare in Trapani i vecchi, e le donne, ed a condur seco soltanto gli uomini d’armi. Gl’insinuò parimente ◀di▶ portarsi a Cuma per consultar la Sibilla, che lo avrebbe condotto all’inferno. Eseguì a puntino Enea gli ordini ◀di▶ Anchise. Arrivato a Cuma, recossi all’antro della Sibilla Deifobe, che gli predisse quanto doveva accadergli nell’Italia prima ◀di▶ fondare una città. Indi gli ordinò ◀di▶ penetrare in una oscura foresta, dove avrebbe ritrovata una pianta, che aveva un ramicello, senza del quale non avrebbe potuto penetrare nell’inferno, per offrirlo in dono a Proserpina. Riuscì ad Enea ◀di▶ trovar questa pianta. Finalmente colla scorta della Sibilla, passando per lo Lago ◀di▶ Averno, discende al soggiorno de’ morti : ivi ritrova molti de’ suoi amici, e gli addita Anchise sulle rive ◀di▶ Lete le ombre ◀di▶ quelli Eroi, che dovevano un giorno formare la gloria dell’impero ◀di▶ Roma.
Ritornato sulla terra il figliuolo ◀di▶ Venere, levò l’ancora, dirigendo la sua flotta verso l’imboccatura del Tevere. Il Re Latino regnava in questa contrada. Una sua figliuola unica, che l’Oracolo destinava in isposa a questo principe straniero, era l’erede de’ suoi stati ; Amata sua madre, ad onta dell’Oracolo, l’aveva promessa a Turno Re de’ Rutuli. In tale occasione spedì Enea i suoi ambasciadori al Re Latino, per fare alleanza col medesimo. Questo re non solamente gentilmente accolse i deputati ; ma loro promise dippiù, cioè che Enea sarebbe divenuto suo genero. Piccata Giunone de’ fortunati successi ◀di▶ questo principe, si affrettò ad interromperne il corso, facendo uscire dall’inferno Aletto : inviò questa furia alla reggia d’Amata, ispirandole il progetto ◀di▶ nascondere sua figlia Lavinia in seno delle vicine montagne : ◀di▶ là la Furia passò alla corte ◀di▶ Turno, lo stimola a prendere le armi col nerbo de’ suoi soldati. I principi vicini prendono parimente lo armi contro Enea, il quale non ha in suo favore, che il solo Evandro, che abitava sul monte Palatino. Questo principe gli spedisce Pallante con quattrocento cavalli.
La guerra cominciò, e fu ben lunga. Giove affidò tutto l’affare in mano del destino, e i due partiti stanchi dai disagi della guerra, proposero una pugna a corpo a corpo fra i due principali rivali. La disfida fu accettata con solenne giuramento. Enea, e Turno si avanzano in mezzo dell’armata schierata in ordine ◀di▶ battaglia, e con pari accanimento si azzuffano. Restò Turno perditore, e terminò così una guerra, che mettea sossopra l’Italia intera1.
Giunta ◀di▶ varie altre favole.
Comecchè le seguenti favole non abbiano un interesse immediato colla religione, nè tampoco contengano avvenimenti che possano illustrare la storia de’ tempi eroici, come la guerra ◀di▶ Tebe, l’incendio ◀di▶ Troja, ecc., è necessario nondimeno ◀di▶ formarne un’ idea per aver piena cognizione della mitologìa. Queste favole inventate in diversi tempi sono fatti isolati semplicemente, e se talvolta hanno un qualche rapporto colla religione del Gentilesimo, non ne formano parte : in generale il principio è in riguardo alla morale. Noi qui esporremo le più conosciute.
Bauci, e Filemone.
Giove, e Mercurio erano discesi dal Cielo per viaggiare sulla terra. Essi arrivarono sconosciuti nelle campagne della Frigia, chiedendo ospitalità agli uomini, che dapertutto loro la negarono. Bauci, e Filemone abitavano in una meschina capanna coperta ◀di▶ giunchi, dove appena si trovava una tavola ◀di▶ legno, che ne formava tutto l’addobbo. Furono questi intanto i soli, che accolsero il sovrano degli Dei, e Mercurio, con preparar loro una mensa assai frugale, non permettendo Giove che ammazzassero un’ oca, ch’ era tutta la loro ricchezza. Gl’immortali viandanti nel ◀di▶ vegnente per punire gli abitanti del paese, e per mostrare il loro potere a chi gli aveva alloggiati, li conducono alla cima ◀di▶ una montagna con far loro vedere tutto il villaggio sommerso, e gli abitatori in preda dell’acqua, all’infuori della capanna, che gli aveva accolti, che fu cangiata in un tempio magnifico. Bauci, e Filemone pieni ◀di▶ riconoscenza dimandarono in grazia ◀di▶ essere i sacerdoti ◀di▶ questo tempio, e ◀di▶ morire in un giorno istesso per non soffrire il dispiacere ◀di▶ dover uno ◀di▶ essi piangere la morte dell’altro. Questa grazia loro fu concessa : un giorno mentre narravano i prodigj operati a loro favore, furon cangiati, Filemone in una quercia, e Bauci in tiglia.
Piramo, e Tisbe.
Piramo, e Tisbe erano due amanti : ma i rispettivi parenti, che appartenevano a due principali famiglie ◀di▶ Tebe, per antica nimicizia non erano ◀di▶ accordo. Quindi non potendosi i due amanti accoppiare con i nodi d’imeneo, pensarono ◀di▶ fuggire dalla patria, e stabilirsi in un paese lontano. Fermi nel loro proposito si diedero un appuntamento in un sito, dove stava un moro biance. Tisbe partì la prima : mentre aspettava la sua cara metà, si avvide, che un lione se le avvicinava : quindi fuggì, ma nella fuga le cadde un velo, che preso dal lione, dopo averlo lacerato, lo intrise ◀di▶ sangue della sua gola. Sopraggiunto Piramo, vide questo velo, e credendo che Tisbe fosse stata la vittima ◀di▶ qualche belva, con un pugnale si diede la morte. Non tardò a colà far ritorno la sfortunata Tisbe, che ritrovò sotto la pianta del moro l’infelice Piramo, che spirava l’ultimo fiato. Sospettando la vera cagione del funesto avvenimento, egualmente Tisbe raccolto il pugnale, si uccise per il dolore. Il loro sangue zampillando sulla pianta del moro, le sue frutta da bianche divennero ◀di▶ color rosso.
Polifemo, e Galatea.
Il ruvido Ciclope Polifemo amava alla follìa la bella Galatea, una delle tante figliuole ◀di▶ Nereo. Assiso sulla riva del mare, ad alta voce la chiamava, pregandola ◀di▶ venir fuori dalle onde. Ma il povero Ciclope non era corrisposto : la sua figura gigantesca, un solo occhio sulla fronte spaventavano anzi che no questa ninfa. Inutilmente si ornava il crine, e si radeva la barba. Galatea era sorda, malgrado che non fosse insensibile. Ella amava Aci figliuolo ◀di▶ Fauno. Sorprese un giorno Polifemo la bella coppia a piedi ◀di▶ una roccia. Galatea ebbe tempo ◀di▶ tuffarsi nell’onde : ma Aci ebbe la sventura ◀di▶ essere schiacciato da un gran sasso, che il Ciclope gli scagliò. Inconsolabile la ninfa, pregò gli Dei, ed il sangue ◀di▶ Aci diede la nascita ad un fiume che fu chiamato Aci dal nome del pastorello.
Driope.
Driope ninfa ◀di▶ Arcadia, e sposa ◀di▶ Andremone strappò alcuni rami ◀di▶ una pianta detta Loto, per darne a mangiare le frutta a suo figlio. Alcune gocce ◀di▶ sangue caddero da questa pianta che prima era stata donna, ed inseguita da Pane aveva perduta l’antica bellezza, e figura : il suo nome era Loto. Driope nel vedere stillare il sangue si arrestò, e sentì germogliarsi sotto i piedi le radici, diventando ancor essa una pianta ◀di▶ simile natura.
Pigmalione.
Pigmalione fu uno scultore abilissimo. Formò una statua bellissima, e pregò Venere che l’avesse animata. I suoi voti furono esauditi : il marmo si ammollì, e diventò carne. Pigmalione la sposò, e da questa coppia nacque Pafo, che fabbricò la città ◀di▶ Pafo nell’isola ◀di▶ Cipro.
Ifide.
Era tanta la miseria ◀di▶ un abitante ◀di▶ Festo in Creta chiamato Ligda, che fece sentire a sua moglie Teletusa, allora incinta, che se desse alla luce una femmina, avrebbe data la morte alla bambina, se per l’opposto un maschio, lo avrebbe allevato, perchè a suo tempo avrebbe potuto sollevare i genitori dall’indigenza. Teletusa non potendo resistere a tanta crudeltà, si raccomandò alla Dea Iside, che le ispirò il progetto ◀di▶ allevare la bambina sotto spoglie maschili. Così fece la povera madre, ma stava per iscoprirsi il segreto all’istante ◀di▶ doversi maritare Ifide (tale era il nome della fanciulla) Iside non l’abbandonò : in sì pressante congiuntura cangiò in maschio la ragazza, e le nozze furono conchiuse.
Ero, e Leandro.
Ero, e Leandro perdutamente si amavano, benchè separati fra loro dall’Ellesponto. Leandro abitava in Sesto, ed Ero in Abido sull’opposta riva. Questo non impediva che gli amanti non fossero sovente insieme. Leandro ogni notte traversava a nuoto lo stretto alla vista ◀di▶ un fanale, ch’ Ero accendeva su ◀di▶ una torre. Leandro aveva acquistato la superiorità sul mare ; ma una notte sorta all’improvviso una fiera tempesta, divenne preda dell’infido elemento. Avendo il mattino osservato Ero il cadavere ◀di▶ Leandro dal mare gittato sul lido, vinta dal dolore non gli volle sopravvivere, gittandosi ancor essa nel mare.
Aconzio, e Cidippe.
Era Cidippe una delle più belle ◀di▶ Delo. Aconzio la vide nel tempio
◀di▶ Diana, e la chiedette per isposa ai suoi parenti : ma si oppose
Cidippe a queste nozze. Aconzio ricorse ad uno stratagemma. Gittò
nel tempio una palla, dove era scritto :
io
giuro per Diana ◀di▶ essere la sposa
◀di▶ Aconzio
. Cidippe prese quella palla, e
lesse il giuramento. Allorchè questa giovane era sul punto ◀di▶
maritarsi, era sorpresa da una febbre violenta, finchè i suoi
parenti si determinarono ◀di▶ darla a Aconzio.
Anassarte.
Amava Ifi inutilmente Anassarte, figliuolo ◀di▶ un ricco abitante ◀di▶ Cipro. Legò una notte Ifi alla porta ◀di▶ Anassarte una corda, e con quella per disperazione si strangolò. Il dimani niente curando Anassarte il tragico fine dell’amante, volle vederne l’esequie dalla sua finestra. Ma gli Dei punirono tanta insensibilità, la cangiarono in pietra, simbolo della durezza del suo cuore.
Coreso, e Calltroe.
Calliroe donzella ◀di▶ Calidonia non volle giammai corrispondere all’inclinazione, che aveva per lei Coreso sacerdote ◀di▶ Bacco, che vendicò il suo ministro con far sorgere una malattia in Calidonia, la quale prima alterava la fantasia, indi rendeva furiosi tutti gli abitanti. Fu consultato l’oracolo : la risposta fu, che il malore cesserebbe, quando si fosse sacrificata a Bacco una vittima umana, ed in mancanza ◀di▶ questa la stessa Calliroc. Nessuno ebbe la voglia ◀di▶ morire, onde Calliroe fu condotta all’ara. Coreso generoso all’eccesso, nel punto ◀di▶ sagrificarla, rivolse contro se stesso il coltello, e si diede la morte ◀di▶ propria mano. Conobbe allora Calliroe la fedeltà ◀di▶ quel cuore, e mossa da compassione volle immolarsi per placare in tal guisa l’ombra ◀di▶ Coreso.
Cleobide, e Bitone.
Questi due giovani, figliuoli ◀di▶ una sacerdotessa ◀di▶ Argo, sono l’esempio dell’amor filiale. Essi trascinarono il carro dov’era la loro madre, che si recava al tempio. Gli Dei per compensarli, ed esaudire nel tempo istesso la madre, che li supplicava a renderli felici, li fecero all’istante morire insieme, non potendo gli Dei renderli abbastanza contenti sulla terra.
Ceneo.
In compenso ◀di▶ essere stata amata Ceneo da Nettuno, ottenne in grazia ◀di▶ essere cangiata in uomo, e colla proprietà ◀di▶ essere invulnerabile. Perì questa ninfa nella guerra de’ Centauri, e de’ Lapiti, i quali non potendola ferire strapparono degli alberi, e la fecero morire soffogata. Da tanti legni ammonticchiati ne nacque un uccello.
Ceice, e Alcione.
Ceice re ◀di▶ Trachinia nella Tessaglia morì naufragato, mentre andava a consultare l’oracolo ◀di▶ Apollo a Claro. Alcione sua moglie, che teneramente lo amava, stavalo attendendo con impazienza, ma Giunone in sogno le fece intendere la disgrazia ◀di▶ suo marito. Spaventata la misera Alcione del sinistro presagio, corse forsennata al lido, e restò convinta della verità, vedendo il cadavere dello sposo gittato dal mare sulla riva. Al momento che si accostava, si avvide ◀di▶ avere sul dorso le ali, che la sostenevano all’aria, essendo stata cangiata in uccello. Ceice ancor esso fu trasformato in uccello, ed entrambi ebbero il nome ◀di▶ Alcioni. Dicono i poeti che questi uccelli fanno il loro nido nel mare, che sta in calma, durante il tempo che lo formano, e ne nascono i figli.
L’Aurora.
L’Aurora non contenta ◀di▶ aver amato Titono figliuolo ◀di▶ Laomedonte, volle altresì trasportarlo nel cielo, con dirgli che avesse dimandato quanto sapeva desiderare. Titono chiedette una vita lunghissima, ma non avendo avuta l’accortezza ◀di▶ domandar benanche una perpetua gioventù unita alla vecchiaja, divenne tanto debole, e scarno, che l’Aurora istessa per compassione lo cangiò in cicala.
Deifobe.
Deifobe figliuola ◀di▶ Glauco, e Sibilla ◀di▶ Cuma ebbe presso a poco la medesima sorte ◀di▶ Titono. Ella fu amata da Apollo, al quale dimandò ◀di▶ poter vivere tanti anni, per quanti granellini ◀di▶ arena poteva stringere in mano sua. Il Nume la esaudì. Divenne tanto vecchia, che appena le restò la voce.
Cefalo, e Procri.
L’Aurora avendo concepito una forte inclinazione per Cefalo figliuolo ◀di▶ Mercurio, e ◀di▶ Ersete lo trasportò nel suo carro mentre era alla caccia, facendo ◀di▶ tutto per fargli dimenticare Procri sua sposa. Ma fu vano qualunque tentativo : quindi dovette rimandarlo con dirgli, che un giorno si pentirebbe ◀di▶ tanta poca sua sensibilità. Tal minaccia fece diventar Cefalo geloso, e sospettoso. Travestito volle mettere a pruova la fedeltà ◀di▶ sua moglie, che per vergogna sen fuggì fra le selve. Cefalo che non poteva vivere lontano da Procri, la richiamò con premura. Al suo ritorno ella diede in dono a suo marito un cane velocissimo, ed un giavellotto che si scagliava a colpo sicuro, e ritornava dopo fralle mani ◀di▶ chi lo aveva lanciato. Per parte sua Procri divenne egualmente gelosa, spiando senz’esser veduta tutti gli andamenti dello sposo. Un giorno mentre Cefalo si riposava stanco dalle fatiche della caccia, si avvide ◀di▶ un certo calpestio in un vicino cespuglio : credendo che fosse una qualche bestia feroce, scagliò il suo giavellotto. Un grido che si alzò lo fece avvedere dell’errore, avendo uccisa la propria sposa. Trafitto Cefalo dal dolore, si trafisse con quel medesimo giavellotto. Giove trasportò nel cielo questi sposi, che cangiò in due stelle.
Filomela, e Tereo.
Tereo figliuolo ◀di▶ Marte sposò Progne figlia ◀di▶ Pandione re ◀di▶ Atene, e la condusse nella Tracia, ov’egli regnava. Aveva Progne lasciata nella casa paterna una sorella per nome Filomela, che amava colla massima tenerezza. Dopo cinque anni ◀di▶ lontananza volle Progne rivederla. S’incaricò Tereo ◀di▶ fare il viaggio ◀di▶ Atene per contentare la sua sposa, ma nel condurla, per istrada concepì una violenta passione per Filomela. Quindi strada facendo, dopo averla oltraggiata, aggiungendo al primo un secondo delitto, le strappò barbaramente la lingua per impedirle ◀di▶ poter palesare la sua disgrazia. Continua lo scellerato il suo cammino, e reca a Progne l’annunzio che Filomela più non esiste. Quest’ultima era rinchiusa in una torre gelosamente custodita. Trovò però la maniera d’informare sua sorella Progne dell’accaduto, con aver ricamato in un velo la storia funesta delle sue sciagure. Inorridì Progne a tal nuova, e come d’indole risentita escogitò una terribile vendetta. Profittando delle feste ◀di▶ Bacco prese l’abito ◀di▶ una baccante : liberò sua sorella dalla prigione : indi con un pugnale trapassò suo figlio Iti, e lo diede a mangiare a Tereo in un solenne banchetto. Cercando questi ◀di▶ vedere suo figlio, allora Filomela infuriata si presenta a Tereo, e per maggiormente avvilirlo gitta innanzi a suoi piedi il capo intriso nel sangue dell’infelice figliuolo. Avvampando d’ira Tereo diede ◀di▶ piglio alla spada per inseguire le due sorelle : ma queste gli scapparono dalle mani, involandosi da lui coll’ajuto delle ali, essendo stata Progne al momento cangiata in rondinella, Filomela in usignuolo, e lo stesso Tereo in uno sparviero.
Aristeo.
Fu Aristeo figliuolo ◀di▶ Apollo, e della ninfa Cirene. Egli si occupò dell’agricoltura, a saper rappigliare il latte, coltivare gli ulivi, e sopratutto ebbe cura delle api. Sposò Aristeo Autonoe figliuola ◀di▶ Cadmo, fu padre ◀di▶ Atteone, che Diana cangiò in cervo. Dopo la morte ◀di▶ questo suo figlio, si ritirò in Sardegna da lui per la prima volta coltivata : indi passò nella Sicilia, e finalmente nella Tracia, ove Bacco lo volle per compagno delle sue fatiche. Morì sul monte Emo : i Greci l’onorarono qual Dio, ed i pastori gl’innalzarono degli altari.
Pico, e Canente.
Fu Pico figlio ◀di▶ Saturno, padre ◀di▶ Fauno, ed avo ◀di▶ Latino. Sposò Canente figliuola ◀di▶ Giano, e ◀di▶ Venilia. Fu amato da Circe famosa maga, e figlia del Sole, e che lo vide mentre andava in cerca ◀di▶ erbe, e dalla medesima fu cangiato in picchio1.
Egeria.
Seguace ◀di▶ Diana era la ninfa Egeria. Credevasi ch’ella consigliasse Numa Pompilio secondo re ◀di▶ Roma per ben governare. La morte ◀di▶ Numa le cagionò tanto dolore, che fu cangiata in una fontana.
Arione.
Arione fu un musico celeberrimo nativo ◀di▶ Metimna ◀di▶ Lenno, molto amato da Periandro re ◀di▶ Corinto. Un giorno mentre navigava, i marinari lo volevano buttare nel mare, per arricchirsi delle sue spoglie. Lusingandosi Arione ◀di▶ poterli intenerire, dimandò in grazia ◀di▶ poter toccare un’altra volta la sua lira : ma non potendo ottenere tal grazia si lanciò nelle onde, ed uno de’ delfini, che si erano accostati al naviglio per sentir la sua voce, lo prese sul dorso, e lo portò sano, e salvo alla riva. Periandro fece severamente punire i marinari, e gli Dei assegnarono un posto nel cielo al Delfino, che aveva salvato un musico tanto ben veduto da Apollo, e dalle Muse.
Anfione.
Era questi un altro eccellente cantore, figlio ◀di▶ Giove, e ◀di▶ Antiope regina ◀di▶ Tebe. Il suono della sua lira, e la sua voce era tanto dolce, che per sentirla gli corsero dietro le pietre, e si situarono in tal modo, che ne formarono le mura ◀di▶ Tebe.
Ciò basti per un corso ◀di▶ Mitologia elementare. Potranno i giovani lettori in età più matura consultare i fonti, gli originali delle favole, e gli scrittori che hanno ampiamente trattato un tale argomento : contentandoci noi de’ ristretti limiti fra’ quali ci siamo contenuti.
Avviso.
Si è creduto opportuno ◀di▶ quì inserire il seguente trattalo dello stesso Sig. Tomeo autore ◀di▶ quest’opera, pubblicato fin dall’anno 1817 - per comode della gioventù studiosa.
Proemio.
Pbbiamo finora come in un quadro abbozzato l’origine, lo scopo, lo sviluppo della Favola. Nel breve corso ◀di▶ poche pagine ci siamo studiati ◀di▶ accennarne almeno l’applicazione, l’oggetto, la morale che conteneva. Abbiamo altresi osservato il gran numero degli Dei adorati dal Gentilesimo. Questa serie numerosa ◀di▶ false Divinità sarebbe stata maggiore, laddove per poco si fosse data un’ occhiata alla folla degl’Iddj, che adoravano gli Egizj, i Fenicj, i Caldei, i Persiani ed altre nazioni. Saremmo in tal caso usciti dal piano, che da principio ci abbiamo proposto : riserbandoci non per tanto ◀di▶ darne cammin facendo un’ idea, benchè superficiale.
Non abbiamo potuto però senza taccia dispensarci dall’aggiugnere quì un breve trattato degli Dei indigeni, che ricevevano un culto particolare dai Napoletani. Siccome sarebbe strana cosa l’aver piena contezza del Greco, e Latino idioma, ed ignorare nel tempo istesso la lingua che parliamo ; così stranissimo sarebbe lo affaticarci ad indagare l’eccessiva capricciosa folla degl’Iddj della Grecia, e del Lazio, senza conoscere quelli che riscuotevano un culto nel suolo ove siamo nati. Gareggia la nostra Patria con Roma istessa madre, e cultrice delle belle arti, e delle scienze. Dapertutto veggonsi de’ capi ◀di▶ opera della pittura, e scultura, e della più ricercata architettura, che malgrado il corso ◀di▶ tanti secoli, l’edace tempo ha rispettato. Non vi ha angolo nella città, e nel Regno, in cui non ritrovansi preziosi monumenti, marmi, iscrizioni nell’una e l’altra lingua, che ci mettono al giorno de’ sacri riti, e della vita civile ◀di▶ que’ tempi. Se non altro, gli scavi ◀di▶ Ercolano, e ◀di▶ Pompei ci hanno aperto un campo larghissimo, dove può ampiamente spaziarsi l’ingegno degli eruditi indagatori della più remota antichità. Nel nostro suolo per l’appunto il fasto de’ Romani, conquistatori dell’Universo, spiegò tutta la sua grandezza, onde fralle Greche città andò superba la nostra Napoli, che favorita dalla natura ◀di▶ un dolce clima, e fertile terreno, formava il domicilio, e l’onesto ritiro della gente tranquilla 1. Fin dall’epoca della sua fondazione anteriore a quella ◀di▶ Roma, avrebbe potuto dirsi ◀di▶ lei :
Quam tu Urbem hanc cernis, quae regna futura !
Ci duole soltanto che in mezzo a tante patrie ricchezze non possiamo con certezza e precisione dar fuori un trattato ◀di▶ quanto riguarda il nostro assunto. Le tante vicende, alle quali è stata soggetta la nostra Patria, il lungo andare ◀di▶ tanti secoli ha dovuto per necessità contribuire alla perdita d’infiniti monumenti. Possiamo solamente per via ◀di▶ congetture stabilire le basi del nostro argomento. Dee credersi certamente che istituiti i nostri padri coi costumi della Grecia, abbiano similmente adottati gli usi medesimi, e la Religione della madre comune. Il Circo, gli avanzi del nostro teatro, il corso lampadico, la palestra ci somministrano bastante materia da parlare delle varie Divinità, che presedevano a tali giuochi, e giornalieri esercizj. Oltre a ciò le rispettive reliquie ◀di▶ templi che ancor oggi ammiriamo, fanno fede abbastanza delle Divinità Napoletane, e della magnificenza della loro città : giacchè quanto vi ha ◀di▶ grande e magnifico nelle più vaste Capitali, per lo più dalla Religione ha tratto la sua origine, e contribuirono all’accrescimento della grandezza Romana più gli altari a Giove innalzati, che la potenza degli Augusti medesimi.
Quindi ci è sembrato non inutile, che anzi necessario lavoro il presentare alla Gioventù studiosa un picciolo trattato delle antiche patrie Divinità. Egualmente interessante pregio dell’opera abbiam creduto lo aggiugnere qualche cosa riguardante le Deità comuni alle altre nazioni. Quantunque ◀di▶ questa ne abbiamo abbastanza parlato nella prima parte, era però ◀di▶ somma necessità rinnovarne il discorso per l’intelligenza de’ monumenti, che anche a nostri giorni sono esistenti. Senza dipartirci punto dall’oggetto ◀di▶ dare delle cognizioni elementari, potrà ◀di▶ leggieri acquistare la Gioventù le idee necessarie del primo antico culto. Vero è che l’argomento che trattiamo non è nuovo : ma piace lusingarci che l’ordine almeno, e ’l vantaggio ◀di▶ veder tutto ad un colpo ◀di▶ occhio potrà dargli un’ aria ◀di▶ novità ; risparmiando ai giovani la pena, e noja lunghissima ◀di▶ andar rintracciando le patrie memorie sparse quà, e là in tanti libri, e scrittori per lo più fra ◀di▶ loro discordi. A tale proposito abbiamo procurato ◀di▶ scegliere quello che pareva più plausibile, avendo dovuto aggirarci tra l’oscurità dei secoli con andar quasi a tentone. Potranno in età più matura i Giovani amatori della storia Patria consultare i fonti, onde attingere pienamente le notizie delle nostre primitive costumanze, ed osservare il delirio, e le fantastiche idee ◀di▶ religione de’ nostri maggiori, che ad imitazione degli altri popoli professavano un culto tutto loro proprio verso le assurde e false Divinità ; culto che immantinente cessò, allorchè furono a nuova vita rigenerati mercè il lume del Vangelo, e della santa nostra Religione Cattolica, nel cui seno abbiamo avuto la fortuna ◀di▶ nascere.
I.
Partenope.
Dicemmo già che una delle Sirene chiamata Partenope, che colle altre abitava nella spiaggia ◀di▶ Sorrento, e che in vicinanza ◀di▶ Napoli cessò ◀di▶ vivere, diede il nome alla nostra Città. Fra le altre così dette, la più celebre credesi figliuola ◀di▶ Eumelo re ◀di▶ Fera in Tessaglia. Scrivono taluni che questa giovane amantissima della castità ritirossi nella Campania, ed ivi elesse il suolo dove oggi è Napoli per sua abitazione, guidata dal volo ◀di▶ una colomba, della quale così cantò il nostro Stazio nel libro IV. Silv.
Dii patrii, quorum auguriis super aequora magnisLittus ad Ausonium devexit Abantia classis. 1Tu ductor populi longe emigrantis Apollo,Cujus adhuc volucrem laeva cervice sedentem 2Respiciens blande felix Eumelis adorat.
Dove la voce Eumelis vale lo stesso che Partenope.
Noi lasciando da parte le poetiche opinioni, che trattandosi dell’origine delle grandi città sogliono essere, al dire ◀di▶ Livio, se non favolose, almeno sospette, volentieri ci atterremo al sentimento dell’insigne geografo Strabone. Attesta egli ◀di▶ essere stata Napoli edificata dai Cumani, chiamata Partenope dal Sepolcro della estinta Sirena. Colà in seguito a cagione del suo amenissimo clima concorsero diversi altri popoli, onde Neapolis, nuova Città fu detta, per distinguerla da Palepoli, cioè vecchia città.
Andò però quasi in disuso il nome ◀di▶ Napoli, ritenendo per lo più quello ◀di▶ Partenope fino a che Augusto, al dire ◀di▶ Solino, dopo ◀di▶ aver ornato ◀di▶ marmi il ◀di▶ lei fabbricato, volle che Napoli, o sia nuova città, e non già Partenope fosse denominata.
Alla testè lodata favolosa Sirena, o alla pudica figliuola ◀di▶ Eumelo furono assegnati gli onori divini, e fralle tutelari Divinità ebbe Partenope un luogo distinto. Vedesi nelle nostre monete inciso il capo ◀di▶ Partenope ; ed attesta Licofrone antichissimo poeta, che al ◀di▶ lei sepolcro bruciavano saci i Napoletani, e l’Ateniese Diotimo venne con una flotta per consultarne l’oracolo. Quindi il celebre Gioviano Pontano, e l’ameno Giacomo Sannazaro poeticamente scherzando, celebrano le nozze ◀di▶ Partenope col Sebeto, annoverato anch’ esso fra i Numi tutelari : ed i Napoletani con tanta gelosia ne conservano la memoria, che anche a dì nostri osservasi una grande testa presso la Chiesa ◀di▶ S. Eligio, che credevano essere appunto quella che apparteneva alla statua colossale ◀di▶ Partenope.
Ignorasi il luogo preciso del sepolcro ◀di▶ lei, da molti situato nel monticello, dove oggi è la Chiesa ◀di▶ S. Giovanni Maggiore. Altri, e fra questi il Pontano, gli assegnano un sito alquanto più lungi. Itaque sepulchrum ipsum indicio est Parthenopen colli imperitasse, qui subjectae imminebat stationi, atque ad sinus ipsius caput, e qua regione Surrentum spectabant, quae Sirenum ipsarum sedes tunc esset. Quem ad locum, quod naves quasi in quemdam portum applicarent, collis ipse frequens erat habitatoribus, atque ab accolis, et nautis celebratus, itaque obliterato priori nomine, post matronae memoriam, atque ab ejus sepulchro, Parthenope cognominatus. Pont. de bello Neap. Di questo colle samoso così pure cantò il nostro concittadino Stazio piangendo la morte ◀di▶ suo padre :
Exere semirutos subito de pulvere vultusParthenope, crinemque, afflato Monte, sepultiPone super tumulos, et magni funus alumni.
Invitando Partenope a cacciar fuori la testa dalla tomba, ruinata dalla scossa ◀di▶ un gran terremoto (afflato monte), e compiangere la morte del suo allievo, cioè del padre ◀di▶ Stazio.
II.
Il Sebeto.
L’antichissimo culto che professavano i primi abitatori ◀di▶ Napoli a questo patrio siumicello, esige da noi ◀di▶ doversene quì far parola, ed appunto dietro l’articolo Partenope. Quale sia stata l’origine ◀di▶ questo nome Sebeto, si disputa dagli antiquarj. Vi ha chi crede ◀di▶ ricavarla dal Sabbato degli Ebrei, giorno in cui cessavano da ogni lavoro, per indicare l’indole della voce riposo, quiete, adattando questo nome a que’ rigagnoli, che con lentissimo corso scaricavansi al mare, qual è il nostro Sebeto. Parecchi fanno decrivarlo altresì dall’Ebraico Sibboleth, fluentum, cioè piccolo siume.
Comunque sia, certa cosa è che fu egli ascritto fralle patrie Divinità. Probabilmente ciò dinota il celebre motto Nama 1 Sebesio scolpito nel collo del toro ne’ sacrifizj a Mitra, cioè, al Sole, e più l’antichissima iscrizione
P. Maevivs Evtychvs Aedicvlam Restituit Sebetho.
Dov’è da notarsi che questo tale Eutico ◀di▶ origine Greca rinnovò l’antichissimo culto dovuto al Sebeto. Nè cio dee far meraviglia, giacchè i primi fondatori delle Città in vicinanza de’ fiumi, erano soliti ◀di▶ attribuire ai medesimi gli onori divini, e presso ◀di▶ noi si celebravano in Capua le feste del Volturno, dette Vulturnalia. In un fierissimo terremoto accaduto nell’anno 1688, allorchè con gravissima perdita dell’Architettura rovinò il famoso tempio ◀di▶ Castore, e Polluce, oggi Chiesa ◀di▶ S. Paolo, ritrovossi una elegantissima Greca iscrizione sottoposta ad un eccellente bassorilievo, nel quale stavano scolpite diverse sacre immaginette, e fra queste vi era quella del Sebeto.
Il suo nome però e la sua gloria mal corrispondono al piccolo volume delle sue acque. Malgrado che sia egli decantato in ogni pagina dalla fervida fantasia de’ poeti, la sua picciolezza è tale, che Boccaccio allorchè recossi a Napoli, al momento che lo vidde, stupefatto esclamò : Minuit praesentia famam. Il gran poeta Cesareo ◀di▶ lui scrisse :
Quanto ricco d’onor, povero d’onde.
Non ha guari l’accurato nostro P. Sanfelice de situ Camp.
così scrisse :
Quod prope littus est, Sebethus alluit
fluviolus, ne lintrium quidem patiens, non tamen
inglorius
:
III.
Eumelo.
Se i primi nostri padri adorarono Partenope come colei che diede il nome alla Città, dovettero per conseguenza accordare il culto Divino anche al ◀di▶ lei padre Eumelo. Fralle antichissime Fratrie1 che in Napoli esistevano ad imitazione ◀di▶ Atene, trovasi annoverata quella degli Eumelidi, così detta dal patrio nume Eumelo, situata verisimilmente nel circuito del quartiere, o sia regione Capuana. Citano gli antiquarj diverse iscrizioni in conferma ◀di▶ quanto da noi si assersce. A questa Fratria crede il Martorelli che fosse stato ascritto Stazio poeta, nostro concittadino, che vivea a’ tempi ◀di▶ Domiziano.
IV.
Eunosto.
Di questo giovane Dio, o Eroe piuttosto così lasciò scritto Plutarco, il cui testo alquanto lungo in poche parole esporremo. Eunosto ◀di▶ Tanagra nella Boezia fu un giovane eroe conosciutissimo per la sua elegante figura, e diverse virtù che lo adornavano, e fra queste in grado eminente quella della castità. Di costui innamorossi una ragazza chiamata Ocna figliuola ◀di▶ Colono. Accortosi il giovane Eroe ◀di▶ tale inclinazione, oltre ◀di▶ averla bruscamente cacciata via, denunciò schiettamente l’affare ai fratelli ◀di▶ lei. Ocna pensò ◀di▶ prevenirlo, ed indusse i fratelli ad ammazzare Eunosto, accusandolo ◀di▶ avere il mdesimo attentato alla sua pudicizia. Seguito sì atroce misfatto, la giovane si pentì, e svelato l’arcano, da se stessa con un laccio si diede la morte. I Tanagrei ad eterna ricordanza ◀di▶ questo avvenimento, innalzarono un tempio ad Eunosto, dove non era permesso alle donne l’ingresso.
Ciò diede occasione ai Napoletani ◀di▶ ascrivere anch’ essi Eunosto fralle patrie tutelari Deità. Il nostro ch. D. G. Giacomo Martorelli nella sua laboriosa opera de Reg. theca cal. parlando della Fratia dove adoravasi Eunosto, azzardò una congettura, che in seguito dopo la ◀di▶ lui morte il tempo verificò. Credeva egli che una tale Fratria, alla quale non erano ammessi, se non quelli che conservavano il celibato, avesse dato il nome al quartiere della città, oggi detto borgo dei Vergini, et che ivi appunto avesse la suddetta dovuto esistere. Non fu bene accolta una tale opinione : ma scavandosi li fondamenti parecchi anni sono ◀di▶ una casa in vicinanza della porta ◀di▶ S. Gennaro, si avvidero i muratori ◀di▶ alcune vecchie fabbriche sepolte molti palmi al ◀di▶ sotto del livello della strada. Pervenuto ciò a notizia del Governo, furono deputate persone intelligenti, che recatesi sulla faccia del luogo, ritrovarono in fatti e marmi, ed iscrizioni, che chiaramente manifestavano colà avere esistito la Fratria o sia Curia degli Eunostidi. Siffatta scoverta avrebbe colmato ◀di▶ gioja il Martorelli già trapassato se avesse veduto verificata la sua congettura.
Vi ha in fine chi ha creduto, che Eunosto fosse stato il Dio che presiedeva ai mulini ; opinione che ha procurato ◀di▶ confutare a tutta possa il mentovato Martorelli.
V.
Apollo.
Oltre quanto si è detto in questo corso ◀di▶ Mitologia nell’articolo Apollo, è da notarsi riguardo a questo Nume, che un culto assai esteso riceveva dai Napoletani, come quello che fu il Duce della colonia Eubea venuta a Napoli, guidata dal volo della colomba, onde Stazio :
Tu ductor populi longe emigrantis Apollo.
E virgilio nel 6 dell’Eneide parlando del famoso ◀di▶ lui tempio :
Arces, quibus altus ApolloPraesidet.
Le vestigia ◀di▶ questo tempio ancor oggi si veggono accanto all’arco Felice poco discosto dalla Palude Acherusia al presente il Fusaro. Sotto diverse sembianze fu Apollo in Napoli adorato col nome ◀di▶ Ebone, ◀di▶ Mitra, ◀di▶ Serapide. Di ognuno ◀di▶ questi nomi imprendiamo a distintamente parlare.
Ebone.
Una nostra Greca antica iscrizione ci fa acquistare la conoscenza ◀di▶ questo nume tutelare.
ΗΒΩΝΙ ΕΠΙΦΑΝΕΣΤΑΤΩΙ ΘΕΩΙHeboni clarissimo Deo.
L’ etimo ◀di▶ questa voce benchè alquanto stiracchiato, potrebbe ripetersi
dall’Ebraico Abir, taurus. In fatti era egli rappresentato
sotto l’aspetto ◀di▶ un bove con faccia ◀di▶ uomo, e propriamente ◀di▶ un vecchio
con lunga barba. Nelle nostre antiche monete segnate col motto Heboni, e Neapolitae, si vede ◀di▶ altri emblemi
fregiato. Macrobio ne’ suoi Saturnali ci dice la ragione, onde Ebone sotto
la figura ◀di▶ un toro era adorato :
Taurum vero
multiplici ratione ad Solem referri Aegyptius cultus ostendit, vel
quia apud Heliopolim taurum Soli consecratum, quem Netiron, seu
Neton cognominant : vel quia bos
Apis in
civitate Memphi solis instar excipitur : vel quia in oppido Hermunti
magnifico Apollinis templo consecratum Soli colunt
taurum
. Nè è da dispregiarsi l’opinione ◀di▶ taluni, che
credono adorato il toro in Napoli, in Pozzuoli, Atella, Capua, ed in tutta
la terra ◀di▶ Lavoro per essere questo animale il più utile e necessario per
l’agricoltura.
Della varia figura ◀di▶ questo Nume, secondo lo stesso Macrobio, dee dirsi, che i Napoletani lo veneravano sotto l’aspetto ◀di▶ un vecchio, a differenza delle altre nazioni, che lo riconoscevano col volto ◀di▶ un fanciullo, ◀di▶ un giovanetto, ◀di▶ un uomo : alludendo alle quattro età del Sole nel tempo degli equinozj, e de’ solstizj. Trasportati i nostri Maggiori per lo studio dell’astrologia, come è noto, non dee recar punto maraviglia che avessero professato un culto particolare verso il principe de’ pianeti col nome ◀di▶ Ebone. La nostra Cattedrale edificata sulle ruine del tempio ◀di▶ questo Dio abbastanza ce ne assicura. Anche il nostro Pontano parlando ◀di▶ Ebone, così cantava :
Urbs Hebone salutat, agrique Hebona frequentant,Hebona et referunt simul antra, et littora, et amnes.
A questo Nume il nostro Mazzocchi asegnò anche una fratria, ma senza daccene idea precisa.
VI.
Mitra.
Adoravano gli antichi Napoletani Mithram, Mitra, con vocabolo Persiano indicante il sole medesimo. Se non che il culto che professavano a questo Nume si esercitava negli antri, e ne’ sotterranei, per alludere forse alla virtù de’ raggi solari, che vibrati sulla terra hanno l’attività ◀di▶ animare quanto contiensi nelle viscere ◀di▶ lei. Una antica iscrizione ci somministra piena cognizone ◀di▶ questa esotica Divinità.
Omnipolenti Dei Mithrae Appius Claudius Terronius Dexter
Dicavit.
A questo, Mitra, al dire ◀di▶ Suida, immolavano i Persiani molte vittime, e
specialmente bianchi cavalli. Senefonte attesta, che il gran Ciro giurava
per questo Dio, e Lampridio nella vita ◀di▶ Commodo fa menzione de’ sacri riti
praticati ne’ sacrifiz ◀di▶ lui. La sua figura eccola espressa da Lattanzio
Grammatico :
Colebatur in antro,
fingebaturque leonis vultu, habitu Persico cum
thiara, et ambabus manibus reluctantis bovis cornua retentare. Quo
simulacro innuebant lunam ab eo lumen accipere, cum incipit ab ejus
radiis segregari. Ipsa enim indignata sequi fratrem, occurrit illi,
et lumen subtegit, obscuratque : ideoque in antro esse dicitur, quia
eclipsin patitur. Ideo leonis vultu, quia sol leonem signum
principale habt, vel quod ut leo inter animalia, ita sol sidera
excellit
.
Conservasi dalla nobilissima casa Borghese in Roma una lapida col motto
Soli Deo invicto Mithrae.
VII.
Serapide.
Ecco in iscena nuovamente il sole col nome ◀di▶ Serapide. Il ◀di▶ lui culto era etesissimo nell’Egitto. Crede Varrone che questa voce abbia tratta la sua origine dalla cassa, o tumulo detto σορος in cui fu riposto dopo morto, onde i Greci prima lo chiamarono Sorapis. Oltre ◀di▶ un tempio grandioso a lui eretto in Pozzuoli, i ◀di▶ cui superbi avanzi ancor oggi si ammirano, credesi vicino agli scolgi Platamoni 1 in Napoli fra gli screpoli avere esistito il suo tempio, onde leggiadramente scrisse il Sannazzaro :
Aequoreus Platamon, sacrumque Serapidis antrum,Cum fonte, et nymphis adsultavere marinis.
In somma pressochè generale era il cutlo del Sole in Napoli antica. Oltre le mentovate denominazioni si dava ad Apollo l’epiteto ◀di▶ servator, sanator. Quindi alla buona salute (Hygiae) furono altresì eretti monumenti, ed altari. Presso ◀di▶ Orazio :
Sic me servavit Apollo.
Troviamo il sole insignito ancora degli attributi ◀di▶ Bacco, presso alcune delle nostre monete, cioè con pampini ed edere : e ciò perchè nell’Egitto Serapide, cioè il sole, era stato l’inventore del vino. Il decantato nostro Cecubo, Falerno, Sorrentino, Massico, e tanti altri diedero occasione alle piacevoli feste ◀di▶ Bacco in Pozzuoli. Ivi queste feste erano colla massima solennità celebrate, e non ha guari fu ritrovata una lapida col motto Dusari sacrum, così chiamato ancora Bacco con voce Araba secondo il Bochart vel ab uvarum expressione, vel quia dominus libertatis erat.
VIII.
Artemisia, o sia la Luna.
In grandissimo credito era a tempi ◀di▶ Napoli Greca Artemisia, o sia la Luna, sì perchè germana ◀di▶ Apollo, sì perchè erano trasportati i Napoletani per lo studio dell’astrologia. Di questa scienza erano tatalmente appassionati, che Virgilio istesso ne era istruitissimo, come apparisce dalle sue georgiche, e dall’egloga intitolata Pharmaceutria. Non altro significa quell’ignobile otium che la perfetta cognizione del corso e dell’influsso de’ pianeti,
Illo me tempore dulcis alebat
Parthenope studiis florentem ignobilis otî.
Artemis è chiamata da Omero la luna, e con questo motto eran segnate le antiche nostre monete. Nelle medaglie ◀di▶ Sicilia vien denominata altresì Σωτειρα, servatrix. Non senza fondamento il Can. Celano esatto indagatore delle cose patric, crede che il tempio della luna fosse dov’è al presente la Chiese ◀di▶ S. Maria Maggiore (la Pietrasanta), luogo in cui mentre a suoi tempi si edificava, furono ritrovati non pochi antichi monumenti riguardanti questa Deità. Ed è verisimile, che siccome al tempio del sole fu sostituito il nostro Duomo, e consegrato dai Cristiani al nostro Divino Salvatore, ch’è il vero Sole, così quello della luna fu dedicato alla Vergine SS., cioè Lunae Virgini Majori. Infatti la nostra strada dei Tribunali chiamasi Via Solis, et Lunae : ed assicura il testè lodato Celano, che nella casa d’Ippolita Ruffo fondatrice della Chiesa suddetta, si conservavano moltissimi monumenti ◀di▶ questo tempio famoso.
Il circondario del tempio della luna era il più rispettabile ◀di▶ Napoli. Colà a sentimento dell’accurato Capaccio stava la Fratria, o sia Curia degli Artemisj, addetti all’amministrazione ◀di▶ questo tempio, e dov’era, al dire ◀di▶ Martorelli, ascritto il nostro concittadino egregio poeta Stazio. In queste vicinanze vedevasi l’antico nostro teatro, dove il folle Nerone volle far pompa dell’arte sua musicale : ed in questo sito fu ritrovato l’insigne cavallo ◀di▶ bronzo ◀di▶ Greco lavoro, antico stemma della Città, la cui testa vedesi oggi nel Regale Museo de’ Regj Studj, ed il resto del corpo fu destinato a formare le campane del Duomo per opera del Cardinal Caraffa. Colà tuttavia si ammirano diverse reliquie ◀di▶ fabbriche a mattoni, che ritengono presso ◀di▶ noi il nome ◀di▶ Anticaglie.
IX.
Orione.
Secondo la testimonianza ◀di▶ Esiodo, ebbe questo Nume a padre Nettuno, e sua madre fu Euriale. Di lui narra la favola, che amato da Diana era già presso a sposarla. Mal soffriva Apollo queste nozze della germana : onde sfidatala un giorno a tirare una freccia ad un punto nero che nel mare si vedeva (ch’era la testa ◀di▶ Orione), fu pronta costei, come abilissima nel trattar l’arco, a vibrare a quel segno un dardo, e mortalmente ferì l’amato suo oggetto. Gittato Orione dal mare semivivo sul lido, si dolse dell’affronto con Diana, che amaramente piangendo non potè far altro per lui che trasportarlo nel Cielo, ed ivi situarlo nel Zodiaco, formandone una costellazione col nome ◀di▶ Orione.
La ◀di▶ lui statua osservasi oggigiorno nel luogo detto Seggio ◀di▶ Porto, portando in mano un pugnale, e vestito il corpo ◀di▶ lunghi ispidi peli, indicanti o i raggi solari, ovvero un segno della pioggia. Era questo Dio tutelare adorato in Napoli dalla gente ◀di▶ mare, e nel sito da noi enunciato è probabile che stesse il tempio a lui dedicato, perchè vicinissimo al mare. Sappiamo per tradizione, che fino a’ tempi da noi non molto remoti avevano per costume i Napoletani ◀di▶ celebrare una festa in onore ◀di▶ Orione, nella quale fralle altre formalità si bruciava una barchetta in ogni anno nella notte della Natività ◀di▶ Nostro Signore.
Chiamasi oggi questa statua dal volgo falsamente il pesce Nicolò : ingannato dalla storia ◀di▶ un tale Nicola Pesce espertissimo nuotatore, che vivea a tempi del Governo Viceregnale. Costui con grandissima facilità caminava sott’acqua da Reggio a Messina, portando lettere, ed altro. Ma sparì finalmente il poverino mentre una volta faceva il solito tragitto, e fu creduto che un qualche grosso cetaceo lo avesse ingojato.
X.
Cerere.
Fralle patrie Divinità tutelari del prim’ordine ascrivere si dee Cerere Attèa, o sia Attica. Il nostro Stazio a chiare note lo indica :
Tuque Actèa Ceres, cursu cui semper anheloVotivam taciti quassamus lampada mystae.
Le feste ◀di▶ questa Dea erano celebrate con grandissima pompa ad imitazione delle feste Eleusinie, che con solenne rito nella Grecia si rinnovavano. Durante : il loro corso, e con assegnate cerimonie si alludeva al ratto ◀di▶ Proserpina, figliuola ◀di▶ Cerere rapita da Plutone nelle fertili campagne della Sicilia. Il nostro Capaccio ce ne ha trasmesso il contenuto, ricavato da pitture antichissime, e da un basso rilievo situato nella sommità della facciata della Chiesa ◀di▶ S. Giovanni Evangelista, appartenente alla nobile famiglia Pappacoda accanto S. Gio : Maggiore. Correvano in queste feste i sacerdoti da disperati, e fra questi si annovera egli stesso il nostro Stazio, portando accese faci nelle mani in atto ◀di▶ andare in cerca della rapita Proserpina.
Tra i ministri ◀di▶ questa Dea erano ammesse altresì le donne. I sacrifizj erano segreti, e tutti dovevano conservarne gli arcani, come rilevasi dalle parole taciti mystae ◀di▶ Stazio. Il tempio ◀di▶ questa Dea, secondo il più volte citato Capaccio, ed altri, era la presente Chiesa ◀di▶ S. Gregorio Armeno, dove nello scavo dei fondamenti furono ritrovati diversi monumenti, e statue ◀di▶ marmo.
XI.
Castore, e Polluce.
La presente magnifica Chiesa ◀di▶ S. Paolo era il tempio dedicato ai due gemelli Numi Castore, e Polluce. Una insigne iscrizione scritta a caratteri cubitali nel frontespizio chiaramente ce lo addita : eccola qui tradotta :
Tiberius Julius Tarsus Dioscuris et Parthenope Templum.Et quae in templo sunt Pelago Augusti libertus etProcurator fecit sua pecunia dedicavitque.
In mezzo a diversi altri monumenti furono nell’anno 1591 rinvenute le immaginette ◀di▶ questi due fratelli. Questo gran tempio scosso da un fiero terremoto, come si è detto, nel 1688 quasi interamente ruinò, e per conservarne almeno gli avanzi grandiosi, furono lasciate due sole colonne ◀di▶ ordine Corintio, come al presente si osservano.
Malgrado però che la mentovata testè iscrizione ci manifesti un’epoca recente, qual’è quella ◀di▶ Tiberio, il culto non pertanto assegnato dai Napoletani ai Dioscuri è molto anteriore. I busti, e gli altri emblemi ◀di▶ Castore, e Polluce erano scolpiti nel teatro, e specialmente nel circo : ed avendo i Napoletani sì l’uno che l’altro, è da supporsi che adorassero cotali Deità fin da tempi più remoti. Oltre a ciò essendo questi Numi immediati protettori de’ naviganti, come nel ◀di▶ loro articolo abbiamo dimostrato, sembra naturale che Napoli antichissima città marittima li avesse per Numi tutelari riconosciuti. Quindi non senza fondamento crede il Capaccio, che questo tempio fosse stato rifatto e ristorato, vivendo Tiberio.
XII.
Ercole.
Merita quì in certo modo ◀di▶ farsi menzione ◀di▶ Ercole. Le centinaja ◀di▶ statuette e ◀di▶ marmo, e ◀di▶ bronzo rappresentanti questo Eroe, fanno credere ◀di▶ essere stato egli ascritto fra i Penati e gl’Iddj tutelari della Patria. Attesta il Pontano, che ritornato Ercole vittorioso dalla Spagna, ed ucciso il famoso ladrone Caco nel Lazio, visitò varie contrade del nostro regno, a cui diede il suo nome. Oltre ◀di▶ Eraclea nella magna Grecia, chiamasi in Napoli vico Eraclio, o sia ◀di▶ Ercole, una straduccia nelle vicinanze della Chiesa ◀di▶ S. Agostino Maggiore. L’antico Ercolano, oggi Resina, vanta da Ercole la sua origine, come altresì il Portico ◀di▶ Ercole, Portici, ◀di▶ cui parla Petronio nella cena ◀di▶ Trimalchione. Credesi però che tali luoghi ripetano il loro nascimento dai Fenicj, che loro adattarono una denominazione corrispondente all’indole del suolo, che dava fuoco dapertutto, perchè sottoposti immediatamente al Vesuvio1.
XII.
Vesta.
L’antichissima Chiesa ◀di▶ S. Maria della Rotonda a nostri giorni demolita, ha fatto credere a parecchi eruditi antiquarj che fosse stato il tempio a Vesta dedicato. Infatti la rotonda figura del medesimo, ed alcuni marmi colà rinvenuti, oltre ◀di▶ un tripode, ed un lavacro ◀di▶ marmo, possono abbastanza persuaderci ◀di▶ una tale verità. Affermano taluni che ◀di▶ forma rotonda era il tempio ◀di▶ Vesta per indicare la rotondità della terra, o per meglio dire dell’Universo, nel cui centro collocavano il fuoco i Pittagorici, che chiamavano Vesta.
Osservavasi questo tempio accanto il palazzo del Duca ◀di▶ Casacalenda, e propriamente a fronte della porta grande della Chiesa ◀di▶ S. Angelo a Nilo. In questa regione abitavano gli Alessandrini, ed Egiziani, come rilevasi dalla statua del Nilo, ivi ancora esistente con iscrizione del dotto Matteo Egizio, ed ornata da varj simboli, e diversi putti indicanti le molte ramificazioni ◀di▶ questo fiume. Colà altresì stava la Fratria degli Alessandrini (Cynaeorum, da Κυων, il cane) poichè gli Egiziani oltre ◀di▶ Osiride, Iside ed altri, adoravano Anubi, effigiato sotto le sembianze ◀di▶ un cane.
XIV.
La Fortuna.
Anche alla Fortuna indrizzavano i loro voti gli antichi abitatori ◀di▶ Napoli, come dal motto ΤΥΧΗΙ ΝΕΑΠΟΛΕΟΣ, Fortunae Neapolis.
Dalla seguente antichissima iscrizione ritrovata sul colle ◀di▶ Posilipo verso la parte che guarda Euplea, la Gajola o scuola ◀di▶ Virgilio, apparisce che a lei erano consegrati templi ed altari.
Vesorius ZeloiusPost assignationem aedisFortunae signum Pantheumsua pecunia D.
Secondoche attesta Strabone dal promontorio ◀di▶ Nettuno fino alla Magna Grecia erano innalzati de’ tempj alla Fortuna, bisogna tuttavia confessare che nella Campagna Felice esigeva questa Dea un culto particolare. Ciascuna città aveva la propria Fortuna, come quella de’ Napoletani, de’ Romani presso Plutarco detta ancora Pubblica. I Greci chiamavano Χαριστηρια Charisteria le feste in onore della Fortuna. I Romani dissero Charistia i conviti, ne’ quali si univano i parenti, ed affini in contrassegno e conferma del comune attaccamento fra ◀di▶ loro.
Proxima cognati dixere Charistia Chari :Et venit ad socios turba propinqua Deos.1
Teofane negli anni sacri si serve della voce Charisteria per ringraziamento al sommo Iddio.
XV.
Il Genio.
Molte sono le opinioni degli scrittori sull’influenza de’ Genj. Vi ha chi lo crede padre degli uomini, e Plutarco un Nume tutelarc. Apulejo gli assegna un posto eguale a quello dei Demonj, e dei Lari. Cebete Tebano asserisce che il Genio sia un Dio animatore de’ mortali allora che nascono, consigliandoli a non fidarsi della Fortuna, e lo chiama Δαιμονιον Demonio. Censorino lo crede un continuo assistente ed osservatore ◀di▶ tutte le nostre azioni. Servio parla ◀di▶ due Genj : uno che ci esorta a bene operare, l’altro che le prave opere ci consiglia. Filone chiama Genj le facoltà dell’animo inclinati al bene ed al male.
Comunque sia, ogni luogo aveva il particolare suo Genio. Leggiamo nelle antiche iscrizioni Genio loci, Genio coloniae, Genio theatri etc., che anzi Prudenzio gli dà maggiori facoltà :
Quamquam cur Genium Romae mihi fingitis unum ?Cum portis, domibus, thermis, stabulis soleatisAssignare suos Genios, perque omnia membraUrbis, perque locos Geniorum millia multa fingere ?
Molte antiche iscrizioni ritrovate in Pozzuoli, ed in Napolï ci dimostrano il culto che al Genio si professava.
Nelle monete ◀di▶ Adriano, e Diocleziano viene espresso il Genio colla figura ◀di▶ un giovine guerriero con lunga veste, portando in una mano una patera, e nell’altra il corno dell’ za. Celebre fu il Genio ◀di▶ Socrate, ed a questi Genj che noi chiamiamo folletti, e farfarelli attribuire si debbano le tante fole e fattarelli dalle femminucce, e dagli oziosi inventati.
XVI.
Le Grazie.
Resta a dire brevemente qualche cosa ◀di▶ quelle Divinità, a cui la nostra patria dispensava gli onori divini, e ne ha conservato qualche memoria. A questa classe possono appartenere le Grazie, Priapo, Giove Ejazio, e gl’Iddii delle Fratrie detti ancora tribules.
Riguardo alle Grazie, oltre quanto si è precedentemente osservato, si può aggiugnere che nelle antiche nostre monete da una parte si leggeva. Νεοπ. Nepolitae, e dall’altra era impressa la testa ◀di▶ una delle Grazie col motto Χὰριτες, Charites.
Di Priapo sappiamo, che nelle feste ◀di▶ Cerere, ◀di▶ cui sopra abbiamo parlato, si portava processionalmente l’immagine ◀di▶ questa sozza Divinità : costume peraltro indecente. Quindi come si desiderava l’abbondanza, e questa se non dalle campagne, sperar non si poteva, fu detto perciò Priapo il Dio degli orti.
Di Giove Ejazio parla una nostra iscrizione :
Titus Flavius AntipaterUna cum Flavia Artemisia uxoreJovi Ejazio libens votum solvit.
La radice ◀di▶ questa voce è affatto ignota, se pure non si dovesse leggere Jovi Sabbazio dal Greco σαϐάζειν, saltare, come praticavasi nelle feste ◀di▶ Bacco. Probabile è altresì che la vera lezione fosse Jovi Abazio, cioè taciturno, dai sacrifizj a questo Nume istituiti dal re Dionigi col massimo silenzio, e rammentati da Cicerone. Il Capaccio azzarda varie altre congetture, ma poco soddisfacenti.
Finalmente ciascuna delle Fratrie ne’ tempi ◀di▶ Napoli Greca aveva il proprio Nume tutelare. In esse celebravansi le feste nei giorni assegnati, e si facevano de’ conviti detti lectisternia, a stratis lectis, nei quali sedevano gl’invitati. Questi al dire ◀di▶ Livio, s’imbandivano presso i Romani colle carni delle vittime immolate, e nei casi ◀di▶ qualche seria disgrazia della Repubblica.
Si è già osservato, che gli Eumelidi avevano Eumelo per loro Nume tutelare, gli Artemisj la Luna, i Cinei Anubi, e così gli altri, dei quali con ingegnosa sottigliezza lungamente scrisse il nostro Martorelli nell’aureo trattato de Fratriis Neapolitanis, nel secondo tomo della Theca Calamaria.
Ed eccoci alla fine del nostro trattato elementare sulle antiche favolose Divinità adorate dai Napoletani. Questo picciolo saggio bastar potrà alla gioventù studiosa per acquistare un’idea della prima religione de’ nostri padri, e dei tanti monumenti che nelle pubbliche piazze, e nei Regj Musei gelosamente si conservano, mercè le provvide cure del Re nostro Signore. Il ◀di▶ più la gioventù medesima potrà ricavarlo dalla lettura ◀di▶ tanti scrittori, che diffusamente hanno trattato un tale argomento.
Mitologia.
ERRATA | CORRIGE |
Pag.10 vers. 22 ascendere | ascendere |
42 9 Glasio | Glasio |
61 4 Cibele | Cibele |
63 25 Sibilia | Sibilla |
74 7 volla | volle |
82 1 Melicerta, | Melicerta. |
id. 10 sasagrificò | sagrificò |
id. 22 Anteona | Antedone |
125 16 Leucippe | Leucippo |
139 15 preaceps | preaceps |
141 6 Bestitit | Restitit |
142 7 flere | flexere |
143 13 Polibo | Polibio |
172 18 Trajae | Trojae |
176 3 temdi | tempi |
181 28 non, vollero | non vollero |
214 5 ◀di▶ questa | ◀di▶ queste |
222 17 Boezia | Beozia |
240 8 inclinati | inclinanti |