Epigrafe
Fabula etsi vim veritatis non habeat ;tamen rationem habet, ut iuxta eam possit veritas manifestari.Ambe. lib. 3. de off.
A nibili giovanetti studenti delle belle lettere nel seminario di cava
L’autore
F in da quel momento, in cui▶ un grazioso volere del nostro illustre Ordinario dagli studii dell’amena letteratura mi trasse ad occupazioni più serie, intesi tratto tratto decadermi dalla mente il concepito disegno di menar a fine quel compendio di Mitologia iconologica, che un dì nel vostro seno da antecessore sedendo a vostre premurose inchieste impreso avea ad effettuire : che anzi succrescendo sempre più alle nuove occupazioni l’affetto fin a guadagnarsi un dominio quasi esclusivo nel cuore, cambiando in meglio i consigli fermo risolsi di sostituire a tal non molto interessante trattato un’altro parto più degno, ma non men vantaggioso alla vostra istruzione nella età almen più provetta. Assordato però dale vostre reiterate premure, nè sapendo di buona voglia, e col dovuto decoro ulteriormente perseverar sulla negativa pensai sottrarre al fin per pochi giorni, quasi insensibilmente, a me stesso quel tempo, che necessario si fosse a compiere, se non con mio onore, almen con compiacenza vostra l’incominciato lavoro. Eccolo pertanto, che tratto appena dall’ancor sudante mia penna, ed il fresco impronto mostrando della testè conseguita pubblica ragione nel vostro gentil seno, quasi a prefisso suo centro, lasciasi affettuosamente cadere. Io mi avventuro, che voi nel distender graziosi la mano ad accoglierlo, e nel piegar curiosi lo sguardo a percorrerlo possiate a ragion gloriarvi di vedere al fin secondate appuntino le mire, e soddisfatte pienamente le brame. Ed in qual cosa in vero può esso per avventura il mio libro defraudare l’aspettativa vostra miei cari ? A confessarvi il vero colla consueta mia schiettezza io nol saprei affatto affatto imaginare. Bramaste i sonetti iconologici degli dei superiori detti maiorum gentium seguiti da sufficiente sviluppo per intelligenza più chiara ? Tanto il libro puntualmente vi offre. Cercaste ritratti consimili delle divinità astratte almen più famose da annotazioni soltanto illustrati ? Questo ancora nello stesso troverete esattamente descritto. Voleste in fine un trattato più pratico, che teoretico di poesia toscana, che vi servisse di manuale a si bella facoltà senza tralasciare di toccare almen superficialmente la latina ? Il tutto a questa norma scorgerete quivi fedelmente eseguito. Se dunque il mio giudizio sul compiacimento vostro non erra, perchè l’operetta in tutta la estenzione corrisponde appuntino alle mire, protesto di non aver più che bramare, perche soddisfatto appieno de’voti. Vivete intanto felici, ed all’altrui amore ben grati.
A’leggitori
Sonetto
G enerosi lettori ecco il primieroParto alla luce del mio scarso ingegno :Che accoglierete il rozzo dono io speroDandomi in ciò del vostro amore un segno.Il perdon vostro non farammi altero,Anzi sarà sol di bontade un pegno,E priachè io compia il vital corso interoDarvi parti maggior con voi m’impegno.Sarà mia gloria il dir, che questa terraBenigna accolse il primo sudor mio,Ad onta del destin, che mi fa guerra.Riceva ognun ciò, che donar poss’io,Che certo io sono, e il creder mio non erra,Col vostro nome superar l’oblio.
Generali nozioni sulla mitologia
Or quantunque a prima fronte rassembri, che la scienza di quanto può mai presentar la Mitologia sia di nessun vantaggio, anzi non esente ancor da pericolo alla studiosa gioventù disposta a ricevere colle vere anche le false idee, degna perciò d’essere a ragion negletta, anzi che studiata ; pur tutta volta una tal dispregevole conclusione di leggieri non si efformerà da colui, che di questa scienza esaminerà più posatamente i vantaggi.
Ed in vero da qual’altro fonte attinsero i più rinomati artefici di ogni tempo le idee più belle, onde effigiare le più magnifiche opere atte a rapir chi si sia con lusinghevole invaghimento ? Da qual’altra scienza un uom letterato, ◀cui▶ si appartiene render ragione d’ogni cosa richiesta, attinger potrà i necessarii lumi per sviluppare quelle tante cifre, e misteriose figure, che in mille quadri, e tappeti trovansi alla divina foggia espressate ? Come potrà un giovane intendere con frutto le opere de’Greci, e Romani scrittori, ed in particolar modo quelle de’Poeti tragici, e lirici, se privi sono della cognizione di quelle favole, alle quali tali scrittori fanno ben spesso allegorie ? Come al fin aversi cognizione della Teologia, e Religione de’Gentili, se questa in buona parte è fondata sulle fantastiche idee de’più riscaldati Poeti ? Questi, ed altri mille sono i vantaggi, che risultano a noi dalle mitologiche cognizioni. E son questi forse per un’amator delle scienze frutti di poco conto ? Acquisti da disprezzarsi ?(1)
Contigit os, fecitque Deum, quem turba QuiriniNuncupat indigetem……
Parte prima
Degli dei maggiori
Cap. I.
Giove
Sonetto
O pi, e Saturno dier la vita a GiovePrimo de’suoi german cresciuto in Creta,Toccò nascente de’desir la meta,E diè di suo poter tremende prove.Il regno al Padre tolse in foggie nuove,Mostrò nell’ Etra alma possente, e lieta,Tien l’impero nel Ciel, tutto decreta,E solo il Fato al suo piacer lo. muove.Regge il folgor funesto apportatoreDi perigli, di affanni, e tristo fio,Egli è Duce, egli è Nume, egli è Signore.Rare volte mostrossi amico, e pio,Incusse ne’mortali alto terrore :Questo fù de’ Gentili il primo Dio.
Dichirazione, e sviluppo
Non godè egli però dopo tal divisione una lunga tranquillità nel suo Regno, perche più guerre a lui mosse lo tennero disturbato non poco, ed afflitto. Qui però parlerò soldi due le più principali, e del pari le più adatte a far conoscere chi propriamente il terribile Giove si fosse.
Gl’ albori a questo Dio dedicati erano il faggio, e la quercia, e tanto era il rispetto per questi, che si giunse pure a credere aver essi la facoltà di rendere oracoli, perche amati focosamente da Giove. Gl’ animali poi da svenarsi in suo onore erano bianchi bovi, da’ quali credevasi esser egli unicamente rapito. Circa le morali significazioni poi della favola di Giove, come delle favole degli altri Dei stimo tempo perduto, e fatica inutile investigarle ; mentre avendo molti immaginati più cose, sempre però dubbiose per ragion di folte tenebre attraversanti, è buon partito senza fissar cosa alcuna sù di ciò lasciar unicamente al lettore la libertà di seguire quelle opinioni, che maggiormente gli aggradono.
Cap. II.
Nettuno
Sonetto
I n mezzo all’onde gode il vasto RegnoIl Dio Nettuno, che dà legge al mare,Porta il tridente per mostrar lo sdegno,E ogni mostro marino al piè gli appare.Il diadema rëal gli forma il segnoDel vasto impero, e fra conchigliè rareErge il suo trono, e insiem possente, e degnoPer tutto il guardo suo terribil pare.Due Tritoni la guardia hanno del soglio,E se s’irrita il mar turba, e confonde,Ogni fiume il rispetta, ed ogni scoglio.Sorge talor da viscere profondeQuando brama mostrare il vasto orgoglio :Eccovi il Dio regolator dell’ onde.
Dichirazione, e sviluppo
… Tumida aequora placat.Collectasque fugat nubes, solomque redueit (1).
Non fù egli però contento degli innocenti piaceri di questo matrimonio, come neppure di due altre mogli, che successivamente si prese dette Venelia, e Salacia, credute un dì da Romani Dee destinate a menare, e respingere i flutti dal lido ; onde a somiglianza del suo fratelle Giove variamente cambiandosi a sfogar si diede i suoi affetti. Rapì quindi ed Ifimedia figlia di Triope, e la Ninfa Bisalti, e la moglie di Creteo detta Tiro, e Teosa figlia di Forco, e Beribea figlia di Eurimedonte, ed altre ancora non curandosi di avvilir la sua maestà si con tante indegne azioni, come col trasformarsi in diversi animali per giungervi. Queste strane metamorfisi però meritano di essere sotto silenzio trascorse.
Atque rotis summas levibus perlabitur undus; accompagnato da tutte le divinità marine, e preceduto da Tritoni,(1) che animavano le loro trombe con eco sonoro delle conche marine, innanzi a’ quali per rispetto del gran Nettuno si appianavano pacificamente le onde ; e poiche d’un tal cocchio Nettuno istesso pregiavasi essere il regolatore colla virtù del suo grave tridente, come cel descrive Stazio… Triplici telo iubet ire iugales, ne avvenne, che egli fù creduto ancora il Dio governatore de’ navilii, ◀cui▶ solo perciò ricorrere dovea ogni pilota semprechè nel funesto pericolo scorgevasi di divenire degli incalzanti venti, e delle agitate onde miserabil trastullo.
Cap. III.
Vulcano
Sonetto
V ecchio, zoppo, deforme, abbietto, e brutto,Ridicolo, bavoso, e sciagurato,Dal Ciel con sdegno spinto appena nato,Fatto per dare all’uom spavento, e lutto.A far säette crudelmente istruttoPar che dal suo destin fù dichiarato ;Giove per esso vien sovente armato,Perchè il mondo talor venghi distrutto.È questi quell Vulcan Nume abborrito,Che ebbe nel cor troppo impudenti voglie,E ad onta di ciascun si fe’ marito.Venere lo tradi nelle sue soglie,E allor si fù del rìo voler punito.Guai a chi è brutto, vecchio, e prende moglie.
Dichirazione, e sviluppo
Cap. IV.
Marte.
Sonetto
T erribil Dio alla pietà crudele,Nemico de’ mortali ogni momento,Che tien seguaci suoi ira, e spavento,Che si pasce di sangue, e di querele.Che attosca l’alma con continuo fiele,Avido sol di risse, e di cimento,Infausto a’ Regi, a’regni ognor tormento,Che corre il mar di sangue a piene vele.Fonte, e cagion di stragge, e di ruina,Autor di pianto per qualunque stato,Che l’uom più fiero a piedi suoi s’inchina.Dal mondo sol per lui fù il ben scacciato,E mentre a danni crudelmente inclinaIl flagello di Dio Marte è chiamato.
Dichirazione, e sviluppo
Ab hastae vibratione.Nominavasi finalmente Quirinus da quiris, che significa lancia, per ◀cui▶ i Romani si dissero Quirites dal lor fondatore Romolo creduto, come si è detto, figlio di Marte.
Cap. V.
Mercurio
Sonetto
A ligero, eloquente, furbo, e astutoCol caduceo in man, col piè veloce,Che vola allor che passa, e resta mutoQualunque nel parlar abbia pìù voce.Egli porta i precetti a Giove, e a Pluto,Turba colle sue frodi, e a lutti nuoce,L’alme a Caronte guida, e porge aiuto,Cerbero fa tacer benchè feroce.Speme a raggiratori, ed a mercanti,Desta, ed ammorza al cor ogni desio,Spesso s’usurpa ancor non propri i vanti.Scorre il cielo, e ne’ regni dell’obblioIl riso spesso fa mutare in pianti :Questo è Mercurio delle frodi il Dio.
Dichirazione, e sviluppo
….. Me mihi perfide prodis ?Me mihi prodis ait ? Periuraque pectora vertitIn duram silicem, qui nunc quoque dicitur index :
Tunc virgam capit hac animas ille evocat Orco :Pallentes alias sub tristia tartara mittit,Dat somnos, adimitque, et lumina morte resignat (1).
Cap. VI.
Apollo
Sonetto
C on bionda chioma, e con aurata lira,Con fiamma in petto, e con bel lauro al crine,Dovunque il guardo dignitoso Ei giraPer tutto splender fà fiamme divine.Scioglie il suo fiato le gelate brine,Ogni mortal il suo pote sospira,Ad esso intorno il globo ognor s’aggira,E toglie ogni vivente alle ruine.Cantor di versi, e curator d’affanni,Splendono a lui tesori eccelsi intorno,Chè la terra salvar Ei sa da danni.Fulge il suo carro di saffiri adorno,Nè invecchia mai per lungo volger d’anni :Eccovi il Nume apportator del giorno.
Dichirazione, e sviluppo
Magna petis Phoeton, et quae non viribus istisMunera conveniunt, nec tam puerilibus annisSors tua mortalis, non est mortale quod optas :
Ostinato però il figlio senza prestar orecchio ai giusti motivi chiese l’adempimento del giuramento già fatto. Ma che All’ accorgersi i cavalli della inesperta mano indocili scostaronsi dall’ ordinario corso, e minacciarono al mondo le sue estreme ruine. Il grido intanto di tutti gl’ enti atterriti ferì l’orccchio di Giove, e crucciato questi ben presto con fulmine rovesciò nell’ Eridano l’audace Fetonte, che morendo lasciò al padre in sua vece una novella eredità di tristi affanni, e dolori.
Cap. VII.
Giunone
Sonetto
G iunto a Giove germana eletta figliaD’opi funesta, che pur regna in Cielo,Che per l’ aria talor da noi si pigliaArbitra di procelle, e calma, e gelo.Pronuba delle nozze in bianco velo,Che a Lucina nell’ opre ella somiglia,Spesso geloso amor turba, e sconsiglia,E spesso lancia a donne infide il telo.Europa, Danae, ed Alcmene un giornoDestaron nel suo sen la voglia reaDi punir l’opre di fatal rio scorno.Essa è madre, essa è Diva, ed essa creaI fenomeni infausti al sole intorno :Costretta a lagrimar quantunque Dea.
Dichiarazione e sviluppo
Ast ego, quae Divum incedo Regina, IovisqueEt sorov, et conjux.
eppure ella lungi dal compiacersi delle sue fortune, e viver content per l’altezza del grado, da tumultuanti suoi affetti incessanemente travagliata nelle stesse sue grandezze videsi sempre angustiata, gemebonda, ed afflitta.
Cap. VIII.
Cerere
Sonetto
C olla falce, e col grano in fronte, e a piedi,Da strumenti rural cinta d’ intorno,Per ogni parte idolatrar la vediScorrendo ogni tugurio, ogni soggiorno.Sono i cultor del suo favor gl’ eredi,Ed o che cade il sole, o fà ritornoRegna ne campi, e all’ opre sue se crediNon verserai il tuo sudor con scorno.Anima della terra e di mortali,Tutto mostra il poter della natura,E salva il mondo dagl’ acerbi mali.L’uomo per essa ne travagli indura,L’augel per essa spiega allegro l’ ali.Cerere è questa onor d’ agricoltura
Dichiarazione e sviluppo
Prima Ceres unco glebam dimovit aratro,Prima dedit fruges, alimentaque mitia terris,Prima dedit leges. Cereris sunt omnia munus.
E par, che il nome stesso dice a tal proposito Cicerone chiaramente
l’addita :
Ceres dicitur quasi Geres a gerendis
fructibus, vel ab antico verbo Cereo, quod idem est, ac creo, quod
cunctarum frugum creatrix sit, et altrix.
Quaerenti defuit orbis, e la fortuna incontro di ritrovar sul lago di Siracusa il velo, che negl’amari contrasti scappato era dalle chiome della diletta sua figlia, e fatta quindi consapevole del tutto dalla ninfa Aretusa, sollecita volse indietro i suoi passi ad informarne Giove per l’opportuno riparo. Al sentire il gran padre le sue giuste querele cercò d’impiegare il suo braccio in soccorso. Ma poiche il destino decretato aveva poter Proserpina uscir da quel luogo nel solo caso, in ◀cui▶ gustato non avesse alcun frutto, perciò essendosi essa cibata di alcuni granelli di melo granato, giusta l’accusa di Ascalafo, cangiato perciò in civetta, non poteva da quel luogo mai più partire, e nel seno ritornare dalla afflitta sua madre. E cosi invero sarebbe avvenuto, se il sovrano consiglio degli Dei mosso più da motivi di affetto per la madre, che di giustizia per la figlia non avesse deciso, che sei mesi passasse Proserpina con Cerere sua madre, ed altri sei col suo marito Plutone.
Terque novas circum felix eat hostia fruges.Omnis quam chorus, et socii comitentur ovantes,Et Cererem clamore vocent in tecta ; neque anteFalcem maturis quisquam supponit aristisQuam Cererem torta redimitus tempora quercuDet motus incompositos, et carmina dicat.
Che l’Ostia poi, di ◀cui▶ qui parla il poeta sia stata una troja chiaro si
rileva da quel verso di Ovidio :
Prima Ceres avidae
gavisa est sanguine porcae.
Cap. IX.
Vesta
Sonetto
a rime tronche.
C on fiamma viva, che le splende al piè,Col volte pien di rigida virtù,Divinità spreg evole non è ;Anzi che i n lei non può cercarsi più.Di fiori ha un serto, che il gran Giove dièAd ella quando assisesi lassù ;Lei promette a donzelle alta mercè,Perchè più bella, e la più antica fù.Il suo rito scordarsi omai non può,E a chi lo conservò con fedeltàEccelsi premii di sua man donò.Questa moetra prudenza, e rarità,Questa i n Egitto, e in Roma un dì regnòLa Dea della gentil Verginità.
Dichirazione, e sviluppo
A fronte intanto di questa gran cura, che per tal Deità nudrivano religiosamente i Gentili, qual maraviglia fia, che non solo intieri, e distinti tempii, ma altari ancora costrutti vennero in suo onore eretti sibbene in tempii sacri ad altre Divinità ? Quale stupore se ne’ suoi tempii tanto era la compostezza de’ suoi adoratori, che anzicche essere animati sembravano insensibili statue alla presenza di Essa ? Qual prodigio se quelli rimossi per man di rispetto dalle vicinanze dei suoi altari, ben lungi da quei Sacri recinti con immota pupilla pregiavansi di vagheggiar la fiamma, che bruciava in suo onore ? Qual po rtento in sentirla invocata non con altri titoli, che con venerandi nomi di santa, di casta, e d’illibata matrona ?
Crebbe però oltre ogni uman credere per questa Dea l’ossequio, e vieppiù ne rifulse la gloria, qualora gran fiamma d’amore per essa si accese nel petto del religioso Nume II. Re de’ Romani. Ordinò questi ergersi in suo onore magnifico tempio in forma rotonda fra i due monti Palatino, e Capitolino per serbarsi quivi perpetuamente acceso il fuoco, e generoso privandosi dell’antica reggia, volle, che di essa un atrio si formasse da servire di soggiorno a quelle vergini, alle quali con special modo premeva il dovere di onorare questa Dea(1). Di tanto ci assicura Ovidio.
Hic locus exiguus, qui sustinet atria VestaeTuno erat intonsi regia magna Numae.
Cap. X.
Miverna
Sonetto
F orte, casta, possente, e gloriosaFù Minerva all’Olimpo un di mostrata,Dalla mente di Giove appena nataFù sapiente, e guerriera al par famosa.Nè del uom, nè de’ Dei fù mai la sposa,Solo ad opre sublimi dedicata,Ottenne e tempii, ed ara, e fù adorata,Perchè saggia, potente, e bellicosa.Non s’abbassa, non teme, e sempre forte,Non sa temer fortuna ancor funesta,E bella appar per lei l’istessa morte.Ella fiamme d’onor nell’alma desta,Ella rende gentil qualunque sorte :Figlia di Dio la gran Sapienza è questa.
Dichiarazione e sviluppo
Questa Dea inoltre perchè invaghita soprammodo del caro pregio della nobilitante castità, a severi castighi similmente assoggettò chianque avrebbe voluto annebiarle, benchè sol collo sguardo, il suo vergineo candore. E per qual altra cagione invero privato venne del prezioso lume degl’occhi l’infelice Tiresia, se non perchè un curioso sguardo lanciato avea verso di essa nell’atto di tuffarsi nelle fresche acque di Elicona ? E che altro significar volle quel cangiar in serpenti i capelli della bella Medusa, se non perchè erano stati essi la cagione, per ◀cui▶ l’appassionato Nettuno senza rispettare il sacro suo tempio ardi violarla ? E che altro fù il fulminar dall’alto ed infilzare a scoglio acuto nel più bel de’ suoi marittimi viaggi l’infelice Aiace di Oileo, se non perchè ebbe questi il temerario ardire di violar l’onesta verginella, e profetessa figlia di Priamo Cassandra rifuggiatasi nel suo tempio per soccorso, e salute ? Illustri esempii questi si furono, onde palesar ben chiaro quanto ella rapita venisse dalla amata sue castità.
Ægida, quae horriferam turbatae Palladis armaCertatim squammis serpentum, auroque polibantConnexosque angues, ipsamque in pectore divaeGorgona desecto vertentem lumina collo.
Cap. XI.
Venere
Sonetto
D el ciel figlia, e del mar possente, e bella,Madre d’ogni piacer, madre d’amore,Fonte d’immense grazie, e dolce ardore,Che in ciel non fù chi somigliasse ad ella.Febo, e Marte provar fatal quadrellaSol per costei, che dominò ogni core,Nemica di modestia, e di pudore,Alla sana ragion sempre rubella.Ogni bene, ogni mal da questa nasceCagion d’aspri perigli, e di dolcezza,Che di tosco, e di mel gl’uomini pasce.Cade per lei l’ingegno, e la fermezza,La teme, e adora l’uom fin dalle fasce :Triste, e grande poter della bellezza.
Dichirazione, e sviluppo
Non fia maraviglia se nel parlar di questa Dea regina delle grazie, e madre degl’amori, m’ingegno o col velo della modestia nascondere alcuni fatti più seducenti, o con castigate parole esporre il più essenziale. Dappoichè se per essa un di rompendo i bei legami della modestia si diadero gl’uomini a mille disordini deturpanti la loro stessa condizione, io non posso, ne debbo svelare quello, che nel seno dell’obblio merita essere ragionevolmente sepolto. I racconti di Piramo, e Tisbe, di Atalanta, ed Ippomene, di Paride, ed Elena, e di mille altri viziati stranamente ne’ loro affetti dal poter di questa Dea sono argomenti parlanti come della sfrontatezza di essa nell’agire, cosi di mia riserbatezza nel favellarne.
Ipsa Paphum sublimis adit, sedesque revisitLaeta suos, ubi templum illi, centunque SabaeoThure calent arœ, sertisque recentibus halant.
In Roma poi nelle Calende di Aprile celebravansi in suo o nore i Sacrifici detti Verticordia, acciò degnata si fosse, se pur era possibile, di allontanare le impure fiamme da cuori ; però altra vittima offrir non le si dovea, che la sola colomba da essa teneramente amata,(1) e tanto si credeva affrontata se si fosse altrimenti praticato, che cangiò una volta in tori alcuni popoli di Cipro, che ardirono sacrificare umane vittime in suo onore. Con maniere inoltre le più strane credevano le donzelle gentili specialmente le Babilonesi, le Sire, le Medi, le Persiche, le Lidie onorar questa Dea. A spese del suo culto, o ad edificazione di sue statue convertivano quell’argento, che colla perdita del proprio onore venivano vergognosamente a ritrarre ; anzi sacre a questa Dea dicevansi quelle, che a turpe meretricio erano totalmente rivolte, come quelle, che più da vicino ne sapeveno imitare le operazioni, ed i tratti. Tanto testifica Erodoto in Spec. Babyl. lib. 1. Omnibus mulieribus indigenis comune est semel in vita ad Veneris templum desidentibus cum externis viris consuetudinem habere… cum semel illic consederint domum non regrediuntur, nisi prius ab hospitum aliquo pecuniam acceperint, et cum eodem rem habuerint ; hospitem autem illum, qui pecuniam obtulit dicere oportet : tanti ego tibi Deam Mylittam implorem (sic enim Venerem appellabant Assirii) At vero pecuniam illam quantulacumque sit, non est fas reiicere ; siquidem in sacrum convertitur usum (1).
Cap. XIV.
Diana
Sonetto
L a Dea, che cacciatrice, e Vergin castaVenne chiamata, e insiem Diana detta,Allor che notte al viator sovrastaLuna nomata è in ciel bella, e perfetta.Negli abissi tien reggia orrenda, e vasta,Proserpina si dice, che vendettaSoltanto agogua Enea deposta l’astaIl ramo a lei sacrò di forma schietta.Cinzia vien detta ancor, come FebeaSuora del Sol, e l’uomo o veglia, o dormeCol raggio, e col poter inebbria, e bea.Fascele, e Delia perchè drizza l’ormeDell’uom col Dio di Delo, e lo ricrea :Questo è il poter della gran Dea triforme.
Dichirazione, e sviluppo
Non men però del suo onore, che di sua purezza fù molto gelosa Diana. E che altro infatti significar essa volle quando spedi un cignale terribile a desertare le Campagne del re di Calidone Eneo ? Il poco rispetto che ebbe questi per essa nell’escluderla dalle offerte delle primizie fatte a Cerere, Bacco, e Minerva, ne fù l’infausto motivo ; E perchè inoltre traforò con un suo dardo la lingua della infelice figlia di Dedalione Chione senza farle più articolar parola ? La temerità che ebbe di attaccar con disprezzo la sua beltà fù la cagione di tanta sventura. Lo dimostra con chiarezza nelle sue Metamorfisi Ovidio
… Se praeferre DianaeSustinuit, faciemque Deae culpavit. At illiIra ferox mota est, factisque placabimus inquit,Nec mora, curvavit cornu, nervusque sagittamImpulit, et meritam tra fixit arundine linguam.
Ierret, lustrat, agit, Proserpina, Luna, DianaIma, Suprema, feras sceptro, fulgore sagittas.
Gl’altri suoi nomi poi men bisognosi di spiegazioni trovansi di già compendiati nel suo soprapposto ritratto.
… In Eurotae ripis, aut per iuga cynthiExerct Diana Choros, quem mille seculaeHinc, atque hinc glomerantur Orcades, illaPharetram fert humero, gradiens Deas superminet omnrs (1).
Candida, quae semel est pro virgine coesa DianaeNunc quoque pro nulla Virgine cerva cadit.
Il tempio poi il più celebre fu l’Efesino fabbricato da popoli tutti
dell’Asia in 270 anni sotto l’architettura di Ctesifonte, annoverato fra
le sette maraviglie del mondo per la magnificenza del lavoro, per la
rarità delle colonne, per le ricchezze delle Statue, per l’ornamento
delle pitture ; si chè per esso Efeso abitacolo una volta de’Cari,
e de’Lelegi, e
quindi Colonia degli Ateniesi, e
de’Ionii si nobilitò a tale segno, che fra le Città della Ionia, dopo
Mileto, fu la più gloriosa, e potente Città :
Quis
enim hominum est
, così Demetrio,
qui nesciat
Ephesiorum Civitatem cultricem esse magnae Dianae, Iovisque
prolis
?(1) quale ammirabile tempio poi nel giorno, in ◀cui▶
nacque Alessandro fù incendiato da Erostrato anche esso Efesino preso
dallo stolto disegno di rendere immortale il suo nome ; e benchè
più volte fosse stato quindi rialzato, come testifica Plinio ; pur
al riferir di Capitolino ebbe a sperimentare le sue finali ruine per man
de’Goti crudeli devastatori dell’Asia.
Cap. XIII.
Destino
Sonetto
B endato vecchio in fiero trono assiso,Con atto grave, e in furibondo viso.Ogni avvenir dal suo poter deciso,Nè i desiderii del mortal previene,Sordo agl’affanni altrui, sordo alle pene,E tutto, che egli vuol tutto, è preciso.Libro eterno sostien con mano ardita,Sta quel che fia di qualsivoglia vita.Alcun non giunge al fatal tron vicino,Che all’uom da lungi la carriera addita,Nè val forza mortal contro al destino.
Dichiarazione e sviluppo
Fata regunt homines; ma il dispotico sibbene degli stessi Dei : onde in più luoghi i poeti ci descrivono le loro querele, non che i lamenti dello stesso Giove, così in Lucano :
Me quoque fata regunt.Da ciò intanto si fù, che disperando i. gentili di commuovere la inflessibile sua volontà non pensarono ad istituire sacrificii, ed offerte di qualunque sorta si fossero ; ma nel seno della stessa sua necessità mal grado il suo rango lo lasciarono infelicemente a giacere : mitto quod certum est, cosi un poeta, et inevitabile fatum, ed un altro :
Quid quid patimur mortale genusQuid quid facimus venit ex altoFatis agimur, cedite fatis (1).
Ed in vero se questo mal inteso effetto ha menato ne’tempi posteriori, e più illuminati alcuni miseri in diversi errori, fin ad addentare la provvidenza, la giustizia, e la esistenza stessa del vero Dio conchiudendo con Lucano
.… Sunt nobis nulla profectoNumina cum caeco rapiantur omnia casu,Mentimur regnare Iovem.
qual nodo più inestrigabile riuscir non dovea per gl’uomini di que’ secoli di tenebre, e di follie ? Essi non potendo conciliare colla veggenza de’lori Numi si incompatibili eventi, di leggieri s’indussero a credere tal’inevitabile fato. E par, che il ritratto istesso, che ne fecero più da vicino ci scnopra il loro ideato. E che altro vollero essi intendere col pingerlo tutto truce, e furibondo nel viso, se non perchè non era mai da piegarsi a qualunque siasi prece, e sospiro ? E che altro pretesero col pingerlo bendato, se non che la sola nccessità aveva nel suo governo per guida ? E che altro dargli nelle mani quel libro, ove scritte erano le sorti di ognuno, se non che ad onta di qualunque circostanza il tutto avvenir dovea, come appunto stava quivi descritto ? Vero è che i Dei avevano la facoltà di leggere in quel libro gl’eventi ; ma qual prò per essi, e per gl’uomini, se neppur un’apice potevano togliere da quegli indelebili caratteri ? La doglianza di Giove presso Omero di non poter evitare il destino, e campar da morte il figlio Sarpedone ne è un troppo chiaro attestato. Che se poi alcune volte leggiamo negl’antichi autori poter avvenire alcune cose oltre la volontà del fato, tali squarci si spiegano non pel fato detto il destino, ma per la forza, che in se serba la natura di produrre questo, e quell’altro evento di tale, e tanta durata. In tal senso infatti è da intendersi quel di Virg. Æneid. 4. Nam quia nec fato, merita nec morte peribat, non che quel di Cicerone in 1. Phil. Multa autem impendere videntur praeter naturam etiam, praeterque fatum.
Cap. XIV.
Saturno
Sonetto
C eppo possente d’una stirpe altera,Fabro d’ogn’avvenir, d’ogn’possanza :Il Nume è questo, che ogni Nume avvanza,La sua possanza un dì troppo severaPar che a figli togliesse ogni speranza,Ebbe primo nel ciel divina stanzaQuando formò de’ Dei la vasta schiera.Fer la moglie tremar, ma i suoi furoriFuro ingannati, e generò più figli.Perduto in Ciel il trono, e i primi onoriFra gli Arcadi salvossi da perigli,Donde piacque istruir gl’agricoltori.
Dichirazione, e sviluppo
Aureaque, ut perhibent , così ne parla Virg. Æn. 8. illo sub rege fuere
Saecula sic placida populos in pace regebant (1)
Singolari furono si nelle offerte, che nel modo di ofrire i sacrificii istituiti in onor di questo Dio. Egli perchè si deliziava non poco del sangue umano, perciò non altra vittima che umana gli si doveva sacrificare sugli altari, ove in memoria di aver un dì guidati gl’uomini dalle tenebre della ignoranza alla luce della verità erano candelieri con fiammeggianti lumi. Il modo poi da sagrificarsi le vittime dagli offerenti col capo non velato era la cerimonia in preferenza degl’altri Dei del tutto sua propria(1).
Aurea nunc revocet Saturni festa DecemberNunc tibi cum Domino ludere verna licet.
Cap. XV.
giano
Sonetto
D uplice aspetto in Maestà SupremaDimostra per donar leggi alla terraIl Nume della pace, e della guerra,Che sa riunir in lui speranza, e tema.Egli fa che il mortal vacilla, e tremaQuando le porte del furor disserra,E quando il sacro olivo innalza, e afferra.Ê cagion, che il mortal di più non gema.Accoppia in lui due ben contrarii affetti,La speranza, e il timor sostiene a gara,E li versa del pari in tutti i petti.Or dà contento, ed or la doglia amara,Ma grande è più fra due contrarii oggetti,E di pace il piacer da lui s’impara.
Dichiarazione e sviluppo
… dirae ferro, et compagibus arctisClaudentur belli portae : Furor impius intraSaeva sedens super arma, et centum vinctus ahenisPost tergum nodis, fremet horridus ore cruento.
Cap. XVI.
Genio
Sonetto
N udo, alato fanciullo, e cieco insiemeL’antichità dipinse il nume Amore,Signor dell’alme, e guidator del core,Fabbricator d’affanni, e insiem di speme.Per esso l’uomo or s’ingoraggia, or teme,Or s’innalza, or cade in folle errore,Or prova alto diletto, ed or dolore,Ora gioisce, ed or paventa, e geme.Tutti i seguaci suoi di pianti ei pasce,Gl’uomini, e i Numi a rea battaglia sfidaFlagello del mortal fin da che nasce.Cieco chi il siegue a precipizio guida,Egli è tormento all’uom fin dalle fasce :Folle colui, che a un Nume tal si fida.
Dichiarazione e sviluppo.
quid enim non vinceret ille ?Prevalse al fin contro l’Idra la chiave di Ercole, contro il Cerbero la Sibbilla, contro il Dragone Alcide, contro il Minotauro finalmente Teseo, ma chi scappò mai i micidiali colpi d’amore ? Lo scppe il cielo, ove inoltrando appena la incontrastabile sua forza, che già mosse a tumultuosa discordia tutti ad un tratto quei Numi, e se questi dopo maturo squittinio non avessero rilegato in terra un tal seducente Nume a fargli mietere quelle pene, che seminato aveva nel Cielo, non avrebbero al certo mai più acquistata la antica lor pace. In terra poi disceso questo velenoso germoglio di Venere radice assai più micidiale, ed infetta chi mai spiegar potrà le tante sue causate ruine ? Virtù non vi fù, che dal impetuoso suo soffio non fosse restata abbattuta ; mente non evvi, che da vezzosi suoi diletti non fosse rimasta infatuata ; cuore non mirossi, che da dolci suoi strali non fosse stato corrotto. Col tenero suo piede conculcò ogni altero ; con pargoletta mano tolse a Regi istessi la porpora ; e dietro al suo carro portò superbo incatenato ogni cuore. Quindi si fù, che in ogni tempo non mentitrice la fama assordò la terra, de’suoi impudici trofei. Ben dunque scrisse Ovid : nella lettera 9.
Quem non mille ferae, quem non Steneleus hostisNon potuit Juno vincere, vincit amor
E nel secondo de Art : volendo annoverare le triste macchie di tal crudelissima tigre dice :
Quot lepores in Atho, quot apes pascuntur in HyblaCerula quot Baccas Palladis arbor habet ;Littore quot Conchae, tot sunt in amore doloresQuae patimur multo spicula felle madent (1).
Da si barbari intanto, e tristi effetti di questo Dio Genio può oguuno legittimamente conchiudere con quanta sodezza, e maturo consiglio un dì parlava Giove, quando sul nascere di esso prevedendo le future disgrazie obbligar voleva Venere sua madre a disbrigarsi di un tal figlio appena nato. A questa quindi attribuir si deve la colpa, che per sottrarre al giusto sdegno del regnator dell’Olimpo l’amato suo parto, con gelosa cura lo nascose nei boschi, ove col latte di bestie feroci procurò allevarlo finchè giunto non fosse alla età di poter produrre i suoi effetti ; benchè per altro al vederlo Essa contro il suo genio perduto amante della giovanetta Psiche, la prima poi fù per voler del cielo a tracannare l’amarezza di frutto si infetto.
Cap. XVII.
Plutone
Sonetto
C on sette corna attorcigliate in fronteCon scettro rüidissimo, e pesantc,Con altissimo capo al par d’un monte,Che minaccia i mortali in ogni istante.Che cerca i danni altrui con voglie prontc,Che scnote il mondo al muover delle piante,Che versa ognor da lumi un tristo fonte,E sè stesso a soffrir non è bastante.Si cruccia, si addolora, e avvien che mordaI labbri spesso nel dolor caduto,E co’ mugiti il cielo e il mondo assorda.In svelar il suo duol non è mai muto,Apre la bocca ognor di sangue lordaPer bestemiare il ciel, eccovi Pluto.
Dichirazione, e sviluppo
Mio pensier non è nel favellar di questo infernale Nume con profusa penna esporre quanto dietro le tracce di Omero, e di Esiodo con bizzarre invenzioni fantasticarono di tratto in tratto i gentili sul Tartaro, e gli Elisii ; sul lor sito, ed ingresso ; su i diversi fiumi, e riviere adjacenti ; su’varii mostri, e larve quivi inabitanti ; e finalmente su altre moltiplici cose a quel tenebroso regno attenenti. Dal trattar tali materie il tenor di questo istituito mi respinge, e mi obbliga perciò a rimettere ad altri fonti i curiosi lettori. La sola esposizione del Nume Monarca con poche circostanze a lui più da presso appartenenti sarà per me unicamente l’obietto.
… Facilis descensus AverniNoctes, atque dies patet atri ianua ditis ;Sed revocare gradum, superasque evadere ad aurasHoc opus, hic labor est. Virg. Æneid. 6.
Cap. XVIII.
Bacco
Sonetto
F iglio a due genitrici almo, e possente,Col tirso in man di foglie coronatoSenza provar dolor scherza soventeCon due gran tigri, che gli sono allato.Conforto dell’afflitto, ed impotente,Vince per tutto, e pur non pugna armato,Ristoro della vita è nominatoCon mille varii altari in orïente.Amico di piaceri, ed allegrezza,Or timido, or ardito, or forte, or fiaccoSprezzator di tesoro, e di ricchezza.In danzc, e in feste non divien mai straccoEgli accende il sapere, e la bellezza.Arbitro d’ogni core, eccovi Bacco.
Dichirazione, e sviluppo
Cap. XIX.
Cibele
Sonetto
C olle torri sul crin superba, e forteSi mostra nel poter la Dea Tellura,Che tutti unisce i pregi di natura,E per essa il mortal teme la morte.Ella forma dell’uom spesso la sorte,Essa di dargli ogni contento hà cura ;Se manca il suo favor tutto è sventura,Chè il mondo regge con maniere accorte.Colla materna man sparge ogni bene,Di ciò, che vive ella si fà sostegno,E tutti toglie all’aspre, e acerbe pene.Non tradisce d’alcuno unqua il disegno,Nell’opre sue tutto sperar conviene.Chè dipende da lei dominio, e regno
Dichirazione, e sviluppo
Cap. XX.
Proserpina
Sonetto
T ruce in volto, e nel tratto aspra Regina,Che la sua possa dispietata impiegaContro l’abisso, che discioglie, e lega,E spesso avvolge in più fatal ruina.Perchè prigion la sua beltà divinaElla conosce il suo furor dispiega,E se al tartaro mai le luci piegaMaggior tormento il guardo suo destina.Quando a rapirla il fier Plutone si mosseElla per dimostrar la sua fermezzaLa lunga barba a pelo a pel gli scosse.E pur perder dovette ogni fierezza,E rimaner fra quelle orrende fosse :Anche tristo è il destin della bellezza.
Dichirazione, e sviluppo
Scorgendo impertanto l’addolorata Dea, che tutte le premure dell’afflitta Genitrice altro in tutto non le avevano potuto impetrare, che una dimezzata libertà, come cel descrive Ovid. Et Dea regnorum numen comune duorum. Cum matre est totidem, totidem cum coniuge menses. depose ogui altra novella speranza, e cedendo al sovrano volere rivolse il suo affetto per legge di sola necessità all’una volta odiato suo sposo : ma poi succrescendo di tratto in tratto l’a more divenne al fine di esso sì gelosa, che ravvisandolo con soverchia parzialità trattar colla figlia di Cocito per nome Menta ingelosita cangiò questa in erba dello stesso suo nome : onde così non avendo il marito con chi dividere gli affetti fosse ella sola del cuor di quello unicamente l’obbietto.
In diversa forma fù effigiata questa Dea. La rappresentarono alcuni in
triste atteggiamento di far resistenza alle furie del rattore Plutone, e
con alzate mani raccomandarsi alla pietà delle accompagnatrici sue
ninfe. Altri la pinsero in aria di maestà seduta al fianco di suo marito
su d’uu carro tirato da neri cavalli mostrando un gentil fardello di
narcisi, onde rammentar sempre la causa, e la circostanza, per
◀cui▶ sposa di quel Nume addivenne. Per
quest’ultimo segnale de’ fiori, ch’ella presenta con accigliata pupilla
presero occasione i Mitologi di dichiararla spogliata degli antichi
sensi di piacevolezza, ed urbanità, e tutta penetrata da sentimenti di
orgoglio, e di fierezza a tale segno, che nell’essere agitata dalle sue
furie aggiungeva stranamente tristezza a tristezza in quel regno di
lutto, e sepelliva quei miseri condannati in un abisso di raddoppiate
sciagure :
Imperitat furiis, et dictat iura Megera.
Prud. Aur.
In più nazioni diffuso era il culto di questa Dea. Il più speciale è da dirsi quello, che ottenne nella Sicilia sotto il titolo di fecondatrice della terra, e tanto era il rispetto, che quel popole nudriva per essa, che il giuramento dato in suo nome non solo era il più solenne, ma il più inviolabile ancora, sicche la sola morte, che vale a rompere ogni ligame, poteva esimere delle obbligazioni contratte in forza di atto si sacro.
Parte seconda
Delle divinita astratte.
C he la virtù madre, e uutrice d’ogui vero pregio, e grandezza meriti dagli uommi esser venerata qual Dea non v’è chi o stoltamente l’ignori, o sfacciatamente lo neghi. Le ammirabili sue qualità, ed i prodigiosi effetti che sotto le diverse sue specie ne’ mortali mirabilmente produce la fan conoscere, qual’è veramente, la ristauratrice fortunata dell’umana natura, degua perciò d’ogni ossequio, ed amore. Maraviglia dunque non fia, se la Gentilità delirante non potendo iu astratto, ingegnossi delinear sotto concrete forme di tal’avventurata madre le gentilissime figlie, onde così pel ministero degli occhi facendo passare al cuore più senibilmente le loro imagini vistose risvegliasse negli animi di tutti i più affettuosi sensi per esse, acciò rapiti in tal guisa dalla dignità del portento, lasciandosi manudurre da guide si belle potessero ad onta dell’umana fralezza ascender di leggieri all’alto monte della immortalità, e della gloria. Ma che il vizio poi degno sempre di vitupero, e d’infamia si per sua natura, che per le funeste sue conseguenze fosse stato da que’sciagurati al par delle virtù divinizzato ancor esso sotto le diverse sue forme, io al certo non l’intenderei se non pensassi, che non forza di amore, ma il timore forse di essere da tali mostri infelicemente assaliti dovè esser la infausta cagione, per ◀cui▶ per tenerli mai sempre lontani se ci mostrarono da vicino ossequiosi, ed amici. Siasi però come siasi proseguendo io le stolte loro tracce pingerò nella più aggiustata divisa insiem colle principali virtù anche i vizii, conchiudendo questa seconda parte colle descrizioni delle quattro stagioni dell’anno anohe esse un dì tenute in gran venerazione, ed ossequio.
Capitolo I.
Verità
Sonetto
C hi è mai costei, che eterna maravigliaDesta nell’alma, e l’incoraggia, e guida ?Chi è mai costei che ogni periglio sfida,E nel sembiante agli Angioli somiglia ?Chi è mai costei, che la ragion consiglia,Nuda del tutto, e in pochi cor s’annida ?Chi è mai costei, che ad un cristallo affidaLe proprie forme, e al retto sol s’appiglia ?Chi è mai costei, che da ciascuno odiataSe stessa a palesar giammai non resta,Costante più, quanto è di più sprezzata.Che del par lieta in calma, ed in tempestaFiglia del tempo, che l’aspetta, e guata.Sappi mortal, la Veritade è questa.
Annotazioni
Questa bella virtù, quanto degna in se stessa, altrettanto disprezzata da
mortali per cagion del perverso lor animo pingesi nuda per dimostrare la
sua semplicità, e schiettezza. Porta in mano uno specchio per additar,
che essa non può esser guardata, che da se stessa soltanto. Dicesi
figlia del tempo, che aspetta, perchè al solo tempo si appartiene
scovrir la verità, la quale, al par del sole, che può essere
intercettato, ma non mai suffocato dalle nubi, può restar per poco tempo
nascosta, ma non mai del tutto depressa, giusta la massima passata oggi
in proverbio :
Veritas nunquam latet.
Siamo
pertanto amanti di si bella virtù giacchè la sua nudità non deprava, ma
edifica, e preghiamo Dio ad infonderci un tale spirito colle voci dì
Davidde Ps. 118. Ne auferas de ore meo verbum
veritatis usquequaeque.
Capitolo II.
Innocenza
Sonetto
T enero lanciullino, ed impotenteIn largo pian cinto dall’erbe, e fiori,Presso un orrido Drago in lui non senteI soliti al mortal folli timori.Non, cura il rischio atroce a lui presente,Nè pur cangia del volto i bei colori :Dà il pan, che mangia in bocca al rio serpente,Quindi scherza con lui scevro da orrori,Ride all’altrui spavento, e assicuratoPalpar la lingua al crudo mostro pensa,E neppur vede il suo terribil stato.Mortal se vuoi di lui la conoscenza,Guardalo, e digli in cor addolorato :Di nulla sai temer bella Innocenza,
Annotazioni
Bene assai a mio credere si condottarono i Gentili nello adombrar il bel pregio della innocenza sotto le rappresentanze di un tenero fanciullo. E da chi altro mai, eceettuati i bambini con poche anime avventurate per la divina grazia, che le cinge, e sostiene, un tal candido giglio oggi illibato si serba ? Che poi il detto fanciullo si pinge presso orrido Drago, che con mano di amore del proprio pane alimenta, questo troppo chiaro ci scuopre, che la innocenza non sa temere perigli ad onta d’ogni sinistro accidente, giacchè al dir di Curzio lib. 6. Securitatem adfert innocentia. Sebbene però esule da mondani cuori ordinariamente ne vada la bella innocenza, bisogna pur non perderci di animo nelle comuni sventure, ma far, che siccome il disordinato affetto ce la tolse, un bel ordinato amore ce ne faccia fare nuovamente l’acquisto, oude conseguire la beata eredità, giacchè sta scrittu Psalm. 24. Innocens manibus, et mundo corde… accipiet benedictionem a Domino, et misericordiam a Deo salutari suo.
Capitolo III.
Giustizia
Sonetto
V ergine altera, taciturna, e chetaCon grave sguardo, e con sereno aspettoSenza sentir di tema il vil difettoSiede maestosa, e non è trista, o lieta.Due fanciulle ha vicino, ed alla metaDi gran disegno volge l’intelletto,Cura del tutto ognor si nudre in petto,Che alcun si accosti proibisce, e vietaNemica di tesori, e di ricchezzaSolo il giusto con essa al mondo giova ;Dà la mano agli oppressi, i forti sprezza.Spada, e bilancia ha in man, con questa provaScandagliare, e punir dritti sol prezzaGiustizia è scudo all’uom quando la trova.
Annotazioni.
Quella gran dote, per le quale sola, al dir di Cic. lib. 1. de off. vengono i mortali decorati col bel titolo di uomini dabbene è appunto la giustizia, mentre per essa non uscendo l’uomo dalla sua sfera sarà amico di ogni altra virtù. Vien essa dipinta in atteggiamento di Vergine maestosa er simboleggiare la sua incorruzione, e la sua libertà da alcun ligame non avvinta. Vien fiangheggiata da due fanciulle per indicare il suo scopo di mantenere intatta nei popoli le due amate sorelle la innocenza, e la pace. Mostra finalmente un sembiante non tristo, nè lieto per significar esser proprio di chi l’amministre accoppiar mirabilmente la severità alla clemenza. Essendo intanto la giustizia la base di ogni virtù sia ognuno amante di essa, ed operi sempre a tenore de’suoi dettati se non vuol trovar che temere nel dì de’suoi conti. Prenda dunque in buona parte quella massima dello Ecc. 18. Ante iudicium para iustitiam tibi, et in cospectu Dei invenies propitiationem.
Capitolo IV.
Pace
Sonetto
D onna, che vince i pregi di Natura,Che porta al crin serto di verde alloro,Versa a una man ricchezze a dismisura,Che fanno della terra ampio ristoro.Nell’altra man, che spinge all’uom sicuraPorta l’olivo con gentil lavoro,Ilare, grata, generosa, e puraPinge ne’gesti suoi gioia, e decoro.Dal Ciel, dal mondo tutto è venerata,Che accende al cor d’ogni piacer la face,E quanto più si asconde è più bramata.Di ben, di guadio fonte almo, e verace,D’arti, e di scienze sede appien bëataVera figlia di Dio quest’è la Pace.
Annotazioni
La pace serenità della mente, tranquillità del euore, vincolo di carità, gioia in somma della terra vien dipinta in atteggiamento di Vergine coronata d’alloro, perchè siccomo questa foglia non cangia mai colore ad onta d’ogni intemperie dell’aria ; così essa a scorno d’ogni sinistro accidente non fa provar disturbo a quel cuore che caramente l’alberga. Le ricchezze poi, che versa con una mano, e l’olivo, che porge graziosa coll’altra sono i simboli di quei veraci, e permanenti beni, che la stessa nel mondo sa mirabilmente produrre. Da tal riflesso almeno impari ognuno ad esser figlio di pace se brama essere figlio di Dio, giacchè sta scritto Matt. 5. Beati pacifici quoniam filii Dei vocabuntur.
Capitolo V.
Pietà
Sonetto
L eggiadra donna d’un gran monte in vettaSiede con dolci sguardi, e dolci modi,Gl’infelici tuttor chiama, ed aspetta,Occulta si palesa, odia le lodi.Dissipa i fieri inganni, e l’empie frodi,La sopìta virtù risveglia, e alletta,Geme all’altrui tormento, il duol rispetta,E al mesto prigionier discioglie i nodi.Regge un timon colla sua destra mano,L’altra sparge oro in questa parte, e in quella,E nulla cura il vil piacer mondano.Tien la cicogna a piedi, ed è sì bella,Che figlia sembra del fattor sovrano ;Questa è pietà della bontà gemella.
Annotazioni.
La pietà dolce istinto de’ cuori ben fatti pingesi seder su d’un monte
per indicare l’altezza, ◀cui▶ si sublima chi la pruova. Scorgesi reggere
un timone, perchè essa è nel mar della vita un’ abil nocchiere. La
cicogna poi, che fingesi tener stretta a suoi piedi manifesta ben chiaro
le pruove del naturale gentil suo genio nel carattere appunto di questo
uccello, che sempre più sollecito vive nell’allevare i suoi figli. Or se
è vero, che la pietà al dir di Cicerone 2. de orat. Offre segni di gran
lode :
Pietati summa tribuenda est laus.
come non
sarà poi degno di somma lode, e compenso al cospetto di Dio, e degli
uomini chi nel petto gelosamente la nudre ? Scolpisca ognun dunque
in mezzo al cuore la bella massima dell’Apost. 1. Tim. 4. Ineptas, et aniles fabulas devita : exerce autem
teipsum ad pietatem. Nam corporalis exercitatio ad modicum utilis
est : pietas autem ad omnia utilis est promissionem habens
vitae, quae nunc est, et futurae.
Capitolo VI.
Fedeltà
Sonetto
Con biondo crin cinto di verde ulivo,Con bianco ammanto una gentil donzella,Porta a una mano amabil tortorella,Seguitata da un can svelto, e giulivo.Tien nell’altra una picca, e l’occhio vivoPar che penetri il core, e in quel favellaNella semplicità par cosi bella,Che ti versa nel sen di gioia un rivo.D’essa l’imperio passa oltre la morte,Cade per lei qualunque pena amara,E dan dolce piacer le sue ritorte.Da leï ogni virtù mortale imparaQuesta che rende appien dolce ogni sorteE fedeltà che al mondo d’oggi è rara.
Annotazioni.
Molto espressivi sono i caratteri di questa bella virtù detta dal divin
Metastasio l’arabe Fenice. Essa si dipinge coronata di ulivo perchè la
sola fedeltà vince ogni ostacolo. Lattortora poi, che stringe nella mano
ed il cane che costane si tiene dietro i suoi passi son veramente i
simboli d’un’animo schietto e fedele. Che se finalmente d’una picca
armata si scorge tutto é per far fronte alla menzogna, ed alla calunnia,
che la vorrebbero conculcata, e depressa. Ma oh nostra confusione !
Questa bella gioia in quanti cuori ricetta ? Io nol sò ; sò
però assai bene, che Salomone nè Proverbii al 20 quasi sbalordito a tal
riflesso esclama :
Virum fidelem quis
inveniet ?
Capitolo VII.
Speranza
Sonetto
D onna vaga qual Sol dell’ali cintaFugace, ma la segue il mondo tutto,Sembra, che al ben d’ognun si mostri accinta ;Ma non ascolta mai querele, e lutto.Con una mano a ognun dona la spinta,Tien l’altra un vaso d’ogni umore asciutto,Tien nel volto la gioia appien dipinta ;Ma dà sol fiori, e si ritiene il frutto.Dalla culla alla tomba è all’Uom sostegnoPromette sempre negli avversi guai,A chi assicura un trono, e a chi dà un regno.Ma le promesse sue non compie mai,Speranza io veggo chiaro in ogni segno,Prima nascesti, ed ultima morrai.
Annotazioni.
La speranza vera fonte di vita, primo, ed ultimo conforto degli uomini pingesi qual vaga donna, che con una mano spinge ognuno ad ogni benchè ardua impresa ; perche la sola speranza fa, che vadino in nanzi, e proseguano costanti nelle loro opre i viventi. Quel vaso vuoto però, che nell’altra mano ella stringe oh quanto vale a disingannarci, mentre un tal simbolo troppo chiaro disvela, che essa molto promette, e poco, o nulla concede. Se è vero però, che solo chi in Dio spera non resta giammai confuso, giusta quel dì Davidde Psal. 26. in Domino sperans non infirmabor, impariamo a non riporre le nostre speranze negli uomini fallaci, ma sol confidare in quel Dio verace e che à suoi confidenti promette con infallibil parola il vero bene, e la gloria. Qui fiduciam habet mei haereditabit terram, et possidebit montem sanctum meum Is. 57.
Capitolo VIII.
Carità
Sonetto
F emina vaga con piangenti lumiVittima geme di fatal dolorePresso una rea prigion sembra, che muoreAncorchè invoca indarno vomini, e Numi.Versa dagli occhi ognor due caldi fiumiMentre geme tra ferri il Genitore,Stende le braccia a lui con dolce amoreCondannando del mondo i rei costumi.E per mostrar d’amor l’opra più bellaAl vecchio, che per fame è fatto un geloIn bocca dà la filïal mammella.Lo toglie a morte con sì nobil zelo,Mortal la mira, e dì a ciascuno è quellaLa carità, che sol si trova in Cielo.
Annotazioni.
Le doti di si bella virtù effigiata setto le sembianze di contristata donzella piangente alle carceri del disgraziato suo Padre, che col proprio latte nudrisce per prolungargli la vita son troppo note a chiunque hà letto nelle istorie romane un tal fatto. La esperienza poi, che molto chiaro si scuopre qual poco conto oggi si faccia di tal principale virtù è stata la ragione, per ◀cui▶ nella morale del sonetto si è conchiuso, che essa nel cielo soltanto riconosce il soggiorno. Quanto però s’ingannano i mortali sù tal fatto abbastanza rilevasi dalla necessità di tal virtù per ben oprare, essendo essa al dir di G. Cristo in S. Matt. 22. il cardine, ove poggia tutto lo spirituale edificio. Nudra dunque ognun nel cuore si necessaria virtù, ricordandosi sempre di quel, che scrisse agli Ebrei al 13. l’Apost. S. Paolo : Caritas fraternitatis mancat in robis.
Capitolo IX.
Providenza
Sonetto
V aga matrona di gentil sembianzaVersa da un urna un sempre egual ruscello,Che in ogni dì disseta e questo e quello,E l’onda sempre nel suo corso avvanza.Segna con verga il globo, e la possanzaPalesa dalla reggia al vile ostello,Ciascun l’invoca, ed essa in ordin belloNon inganna d’alcun mai la speranza.Providenza è costei, che fa serenoL’uom, che con essa ogni travaglio sfida,Chè il materno suo amor non vien mai meno.Madre, Nudrice, Condottiera e GuidaMiseri, e grandi tutti accoglie in seno,Nè sa tradir chi al suo poter confida.
Annotazioni.
La providenza ristoratrice delle pene de’mortali pingesi con urna, ed una
verga, onde ombreggiare i suoi benefici influssi. E non è forse
quell’urna, da cuì versa un sempre eguale, ed indeficiente ruscello atto
a dissetar nelle sue voglie ognuno il più espressivo, e sublime tipo di
sua beneficenza, e liberalità ? E quella verga, con ◀cui▶ segna il
globo non mostra evidentemente il vasto, ed universale suo governo ed
impero ? Or se tanto seppero ideare i Gentili, che poi, dobbiamo
noi dire della providenza di quel Dio, nel quale vivimus,
movemur et sumus. Aet. 17. Buttiam dunque con cuor docile nelle
sue mani le nostre sorti giusta la bella istruzione dell’Apostolo
Pietro :
Omnem sollicitudinem vestram proiicientes in
eum, quoniam ipsi cura est de vobis. 1. Petr. ?
Capitolo X.
Amicizia
Sonetto
D onna, che abbraccia un sempre verde alloro,Che alla sinistra mano ha un cor piagato,E un papiro le pende al manco latoEsprimendo nel volto alto decoro.Essa vince ne’pregi ogni tesoro,Ogni affanno da lei vien calpestato,Che per giovare altrui scorda il suo stato,Fonte inesausta di divin ristoro.Nemica d’interessi ognor sincera,Che la vera virtù regge, e conserva,Docile, giusta, nè mai truce, o altera.Questa sol può sprezzar sorte proterva ;Ecco l’emblema di amicizia vera,Che ognun la vanta, e che nessun l’osserva.
Annotazioni.
L’alloro, ed il papiro son veramente i caratteri della sincera amicizia : quello per indicare la incorruttibilità, questo per scovrire la stabilità de’suoi precetti. Ma chi oggi è fedele amico di si bella virtù ? Ahi ! Di quanti potrebbe dirsi quel di Salomone Prov. 20. Virum fidelem quis inveniet ? Se è vero però, che Dio non teme chi il prossimo con sincerità non ama al dir di Giobbe al 6. Qui tollit ab amico misericordiam timorem Domini relinquit, siamo amici di si bella virtù tanto da Dio inculcata per essere così amici di colui, che disse Ioan. 15 Vos amici mei estis si feceritis, quae ego praecipio vobis.
Capitolo XI.
Misericordia
Sonetto
D onna sublime con pietoso aspettoApre le braccia, e tutti al seno invita,Cento fanciulli accoglie al proprio petto,E la destra mammella indi l’addita.Quindi la preme con materno affetto,Con quel latte li dà novella vita,Al misero, all’oppresso, ed all’abiettoPorge benigna in ogni tempo aïta.Non paventa il rigore, i torti scorda,Nè per offesa mai cangia desìo,Nè in alcun tempo alle preghiere è sorda.Mortal odi chi è questa, e nel tuo fioDell’alta sua pietà sol ti ricorda,Misericordia è lei figlia di Dio.
Annotazioni.
La misericordia virtù veramente divina pingesi in figura di donna, che preme la destra sua mammella in bene degli altri, perchè con questa più abbondante di latte sogliono le madri allevare i più cari figliuoli. Lacnde qual sostegno de’miseri in Atene, ed in Roma venne con singular onore riguardata, e più tempii s’innalzarono in suo onore. Bella virtù ! Da questa deve farsi rapire chiunque brama prestare a Dio sacrificio accetto, e gradito, giusta quel del Ecc. al 35. Qui facit misericordiam offert sacrificium, e chiunque anela richiamarsi perciò tutte le grazie, e le benedizioni del Cielo. Qui sequitur iustitiam, et misericordiam inveniet vitam, iustitiam, et gloriam Prov. 21.
Capitolo XII.
Allegrezza
Sonetto
D onna gentil, che immota ognor si stà,Nè per stanchezza mai raffrena il piè,Serto rëal colla sinistra dà,E talor d’un pastor ne forma un Rè.Con la man destra un’ ancora poi fàFissare al suol, che mobile non è,Chi questo bel problema scioglieràScorgerà quello, che non trova in sè.Donzellette, e fanciulli in ogni dìEssa a se chiama quanti averne può,Ognùn ride, e con lei pronunzia il sìTal’emblema palese or io vi fò,Allegrezza è costei, che in me finìAmica de’ fanciulli, e a vecchi nò.
Annotazioni.
L’allegrezza dolce moto del cuore pinta venne sotto l’aria di giovane donna, perchè il sesso feminile nell’età verde è sempre lieto. Pingesi in atto di dare real serto, e di formare d’un pastore un Re, perchè un cuore allegro sembra esser maggiore degli stessi Monarchi. Porta finalmente l’ancora per denotar la gioia de’ naviganti sulle mosse di giungere al desiato lor lido. La migliore, ed unica allegrezza, che possa assaggiare un cuore non è, nè può essere quella, che risulta dal possesso de’ beni mondani, come quella, che sempre è mista col dispiacere, giacchè sta scritto Prov. 14 Risus dolore miscebitur, et extrema gaudii luctus occupat ; ma quella sibbene, che viene da Dio, onde Isaia al 6. diceva. Gaudens gaudebo in Domino, et exultabit anima mea in Deo meo. Quia induit me vestimento salutis, et indumento iustitiae circumdedit me quasi sponsum decoratum corona, et quasi sponsam ornatam monilibus.
Capitolo XIII.
Felicità
Sonetto
A ssisa in ricco tron vaga Regina,Col regio serto il caduceo sostiene,E dalla faccia amabile, e divinaSpirano di contento aure serene.All’altra man, che verso terra inchinaHà corno eletto, che ogni ben contiene,Labro söave, che al sorriso inclina,Sguardo, che cinge al cor dolci catene.Spirano i gesti suoi ogni dolcezza,La sua voce nel cor piacer rinnova,Tal che in lei stà riunita ogni bellezza.Ogni contento l’Uom per essa prova,Questa è felicità vera ricchezza,Che l’uom sempre ricerca, e mai non trova.
Annotazioni.
La felicità mostra per sua insegna il caducco, onde designare, che con quello essa raddolcisce, e quasi addormenta ogni male morale, e spesso ancor fisico. Addita inoltre il corno dell’abbondanza qual simbolo, che niente manca a chi è felice. Ma chi mai è felice ? Mille, mille cese diconsi da Scrittori sulla felicità ; ma di tutte una sola mi appaga, quello cioè esser felice, che a Dio fonte di felicità sol vive, ed in lui centro d’ogni bene soltanto confida, giusta quel di Davidde Psal. 143. Beatum dixerunt populum, ◀cui▶ haec sunt : beatus populus, cuius dominus Deus eius.
Capitolo XVI.
Fama.
Sonetto
G arrula donna, irrequïeta, alata,Che silenzio, e ritiro insiem abborre,Il mar, la terra, e il mondo tutto scorre,Onde l’opre d’ognun narra, e dilata.Il male, e il ben palesa ognor sfrenata,Dall’uno, all’altro polo a un punto accorre,Nè alla sua voce si può forza opporre,E quanto più si cela è più ostinata.Porta due trombe il regno, il tron, l’impero.Biasma, o decanta, e saper tutto chiede ;Benchè talor confonda il falso, e il vero.Fama è costei, che ognun le presta fede,I morti, e i vivi svela al mondo intero.E chi amica non l’hà spento si vede.
Annotazioni.
La fama, che veloce correndo dall’uno all’altro polo delle altrui azioni curiosa s’informa, e loquace favella essa fù creduta messaggiera di Giove, e sempre riconosciuta per annunziatrice indifferente della verità, e della mensogna, come simboleggiano le due trombe, che le adattarono alle mani. Essendo dunque così procuriamo di essere amici della fama non già coll’ergerle tempii, come dall’antica Roma scioccamente si fece ; ma sibbene coll’insistere sempre alle opere buone, acciò conscia essa del nostro ben fatto dia fiato alla tromba onoratrice, e renda nel mondo glorioso, ed immortale il nostro nome, memori di quel che scrisse l’Eccl. al 41 15. Curam habe de bono nomine ; hoc enim magis permanebit tibi, quam mille thesaurs pretiosi, et magni.
Capitolo XV.
Occasione
Sonetto
D onna nuda, ed alata il piè veloceRapida muove, si presenta, e fugge,Come Meteora, che le selve adugge,Passa come passar suole una voce.Crinita fronte porta, ed è precoceIl suo favor, che se al mortal mai sfuggeNon più ritorna, e l’uomo invan si struggeNel pentimento, e nel rimorso atroce.Porta un rasoio nella destra mano,Che tronca nel fuggir qual sia baldanza,Tien l’altra un velo, e l’alza in modo strano.Covre questo del bene ogni sembianza,Ecco l’Occasïon, che l’uomo invanoChe torni a voti suoi tien più speranza.
Annotazioni
Secondo la iconologia di Cesare Ripa, ed al parer di varii Scrittori l’occasione è dipinta con una crinita fronte, e tutta calva da dietro, onde ognuno avvertisse, che se ella fugge vano è tentar di afferrarla. Porta il rasoio, perchè con quello recide ella la speranza di colui, che incauto la lasciò scappare. Assai dì più mostra quel velo, che innalza, mentre con esso velando gli occhi fa sì, che l’uomo non ri accorga della occasione offertasi, e per tale ignoranza la perde. Essendo dunque così impari ognuno a non lasciarsi fuggir di mano le occasioni, che presentansi atte a promuovere i suoi vantaggi, e molto più quelli dello spirito, che unicamente importano, ricordandosi sempre di quel, che scrisse Isaia al Cap. 55. 6. Quaerite Dominum dum inveniri potest ; invocate cum, dum prope est.
Capitolo XVI.
Travaglio
Sonetto
R obusto atleta con sudori, e stentiNel foco, in terra, e in mar fissa la mano ;Or vicino tel vedi, ed or lontanoTra mille diversissimi strumenti.Or la penna, or l’aratro, ed ora a ventiDispiega i lini, e par, che il credi insano,Al mare, al fiume, al bosco, al monte, al pianoNon tragge mai da suoi sudor contenti.Rapido a questo, e a quel par che s’appiglia,Par che di tutto prende ei sol governoRatto così che fa inarcar le ciglia.Il nemico comune in esso io scerno,E se saper chi fia genio consiglia :Esso è il Travaglio all’nom compagno eterno.
Annotazioni
Il descritto atleta, che in mezzo a tanti laboriosi, e diversi esercizii incessantemente si aggira, e con dolore sempre si versa dà con tali attribuzioni la vera idea del travaglio eterno compagno dell’uomo per la sentenza contro lui fulminata dall’Eterno nell’Edem. Gen. 3. Sebbene però da tal ritratto chiaro rilevasi quanto per l’uomo penoso sia il travaglio, pur chi seriamente riflette essere il giusto travaglio al dir di Tullio lib. 1. de Orat. condecorato da mille premii, ed onori, invece di fuggirlo atterrito, intrepido, e con piacere ne sosterebbe l’amarezza per gustarne un tempo la desiderata dolcezza, giusta la frase dell’Apost. 1. Cor. 3. Unusquisque propriam mercedem accipiet secundum suum laborem.
Capitolo XVII.
Rimorso
Sonetto
U om scarmigliato, umil, tremante, oppressoCon una man si stringe un serpe in seno,Tien l’altra un nappo di letal veleno,Col qual cerca di dar morte a se stesso.Col guardo a terra timido, e dimesso,Non osa alzarlo verso il ciel sereno,Ogni raggio del Sol gli par baleno,Mira gemendo in tutto il proprio eccesso.Freme, lagrima, spia, fugge, e s’arresta.Fà la tema di lui fatal governo,Calma non prova mai tutto è tempesta.Se stesso abborre e fa di se reo scherno,Straccia il crin, morde il labro, e il suol calpesta,Ecco il Rimorso al cor verace inferno.
Annotazioni
Il carnefice più crudo, che dilacera l’uomo veramente è il rimorso. La
imagine di questo sventurato uomo, che stringesi un serpe al seno, e per
disperazione vuol abbeverarsi di quel mortale veleno, che serba appunto
in un vaso, onde compiere gli angustiati suoi giorni troppo chiaro ci
dimostra il rimorso chi sia, e con quanta ragione verace inferno si
appella. Se è vero però, che il vero rimorso è la funesta ricordanza del
male commesso attendiamo a tenerci lungi dalla causa se vogliam essere
liberi da effetto si triste ; altrimenti all’invano spereremo di
tenerci spediti da tormentatore si fiero, e proveremo coll’esperienza
con quanta ragione scrisse Davidde :
Fuerunt mihi
lacrymai meae panes die, ac nocte dum dicitur mihi quotidie :
Ubi est Deus tenas. Psal. 41.
Capitolo XVIII.
Collera
Sonetto
C on mezza veste orribile, e feroceAlata donna di colore ardente,Con sguardo acceso, e suffocata voceCinta nel seno da letal serpente.Il crin si strappa, e muove il piè veloce,Vibra crudo pugual con man possente ;La precede un lïon tremendo, e atroce,E al precipizio suo corre repente.Anela, geme, suda, e in modo stranoCerca di tutti far crudo macello,E morde per furor la propria mano.Mortal rifletti a un sì fatal modello,Se vuoi saper che asconde un tale arcano :Collera è questa di ciascun flagello.
Annotazioni
E chi non direbbe sufficienti ad indicare il gran malo della collera i surriferiti caratteri di vesta lacera, di colore ardente, di crine disciolto, e di altre strane sue attitudini ? Eppure i Gentili per meglio farne conoscere il danno la fecero precedere da un Leone, onde ognuno ravvisasse di quale eccesso è capace questa belva quando è stizzita, e quel pugnale, che con forte braccio crudelmente ella vibra non indica forse ben chiaro le mortali ferite, che apre essa nel cuore ? Se dunque tanti danni cagiona impari ognuno a non essere il flagello di se stesso rammentandosi in qualunque dura circostanza di quel, che scrisse Giobbe al 5. Virum stultum interficit iracundia.
Capitolo XIX.
Vendetta
Sonetto
D onna di truce volto, e guardo fiero,Che viperco flagello in man si porta,Feroce, alata in portamento alteroChe l’opre spïa cautamente accorta.Alza un’ardente face, e il mondo interoMentre che incende il suo furor conforta :Volubil ruota è a passi suoi di scorta,Ed un timon, che scorre il salso impero.Livida spuma il crudo labro versa,Opre orrende eseguir vola, e s’affrettaDi sangue intrisa, e di veleno aspersaMiser colui, che nel suo sen ricettaQuesta ad opre di sdegno ognor conversaIn odio al mondo, e al Ciel crudel vendetta.
Annotazioni
Il flagello di vipere, e la face accesa, che nelle sue mani stringe la
vendetta ben dimostra il crudo suo genio di distruggere quanto mai le si
para d’avanti. La ruota, che le guida i passi simboleggia la prestezza
del vindicativo nel compire suoi rei disegni, ed il timone dimostra, che
essa si aggira da per tutto in mare ed in terra perseguitando chiunque
l’abbia fatto qualche onta. Quanto poi sia questo mostro da evitarsi
basta il solo esempio dell’ Imperatore Augusto, che al dir di
Svetonio :
Nihil obliviscebatur praeter iniurias.
Questo fatto varrebbe a confondere ogni vindicativo, che per dar la
vinta alle sue passioni dietro si butta il comando là nel Levitico al 19
registrato :
Non quaeras ultionem, nec memor eris
iniuriae civium tuorum.
Capitolo XX.
Crudeltà
Sonetto
D onna tinta di sangue il volto, e il mantoSuccinta veste lacerata, e breveIrata in dossa, lago al piè di piantoScorrer si mira, come oggetto lieve.Spada infiammata alza di tanto in tanto,Dagli urli, e dal clamor gioia riceve,In ferreo vaso il proprio sangue beve,Il flagello, e il furor si porta accanto.Döunque mira cade l’uom distrutto,Segna tremenda ognor sanguigne l’orme,La seguono il dolor, la tema, il lutto.Cadono a piedi suoi diverse Torme,Ecco la Crudeltà, che atterra il tutto ;E fra i spenti da lei tranquilla dorme.
Annotazioni
L’effigiato ritratto della credeltà denigrante non poco la umana natura per la vivacità de’suoi colori bisogno non ha di spiegazione. Sol dunque aggiungo, che quella succinta, e lacera veste, di ◀cui▶ ella si ammanta simbolo è del bestial suo naturale, che laddove essa non può tormentare gli altri contro so stessa rivolge tutto lo sdegno e le furie. Da questa strana sua indole ammaestrata la più sana parte de’ Gentili si tenevano da essa non sol lontaui, ma fuggivano ancora chiunque le dava ricetto nel cuore. cum penes illam, cosi Val. max. lib. 9. sit. timeri penes nos sit odiss. Con maggior ragione noi dunque ne dobbiamo essere lontani leggendo n’e Prov. al ll. Benefacit animae suac vir misericors. qui autem erudelis est etiam propiuquos abiicit.
Cap. XXI.
Calunnia.
Sonetto
D i vaghe forme, e velenoso fiatoSorridendo si mostra una donzella,Cui dalla bocca spunta un serpe alato,Tanto terribil più, quant’è più bella.Da essa un Uomo ignuto è trascinato.Alza cinta di serpi empia facella,Entra per tutto, e cauta ognor favellaMa il suo parlar riduce a orrendo stato.Tarlo è la lingua sua, che il tutto rode,Raro la forza sua riman delusa,Culunnia è questa, che del mal sol gode.Della credenza altrui tiranna abusa,Tien suoi compagni tradimento, e frode,Compianger finge, e compiangendo accusa.
Annatazione.
Pingesi la calunnia sotto l’aspetto di bella donna, perchè bellamente s’induce nell’animo di chi l’ascolta, e per tal cagione poi un serpe si mira escirle di bocca. L’uomo ignudo che seco trascina è l’emblema dell’infelice calunniato. La face cinta di serpi descrive il guasto, che nelle famiglie essa induce. Compiangendo si dice, che accusa, perchè è suo proprio vestire col manto della compassione per ottenere più facilmente l’intento lo sventurato calunniatore, il quale perciò sovente muore nella sua iniquità, giusta quello di Gech 18 Quia calunniatus est, et vim fecit fratri suo ecce mortuus est in iniquitate sua, impari ognuno ad abbominar tal mostro, se vuol essere amico di quel Dio, che per Geremia al 7. così si protesta : Advenae, et pupillo, et viduae non feccris calumniam, et habitabo vobiscum.
Capitolo XXII.
Mensogna.
Sonetto
A udace, zoppa, vecchia, mascherata,Che il suo deforme in ricco ammanto cele,Porta una benda in man, che gli occhi velaLe opre d’ognuno cautamente guata,L’altrui virtù come delitti svela,Par, che teme, ed ardisce, suda, e gelaMentre il suo gran poter cresce, e dilata.Corre per tutto, e ricompensa brama,Il labro scioglie, e pronta ognor favellaIl mal di tutti, e’l proprio ben sol’ama.Sembra al primo apparir söave e bella,Ma se mai verità la pugna, e gramaFugge atterrita, e allor non è più quella.
Annotazioni.
Molto espressive sonò le caratteristiche della mensogna. É essa audace perche tal è il mentitore : è zoppa, perchè soppiantata dalla verità : è vecchia, perchè nacque col mondo nella bocca dell’antico serpente nell’ Edem : è mascherata, perchè nascosta sotto le divise della verità : e quella benda, con ◀cui▶ covre gli occhi de’creduli è il primo, e vero segnale del mentitore. Essendo però il proprio nemico dell’anima sua il mendace, giusta quello della Sap. 1. Os, quod mentilur occidit animam preghiamo sempre Dio a tenerci lontani da si abominevole vizio colle parole di Salomone : Vanitatem, et verbum mendacii longe fac a me Prov. 20.
Capitolo XXIII.
Frode.
Sonetto
C on volto feminile un drago orrendo.Sorriso mostra nella fiera bocca,Ma mentre ride acerbi dardi scocca.Insidioso, orribile, e tremendo.Le vere effigie sue va nascondendo,E seduce talor la gente sciocca,La biforcuta coda alcun se toccaVittima del velen cade gemendo.Molto gira, e ritenta iniqua impresa,Spesso s’inoltra, e simular gli lice,E solo il tempo i falli suoi palesa.Costei, mortale, è d’ogni mal radice,Frode è questa, che tien la rete tesa,E chi la scampa si può dir felice.
Annotazioni.
Non mal si apposero i Gentili nell’esprimere la frode mercè la immagine d’un drago, che nascosto l’orribil sembiante sotto le dolci divise di avvenente donzella gl’incauti, e mal accorti barbaramente seduce. E qual figura in vera di questa più espressiva per indicar la rea qualità de’ fraudolenti, che con bel garbo, e dolci lusinghe eseguono i loro infernali disegni ? Se è vero però, che le labbra ingannatrici son l’abbominio di Dio Prov. 12 22 impari ognuno a tenersi lontano da eccesso si grave, memore di quel precetto registrato nel Levitico al 19. 11. Non mentiemini, nec decipiet unusquisque proximum suum.
Capitolo XXIV.
Discordia.
Sonetto
Tremenda donna di fatal coloreCon chioma agguernita di più serpenti,Colla bocca spumante, e guai ardenti,Stragge, e rüine annunzia in tutte l’ore.Porta un mantice in man, che desta ardore,Ed un flagel per fulminar le genti,Vaga sol di querele, e di lamenti.Nè l’averno contien furia peggiore.Corre per tutto, ed infiammar procuraPopoli all’armi, che crudel li desta,Vaga solo di pianti, e di sventura.Da troni alle capanne accorre presta,Tutto rivolge, e a danni ognor s’indura :Trema mortal, che la discordia è questa.
Annotazioni.
Chi non orridisce al ritratto di questa furia d’Averno ? Il viperino della sua chioma, il fiammeggiar de’suoi occhi, lo spumar de’suoi labri fan veramente orrore. Del mantice ella la iniqua donna fa uso per muovere gli affetti allo sdegno ; del flagello si serve per aizzare contro uno l’altro uomo ; vera madre d’iniquità ! Noi adunque, che figli siamo di quel Dio, che al dir dell’ Apost. 1. Cor. 14. Non est dissentionis Deus, sed pacis spingiam sempre lungi dal cuore tal mostro, memori di quella triste conseguenza descritta dal mentovato Apostolo a’ Galati al 5. Si invicem mordetis, et comeditis : videte, ne ab invicem consumamini.
Capitolo XXV.
Povertà
Sonetto
G rama, dolente, e priva di confortoVecchia donna su sterpi urlando siede,Lacera, e nuda äita a tutti chiede,E fremendo si duol del proprio torto.Non spera mai dalle tempeste il porto,Dalle porte d’ognuno or parte, or riede,Stender la scarna mano ognor si vedeCon labbra inaridite, e viso smorto.Dell’altrui ben si mostra appien nemica,I ricchi abborre, e li minaccia a tergo.Inerte fugge qual si sia fatica.Spada non trattò mai, ne vide usbergo,Ecco dell’uomo l’avversaria anticaMiseria, che in abisso hà il proprio albergo.
Annotazioni
Sotto le sembianze di questa afflittissima donna rappresentasi la povertà, onde chiare s’intendano le triste sue conseguenze ; le altre caratteristiche poi, che l’accompagnano son la chiara divisa della pigrizia proprio difetto de’mendici. Dicesi aver sede nell’ Inferno, perchè quivi a poeti piacque collocarla. Vorrei però, che l’odioso ritratto non ci spinga o a mal soffrire la povertà, che al dir del Crisost. serm. 18. sup. ep. ad Haeb. è la bella conduttrice del Cielo, o a disprezzare i poveri molto cari a Dio, giacchè sta scritto Prov. 20. Qui despicit pauperem probro afficit factores eius.
Capitolo XXVI.
Morte.
Sonetto
B atte con passo egual qualunque porta,Corre velocemente, e non s’affretta,Della mano di Dio spesso è vendetta,E i miseri talor strugge, e conforta.Per tutto spïa cautamente accorta,Rango, bella, saper non mai rispetta,Tremenda giunge quando men si aspetta,Immensi danni, e rari beni apporta.Sorda, cruda, spietata, e senza legge,In pace, e in guerra d’atterrar non resta,tien soggetti dal pastore al regge.Entra dovunque, e non è mai richiesta,Il tutto annienta, e pur l’uom non corregge :Necessaria, e fatal la morte è questa.
Annotazioni
La descritta imagine della morte bisogno non hà di spiègazione. L’universale suo impero su tutti gli esseri viventi, l’impreveduto suo arrivo, le triste sue conseguenze sou troppo chiaramente dipinte. Se però è vero, che la morte è conseguenza della vita, impari ognuno a ben vivere, acciochè ben muoia, mentre la morte allora invece di togliergli la vita gliela fa cambiare in migliore secondo quello, che stà scritto Sap. 4. Justus si morte pracoccupatus fuerit, in refrigerio erit.
Capitolo XVII.
Primavera
Sonetto
D i fiori ornata una gentil donzella,Col vago sguardo, e l’allegrezza in viso,La rosa, l’amaranto, ed il narcisoOrnan la chioma sempre bionda, e bella.Sul manco braccio tien la tortorella,Tien lo sguardo alle stelle intento, e fiso,Corre, ne par tener camin preciso,L’usignuol la precede, o rondinella.Nascon sotto a’suoi passi erbette, e fiori,Sorride al suo venir l’alma naturaMitigando del sole i gravi ardori.Al mare, al fonte, al rio beltà procura,Madre, e nutrice d’innocenti amoriPrimavera de’ Dei sublime cura.
Annotazioni
L’apporre note a questi quattro Sonetti rappresentanti le stagioni dell’anno è lo stesso, a moi credere, che far un’ingiuria a leggitori. I diversi effetti, che esse partoriscano alla natura son cosi vivamente descritti, che bisognerebbe occhio non avere per non ravvisarne i sfavillanti colori. Li riffetta ognuno con avvedutezza, e poi son sicuro, che qualora voglia far dritto alla verità ne approverà pienamente il disegno.
Capitolo XXVIII.
Esta’.
Sonetto
M atrona eccelsa di sembiante accesoDi più spighe diverse coronata,Di lumi ardenti, e in tutto è circondataDi frumento or cadente, ed or sospeso.A gran cure il pensier tien sempre inteso,Fà crescere il calor dovunque guata,Da gran stuol di formiche accompagnata,Porta la falce in man col braccio teso.Di mille insetti l’aria intorno é piena,Tien la cicala stridolante in testa,Sembra del par feroce, e insiem serenaFà la gioia de’ cambi, ed è funestaOve si volge par, che il ciel balenaPremio, e tormento all’uom l’estade è questa.
Capitolo XXIX.
Autunno.
Sonetto
U omo di età viril di mosto tintoCoronato di foglie, e varii frutti,Mille augelli al suo piè si tien ridutti,Coll’ uve in man di mille tralci cinto.Alla gioia, e al piacer sembra sospinto,Gli affanni da sua man sembran distrutti,Crescon per esso i fiumicelli asciuttiIn atto di danzar col crin discintoMille turbe diverse a lui d’intornoAlzan le voci, e ognun l’ama e l’onoraEi fa più breve, ma più dolce il giorno.Il mondo tutto la sua possa adora ;Invoca ognuno ansioso il suo ritorno,Perchè egli sol sà unir Pomona, e Flore.
Capitolo XXX. ed ultimo.
Inverno.
Sonetto
T remante vecchio colla neve al crine,Con l’ammanto nevoso, e’l bianco mentoSpira da labri il gel, la brina, il vento,E sembra dell’ età star sul confine.Cerca le fiamme, e benche l’ hà vicine,Par, che da lor non puote aver contento,Avido un pan divora in un momento,E par di minacciar sempre rüine.Corrono gonfii fiumi a lui da presso,Sembra coverto il ciel da buio eterno,Ne par, che sïa il respirar concesso.Fa il vento delle piante orribil scherno,La quercia, il faggio, il pin non è l’istesso,Il nemico dell’uomo ecco l’Inverno.
In lode della cristiana religione

Canto.
D ove trascorse il mio ferace ingegnoTroppo fra folli sogni io deliria ;Su prendiamo un camin dell’ uom più degnoLungi greche follie tacete omai.E se sotto un’oscuro, e denso veloGiace la verità sempre nascosta,Più bello è il Sole allorche irraggia il cieloSenzacche nube è allo splendor frapposta.Cosi di Religione il sacro ammantoCome uno specchio i falli appien palesa :Dunque si lasci il vil profano canto,Essa, che nel mortal sempre favella,Che gli solleva, anzi incoraccia il core,Che fra perigli suoi parve più bella,Perche figlia gentil del crëatore.Essa qual nave esposta a mille ventiScorse senza timor il salso impero,E sicura affrontò mille cimenti,Perché il braccio del Nume avea nocchiero.Ella trionfò tra mille, e mille affanniSenza mai vacillar ne’ suoi consigli ;Ella fè impallidire i rei tiranni,E sotto l’umil manto ascose i figli.Ella fece spezzare i brandi, e gli archi,Gli eserciti cader lei fece oppressi,La gloria, ed il terror fù di MonarchiFra suoi trïonfi generosi, e spessi.Del fanatismo fù la vincitrice,E insiem superstizion vinse, e conquise,Dell’innocenza fù guida felice,E gli increduli rei depresse, e uccise.Nel sangue giusto sollevò il suo trono,Che fu del soglio suo primo ornamento ;Ma da quel sangue poi scoppiò quel tuono,Che formò dei tiranni il reo spavento.Come suole apparir tra nubi il Sole,Tal’ essa apparve fra tempesta, e guerra,E col vasto poter di sue paroleSpesso fece cangiar volto alla terra.Non paventò di mille mostri a fronte,Tra fiamme non mancò la sua costanza,Aperto sempre di sue grazie il fonteDe’miseri innalzò fede, e speranza.Fra monti, ne’deserti, e in mezzo all’acquè,Fra boschi, fra le fiere, e negli orroriSpesso abitar senza timor le piacqueTogliendo al cor devoto i vil timori.Finchè arrivata a incomprensibile araFece apparir le sue virtù più note,Ivi appari la forza sua più chiaraFatto vittima un Dïo, e Sacerdote.Ivi le fiamme sue cotanto estese,Che aperse all’ uom de suoi tesori il regno,Ivi la verità ciascun comprese,Ivi fù l’uom di maggior gloria degno.Ivi l’alme si fer più ardite, e pronte,Ivi da esempio tal sprezzar la morte,Trono innalzò sù quel felice monte,E da colà stendendo i vanni suoiTutti raccolse i vacillanti figli,Gìunse senza timor ne’ lidi EoiTroncando del delitto i crudi artigli.Coll’ opre, cogli affetti, e con favella,Col voler, col saper, co’ suoi costumiTanto fece avvanzar la navicella,Che obice non le son nè mar, nè fiumi.Senz’asta, senza brando, e senza scudoSeppe sempre trionfar sol colla voce ;Anzi esponendo all’armi il petto ignudoVide ammanzir l’orgoglio il più feroce.Addio favole, e sogni, addio chimereAltro splendor m’irradia oggi la mente,Per esso io spazio tra le immense sfereQuel che fia, quel che fù tutto hò presente.Anzi per esso a chiare note io veggoCader le penne, e i fogli calpestati,A chiare note i gran deliri io leggo,E i falsi dotti al suol vinti, e prostrati.L’opre fallite, i desiderii astretti,Cangiati i sensi, ed il parlar deriso,Farsi innocenti i più mordaci affetti,E impallidir d’ogni superbo il viso.Santa religion tu quella seiChe fai tremar chi sol negarti ardisce,E mentre chi ti adora inebbri, e beiUn sol tuo sguardo il malfattor ferisce.Si squarci pure il suol, apransi l’onde,Si sconvolghino i Cieli, e gli ElementiReligïon non manca, o si confondeSicuro porto ai giusti, e agli innocenti.Ne manca, ne mancar può in lei possanza,Nè puossi il suo valor porre in oblio,E allor vacillerà la sua speranzaQuando Dio può cessar di essere Dio.
Parte terza
Delle istituzioni poetiche
L a poesia prima fra le arti belle, al dir del melanconico cantor della notte, insiem col mondo vanta a sua gloria l’antichità di sua cuna. Quel comune progenitore invero, che all’ opinar di più scrittori compose ben sei cantici per piangere il commesso suo fallo, ed ottenerne dall’offeso suo Dio indulgenza, e perdono può essere di tal verità il più luminoso attestato. E da chi altro poi, se non dal lor padre l’esempio appresero tanti ben nati figli di magnificar colla poesia le lodi dell’ eterno Fattore ? Quindi un Mosè, un Giosuè, un Davide, un Salomone, un Ezechia, un Tobia, e tanti altri, non che fra le donne istesse una Maria, un’ Anna, una Debora, una Giuditta par che altro mezzo non riconobbero, onde svegliare sempre più sensi di tenerezza, ed affetto nel cuore del gran Dio d’Israello se non diversi cantici comporre con divoti affetti in suo onore. Qual meraviglia fia poi se rapiti oltre modo dalla celebrità di quest’arte i popoli orientali a tal segno n’esaltarono i pregi, che non dubitarono concederle finanche il potere di animare i sassi, commuovere le selve, ammanzire le fiere, e quel, che è più abbatter finanche le stesse deità infernali ? Svolgansi pure le istoriche tradizioni, e quivi con occhio di stupore si ammireranno le bravure dell’ammirabil possa di quest’arte. Per essa più popoli spogliati gli antichi loro selvaggi costumi furono felicemente tradotti ad un tenore di vita più civilizzata, e più culta. Per essa asseguirono la loro subblimità i Druvidi, le loro celebrità i Bardi, le magnanimità loro i Cultei. Per essa nella republica letteraria han vita tanti Eroi un dì nascosti nel tenebroso seno del obblio. Per essa vivono alla immortalità quanti per le scienze, o per le arti nella umana società si distinsero. Per essa finalmente, che suol dare anche corpo all’ombra, vita al nulla al soglio siede delle più alte magnificenze o chi forse all’esistenza mai non comparve, o chi di tante doti, quante essa l’accorda non mai fù fregiato. Aveva dunque ben ragione di piangere alla tomba di Achille Alessandro il Macedone, perchè la fortuna a quel eroe concesso aveva un amico in vita, ed un cantore in morte. Laonde fuori ragione certamente non è l’encomio, che le nazioni tutte con unanime consenso danno alla poesia chiamandola il lustro de’ Regni, la gloria de’ Monarchi, l’apologista de’ Conquistatori, lo splendor dell’ età. E tolgasi pure, o almeno si ecclissi nel cielo delle umaue cognizioni un astro si bello, dove è più nella eloquenza la grazia, la persuasiva ne’ pergami, il convincimento nei fori ? Ecco ad un tratto senz’acume l’intelletto, senza fuoco la fantasia, ed il cuore senza quei dolci, e diversi palpiti, che sà svegliare la sua possa. Persuadasi perciò chiunque s’inizia nelle scienze, ed ardisce penetrar nel santuario della dottrina, che senza la scorta di arte si nobile, che per lui è il filo di Arianna nel laberinto dì Creta, egli non vi si inoltrerà giammai. Scorrasi pure dal Indo al Moro, dagli abitatori del Gange sino a’ Cretini delle Alpi, che non senza ragione si ammira il bel genio di que’popoli di contentarsi essere ignoranti in ogni altro genere di scienze, o di arti fuorchè in quello della poesia. La sola dissertazione di Ugo-Blair ne carmi di Ossian farà convinto ognuno dì tal verità. Essendo dunque non solo di diletto, ma sibbene di grande utile, e necessità alla gioventù studiosa la poesia, ecco ben espressato il motivo, che mi spinse a trattarla, esponendone però non solo teoricamente i precetti (lo che meglio di me da molti maestri in quest’arte si è fatto) ma sforzandomi di ridurre quelli alla pratica con molti diversi, ma adattatissimi componimenti in esempio (della qual cosa assai più importante le altrui poetiche istituzioni son manche) onde cosi additando a’giovani e del Parnasso il sentiere, ed animandoli del pari a tenersi dietro le mie orme, quasi versando d’accordo, e confondendo insieme i necessarii sudori pel disastroso viaggio, potessero un dì quivi finalmente arrivati essi congratularsi con la guida, e la guida del pari con essi a comune esultanza. Pria però di venire all’ esame degli obbietti proposti ogni ragion vuole, che della materia poetica, non che delle sue disposizioni dicasi almen generalmente qualche cosa.
Cap. I.
Della materia, e del modo di disporsi.
La poesia al par della elequenza, certa e determinata materia non mai riconosce, quindi come questa assoggetta al suo impero ogni cosa, così quella sopra di tutto estende ampiamente i suoi vanni. Est finitimus Oratori poeta così Cic. lib. 1. de Orat. nullis ut terminis circumscribat, aut definiat ius suam, quo minus ei liceat vagari quo velit. Di qualunque cosa però voglia un poeta cantando ragionare, il suo poema o lungo, o breve che sia di queste tre parti Esordio cioè, Narrazione, e Conclusione dev’ essere necessariamente composto, mentre senza proporre, sviluppare, e racchiudere le sentenze un ragionato discorso unquemai non si efforma. Ed ecco perciò il bisogno di conoscere con distinzione queste tre parti, per poterle quindi con felicità maneggiare.
1. L’Esordio poetico però non è quell’ampia preparazione solita a farsi dagli Oratori non senza industria, ed arte, onde conciliarsi l’attenzione, e la benevolenza di chi ascolta ; ma sibbene una ben adatta maniera di proporre l’argomento del poema ; onde è che da più scrittori il proemio poetico dicesi con stretto linguaggio Proposizione. E qual altro esordi o invero prepose l’epico latino alle sue Eneide ? Quale alla sua Gerusalemme il cigno toscano ? Della nuda, e semplice proposizione sì contentarono entrambi. Un tal esordio però qualunque siasi semplice, o trascendente dev’ essere sempre corredato della sua brevitâ, e chiarezza, acciò dagli uditori, oppur lettori tutto nella sostanza il poema sia ben capito, ed accolto ; altrimenti annoiati essi dalla lunghezza, e travagliati dalla oscurità fin dal principio, quali altri buoni effetti lice sperar dagli stessi in prosieguo ?
Suole altresì dopo la proposizione invocarsi da poeti qualche Nume in
soccorso ad esempio di Virgilio, che nel 1 delle Georg. Si rivolse ad alcune
Deità dicendo :
Vos o clarissima mundi lumina
, e nel
1. dell’ Eneide invocò la Musa :
Musa mihi causas
memora.
Badi ognuno però, che se il canto è sagro lungi dal
profanarlo con siffatte invocazioni lo decori con invocare Dio, Maria, i Ss.
o quel S. in particolare, ◀cui▶ il poema è sagrato. Nè s’ induca ad imitar di
leggieri il degnissimo per altro Iacopo Sannazzaro, che nel poema de partu Virginis, con poca avvedutezza, si rivolse ad
Apollo, ed alle Muse. Ma diamo omai un’ occhiata alla narrazione.
2. Il più sollecito impegno di chi s’accinge a comporre un canto, un poema, in questa parte deve singolarmente risplendere, perchè in essa piuchè nelle altre apparir debbono quei colori, pei quali rendesi la poesia, qual veramente ella è, una parlante pittura. Or acciocchè tal sia, specialmente nell’ epica, la narrativa, in essa campeggiar deve tutto il bello dell’ arte. Quindi quanto di nobiltà vantar possono i sentimenti, quanto di vivacità le descrizioni, quanto di arditezza le espressioni, quanto di energia le ripetizioni, quanto di grazia gli epiteti, quanto in somma contribuisce a pingere al naturale le immagini delle cose, tutto nella narrazione fà di mestieri, che si rifonda. Allora, allora sì offrendosi ai sensi, ed all’immaginazione quel linguaggio, che lor conviene, rendesi il dire dilettevole, e grato, che della poesia forma il principale obbietto, e lo scopo.
L’altro pregio, che brillante non men, che robusto rende la narrativa sono appunto le somiglianze, ed i confronti. Questi aggiungendo all’azion principale quegli avventurati lineamenti, che la rendono più lumeggiante, e più viva, presentano co’loro risalti delle belle scene, che colpiscono, e commuovono mirabilmente lo spirito. Tali fregi però non debbono nè con modi troppo lussureggianti, nè con relazioni poco coerenti comparir nel corpo della narrativa, mentre la parsimonia, e l’ analogia in tal punto scorgiam prese in mira da più classici autori nei loro incomparabili poemi.
Se inoltre il soggetto principale ammette altri incidenti obietti detti
episodii, in tal caso quei soli debbonsi eleggere, che col primario scopo
abbiano una qnasi necessaria relazione ; altrimenti l’ episodio tutto
che maraviglioso sarà considerato per pregio affettato, e perciò improprio,
calzando ben qui quel di Orazio :
Sed nunc non erat his
locus.
Detti episodii debbono però maneggiarsi con arte assai fina,
acciò mentre dilettano colla loro varietà, in grazia di ◀cui▶ sono stati
introdotti, non ristucchino colla lunghezza, e specialmente coll’ esser
prodotti sino alla fine del poema, mentre quivi dovendo il parlare far
ritorno all’azione principale qualunque siasi episodio aver mai non deve più
luogo.
3. L’ultima parte di un poema è finalmente la conchiusione. Questa non è, come si lusingano alcuni, di poca, e di facil riuscita, come quella, che altro scopo non conosce, che restringere in pochi detti il maneggiato argomento, mentre per questo ufficio appunto essa richiede grand’ arte. In essa gli animi debbon ricevere le ultime scosse per abbandonarsi ad un dolce ingombrante stupore. Or qual forza ingegnosa sarà sufficiente a ciò fare ? Le sentenze più grandiose, i colpi più inaspettati quelli soltanto si sono, che valgono ad ottenere sicuramente l’intento.
Per acquistare però tutte le suddivisate doti, che le ricchezze sono della poetica arte, l’unico mezzo, dietro la natural disposizione, al parer di tutt’ i maestri di quest’ arte é la lettura delle opere dei più celebrati autori. Quivi in vero incontransi le più vere forme poetiche, quivi le ripetizioni le più graziose ; quivi gli epiteti i più seducenti, quivi le descrizioni le più parlanti, quivi le comparazioni le più robuste, quivi in somma rattrovansi i più desiderabili ornamenti in una varietà la piuchè diffusa ; onde sciegliendo ognuno a suo genio, quall’ape ingegnosa, e trasmutando lo scelto in sua sostanza può abbellire i suoi poemi in guisa, che valgono poi con gloria dell’ autore a riscuotere dignitomente i comuni suffragii. Diasi ognuno dunque alla lettura, che incomparabilmente vale più di quanti precetti potrebbonsi mai dare, ad esempio dell’ epico latino, nelle ◀cui▶ opere se campeggia il sentenzioso, ed il grande, se ridono le bellezze, e le grazie, tutto é derivato dall’ avvedutezza, ch’egli ebbe di specchiarsi negli esemplari del cieco pur troppo veggente celebratissimo Greco.
Qui però pria di conchiudere un tal capitolo un ben ragionato motivo mi spinge ad avvertir più cose. 1. Abbiano sempre in mira i dilettanti in quest’ arte di adattare il metro al soggetto, e non mai questo tradurre a quello. Per tal errore in vero è derivato, che innumerabili composizioni ad onta degli sforzi de’ mal accorti autori hanno incontrate cattive accoglienze, ed un esito sempre più sventurato ; anzi non solamente al soggetto è da subordinarsi il metro ; ma benanche tutte le espressioni da comprendersi, sichè da soggetti funebri debbonsi del tutto eliminare scherzevoli frasi, come da lieti le tetre, da teneri le aspre ecc. ; fare in somma che la tessitura del verso sia sempre analoga all’ obbietto, di ◀cui▶ si parla in tutt’ i suoi rapporti ; in modo però che oscuro non diventi il poema per la troppo ricercatezza, ne per la soverchia semplicità triviale. 2. Si ricordino di tenere per una sillaba sola, fuorchè nella fine del verso, le parole mio tuo ecc : non altrimenti che i dittonghi dovunque si trovassero come uomo, piede ecc : le vocali poi, che non lo sono, come mas stoso glorioso ecc : si possono prendere per una, o due sillabe secondo che lo richiede l’armonia del verso. Facciano inoltre elisione delle vocali, che s’incontrano nella fine delle parole antecedenti qualora con altra vocale incominciano le susseguenti. A quest’ultima legge però vorrei, che non aderissero in modo, sicchè per essere esatti osservatori di essa abbiano a fare i sordi al suono del verso ; mentre questo a quello, checchè si dicano alcuni preoccupati verseggianti, scorgiamo nella lettura di primi autori assai sovente preferito. 3. Non facciansi finalmente lecito usar per poetiche licenze una voce per un’ altra, e dire per esempio col Tasso Cero per chiedo, col Metastasio Straccia per strappa ec : piochè sebbene da questi valentuomini, e da altri ancora gran maestri nell’arte siansi usate, benchè di rado, tali licenze, esse però ne lunghi, e vistosi poemi son come nei in faccia di bella donna, ma nei piccoli componimenti sanno del mostruoso, e deforme ; menocchè però quando la difficoltà della rima, come avviene nelle terzine sdrucciole ecc. esigesse in qualche caso un tal permesso, mentre allora l’astrusità istessa ne purga in buona parte la macchia.
Cap. II
Del verso
Chiunque percorre lo studio della vita ; ed ama di godere un dominio sul cuore altrui mercé la forza della persuasiva, il primo, anzi l’unico suo impegno deve raggirarsi nel saper restringere in poche parole più sensi con chiarezza, ed armonia. Un tal parlare perchè spiritoso, e vivo suggerendo all’ immaginazione più di quel, che esprime fà dolce violenza allo spirito, e risveglia forti impressioni nel cuore atte ad attirarlo dove voglia chi parla. Ed ecco perchè gli Spartani fino a tal segno odiarono il lungo, ed esoso ragionare degli Asiatici, che uno di essi con prontezza preferir volle la morte alla lettnra di un libro diffuso non senza stupore del Re di Persia, che ad una di queste due pene l’aveva condannato. E non fu forse risposta del senato di Sparta, che del lungo ragionare dei Persiani ambasciatori erasi obliato il principio, il mezzo niente inteso, il fine non capito ? Un tal parlare però sentenzioso, ed armonico senza la conoscenza del verso unquemai non s’apprende. Dal verso sì provengono le forme di bendire, che allettano, le prette espressioni, che lusingano, le vivaci immagini, che commuovono ; anzi tanta è stata la forza della sua armonia, che per esso è stato dato moto, numero, e legge alle musicali note(1) non che alle regole istesse del ballo. Leggansi nel Inglese romanziere Walder-Scot le immense ballate degli Scozzesi per conoscere quanta sia la potestà, ed il valore del verso anche presso le nazioni barbare un tempo, ed incolte. Ma che se magnifica pomba ne fa il Sol del melico emisfero Pietro Metastasio ? Egli con copia non più di seimila voci ha espresso tanto, ed ha toccato in tal modo il cuor dell’uomo, che tutti ne han ammirato, e ne ammireranno il portento. E chi in vero non ravvisa quale abbondanza di rettorica, quale aggiustatezza di logica si racchiude in questi due versi di Temistocle avanti a Serse.
E la colpa, e non la penaChe può farmi impallidir
Può esprimersi con maggior vivacità, ed energia, che l’uomo dabbene teme della colpa, non già della pena, che non meritò ? Qual più nobil modo di lodare senza adulazione, e di destar la vanità senza avvilirsi ci esibisce questo altro squarcio delle stesso Temistocle.
Ti conosce potente,Non t’ignora sdegnato,E pur la spemeD’averti difensor a te lo guidaTanto Signor di tua virtù si fida.
Venga inoltre il più eloquente Purista, e colla stessa felicità racchiuda benchè in un grande prosastico volume quanto il celebre figlio del Tebro ha conciso in pochi versi o nel delineare nella clemenza di Tito At. 1. Sc. 2. La deformità dell’adulazione dicendo.
Romani unico oggettoÈ dei voti di Tito il vostro amore ;Ma il vostro amor non passiTanto i confinï suoi,Che debbano arrossirne e Tito, e Voi.
O nel descrivere un’anima virtuosa, che odia la vanità, e misura se stessa, dicendo nello stesso luogo citato.
Più tenero, più caroNome, che quel di padrePer me non v’è,Ma meritarlo io voglio,Ottenerlo non curo. I sommi DeiQuanto imitar mi piaceAbborrisco emular. Gli perde amiciChi gli vanta compagni, e non si trova.Follia la più fatale,Che potessi scordar d’ esser mortale
O finalmente nell’ epilogar la vita dell’uomo nel Demofoonte. Att. 3. Sc. 2. con quel passo che incomincia ; Perchè bramar la vita(1). Inutile sarebbe ogni sforzo, tarpate vedrebbe un tal chiesto Oratore dal suo intelletto le piume per sollevarsi a fare un parelio in faccia a tal sole. Gli stessi luminosi esempii di gran dicitura in pochi versi ci presenta in mille luoghi il primo epico della nostra Italia Torquato Tasso. Bastami fra i tanti riferirne sol due. Nel canto 18 nella morte di Argante può forse meglio descriversi il carattere di chi fiero visse, e disperato morì ?
Moriva Argante, e tal moria qual visseSuperbi, formidabili, e ferociGli ultimi moti fur, l’ultime voci
E nel canto 2 potevasi forse meglio, ed in sì poco descrivere un uomo dal nulla innalzato alle piu alti grandezze ?
Alete è l’un, che da principio indegnoTra le brutture della plebe è sortoMa l’innalzaro ai primi onor del regno.Parlar facondo, lusinghiero, e accorto.
L’incomparabil tragico italiano Vittorio Alfieri nell’ Antigona giunse inoltre a tal estrema perfezione, che in un sol verso di 11. sillabe restrinse un quinario dialogo, di ◀cui▶ al parere di tutt’ i conoscitori dell’arte non può mai darsi esempio più celebre, e pruova più illustre dell’ingegno creato.
Creont. Scegliesti ?
Antig. Ho scelto
Creont. Emon ?
Antig. Morte
Creont. L’avrai
Questi pochissimi esempi a fronte degli innumerabili da potersi adddurre bastano a comprovare la preposta verita, che dalla sola conoscenza, e pratica del verso deriva quel sentenzioso, e mellifluo parlare, che padroni ci rende del cuor di chi ci ascolta.
Il verso però in altro modo riguardato non è stato sempre nelle sue misure lo stesso presso tutte le nazioni ; ma vario assai, e molte fiate ancor arbitrario è comparso secondochè ha permesso la maggiore, o minore fecondità delle immagini del lor genio diverso. Consultiamo in fatti gl’istorici monumenti, e quivi senza dubbio vedremo, che gli Orientali, e quindi i Druvidi, i Bardi, gli Enobardi, e finalmente i popoli della Scandinavia, da ◀cui▶ vennero i Goti, i Visigoti, i Longobardi, e tanti altri non ebbero giammai canto di ritmo regolato, ma allungavano, ed accorciavano le strofe secondo più li riusciva commodo per spiegare quelle immagini che il lor genio più, o meno focoso li suggeriva alla mente. Gli stessi salmi del figlio d’ Isai fan conoscere l’imperfetto ritmo degli Ebrei amanti di far pompa più d’immagini, e di figure, che di misure, e cadenze. Le raccolte di Celtici carmi dell’inglese Macpherson tradotti dal celebre professor di elequenza in Padova Melchiorre Cesarotti in più ampie forme manifestano la descritta verità. Collo scorrcre degli anni però cadde finalmente il verso sotto leggi sicure, e videsi ognuno obbligato a spiegare i sentimenti con versi misurati. Questi dal rispettivo numero delle sillabe vengono detti Disillabi, Trisillabi, Quadrisillabi, Quinarii, Senarii, Settenarii, Ottonarii, Novenarii, Decasillabii, e finalmente Endecasillabi. Il vario intreccio poi di essi ha prodotto le moltiplice diversità de’metri sotto distinti nomi conosciuti in quest’arte. Quindi per dar io un poetico saggio quanto più possibil fia compiuto, parlero pria divisatamente d’ogniverso, facendo sempre seguire alla teoria la pratica, e poi nello stesso modo esporrò i diversi intrecci, e ritmi compresi sotto l’ ampio genere di poesia si Lirica, che Epica ; restando per altro i lettori nella prevenzione, che essendo la lirica non mai soggetta a fisse leggi, come l’epica, ma pari alla cera ben indifferente alle diverse forme, qual vera figlia del suono, e dell’ arbitrio, altre composizioni potrebbero efformarsi a capriccio da non poter perciò esser comprese nel presente trattato, che facoltà giammai non può avere di fissare il Proteo, e forzare l’Arbitrio.
Cap. III.
Del disillabo e trisillabo
Il verso di due sillabe per la sua brevità, e ristrettezza è quasi intrattabile nella poesia, e per quanto si affaticasse un ingegno mai non può far gran cosa. Suole avere il suo luogo nel Ditirambo(1) ed in esso quale tronco l’accento cade alla seconda sua sillaba, come.
Poichè Saprò Pietà Patir Per mè Morir Non v’è Per tè
Nel trisillabo la inflessione della voce cade sulla seconda sua sillaba. Esso anche nel solo ditirambo suole aver luogo, mentre la sua ristrettezza rare volte, e con difficoltà può abbracciare un periodo, che perciò si guardino i principianti di si grand’ arte di urtare in simile scoglio, ma si contentino di conoscerlo soltanto per sapere di ciò, che la nostra poesia è capace. Eccone l’ esempio :
Il peccatore al sepolcro di G. Cristo.
Tormento Pensando Spietato L’offesa Io provo Che ardito Nel petto ; Ti fei, E pure Pensando Diletto Chi sei Mi apporta Si scema Il dolor L’orror.
Cap. IV.
Del quadrisillabo e quinario
Il verso di quattro sillabe vuol la cesura sulla terza. Può farsi rimare in più modi, ma il più tsitato è il seguente.
Egeo, che si congeda dal figlio Teseo, che si porta al laberinto di Creta per combattere il Minotauro.
Se cadrai Ma se avviene, Tosto a morte Che perisci, La tua sorte E finisci Seguirò. Di regnar, Se privato Chi sa mai Di le sono Se si trova Il mio trono Chi tal nuova Scenderò. Può recar Che verrai, La man franca E i miei rai Vela bianca Ti vedran, Porta allor ; I paterni Se ti struge Miei consigli Pugna frera I perigli Vela nera Scorderan ; Porti orror Vanne figlio Contemplando Dallo scoglio Salso il regno Nel cordoglio Sempre al segno Guarderò Mi terrò.
Nel verso quinario la inflessione della voce cade sulla quarta sua sillaba. Con esso perchè più esteso può facilmente formarsi qualche lavoro. In questo metro (lo chè si avvera ancora degli altri consimili) la rima o abbraccia il primo e terzo verso restando il secondo libero, ed il quarto tronco da rimare col tronco della stanza seguente, oppur avvinge il secondo col terzo rimanendo il primo libero, ed il quarto colla stessa legge spiegata, quale per altro non è indispensabile, come chiaro può scorgersi dalla lettura di poetici libri. Ecco intanto l’esempio in questo metro.
Lucrezia che si uccide.
Chiama i congiunti Sol vendetta La donna offesa, Voglio in tal fato E all’alta impresa Lei, che ha peccato Prepara il cor. Cader saprà. Ma visto appena L’indegno Sesto L’amato sposo Venne furtivo, Il cor doglioso Ma il cor già privo Palesa allor Sento d’ ardir Dice tradita Mi trasse a forza Dolente io sono In empia colpa Non vò perdono Non val discolpa Non vò pietà Dopo il fallir Io fui Iradita, Così dicendo E il traditore D’onor sol vaga Priva d’onore Il cor s’impiaga, Mi abbandonò. E piomba al suol. Ma ognun conosca Fugge in un urlo Dal colpo invitto L’alma negletta Come il delitto Chiede vendetta, Punir saprò. E spicca il vol.
Cap. V.
Del senario semplice, e doppio
Per senario semplice intendesi il metro di quattro versi ; re di sei sillabe, ed il quarto di cinque perchè tronco da rimare nella stessa guisa divisata nel capitolo precedente, mentre basta averlo detto una volta per sempre. L’ accento in questo verso cade alla quinta. Eccone l’esempio.
Curzio alla voragine.
D’incendio funesto Ognuno le gemme Già Roma si strugge, Le più preziose La speme sen fugge Cou più scelte cose Più gioia non v’è. Gettando vi va. Al ciel si ricorre Ma cresce la fiamma Con alma disposta ; Più avvampa, e divora Ma oscura risposta Ciascun resta allora Più affanno le diè. Con misero cor. L’oracolo disse Sol Curzio più saggio Con voce ben chiara L’oracolo intende La cosa più cara Salute gli rende Al fuoco si da. Nè prezza l’orror. Esclama : Romani Poi monta a cavallo L’oracolo è chiaro Dell’armi sue cinto, Il dono più caro L’orrore é gia vinto Si deve gettar. Da prode pensier. Or questo intendete Invitto si slancia Con anima ardita Nel foco sotterra Più cara è la vita L’incendio si serra Qui deesi lasciar. Non ha più poter.
Il senario inoltre dicesi doppio qualora ogni strofa abbraccia sei versi, cinque di sei sillabe d’accentarsi sulla quinta, come nel senario semplice, ed un quinario. In esso sogliono rimare il primo col terzo, ed il secondo col quarto, restando il quinto libero, ed il sesto tronco ; altre volte poi il solo secondo rima col quarto e tutti gli altri restano liberi come.
Epaminonda, che vince la battaglia col dardo al fianco.
L’ardito Tebano Il sangue già scende, Di Sparta non teme E l’armi gli bagna ; Intrepido unisce Qual rio si stende Le forze più estreme, Per vasta campagna E corre alla pugna. Del forte il gran sangue Ricolmo d’ardir. Così scese allor. Abbatte, debella Trionfa il suo campo Con destra feroce, È sparta già vinta Or vince col brando, La schiera nemica Or fuga la voce Per tutto è già estinta, Vergogna sol teme, Allora il gran Duce E sprezza il morir. Conobbe il suo fin. Ma un dardo fatale Dall’armi si scosta, Da un arco si scioglie E in terra sen giace Con fischio mortale La man tiene al fianco, Al fianco lo coglie ; E mostrasi audace Ma par, che non sente Per fino che intese Per troppo furor. Dell’armi il destin. Udito, che Tebe Fù questa la morte Per tutto hà trionfato Dell’ uomo possente, Su povera glebe E Sparta la sorte Già cade sdraiato Trovò immantinente, Il dardo si tolse, Perchè l’uomo invitto E tosto spirò. Di viver lasciò.
Cap. VI.
Del settenario, ed ottonario.
Il metro settenario non senza ragione suol dirsi il più facile, ed il più praticabile come quello, che costa di versi, che si contentano di avere anche alla sola sesta, ossia penultima sillaba il loro accento, restando per forza della rima obligato il solo secondo col terzo. Eccone l’esempio.
Temistocle, che prende il veleno.
Dalla sua patria ingrata Si scorda nella gioia Temistocle in esiglio Del folle sdegno antico, Esposto a reo periglio E chi odiò nemico Muove dolente il piè. Innalza amico allor Erra di lido in lido Contro l’istessa Atene Sotto altro nome ascosto Poi Serse lo destina, A mille affanni esposto L’estrema sua ruina Senza trovar mercè. Temistocle provò. Alfin di Persia il regge Si vede in un momento In corte lo raccoglie Ridotto a orrendo stato Cangia l’irate voglie, Ribelle, o pure ingrato Si scorda il suo furor. Il fato il destinò. Fuggir l’indegne tracce Bevve il fatal veleno, Nel nobil cor dispose Ed invocò le stelle, Forte morir propose, Né ingrato, nè ribelle E tosto l’eseguì. Il viver suo finì(1).
L’ottonario metro non altrimenti che il prossimo antecedente Settenarie è commodissimo alla poesia sì estemporanea, che meditata, e perciò mirasi il più usitato. Dicesi Ottonario perche abbraccia versi di otto sillabe, che richieggono alle settima il loro accento. Ia questo metro suol rimare il secondo col terzo verso rimanendo il primo libero, ed il quarto ossia il tronco obbligato come sopra si è detto. Eccone l’esempio.
Una nave presso a naufragarsi.
Era il sol tra nubi ascoso Cigolar da poppa a prora Quasi chiuso in denso velo, S’ode appien la stanca nave, Non appar più raggio in cielo, Ed il peso suo più grave Che speranza può recar. Traboccar nel mar dovrà. Fischia il vento, il mar s’innalza Ecco getta ognuno all’ onde Fatta tumida è già l’onda, La sua merce più gradita Senza porto, e senza sponda Quanto può desio di vita ! Come mai si può salvar. Nell’uom questo tutto può. Batte i fianchi della nave E il nocchiero, che condusse Fiero il mar, che in se gorgoglia Più tesor da estranee sponde Or dell’albero la spoglia, Getta tutto in seno all’ onde Or la vela in acqua và. Sol per dir che si salvò.
Cap. VII.
Dello sdrucciolo, e dell’anacreontica.
Questo verso quantunque a rima non soggetto, difficile però si è si per lo estemporaneo, che per lo scrivere. Dicesi sdrucciolo, perchè le ultime due sillabe colla loro rapidità somigliano ad un corpo, che rotola, e cade. Un tal verso entra in tutte le composizioni liriche, e specialmente nel ditirambo, in ◀cui▶ fa maggior pompa, sempre per altro adattabile assai più al boscareccio, che al serio. Esso costa di otto sillabe, delle quali la sesta richiede l’accento. Otto di questi versi, non soggetti però sempre a tal numero, costituiscono una strofa nel lor metro, di ◀cui▶ eccone l’esempio.
Sileno alla tomba di Uranio.
Mesto, tremante, e pallido La bigia pietra, e logora Move il pastore esanime Alfin ritrova, e lagrima Piangendo il passo tremolo Presso di quella assidesi, Fra stipe secche, ed aride, E con lamento querulo E giunto presso un’edera L’amico evoca, e smania, Che con suoi giri intrecciasi E il susurrar degli alberi Ricerca in mezzo i ruderi Colle lor fronde tremole L’ossa del caro Uranio. Fan eco a mesti gemiti. Poi dice : ah ! dove misero Se vò talora assidermi Potrò trovar nell’anima Presso il ruscello limpido Più la quiete stabile Col gorgogliar suo flebile Se al par d’afflitta tortora Cresce del cor la smania, Senza l’amico tenero Le grotte mi ributtano, Scorro dolente, ed esule I boschi mi discacciono, Fatto a me stesso in odio Non han più ombra gli albori Gemo nel duol terribile. Perche son senza Uranio.
L’anacreontico metro, che dal greco Anacreonte il carattere serba, ed il nome, è uno di quelli, che al dir del Crescimbeni, sono i più spiritosi, e leggiadri in Toscano. Esso è adattissimo alle composizioni di qualunque natura, sebbene il suo genio facile, e piano non così di leggieri sa soffrire la gravità, e l’altezza. Versi di diversa specie in varie forme intrecciate sogliono entrare in tal metro, come può apprendersi dalla lettura, e specialmente dalle diverse composizioni del Palermitano Balducci ; il più comune però abbraccia due sdruccioli, e due settenarii rimati. In tal metro una particolar attenzione è da mettersi sù sdruccioli, acciò non sembrino stentati, mentre lo sdrucciolo natural forma il suo pregio. Eccone intanto l’esempio tessuto nella divisata maniera.
Leonida alla Termopile.
Quando il sovran di Persia Si ferma alle termopile Volea la Grecia oppressa Ricolmo d’ardimento, Con numeroso esercito E i suoi compagni providi Verso quel suol s’appressa. Non son più che trecento. Minaccia di distruggere, In quel sentier strettissimo E sparger sangue a fiumi Il fier nemico aspetta Colla città di Grecia Sicuro della gloria Gli altari, i tempii, i Numi. Certo di sna vendetta. Ma tosto che avvicinasi Dice a compagni : armatevi Fra suoi guerrieri carmi Ecco il momento estremo, L’invitto gran Leonida E questa sera io giurovi Corre con pochi all’armi. Con Pluto ceneremo. La chioma ognun si pettina Entra furtivo, e lacera Prendono cibo alteri, Feroce questi, e quelli. E a morte s’apparecchiano Così il fatal Leonida Forti, possenti, e fieri. Con braccio alto, e possente Tosto che l’ombre scendono Cerca di notte struggere Cheti al nemico vanno, Le squadre d’Oriente. E appena ch’essi arrivano In mar di sangue corrono A macellar si danno. Fra l’ombre van confusi Quai lupi fieri, ed avidi, Pe’ molti colpi rendono Che in mandra entran di notte I proprii brandi ottusi. Da lor le greggi timide Al fin l’ombre spariscono Restan fugate, e rotte ; Il Sol ritorna in sorte O qual lëon numidico Con tutt’i suoi Leonida In greggia di vitelli Cadde pugnando a morte
Cap. VIII.
Dell’ode pindarica
Questo bel metro, e del pari nobile, e melodioso dicesi pindarico, poichè Pindaro poeta greco ne fu l’inventore. Esso è atto a tutti gli argomenti, e secondo la loro natura benchè prenda un diverso aspetto, serba sempre non pertanto la sua mellifluità, e vaghezza. Pochi ne’ tempi antichi hanno scritto, e cantato su questo metro ; ma diasi luogo al vero da che il celebre Manzoni scrisse il quinto Maggio in tal ritmo esso lo scopo si è reso di tutta la gioventù studiosa. Ma poichè suol succedere, che molti corrono a tale arringo, e pochi giungono veramente alla metà, perciò prevengo i miei giovani, che ad esempio del detto Manzoni la prima loro mira in tal azzardo sia l’eleggere un soggetto grandioso, e degno che valga ad ingrandire il verso piuttosto, che essere ingrandito da quello, mentre in tal caso la metà dell’applauso si ottiene da un pubblico prevenuto per la cosa istessa, e non è da menticarsi unicamente dal verso. È vero altresì, che non è men degno di lode quel poeta, che su di una bagatella forma un vasto canto, e che dal nulla cerca di ritrarre corpi meravigliosi, e grandi per solo effetto della fervida sua immaginazione, come appunto sono le quattro gran dissertazioni dell’ erudito Pasquale Carcani sul niente, su i peli, sullo scarafagio, e sul sanguinaccio, ma questi sforzi prodigiosi sono unicamente riserbati ai maestri dell’arte. Or tornando all’assunto ecco l’intreccio di un tal metro. Questa ode è formata di sei versi per ogni strofa, il primo sdrucciolo, il secondo settenario piano, il terzo sdrucciolo, il quarto similmente piano, che rima al secondo, il quinto sdrucciolo, ed il sesto senario tronco, che rima, come già si disse, col tronco della stanza seguente. Eccone l’esempio.
Telesilla disposta a combattere con altre donne contro gli assediatori Spartani.
Mentre crudele assedio Ciò detto un grande esercito Argo tuttor stringea Donnesco forma, e ascende Senza speranza il popolo Le mura, e poscia l’ordine Nel suo dolor gemea In squadre appien distende ; Non sanno a chi rivolgersi, Quindi con voce stridola, E a chi cercar pietà. Parla a’ Spartan così : Sparta, che tenne in Grecia Figli di Lacedemone Sempre l’onor primiero Venite a queste mura Argo volea deprimere, Difese dalle femmine, E con tremendo impero Che in lor non han paura, Vuol la città distruggere, Venite, e qui si celebri E scampo non le dà. Per noi l’estremo dì. Ciascun le calde lagrime Allora i scudi battono Già versa a stilla a stilla, Maggior l’ardir diventa, Ma unisce allor le femine Altre gran sassi scagliono, L’ardita Telesilla, Ed altra i dardi avventa E disarmando gli uomini Allor lo stuol femineo Tutte le donne armò. Fassi di se maggior, Dicendo : giacchè l’animo Stanno i Spartani attoniti Di pugna a voi uon regge All’imprevisto ardire Vedrà tutta la Grecia San bene che puote infemina Una novella legge, L’odio, lo sdeguo, e l’ire, Che il sesso imbelle, e debole E in quel momento scorgono Pugnar pur anco può. Il proprio dissonor. Dicon : se andremo a batterci Meglio sarà di togliere Chi batterem ? le donne A lor cotal rampogna O vincitori, o in perdite Che se vorremo vincere Trïonferan le gonne, Sarà fatal vergogna, Che perdono, o che vingono E se andaremo a perdere Nostro il rossor sarà. Grecia c’insulterà.
Cap. IX.
Della sestina lirica.
Non vorrei, che alcuno in vedermi sulle mosse di parlar della Sestina pensi esser mia intenzione di richiamar dalle sue ceneri l’antica sestina. Di quella sestina cioè, in ◀cui▶ sei strofe pender dovevano dai sei versi della prima, chiamata perciò il perno, non solamente nel rispettivo lor senso ; ma quel, che era il più forte nelle sue individuali parole. D’un tal componimento abbiam noi un’esempio nel Petrarca, un altro nel Sannazzaro, ed uno a stento nel Frugoni ; ma che ! Dopo il lungo incredibile travaglio sostenuto da questi grand’ uomini per recarla alla sua perfezione, altra bellezza non hà dimostrata, che la sola fatica degli industriosi autori. Quindi si fù, che i posteri conoscendone la difficoltà, o per dir meglio la sua inutilità via la bandirono dall’Italica poesia, attenendosi soltanto alla sestina eroica del Casti negli animali parlanti, della quale si parlerà a suo luogo. Qui adunque il mio scopo sol è di parlare della sestina lirica fioreggiante tutt’ora nel poetico amenissimo campo adattabile sibbene ad ogni argomento ; assai pregevole però nelle cose campestri, e pastorali. Costa una tal sestina di sei ottonarii, de’ quali il primo rima col terzo, il secondo col quarto, ed ìl quinto col sesto. Eccone a nostro modo l’esempio.
Titiro, che deplora la sua mandra tradotta via da una furiosa tempesta.
Torvo il ciel di nubi carco Ma il flagel comun vedea Strepitava irato il vento Chè la greggia tanto amata Il ruscel non ha più varco Dal torrente vien portata. Reso fiume in un momento Egli esclama : Eterno Nume Tronchi, zolle, e quanto appare Che sarà di ma infelice ! Si strascina irato al mare. Tutto al mar si porta il fiume Là una pecora belante, Cade svelta la pendice, Che precipita dall’erta, E in tal pena cruda, e acerba Una vacca quà nuotante Non mi resta neppur l’erba Colla bocca tutta aperta, Senza gregge, e senza tetto Cani, agnelli, fratte, e lupi Beni indarno il cor si sogna, Van cadendo dalle rupi. Morto è il cane mio diletto Masserizie vanno a galla Hò perduto la zambogna Per il fiume un mar già fatto, Lasso me ! Che far degg’io ? L’alta quercia ancor traballa, Chi più regge il viver mio ? Che dal vento è svelta a un tratto Ah ! se tutto ho già perduto Fugge Titiro piangente Per voler d’iniqua sorte, Dalla morte a lui presente. Se sperar non posso aiuto I suoi lombi a un masso appoggia, Meglio fia, ch’io cada a morte Che una rupe in fuor stendea E in quell’acqua, che giù piomba Salvo in parte dalla pioggia A cercar corriam la tomba.
Cap. X.
Dell’ode dattila.
Questo metro sorprendente, ma difficile fù inventato, e maestrevolmente trattato dalla celebre poetessa Marianna Bandettini di Perugia. Rapisce in vero la sua armonia, ma a troppo duro cimento espone chi il tratta. Quindi è, che appena qualche estemporaneo di gran polzo si prova a trattarlo, mentre le sue difficoltà anche al tavolino rendonsi laboriose. Un tal metro è composto di sei versi ; due senarii, che rimane insieme, un quinario piano, poi due altri senarii tronchi similmente rimati tra loro, ed il sesto quinario piano, che rima al terzo, questi sono i divisati sei versi, che costituiscono ogni strofa in tal metro. Qui la mente vien sottoposta ad una interminabile legge di rime, che si succedono rapidamente le une alle altre ; ma per dir vero a trattar questo metro bisogna esservi chiamato ; mentre se esso lasciasi servire ad ogni argomento, non soffre però esser di leggieri maneggiato da ognuno. Eccone impertanto l’esempio.
Artemisia, che beve le ceneri di Mausolo.
Vittima del dolor La fiamma del suo sen, Presa da doppio ardor Il suo sposo, il suo ben La donna afflitta Colà giacea Presso l’urna sen va La tomba in contemplar Dove giunta si stà Pace non può trovar, Più derelitta. E il duol crescea Spesso i marmi abbracciar Si che lo posso ancor Procura, e di sfogar Mi consiglia l’amor L’interna doglia, L’opra si fiera, E oppressa dal dolor Sò, che strano parrà Par, che a morire amor Ma niun m’imiterà Di più l’invoglia. Sarò primiera. Dice : ah Numi perchè Si la primiera sol Donato tal mercè ? Sarò che in tanto duol Misera ! oh Dio L’alma è feconda Son costretta a languir, Sola al mondo sarò E non posso morir Nè in opra tal vedrò Coll’idol mio. Mai la seconda Sento la voce appien, Quindi l’urna abbracciò Che parla a questo sen Il cener contemplò Mi chiama a morte, Nel duol più greve E in mezzo a tal martir L’nrna torna a baciar Sembrami lassa udir Ne volendo aspettar Il mio consorte. Il cener beve. Dunqur quel marmo avrà Poscia che il tranguggiò Maggior felicità Così lieta esclamò Di questo seno, Colma d’affetto : Ed io soffrir dovrò Trovata hò la mercè Nè meco unir potrò Miglior tomba per te Quel resto almeno. Fia questo petto
Cap. XI.
Dell’ottonario coronato.
Una difficoltà tutta sua propria ci presenta questo metro. Imperochè essendo vero al comune sentimento de’ maestri dell’arte, che la condizione del tronco è difficile nelle chiusure ; mentre quivi convien restringere i pensieri, racchiuder le sentenze, e fare in somma che la strofa istessa tuttoche mediocre, e forse ancor languida, apparisca bella, e degna dei comuni suffragii ; che dovrà dirsi della chiusura di questo metro soggetta a ben due tronchi ? Ciò non pertanto non perdansi di coraggio gl’iniziati a quest’arte. Eluderanno ogni difficoltà se una saggia cautela useranno nella scelta di tronchi ben adattati, e proprii a spiegare il forte delle conclusioni, evitando mai sempre però tutt’i plurali per tronchi, come i dolor, i can, gli uccel, ecc. mentre questo in tal metro suol essere il massimo degli errori. L’ottonario coronato dunque costa di cinque versi per ogni strofa, il primo è un ottonario piano, ed anche sdrucciolo se la necessità l’imperasse, il secondo ed il terzo son due ottonarii rimati, il quarto, ed il quinto son due settenarii tronchi rimati insieme. Eccone la norma.
Manlio, che condanna il figlio a morte
Emanato il gran decreto Dice al figlio : eh che facesti Dall’austero conduttiero Non sapevi il mio divieto Perchè osservasi l’impero Dunque hai franto il mio decreto Chi obliare lo potrà Traditor dimmi perche ? Reo di morte allor sarà E potrai sperar mercè ? Vuol, che niun pugnare ardisca Al garzone vincitore Contro i Galli in gran tenzone, Nulla vale addur la scusa E chi ardisse al paragone Grida il padre chi si abusa Contro il cenno di veuir Della legge a suo favor, Vinca, o perda dee morir. È un ribelle, è un traditor. Ma di Manlio il figlio ardito, Quindi in gabbata sedendo Che il decreto in se ignorava Sprezza appien di lui la sorte Perchè un gallo il provocava Lo condanna a fiera morte, Corse altier, con lui pugnò, E l’esempio altrui donò, E l’uccise, e lo spogliò. Tutto il campo allor tremò Porta l’armi al genitore Ed invan parlò natura Di quel gallo già atterrato In quel cor da legge armato Resta il padre provocato Cadde il figlio sventurato, Per l’offesa potestà, E fè noto il genitor E bandisce ogni pietà Qual di legge è il gran valor
Cap. XII.
Del verso martelliano.
Se fra diversi moltiplici metri della toscana poesia miransi alcuni poco praticati per le grandi difficoltà, che presentano ; questo metro all’opposto vien poco maneggiato per la soverchia sua faciltà. Nel suol della Francia spuntò la prima volta tal pianta, ma trasportata poscia in altri campi della culta Europa produsse a prima vista frutti si dolci, che ogni palato assaggiar ne volle avidamente il sapore. Quindi dalla natura di esso tradotti un Chiari, un Goldoni, un Cerlone, e mille altri, e pria, e dopo di questi, in tal metro si dilettarono scrivere delle molte comedie, per ◀cui▶ un tal verso comunemente divenne la delizia, ed il cuor del teatro. Non però comparve come nel natio suo suolo era apparso. Dappoichè non essendo presso i francesi si familiare la rima, come presso di noi lo è, quel ritmo, che in due versi di quattordici sillabe rimate solea conchiudersi in Francia, in qualtro settenarii benchè due liberi, e due rimati dagli Italiani si volle compreso. Quantunque per altro un tal verso familiare piuttosto sia, e triviale ; pure la forza dell’ingegno, non che la effervescenza della fantasia contribuisce non poco alla sua nobillà, ed altezza. Tale è per avventura la comedia intitolata Diogene nella botta del celeberrino antichissimo Antonio Franchini. Spiegata dunque la natura, e la misura d’un tal verso appongo giusta il consueto la norma per la pratica.
Teseo, che condanna Ippolito a morte.
La vecchia età fu sempre. Veste con mille modi Ligia di gelosia, La troppo infame accusa. E spesso per tal causa Il credulo, e spietato Ogni ragione obblia. Le presta intera fede, Teseo dall’empia moglie E alle mensogne ordite Sente accusarsi il figlio, Fallacemente crede. E perde a tal accusa Condanna il figlio a morte Senno, ragion, consiglio. Da un mostro divorato Ippolito figura Lo dauna, e l’infelice Incestuoso, ed empio, Dal carro è rovesciato. E contro d’esso inventa Ma mentre che soccombe Inopinato scempio. Alla fatal sventura L’iniqua infame donna Per opra degli Dei Perchè restò delusa Forma cangiò, e natura.
Cap. XIII.
Dell’ode alcaica.
Eccoci allo scoglio, in ◀cui▶ non pochi ingegni han fatto naufragio. La vera ode alcaica per le sue gran difficoltá da qualcuno, o da nessuno forse è trattata, benchè per altro adattata sia ad ogni argomento, e molto più a lamentevoli obietti. La coutinuata sua armonìa mentre mostra quanto ha di più grande, e più bello la poesia, manifesta del pari quanto ha la stessa di più labborioso, e difficile. Il solo udire il terribile ritmo di ogni strofa basta a sgomentare ognimente. Eccolo intanto. Costa ogni strofa di quest’Ode di dodici versi di questa natura, ed in tal modo rimati. Il primo è un settenario piano, il secondo è similmente settenario piano, il terzo è anche settenario, che rima al primo, il quarto è simile al secondo con ◀cui▶ rima, il quinto, ed il sesto sono tronchi, che rimano insieme, il settimo, e l’ottavo son piani rimati fra loro, il nono è piano libero, il decimo è tronco libero ; l’undecimo è piano, che rima al nono ; l’ultimo finalmente è tronco, che col decimo s’accoppia in rima. Questo metro, che senza dubbio, sembra il laberinto di Creto hà bisogno d’un saldo filo per scorta, ma senza aspettarlo dalla favolosa Arianna si avrà dall’esempio seguente, nel quale per maggior intelligenza di coloro, che vorranno, e si fideranno praticarlo v’apponga un’intercalare obbligato.
Andromaca, che piange sul corpo di Astianatte.
In cenere combusta Senza fallir dannato Era l’afflitta Troia, Misera ! è già spirato E per la moglie ingiusta La madre lagrimosa Perduta avea la gioia Ripete in abbandon Andromaca d’Ettor Lassa non son più sposa, Piange a l’aspro tenor E madre più non son. Le toglie Ulisse il figlio, Parte della mia vita E con fatal consiglio Perchè ti generai ? Dall’alta torre il getta, E per donarti aita E il campo soddisfò ; A tanto ti serbai ? Così l’altrui vendetta Come non moro ancor Il misero pagò. In si fatal dolor ? La madre desolata Perchè spietati numi Nell’ultima sventura Serbaste a ciò i miei lumi ? Geme da disperata La vità m’è odiosa Fuor delle strutte mura Essa è un funesto don Stassi tramorta al suol Lassa non son più sposa, Sul pesto corpicciuol E madre più non son Lo guarda, e non fa moto Perchè figlio diletto Chè il cor di forza è vuoto Cosi morir dovesti ? Sol replica affannosa Perchè da questo petto Nel più dolente suon Viver si reo bevesti ? Lassa non sou più sposa, Perchè figlio, perchè E madre più non son. Io non morii per te ? Ecco di già perduta Povero sangue mio L’ultima mia speranza, Che più soffrir degg’io Non hò chi più m’aiuta In sorte sì dogliosa Che va la mia costanza ? Nulla è di Giove il tuon Che ne sarà di me ! Lassa non son più sposa, Il figlio mio dov’è ? E madre più non son.
Cap. XIV.
Del novenario, e decasillabo.
Qual son fra essi l’ombra, ed il Sole, tempesta, e serenità, tenebre, e luce ; tal si sono i due metri, che in questo Capitolo rinchiusi. Il novenario perchè metro sciocco, rozzo, ed astruso inflettente per altro anch’esso sulla fine non è da veruno di buon senno per avventura maneggiato. Ne metto perciò un brevissimo esempio sol per fare conoscere, che nella nostra lingua si rattrova un tal metro, non già per adescare i giovani ad invaghirsene.
Se per te a tanto son costretto, Quanta ubbidienza al cor mi costa Saprò soffrir la mia sventura, Soddisfare a un comando cosi ? E alla legge poi di natura Per me sia questo l’ultimo di Umil la fronte piegherò Devoto al cenno ubbidirò.
Il decasillabo poi, che è il Sole di questa oscura notte del Novenario, la vera delizia dell’armonia poetica, ed il mezzo più facile, onde esprimere concetti di qualunque natura si siano nella più bella, e grandiosa maniera, merita per ogni rapporto la preferenza fra i molti, e degno del pari si è d’essere il principale scopo de’ virtuosi esercizii della studiosa gioventù. Duplice però n’è il metro. Nel primo rima il secondo verso col terzo lasciando il tronco obbligato a rimar col tronco seguente. Nel secondo il primo, che è piano rima col terzo della sua stessa natura, non altrimenti che il secondo, che è tronco rima col quarto. Ma per non dilungarmi a darne due norme distinte l’uno, e l’altro ritmo colle richieste inflessioni in un solo esempio a contemplarsi comprendo.
Polissena sacrificata alla tomba di Achille.
Di già spento il terribile Achille,Già la flotta de’Greci impeditaPerchè il vento il camin non l’additaTalchè tutti son presso a perir.Si consulta Calcante l’aruspice,Chè ognun crede al suo saggio consiglioEgli mostra il tremendo periglioCome puossi da Greci fuggir.Egli impon, che alla tomba d’AchillePolissena svenar si dovrà,Che tra mille altre Vergini, e milleQuegli ha amata, e con esso cadrà.Se non cade la regia donzellaDa qui alcuno non speri partir ;Ma caduta che appena fia quellaTanti affanni potranno finir.Ma non basta ; l’istesso suo figlio,Che la regia donzella si adoraE del padre l’amor non ignoraEgli stesso la deve svenar.Cosi esposto ; per forza il guerrieroA ubbidir con minacce s’induce,Già si porta alla tomba ogni duce,E fà l’ordin del campo spiegar.Venne Pirro qual’uom condannato,E la donna rëale il seguìAlla tomba del padre arrivatoStupidito tremò, s’ammutìMa costretto dal campo sdegnatoLa donzella pel crine afferrò,E fremendo qual’uom disperatoL’empio ferro nel sen le vibrò.
Cap. XV.
Della terza rima.
Il metro, che più generale campeggia nella poesia si è appunto la terza rima, come quella, che indistintamente si mostra adattabile al sagro, al profano, all’eroico, al bernesco, all’epistolare, e a tutt’altro. In questo metro infatti ha scritto l’immortale Dante Alighieri la sua divina comedia ; in questo scrisse Francesco Berni le sue scherzevoli poesie, da ◀cui▶ poi è venuto il nome di stile bernesco ; in questo hanno scritto il Crassi, il Bruni le loro epistole eroiche ; in questo sono state tradotte da più autori le epistole eroiche di Ovidio, e in questo hà scritte le sue satire Vittorio Alfieri, Salvator Rosa, Antonio Abbate, ed altri ; due terzi in somma della poesia italiana sono stati scritti in tal metro. Ogni stanza di questo metro costa di tre versi endecasillabi accentati sull’ottava,(1) de’ quali il primo rima col terzo, ed il secondo fissa la rima della stanza, che siegue, e così in prosieguo ; onde è che un tal metro dicesi comunemente Catena. Chiunque impertanto vorrà comporre in questo metro sia accorto a disporre al secondo verso il cambiamento del pensiere per trovarsi colla rima adattata alla stanza seguente Eccone la norma.
Zeleuco, che salva un occhio al figlio colla perdita del suo.
Promulga il re Zeleuco il gran decretoChe perda gli occhi, e cada in fier periglioOgnun, che trasgredisce il suo divieto ;Ma tosto si pentì del suo consiglio,E pianse afflitto sulla propria leggeScoverto reo il suo medesmo figlio.Maledice quel dì, che nacque reggeTardi condanna il troppo suo rigore,E il duol del cor nel volto suo si legge ;Ma pensando al dover del regnatore,E qual’obbligo tien colui, che regna,Che forma il ben d’altrui col suo doloreChe il camin di giustizia un re disegna,E chi è chiamato a dominar sul tronoLa data legge coll’esempio insegna.Perciò a se chiama il figlio, e in mesto suonoGli dice : a qual dolor m’hai trascina to,Dovrei punirti, ma pur padre io sono.E acciò non resti il trono mio macchiatoSerbi la legge, e le virtù supreme,Nè esempio a trasgredir da noi fia datoNè vò, che provi tu le pene estreme,Nè vò, che sia la legge trasgreditaTu mancasti, io mancai, piangiamo insiemeLa tua disubbidienza or fia punita,La mia severità porti la pena,Ed entrambi perdiam parte di vita.Ambi perdiamo un occhio, e in ciò la pienaDel acerbo dolor sarà divisaCosì i soggetti un saggio rè raffrena,E la causa così venne decisa.
Cap. XVI.
Dell’ode saffica.
Non v’è chi ignori essersi chiamato Saffico questo metro, ohe or ora spiegheremo dal nome di Saffo Lesbia poetessa. Questa nella effervescenza delle sue passioni d’un tal metro servissi per esporre i moltiplici diversi affetti, da quali tiranneggiato era il suo cuore. Per tal circostanza appunto ne avvenne, che un tal metro è stato sempre considerato adattabile a’ soli obietti teneri, compassionevoli, e funebri. Esso costa di quatro versi, tre endecasillabi, ed un quinario, dei quali il primo rima col terzo, ed il secondo col quarto. La legge poi, ◀cui▶ soggiace un tal metro di chiudere con sentenzioso quinario il pensiere sviluppato ne’ tre antecedenti endecasillabi, questo si è, che lo rende assai difficile, e presso che impraticabile. Quindi avvenne, che pochi hanno osato scrivere in tal metro, e nessuno l’ ha impiegato finora in vasti argomenti. Non vorrei però, che da ciò sgomentati i giovani disperassero la fortuna di giungere a comporre un ode saffica senza difetti. Se essi nel maneggiar questo metro avranno l’accuratezza di disporre nel secondo verso la sentenza del quarto, conseguiranno facilmente lo scopo bramato. Eccomi alla norma.
Orazia, che piange sulle spoglie del Curiazio ucciso dal fratello.
In mezzo a lieto stuol di più guerrieriRitorna Orazio di tutt’armi cinto,E cantano il drappel tra’ carmi fieriPoc’anzi estinto.D’Orazio la sorella afflitta, anziosaSente, che un gel per l’ossa appien le scorre,L’oste per incontrar tutt’affannosaAfflitta accorre.Vista la veste, che il fratel recavaChe pel Curiazio un dì trapunto aveaRepente esclama mentre il duol l’aggrava :Ahi sorte rea !Cadde dunque Curiazio, e tu spietatoMirar potesti gli ultimi momentiDi chi tanto amò : ed or di orgoglio armatoI fasti ostendi ?Mirar potesti il moribendo aspetto,Veder potesti del suo sangue un rio.Mentre invocava il labro pallidettoIl nome mio ?Sentir potesti gli ultimi sospiri,E l’interrotta, e tronca sua favella ?Deh ! m’assisti al morir, se qui t’aggiriAnima hella.Ma tu che fai, che non compisci appienoL’opra dettata dal tuo folle orgoglioPassami traditor, passami il senoMorire io voglio.Mostro crudo, fellone, empio, spietatoUso soltanto a inganno vile abbiettoPoichè il mio bene hai con orror svenatoSquarciami il petto.Non regge il grande a quelle accuse, e forteIl brando snuda, e le trapassa il core.Ed ella mostra mentre cade a morte.Ardire, e amore.Come la rosa, che il fier turbo schiantaE perde nel cader beltà, colore,Così colei, che di pallor s’ammantaAllor sen muore.E in mezzo al sangue mentre l’alma spiraFà, che l’ultima voce ognuno intendeChiamò Curiazio, intorno i lumi gira,E all’Orco scende.
Cap. XVII.
Della sestina croica
La sestina croica, come la voce istessa l’addita, costa di sei versi eroici, de’ quali i primi quattro rimano alternativamente, e gli altri due immediatamente fra loro. Un tal metro è trattabile in ogni sorte di argomento, ed in tutti conserva egualmente le sue bellezze. Consiglio perciò gli apprendenti della divina arte poetica ad esercitarsi in queslo metro, specialmente nel comporre elogii a grandi Eroi prima di provarsi all’Ottava, ed al Sonetto. Eccone intanto il modello
Bruto, che condanna Tito, e Tiberio suoi figli a morte.
Già la Romana libertà vagivaPer opra del possente ardito Bruto,Già la superba tirannìa fuggivaEra il soglio rëale omai cadutoMa il vil Tarquinio, che non anco partePer sedurre i Romani adopra ogn’arte.Si forma in Roma una fatal congiuraPer dare al Regge l’usurpato soglioVindicio l’ode, e palesar procuraA consoli il vicino aspro cordoglio,Bruto più di ciascun geme in perigliPerchè son congiurati i due suoi figli.Son venticinque giovani i rubelli,Che egli fece tradur tutti in Senato ;Quindi feroce manifesta a quelliIl di già conosciuto empio attentatoTremon color con animo confuso,Nè ponno a tanto error trovar la scusa.Bruto esclama : Romani or che faremoQual sarà di costor la giusta sorte ?Roma per essi fù al periglio estremoPerciò a ragione io li condanno a morte,E perchè non si dolga alcun de’ reiPria di tutti condanno i figli miei.Cada tanta empietà depressa, e domaPaghino col morir l’indegno errorePria d’esser padre lor fui figlio a RomaQuesta mi parla, e non natura al coreProvino i figli rei giusto destinoPria d’esser Genitor fui Cittadino.
Cap. XVIII.
Dell’ottava
Il metro più nobile, che vantar possa l’italica poesia, ed il più adatto del pari a descrivere in vaghe forme le più grandiose idee è l’Ottava rima del Boccaccio. Questa mercè gli otto eroici, de’ quali costa, mentre co’ sei primi alternativamente rimati presenta alla mente un vasto campo da percorrere, offre cogli due ultimi reciprocamente obbligati la occasione più bella di poter con forte sentenza, quasi con colpo impreveduto, conchiudere i suoi detti. Il formar però poemi in questo metro degni de’ comuni suffragii non è veramente alla portata de’ principianti, ma sol de’ provetti nell’arte. E qual giovanetto in vero può aver la fortuna di sollevar tant’alto il suo volo sichè possi non dico raggiungere, ma tenersi poco dietro alle orme di alcnne aquile generose, e specialmente de due toscani Omeri l’Ariosto cioè, ed il Tasso ? L’Orlando furioso del primo, la Gerusalemme liberata del secondo sono in questo metro i più perfetti poemi della poetica favella. Vero è che tale ritmo sovente si adatta ancora a materie giocose, come la Secchia rapita del Tassoni, lo scherno degli Dei del Bracciolini ec. Ma se la grandiosità del poeta non nobilita in tal caso il poema, tal metro privo allora delle robuste espressioni, che ricerca, decade con lagrimevol veduta dal suo natio decoro. Badino dunque bene i giovani a queste vedute, ed attendino pria a consumarsi nella lettura de’classici, e nell’esercizio di altri più facili metri, e poi con avvedutezza a discendere a questa ardua impresa. Diamone intanto il modello.
Attilio, che torna a Cartagine..
Vista il saldo roman la patria afflittaCerca destarle di virtù l’ardoreAcciocchè ognun la sua costanza invittaConservi sempre, e se l’imprima al core,Priachè l’infausto mar forte tragittaDice : Romani è vano uu tal doloreQuanto feci per voi ciascun rammenti,E più che morte il suo rossor paventi.Cedere i prigionier sarìa funesto,E periglioso un così tristo esempio ;Perchè il roman soldato allora infestoPiù non sarà temendo il proprio scempioNè giovarvi potrò se in Roma io restoGià carco di anni, onde al dovere adempio :Se in verde età vi diedi il sangue mioPer voi morrò, ma qui si piange Addio.Cosi parlato con sereno ciglioLascia la patria, e va costante a morteInnalzandola ancor col suo consiglioDa se stesso tornò fra le ritorteSenza temere il suo vicin periglioDa grande visse, e sa morir da forte,Ed insegna spirando all’AfricanoCome sprezza la morte un cor romano.
Cap. XIX.
Della terzina sdrucciola
Qual passo astruso pe’poveri compositori ! Questo terri bil metro è per consenso di tutt’i conoscitori dell’arte pressochè impraticabile. Ed in vero se la terza rima piana incontra molte difficoltà per la sua concatenazione, quante maggiori dovrà averne questa, stante che le voci sdrucciole non avendo un suono piano rarissime volte possono rimare fraloro ? Il Sannazzaro istesso, che volle il primo azzardarsi a cantare in tal metro si aiutò colle prose, e spesse volte lasciava la terza rima sdrucciola, e prendeva la piana, perchè quella si rendeva intrattabile. Tale esempio scosse l’ottimo cavalier Ricci a non servirsi della terzina sdrucciola, ma bensì dell’ottava nel comporre quel bellissimo lavoro degno di tutti gli elogii, il lamento cioè di Maria a piè della Croce. Esesndo dunque si difficile un tal metro, sebbene come si disse nel Cap. I. il verso deve servire al pensiero, e non questo a quello ; pur tutta volta in questo, come nel citato luogo si avertì, è necessario, che il pensiere spesse volte serva al verso ; mentre quì il poeta deve dire, ciò che può, non gïa ciò, chevuole, e se per accidente s’incoutra a terminare il sccondo verso con una rima, che non abbia le altre due compagne, trovasi giunto alle Sirti senza poter più nè avvanzarsi, nè dare indietro. Un tal metro per altro non sembra affatto adattabile a cose eroiche, guerriere, funebri ec. ma pare assolutamente fatto per dialoghi pastorali, e cose boscarecce. Eccone l’esempio.
Uranio, e Titiro, che si lamentano del pastor Melibeo, perché è un ladro.
Tit. Vicni, siediti quì mio caro UranioOra, che il Sole è già vicino a nascere,E senti pur perchè m’affliggo, e smanio.Uran. Titiro mio pazienza, e non t’irascereTeco m’assido su queste erbe tenere,Mentre il mio gregge Alcon conduce a pascere.Lascia di borbottar, saluta Venere,Che in si bella stagione i campi decora,Odi il cantar dell’usignuol, e l’Ecora ;Ma tu ti mordi il labbro ? alcerto io dubito,Che fremi ancor per la rubata pecora.Tit. Uranio mio possa morir di subitoQuel Melibeo mascalzon ladrissimo,Che per batterlo ier mi svolsi il gubito.Tre mesi son, che il mio capron bellissimoFe per que’greppi divorando bacchere,E i cespi apria col corno suo fortissimoVien Melibeo, e con moïne, e zacchereTanto gli fece, che sel seppe togliere,E sel condusse al suon di pive, e nacchere.Uran. Titiro mio non ci potremo sciogliereDa un ladrone si astuto, e si terribileChe sà tutti gli istanti ardito cogliere.Or senti, e vedi se ti par possibile,Fra le sue ruberie pur questa annovero,Che ad ognun, che l’udì parve incredibile.Venne a cercare il foco al mio ricovero,E innanzi a tutti con prestezza estraneaTolse una secchia, e un banghettin di sovero.Tit. Ma priache tutti noi mangia, e dìlaniaUniamci tutti, e ci convien decidereDi qui si scacci, e se si ostina, e smania,E non si parte lo sapremo uccidere.
Cap. XX.
Della pastorale.
Questo metro benchè rare volte trattato per le difficoltà, che in se racchiude, contiene per altro mille bellezze allorchè è ben maneggiato. Esso presso i Greci poeti fù un giorno in gran pompa, e ben sappiamo nella gara di Omero, ed Esiodo ne’giuochi Olimpici sotto il regno di Agide Spartano, che Omero quantunque il cantor di Achille, il panegerista di Ulisse, e l’apologista della Grecia fù vinto da Esiodo non per altro, se non perchè quegli a suo solito cantó gesta guerriere, e furor di battaglia, e questi cantò i piaceri della vita campestre, ed i vantaggi della vita pastorale nel metro suddetto con sommo piacere degli spettatori ; lo che poi fù la occasione, per ◀cui▶ Omero, vecchio pittor delle memorie antiche, volendo per vendetta satirizzare i Greci un di tanto esaltati scrisse Batriochomachia, ossia la battaglia de’topi, delle rane, e dei gambari. Fin d’allora l’ode pastorale avvanzò più di credito, e Teocrito trasse per essa non pochi onori, e ricchezze in Sicilia. Mancò l’Italia per più secoli della vera pastorale di Esiodo, e sebbene in tempi non tanto remoti sia stata trattata dalla gran penna del Sannazzaro, pur nella tessitura cemparve sotto le insegne Virgiliane, piuttosto che Esiodiche. Impegno poscia si fù del celebre, ma immorale Cav. Gioambattista Marino di far ritornare la pastorale nelle antiche braccia di Esiodo. Due componimenti di tal natura a bella posta ei fece, uno per Lilla, per Cirene l’altro, entrambi però avvelenati dal depravato suo genio. Scrissero dopo lui molti altri delle belle pastorali, ma perchè le lavoravono a capriccio, non diedero perciò mai il perfetto ritmo di essa. Se però ben si rifletta questa è da dirsi la vera tessitura dell’Esiodica pastorale. Costa ogni stanza di otto versi, de quali i primi quattro sono eroici alternativamente rimati, due altri sono ottonarii, che rimano fra loro, il settimo è quinario, che rima all’ottavo, che è eroico. Ecco la solita forma.
La primavera.
Tiepido il raggio gïa dall’alto scende,Mormora il venticel dolce alla valle,L’aura serena dolce l’aria rende,E si comincia a scior nevoso calle,Dolce il rio di andar si sforzaCrepa il ramo la sua scorza,È mentre abbondaDi nuovo umor produce il fior, la fronda.Comincia vaga erbetta a uscir dal suolo,E l’olezzo al color confonde, e mesce,Spiega l’augello più sicuro il volo,Mentre l’ombra ne’boschi avvanza, e cresce.Già sorride la campagnaPiù la gregge non si lagna,E corre in frettaA pascolar la già rinata erbettaScendon dal monte mille, e mille rivi,Che versa intorno la disciolta neveMostrano i fonti i puri argenti, e vivi,Zefiro lambe i tronchi in soffio lieve,Alza il passero il suo grido,Fà la rondine il suo nido,E ferma il voloSulla fronzuta quercia l’usignuolo.E dolce il mormorar del fiumicello,E grato il gracidar pur della rana,E lieto il susurrar dell’arboscello,E caro il mormorio della fontana,Bello è il mare, e la marina,Grato è il bosco, la collina,E in tanti oggettiSente il mortal nel sen nuovi diletti.
Cap. XXI.
Della canzona.
Questo componimento, che perfettamente somiglia alle ode de’Greci, e de’Latini è uno de’più belli, e famosi lavori italiani. In esso si distinsero il Petrarca, l’Ariosto, il Tasso, e più da vicino il chiarissimo Senatore Vincenzio da Filicaia. Tal componimento per legge di sua lunghezza deve contenere non meno di cinque, nè più di venti strofe composte di sette, otto, e più versi Endecasillabi, e Settenarii da rimarsi a genio di chi compone, meno che nella chiusura, dove la rima o avvince i due ultimi, e col antipenultimo l’estremo. Essendo dunque arbitrario nell’intreccio un tal metro, col seguente esempio intendo insegnare sol un modello, e non prefiggere una norma invariabile della Canzone.
Per la morte di Pio VII.
Chi al pianto porgerà cotanta venaOnde fugar dal coreIl cumulo d’affanni, che l’opprime,E in si fatal doloreChi al seno porgerà forza cotantaPerchè il pastore egregioChe volò dalla terra in sen di Dio,E come rammentare ogni suo pregio.Egli, che travagliò tanto nel mondoPerchè la navicellaNon travïasse il diritto suo camino,E in sen della procellaRitta la raddrizzò tra scoglio, e scoglio,Ed or dov’è il nocchieroChe con tanto sudore, e tanta curaL’umil nave guidò nel salso impero ?Oh ! di quanti tormenti, e quante cureSi caricò pietosoPer trar la greggia dal fatal periglio,E senza aver riposoPretese di far suoi l’altrui tormenti,E oppresso, e desolatoMentre il fulmin fatal strisciava intornoAttese senza orror l’ultimo fato.In faccia all’armi, e la baldanza reaMai non piegò la fronte ;Pari al signor, che per l’altrui delittiSparse di sangue un fonte ;Tal’egli offre per tutti la sua vita,E invoca dal gran DioDicendo : alto Fattor gl’empii perdona,E prendi in lor discolpa il sangue mio.Dov’è dunque colui, che giunse a tanto ?Così fini la vita ?Dov’è il gran difensor de’sventurati ?Chi ne darà più aita ?Ma perchè invidiar l’alta sua sorte ?Egli del tanto zeloGià trova il suo riposo in sen di Dio,E il premio al suo sudor si gode in Cielo.
Cap. XXII.
Del sonetto.
Quai naviganti, che scorsi mille pericoli in mari ignoti trovano ancora vicino al porto in faccia a nascosti scogli che temere ; tal mi son io, che giunto al termine di questo poetico trattato incontro pur di che ancor prudentemente temere, dovendo in quest’ultimo de’miei capitoli trattar dell’opera più bella, più grande, ed insiem più difficoltosa dell’arte poetica, tradotta da Provenzali un di nel culto seno della bella Italia, del Sonetto io dissi. Questo più nobil patro però dell’umano ingegno ad onta del suo natio decoro ha incontrato a dirla schietta la sorte istessa della nobile medicina. Questa dopo aver un di meritato tempii ad Esculapio, monumenti ad Ippocrate, e Peone, è divenuta omai la facoltà de’ Giabbattini, non che delle stesse più vili feminuccie ; mentre esser ragionevole non v’è per vil che sia, che non presuma tastare il polzo, e prescrivere ricette, e consigli ; cosi il Sonetto dopo aver occupate le prime menti, dopo aver fatto riportare i primi onori atti a far scorno alla morte istessa, oggi quasi che fosse una canzone de veneti Gondolieri è caduto iu potere degl’ingegni i più che dozzinali ; ne mente vi è per limitata che sia, che non ardisce calzare lo stretto ceturno di Melpomene, ed adagiarsi sull’ invariabile letto del famoso Procuste, quasi che se non si avesse qualche sonetto di questi tali ne andrebbe, al dir del Menzini, il Parnasso tutto in rovina. Deh ! Ricredansi omai questi sciocchi, se non vogliono colla moneta dei pubblici scarcasmi pagar meritamente il fio del loro audace ardimento. Chi vuol montare a questo segno deve spargere pria non pochi sudori si nella lettura de’ classici, che nell’ esercizio de’ diversi ritmi dell’ arte, e poi inoltrarsi pian piano al cimento di si ardua impresa. La celebre raccolta del carmelitano Teobaldo Ceva, colle note critiche del Muratori, non che la dissertazione dello stesso mentre fan chiaro conoscere la difficoltà di un tal componimento, confermano del pari, e non con minor lume l’azidetta mia verità. Quindi non senza ragione molte, e molte regole con maestrevole industria prescrivansi da primi conoscitori dell’ arte su tal punto, alle quali, perchè degne di esser lette, meditate, e ridotte all’ uso i miei lettori unicamente rimetto. La sola distribuzione della materia però (previa di già la unità del pensiere, la nobiltà dell’ argomento) degna sempre di riflessione in tutte le composizioni, e molto più in questa, che di tutte è la più nobile mi spinge per un momento almeno a trattarla. Ci si sia adunque un’ occhiata.
Sull’ ordinaria estensione di quattordici versi eroici divisi in due
quartine, e due terzine è da conchiudersi qualunque siasi il concepito
disegno, senza però far torto alla chiarezza se mai è lungo, senza
offenderne l’andamento se è breve. Or per ben riuscirvi bisogna, che ogni
parte del Sonetto contenghi una proporzionata dose di materia. Ragion dunque
vuole, che la prima quartina contenghi l’esordio, la seconda colla prima
terzina, abbracci il corpo della narrativa, la seconda terzina restringa
finalmente la conclusione. Quest’ ultima parte però perchè in preferenza
delle altre la ragion contiene, per ◀cui▶ maestoso, e bello risulti il
Sonetto, essa in particolar modo occupar deve l’ingegno di chi
compona ; mentre il Sonetto, al pari d’un torrente, che
vicino alla foce porta maggior copia di acque, nell’
avvicinarsi al suo termine deve finire con una sentenza, che ferisce il
cuore, e cagiona una forte sorpresa. Leggansi in vero i Sonetti de più
celebri compositori, e si vedrà, che questa parte appunto hà formato il
principale loro scopo. Può darsi in vero chiusura più bella o di questa del
Petrarca. « Poco manco che io non restassi in Cielo »
« o di
questa del Frugoni : Ecco in un pugno il vincitor del Mondo »
o
di questa del Zappi : « Qualche nuovo sospirio imparerai »
o di
questa del Tasso : « Ch’io son dagli anni, e da fortuna oppresso »
o di questa del Bentivoglio : « Del gran Titiro mio sol mi
contento »
o di questa del Maggi : « Passò l’onda villana, e non
rispose »
o di mille altri sonetti, e mille altri autori, che per brevità io
tralascio ? In questi, come in tanti esemplari specchiar si deve
chiunque ama comparir nel Sonetto.
Inoltre tre specie di Sonetti la poetica arte ravvisa, l’ Eroico cioè, il Decasillabo, ed il Lirico, mentre le altre, che sotto accenneremo, tutte partono da questi modelli, ed ad essi si possono per conseguenza riferire. Può rimare il Sonetto per rapporto ai due quadernarii, o nel primo, e terzo, secondo, e quarto verso, o nel primo, e quarto, secondo, e terzo : per rapporto poi alle terzine, sogliono esse rimare come la terza rima, cioè nel primo, e nel terzo, mentre il secondo verso porge la rima all’ altro ternario. Questa legge però di rimare in tal guisa non è stata sempre la stessa ; mentre in maniere molto diverse scorgiamo ne poeti specialmente antichi concatenati i Sonetti, questa però ciò non ostante ne’ nostri giorni è la più usita ta. Venendo poi alla pratica, sebbene potrei addurre per norma i più belli Sonetti, che sotto un tal triplice divisato aspetto trovansi in diversi autori ; pur tutta volta perchè nelle precedenti composizioni hò dato tutto del mio senza copiar le altrui fatiche, così mi conviene fare ancora in questa specie di componimento, tutto che sappia, che i miei Sonetti tanto cedono a quei de Classici, quantum lenta solent inter viburna cupressi. Virg. ec. 1.
Tullia, che passa col carro sul cadavere del Padre.
SONETTO ENDECASILLABO.
L’iniqua figlia dispietata, e duraSpinta da vil fallace ambizïoneScordandosi pietà, dover, ragioneArriva a calpestar fin la natura.Visto il suo padre in grembo a rea sventuraSuperbamente al mesto auriga impone,Che dia feroce ai suoi caval di sprone,E il corpo al genitor schiacciar procuraMa perchè quei ricusa ella il punisceDel padre fatta già terribil schernoE quant’ella empi a è più, più par, che ardisceTremò a tal’ opra il gran pianeta eterno,E mentre la rea dell’ error gioiscePerdè la luce il Sol, rise l’inferno.
La Maschera
SONETTO DECASILLABO
L’uomo, che mascherando ognor si vàMostra, che ragionevole non è,Chi di farsi temer timor non hàSotto maschera mai non s’ascondè.Ma chi la conoscenza altrui non dàPerchè forse talor mancò di fèLe sembianze d’altrui le sue ne fàCol soccorso, che l’arte appien gli diè.La maschera gran cosa esser non può,Perchè va confondendo il meno, e il più,E fa dir facilmente il si, e il nò.Abbia dunque per norma chi è quaggiùLa maschera evitare, ed io ben sò,Che non sa mascherarsi la virtù.
La Rosa, che si lagna d’esser colta mezz’ aperta.
SONETTO LIRICO
Perchè mai destra villanaOr mi strappi al gambo mioQual’ è il mal, che t’ hò fatt’ io,Che mi dai pena si strana.Sarei stata la sovranaSopra il cespo in faccia al rio ;Se più apriva il seno oh Dio,Se la destra era più umanaOr perduta hò la bellezza,Non son più la verginella,Più non trovo in me vaghezza.Se la mano men rubellaNon mi usava tanta asprezzaTutta schiusa era più bella
Oltre le tre divisate specie di Sonetti, molti altri di diverse foggia ancor vi sarebbero, come gli acrostici, i bisdruccioli, i Bisticciati ec. ma lasciando da parte queste stentate freddure, di due soltanto più necessarii a sapersi farò brevemente parola. Questi sono il Sonetto in risposta, ed il Sonetto coll’ intercalare, a quali in fine aggiungerò una norma del Sonetto a rime obbligate.
I. Il Sonetto di risposta altro non è che il riscontro dato a qualche proposta ristretta in Sonetto. Or qui convien avvertire, che variamente formavansi dagli antichi le risposte, come può leggersi ne Comm. del Crescimbeni ; ma presso i moderni dietro il Petrarca, ed il Casa due son principalmente le ammesse, o rispondere cioè colle stesse consonanze, ma non colle stesse parole, o rispondere del tutto colle stesse voci adoperate nella proposta. Della quale seconda maniera perchè oggi più comunemente praticata eccone dopo la proposta l’ esempio
Titiro, ché invita Melibeo alla capanna
Mio dolce Melibeo vieni t’aspettoPassiam dell’ ozio il tempo alla capannaQuando il raggio del Sol non più ci affanna,E dei campi più dolce è allor l’aspetto.Sul limitar tengo un erboso lettoChe ameno l’ombra il fa di qualche canna,Vieni, che il fido amice non t’ingannaCacio, pomi, castagne hò ancor nel tetto.Colà la tua zampogna suonerai,Godrò dolce piacere, e tu ’l godrai.Desta ormai nel tuo cor si bel desio,Non tardare, t’affretta, e se verraiPer gioia un’ agnellin svenar vogl’ io.
Risposta di Melibeo.
Caro Titiro mio la greggia aspetto,E deggio rassettar la mia capanna,E quando il sol col raggio non affannaM’occupa del mio ovil solo l’aspetto.Dopo gli affar mi pince andarne al letto,Nè di zampogna più toccar la canna ;Che lo stravizzo non mi vince, o inganna,E mi piace posar sol nel mio tetto.Se tu la piva dolce suoneraiMentre che dolce gusto il sonno mioIo dormo, e godo, e tu in vegliar godrai,Appaga qual tu vuoi si bel desioVieni a veder qual sono, e se verraiTi saprò dar quel, che donar poss’ io.
II. Il Sonetto coll’ intercalare disegna quel Sonetto, in ◀cui▶ alla fine de’rispettivi Quartetti, e Ter zine si ripete il verso usato nel principio di quelli, e di queste ; sichè in vece di quattordici versi ne avrà un tal Sonetto quattro di più, non però sgarbatamente aggiunti, ma convenevolmente tradotti dal corpo istesso, affin di aggiungergli maggior robustezza, ed energia. Tal composizione però sembra sol’ adattabile allo stile basso, e pastorale. Eccone l’ esempio.
Didone abbandonata, che ascende la pira.
Hai vinto, hai vinto mia perversa sorte,Eecomi omai schernita, e abbandonata ;Se la mia gloria cade or calpestataChe serve più indugiar, corriamo a morte ;Hai vinto, hai vinto mia perversa sorte.Di Cartago cader veggio le porte,Veggo la reggia oppressa, e desolataChe più ti resta donna sventurataSenza tron, senza regno, e senza corte ;Hai vinto hai vinto mia perversa sorte ;Ma colui, che di me volle lo schernoVedrà che puote il mio crudel furore,Avrà il mio spirto per compagno eternoQuel crudel, che di me volle lo scherno.Fin che compagno del mio lungo erroreScenderà meco nell’ orrendo infernoDividendo con me l’aspro doloreSempre compagno del mio lungo errore.
III. Finalmente intorno al Sonetto da tessersi colle rime prescritte non stimo necessario apporre altre nozioni ; mentre, esso le tracce, e le norme siegue del Sonetto in generale. Suole questo per lo più darsi agli Estemporanei ; non saprei però se più per scandagliarne le bravure, o per facilitarne vieppiù l’impresa ; mentre il poeta allora invece di dividere il pensiero all’ obietto insieme, ed alla rima, lo fissera unicamente a quello, ben sapendo, che non può mancargli mai questa pertanto eccone la norma.
Ovidio, che si licenzia da suoi
Chi preveder potea si orribil danno ? DannoChi preveder tenta tremenda pena ? PenaAhi ! Che non reggo a si spietato affanno, AffannoOr che crudo voler ponmi in catena. CatenaHai vinto al fine mio destin tiranno, TirannoVado a perir nella deserta arena, ArenaVeggo di sorte lo spietato inganno ; IngannoChè il Ciel contro di me tuona, e balena. BalenaCome per me il favor cangiò del fato ? FatoTardi conosco il folle, e vil desio, DesioDeh ! Rammentisi ognun del dolor mio ; MioSe Augusto al mio servir si mostra ingrato IngratoRoma, figli, consorte, amici addio. Addio
Parte quarta.
Della poesia latina.
Poichè la poetica materia sotto la diversità delle lingue, avvegnachè investa accidentali caratteri più, o meno vistosi secondo le maggiori, o minori bellezze, e veneri d’ogni rispettivo linguaggio, non cangia unquemai però il suo essere, anzi sempre la stessa si conserva nella natura de’ componenti suoi membri ; chiaro ognuno scorge come avendo io di essa, e d’ogni sua parte sufficientemente ragionato nel precedente trattato della poesia toscana, nella circostanza non sono di formar di quest’ ultima parte sacra alle muse latine un distinto trattato al pari del primo ben’ ampio, ed esteso, potendola ben considerare, come fin dal principio dell’ operetta esposi, come di appendice, e soggiunta della precedente. Ragionato quindi in tal guisa il mio giudizio efformato sù tal proposito, non sarà a chi siasi di maraviglia se con affrettato passo percorrer mi vede il presente sentiero. Per dar però alla materia qualch’ordine, da ◀cui▶ acquista non poco la chiarezza, che de’libri suol essere il primo pregio, e decoro, in tre distinti capitoli divisatamente la restringo, e gradatamente la sviluppo, e dichiaro. Nel 1. parlerò de’piedi, loro nomi, e valore. Nel 2. ragionerò del verso, e delle differenti sue specie. Nel 3. Finalmente tratterò della varietà delle strofe, delle quali ogni più ordinario componimento si efforma, esempliflcando la speculativa conoscenza di ciascuna di esse con una strofa pratica da me stesso bassamente lavorata a tenore della capacità di qualunque siasi ingegno.
Cap. I.
De’ piedi, lor nome, e valore.
Siccome il verso toscano costa di sillabe, cosí di piedi è composto il latino ; e come per la disposta unione di quelle camina il primo con allettante armonia, così per l’ordinato misto di questi sonoro si rende il secondo. Dalla varietà però della nomenclatura de’ piedi parlano di essi alcuni Grammatici in modo di annoiare la noia istessa, colla mira soltanto, a mio credere, di caricar la memoria senza frutto. Sembrandomi quindi necessaria la sola cognizione di quelli, che entrono nella costruzione de’versi più comunemente praticati, di essi soli perciò passo a far brevemente parola. Questi sono sei, tre di due sillabe, cioè lo Spondeo, il Trocheo, ed il Giambo, tre altri poi di tre, cioè il Tribraco, il Dattilo, e l’Anapesto.
I. Lo spondeo, di ◀cui▶ un di per la sua gravità facevasi grand’uso ne’ sacrificii, come la etimologia istessa l’ adombra, è composte di due sillabe amendue lunghe, come Fortes, Terrent, Cunctos ecc.
II. Il Trocheo detto ancor da Cic. Corco adoperato dagli antichi nelle cantate a danze, costa di due sillabe differenti nella lor quantità, d’una lunga cioè, e d’una breve come Curre, Tembla, Cerne ecc.
III. Il Giambo inventato dalla donzella Giamba, ed usato ne’ componimenti satirici, e pungenti è l’opposto del Trocheo, perche costante d’una breve, e d’una lunga, come Boni, Viri, Dabunt ecc.
IV. Il Tribraco, come scorgesi dagli stessi componenti, onde risulta tal voce, è composto di tre sillabe brevi nella lor quantità, come Domine, Dominus, Hominis, ecc.
V. Il Dattilo detto ancora da Cic. Eroico, perchè atto a descrivere le grandiose imprese degli Eroi, costa di tre sillabe, delle quali la sola prima è lunga, come Plurima, Ducere, Carmina ecc.
VI. L’Anapesto finalmente è l’opposto del Dattilo, perchè per esso nelle danze in un modo tutto diverso dei dattilici salti erano le mosse de’ piedi, perciò consiste in due brevi, ed una lunga, come Trepidant, Populi, Timidi ec.
Qui però pria di passar oltre fa di mestieri avvertire, che una sillaba
benchè sia breve per sua natura, pur se finisce con consonante, e con altra
consonante incomincia la voce seguente, essa in tal caso soffre cambiamento
nella sua quantità, come in questo esempio :
Christus
colendus l’us
della parola Christus, che per la Reg. L. del nuovo
Met. è breve, perchè seguita dalla parola colendus, che comincia da
consonante diventa lunga, e quindi la voce intera Christus per tal’accidente
da Trocheo passa a Spondeo, lo che non sarebbe avvenuto se fosse seguita una
vocale, come Christus amandus.
Cap. II.
Del verso e delle differenti
Quell’aggregato di più piedi, che costituisce quell’armoniaca tessitura, che per antonomasia appellasi Verso siccome in rapporto al numero, ed al valore de’ suoi componenti cangia sempre di aspetto, così apre il campo a mille versi distinti nella numerica, e specifica lor differenza. Qualunque siasi però la loro moltiplice diversità si possono a tre classi commodamente ridurre, agli Esametri cioè, a Giambici, ed a Lirici, quali tutti imprendo brevemente ad esporre.
Articolo I.
Dell’ Esametro.ABC.
L’esametro, come la voce istessa disegna, costa di sei piedi in parte Dattili, ed in parte Spondei. Esso ne’ primi quattro piedi offre l’arbitrio di usare questi, o quelli secondo il genio dell’autore, e secondo che la natura della materia richiede ; ma nel quinto pretende onninamente il Dattilo, come nel sesto piede lo Spondeo, nè l’esempio di qualche Spondiaco, o Dattilico Esametro, che raro s’incontra, può giammai opporsi a tal norma(1). Nel formarsi un tale verso attendasi a far cadere la cesura (ossia distaccamento dell’ultima sillaba d’una parola) o dopo il secondo piede, o dopo il primo, ed il terzo in mancanza di quella. Abbiasi ancor la cura di terminarlo con parole di tre, o di due sillabe, mai però col monosillabo, eccetto soltanto qualora sia incorporato colla parola precedente, come in questo di Virg. Ec. 2. 70. Semiputata tibi frondosa vitis in ulmo est (2).
Inoltre al verso Esametro si riducono altri versi differenti, e questi sino al numero di sette, cioè il Pentametro, l’ Archilochio, il Ferecrazio, l’ Adonio, e tre altri innominati.
I. Il Pentametro costa, secondo indica la stessa voce, di cinque piedi,
cioè d’un Dattilo libero, d’uno Spondeo similmente libero, d’uno Spondeo
forzoso, e di due
Anapesti anch’essi forzosi,
benchè per altro comunemente si scande per due piedi Dattili, o Spondei
come siansi ed una cesura, due altri dattili quindi con altra cesura,
come :
Hei mihi quo Domi-no non licet ire tu-o.
Ov. lib. 1. Eleg. 1.
II. L’ Archilochio detto da Archiloco suo inventore costa di due Dattili, ed una cesura, come : Flumina praetcreunt Oraz. lib, 4. Pd. 5.
III. Il Ferecrazio dall’ Ateniese Ferecrate così detto con siste in uno Spondeo, un Dattilo, ed un’altro Spondeo, come : Vix durare carinae. Or. lib. 1. Od. 14.
IV. L’ Adonio così nominato da Adone, di ◀cui▶ in onor si cantava, ha un dattilo, ed uno Spondeo, come : Nomen imago. Or. lib. 1. Od. 12.
V. L’ Innominato primo costa di tre dattili, ed una cesura, come : Munera, laetitiamque Dei. Virg. 1. Æneid. 640.
VI. L’ Innominato secondo costa de’ primi quattro piedi dell’ Esametro, con legge però d’avere il quarto sempre dattilo, come : Luminibusque prior rediit vigor Boet. lib. 1.
VII. L’ Innominato terzo finalmente contiene gli ultimi quattro piedi dell’ Esametro, come : Aut Ephyum, bimarisve Corinthi. Or lib. 1. Od VII.
Articolo II.
De’ Giambici.
Per verso Giambico intendesi quel verso, in ◀cui▶ domina il piede Giambo, e sebbene un tempo vi dominava con dominio esclusivo ; pur oggi può dirsi, che sia il meno che vi regna. Un tal verso dal numero de’ piedi prende diverso il suo nome, sicchè dicesi Dimetro se costa di quattro piedi, come : Nivesque dedducunt Iovem. Or. Epod. Trimetro se ne abbraccia sei, come Quicumque regno fidit, et magna potens. Sen. in Troad. Tetametro se si compone di otto : Pecuniam in loco negligere maxumum interdum est lucrum. Ter. Ad. I Dimetri soli perche più brevi hanno conservata per metà l’antichià di lor composizione, mentre il solo Spondee con ben innesto si frappone ; ne’ Trimetri però, e molto più nei Tetrametri indifferentemente si è fatto cadere oltre, del detto Spondeo, il Tribraco, il Dattilo, l’Anapesto, come può vedersi in Plaut, Fed. e Ter.
Articolo III.
De’ Lirici.
Per evitar la confusione, che risulta dal moltiplice stuole de’versi Lirici li riduco tutti a tre classi, cioè in Coriambici, Endeceasillabi, ed Anapestici. Alla classe de’ Coriambici appartiene il Gliconio, l’ Asclepiadco, e due Innominati.
I. Il Gliconio costa d’uno Spondeo, un Trocheo, e due Grambi, come Ignotus moritur sibi. Sèn in Thyest.
II. L’ Asclepiadeo è composto di uno spondeo, d’un dattilo seguito da cesura, e due altri Dattili come : Sublimi feriam sidera vertice. Or. lib. 1. Od. 1.
III. L’ Innominato primo, che è più lungo dell’ Asclepiadeo per quattro sillabe costa d’uno Spondeo, d’un Dattilo, d’un altro Spondeo d’un Anapesto, e di due dattili, come : Seu plures hiemes, seu tribuit Iupiter ulcimam. Or. lib. 1. Od. 11.
IV. L’ Innominato secondo per altro poco usato è uguale all’ Asclepiadeo almeno nel valor della quantità, e perciò abbraccia uno Spondeo, un dattilo con cesnra, un altro dattilo, ed un’altro Spondeo, come : O quam glorifica luce coruscas Boez. lib. 1.
Alla classe poi degli Endecasillabi si riducono i Faleuci, i Saffici, e gli Alcaici.
I. I Faleuci detti così dal greco inventore Faleuco costano d’uno Spondeo, d’un dattilo, e tre Trochei, come : Iucundissime Calve, munere isto. Catul. nell’ Epig. a Calv.
II. I Saffici invenzione della greca poetessa Saffo contengono un Trocheo, uno Spondeo, un dattilo, e due Trochei come : Iam satis terris nivis, atque dirae. Or. lib. 1. Od. 2.
III. Gli Alcaici inventati da Alceo hanno quattro piedi, cioè un Giambo, o uno Spondeo in suo luogo, un giambo con cesura, ed in fin due dattili, come : Donec virenti canities abest. Or. lib. 1. Od. 9. Il minore poi ha due Dattili sol, e due Corei, come Composita repetantur hora. Ib.
Gli Anapestici finalmente costituiseono l’ultima classe dei versi lirici. A questi parmi essere accaduto, quel, che suole avvenire ad un titolato, che combattuto da diversi sinistri accidenti gli resta per fine il solo titolo senza patrimonio. Imperocchè mentre un tal verso dai quattro piedi Anapesti, dei quali era composto improntò il suo nome, nel decadimento del rigore colla sostituzione de’ dattili, e de’ Spondei in lor vece restò decorato del semplice nome, e privo della tessitura primiera ; benchè per altro coll’aver ricevuto un valore equivalente al primo è da dissi più felice del detto Titolato.
Cap. III.
Della diversita’ delle strofe.
In quest’ultimo capitolo del ristretto della poesia latina passando sotto silenzio la diversità de’ componimenti per ragion della materia, nè brigandomi delle composizioni lavorate ad un sol torno, cioé con una sola specie di versi dette Carmen Monocolon, prendo unicamente di veduta le diverse maniere di comporre risultanti dalla diversità della Versificazione riconosciute egualmente da Greci sotto le divise di Carmen Policolon. Qualunque intanto esse siano nella loro diversità le composizioni latine, a quattro maniere si possono ordinariamente ridurre. La 1. abbraccia le strofe di due versi di duplice specie, chiamate Dicolon Distrophon. La 2. Comprende le strofe di quattro versi di sole due specie, nominate Dicolon Tetrastrophon. La 3. riguarda le strofe di tre versi di triplice differente natura, detta Tricolon Tristrophon. L’ultima finalmente contiene le strofe di quattro versi di tre specie chiamate Tricolon Tetrastrophon, voci, che ho dovuto apporre per non imbrogliare i giovani nella lettura di questo, e di altri libri, ove generalmente si trovavano. Facciamoci impertanto all’esame di tutte queste cose
Articolo I.
Delle strofe di due versi di doppia specie.
Le strofe, che comprendono due versi di differente natura sono d’una moltiplice varietà ; nove comunemente se ne assegnano.
I.
La prima costa d’un Esametro, e d’un Pentametro, come
Qui cupit in Coelis vitam gaudere beatamImpleat in terris iussa verenda Dei.
II.
La seconda è composta d’un’ Esametro, e d’un Archilochio, come
Omnibus in rebus quicumque novissima pensatHic scelus omne fugit.
III.
La terza comprende un’ Esametro, ed un verso composto degli ultimi quattro piedi di esso, come.
Ut colubrum vitare decet scelus omne nefandumId Sapiens nos admonet omnes.
IV.
La quarta abbraccia un’ Esametro, ed un Giambico dimetro, come
Artibus ingenuis nihil est praestantius interTerrena cuncta cetera.
V.
La quinta contiene un’ Esametro, ed un Trimetro puro, come
Gloria sit Christo, coeli qui venit ab altoAmore cordis actus in miserrimos.
VI.
La sesta unisce un Giambico Trimetro, ed un Dimetro come
Quicumque carde Iesu matrem amaveritCunctis triumphat hostibus.
VII.
La settimana accoppia un Dimetro manchevole di una sillaba in principio con un Trimetro manchevole anch’esso di una, ma nella fine, come.
Unicus Dei timoPotest procaces continere mores
VIII.
L’ottava accoppia un Gliconio con un Asclepiadeo, come
Luctus vertitur in bonumQuando cum lacrymis crimina tergimus
IX.
La nona finalmente consiste in un Eptametro, ed in Trimetro Archilochio,(1) come
Ingenium cura quicumque gravi laborat, aegreMusas amabit gratiam petentes.
Articolo II.
Delle strofe di quattro versi di doppia specie.
Di una doppia varietà sono le strofe appartenenti a questa classe. La prima comprende tre Aselepiadiadei, ed un Eliconio come
I.
Natae Mnemosynes, et Iovis optimiLumen clarificum spargite mentibusNostris, ut studiis denique praeditiSit nobis decus, ac honor
II.
La seconda abbraccia tre Saffici, ed un Adonio, come
Ipse qui nostri miserans salutemPraestitit coelo veniens RedemptorPane se totum voluit subesseDuctus amore.
Articolo III.
Delle strofe di tre nersi di triplice specie.
Un sol componimento trovasi in Orazio Epod. Od XI. la vorato a questo metro composto d’un Trimetro, d’un Archilochio, e d’un Dimetro come
Esto cuique fortis Orbis ArbiterRobur, et auviliumDum vivit exul patriae.
Articolo IV.
Delle strofe di quattro versi di tre sorti.
Tutti i componimenti appartenenti a poesie di tal natura dividonsi in due specie.
I.
La prima consiste nell’ unione di due Asclepiadei, d’un Ferecrazio, e d’un Gligonio, come
Quid prodest homini gloria ? Quid decus ?Quid sunt divitiae ? Quid bona cetera ?Ah ! Pulvis, vapor, umbra,Quae dum videntur excidunt.
II.
La seconda, che vedesi più campeggiare in Orazio, perche la più bella, costa di due Alcaici, d’un dimetro con una sillaba di più in fine, e di un Alcaico minore, come
Divina virtus candida puritasTe mundus odis lubrica prosequens ;Qui vero qualis es relexitTe fovet in gremio benignus.
Ecco in corti termini descritti tutti i più praticati metri della poesia latina. La cognizione di questi però poco giova, se dietro lunga lettura non si passi all’ esercizio, ed all’uso. Quindi per invogliare i Giovanetti a tale impresa, pria di sottrarre il libro alla penna penso apporre un intero componimento da me rozzamente lavorato nelle seconde nozze del nostro augusto sovrano Ferdinando II. che Dio sempre feliciti.
Sistite, Pierides, longos effundere questus,Tundere et arctata pectora nuda manu.Nec pigent Syrio perfundere tempora nardo,Peplaque laetifico sumere picta croco.Gaudia tempus amat. Fas est deponere curasTristes, atque invat dulce ciere melos.Post hyemen imbriferam ver ut comparet amoenum ;Sic venit infestis rebus amica quies.Dura dies fluxit, quae miscuit omnia luctu ;Cum CHRISTINA neci cessit amata parens.Luctifico hoc equidem riguerunt pectora casu ;Territus ut remanet tactus ab igne Iovis.At DEUS Omnipotens sortem miseratus acerbamOccurrit tantis providus ipse malis.Vidimus hinc hilares FERNANDI in sede sedentemMatrem, quae primam moribus alma refert.Adstitit exemplum morum, ac virtutis imago,Adstitit intactae Religionis honor.Adstitit adiutrix inopum, ac tutela precantum,Adstitit infundis spes data oerta malis.Hae duce si qua modo veteris tormenta dolorisTorquerent animos, cuncta fugata manent.Heac duce iamque novus saeclorum nascitur ordo,Faustaque Saturni denuo regna vigent.Hac duce … sed quamvis praeberet carmina PhoebusIpse, nec incaeptis apta loquela foret.Casibus hic merito gaudet Trinacria, et allaParthenope pacem gestit habere suam.Ingeminant pueri modulos, plauduntque puellae.Amissam et matrem se reperisse ferunt,Ipsi laetitia montes, vallesque resultant,Vocibus et laetis compita cuncta sonant :Adfuit en tandem exoptata THERESIA nobis,Adfuit Austriaci gloria prima soli.Cur igitur querulis implere ululatibus avrasPierides, festo dum strepit Orbis io ?Eia simul cantum citharis, linguisque faventesClaudite : Reginae prospera cuncta sient.
Eccovi, amati giovani, appagato omai il vostro comune desio. Eccovi già nelle mani quel libro, che con iterate istanze da voi si pretese. Se nel percorrerlo alcun difetto il vostro ingegno seminato vi scorge incolpatene la brevità del tempo prefisso, e se pur volete, la insufficienza, non mai però la volontà. Vi prego in somma a profittar dell’ opera, e compatir l’autore.
FINE.
Le copie non munite della presente firma s’intendono contraffatte.
Omnis quippe caro corruperat viam suam: Non altrimenti che con quel, che accennai, sulla origine della idolatria istessa riprovar non intesi o il parere di chi la vuole discesa dalla introduzione de’due principii buono, e cattivo, o la sentenza di chi ne ascrive la cagione al timore, giusta quel di Lucrezio :
Gigantes autem erant super faciem terrae in diebus illis. Isti sunt potentes a saeculo, viri famosi.Questi co’loro atroci delitti cercarono muover guerra al cielo, e per ciò estinti per giusto giudizio di Dio, come di tratto in tratto al par di essi leggiam conquisi altri Teomachi, e sprezzatori della Divinità, come un Faraone co’suoi nelle onde Eritree, de’ quali in Giobbe al 26 stà scritto :
Ecce gigantes gemunt sub aquis, e come un dì dovrà avvenire al Corifeo de’Teomachi l’Anticristo ; di ◀cui▶ sta scritto nella seconda a Tassalonicesi. 2. Quem Dominus Jesus interficiet spiritu oris sui, et destruet illustratione adventus sui. Siasi però qualunque la origine delle folli imprese dei Titani, e dei Giganti certo si è esser essa si nota, che quell’ Amazone de’ Giudei Giuditta nel dare a Dio l’ Eucaristico Canto per l’ ottenuta vittoria contro Oloferne con singolare maniera celebra la divina fortezza, che oppresso aveva quel gran duce degl’ Assirii non col braccio de’ Titani, o de’ Giganti, ma per la mano della sua debelezza :
Nec filii Titan , così nel cap. 16 Jud. percusserunt eum, nec excelsi Gigantes opposuerunt se illi.
(1). Parlando i Mitologi di questo Dio del mare, fan parola ancor delle Sirene, che fingonsi gioviali donzelle nella parte superiore, terminando la inferiore in due codi di pesce, abitanti sugli scogli lungo la Sicilia. Proprio di esse si era addormentare col canto i miseri passaggieri, quindi affogarli nelle onde, e morti finalmente divorarli. Quale cosa ben sapendo Ulisse nel passar per quel luogo con tutti i suoi, a questi turò con cera gl’orecchi, e se stesso fece ligare ad un albore della sua nave ; quale invenzione poi scorgendo la Sirene mosse dalla impazienza del dolore, ululando, e gemendo si precipitarono nel mare. Omero intanto a tal proposito le fa in tal modo partare ad Ulisse ;
O Deus Argelicum quin puppim flectis Ulysses,Auribus ut nostros possis agnoscere cantus ?Nam nemo haec unquam est transvectus coerula cursu.Quin prius adstiterit vocum dulcedine captus,Post varüs avido satiatus pectore musisDoctior ad patrias lapsus pervenerit oras.
Per questi tristi gemiti, ed amare querele delle abbandonate
Sirene può spiegarsi quel detto di Giobbe, d’aver egli
piante le sue disgrazie travagliato da dolori col tuono
delle Sirene, se pur non abbia egli il S. uomo voluto
intendere l’orrore della solitudine, ◀cui▶ era ridotto,
prendendo allegoria da alcuni solitarii uccelli delle Indie
chiamati al dir di Plinio le Sirene. Nel
senso morale però molti non senza fondamento per le dette
Sirene intendono alcune donne di depravati costumi, che
dimorando nelle vicinanze siciliane con mille lusinghe, ed
attrattive, quasi con altrettanti lacci attiravano al lor
seno gl’ incauti viaggiatori, e per sensuali diletti li
spogliavano delle loro sostanze :
secundum
veritatem
, così Serv. In 5. ÆN.
meretrices fuerunt, quae transeuntes quoniam eos
perducebant ad egestatèm, his fictae sunt inferre
naufragia. Has Ulysses contemnendo deduxit ad
morlem
.
(1). I Ciclopi furono con tal nome chiamati perchè presentavano un sol occhio rotondo in mezzo la fronte. Erano essi, secondo Euripide afferma, figli del gran gigante Polifemo figliuol di Nettuno. I principali fra essi furono Bronte, Sterope, e Piraemone, secondo Virg.
Ferrum execerbant vasto Cyclopes in antroBrontesque, Steropesque, et nudus membra Pyracmom
e par, che la viva immàgine della lore forza, e destrezza nel loro impiego abbia somministrata al Poeta istesso quella brillante descrizione dei ferrai accinti al lavoro.
… Alii ventosis follibus auras :Accipiunt, redduntque : alii stridentia tingunt.Aera lacu, gemit impositis incudibus antrum.Illi inter se se multa vi brachia tolluntIn numerum, versanique tenaci forcipe ferrum.
Pro. Christo legatione fungimur tanquam Deo exhortante per nos, obsecramus pro Christo reconciliamini Deo ?Che finalmente meglio di Mercurio abbia richiamato le anime dalla morte eterna, abbia riportato gran bottino ec. ne resterà ognuno sufficientemente convinto a riflettère le sue gesta in più luoghi de’ libri S. registrate.
(1). Non è mio pensiere sviluppare quel, che deve sentirsi circa gl’ oracoli. In molti padri della Chiesa, ed in molti profani scrittori può originalmente ciò leggersi. Sol dico, che approssimandosi la venuta del Verbo in Carne, siccome molte statue non sò in che modo dal ciel percosse caddero nel Campidoglio, e si disfecero, come riferisce Dione, di ◀cui▶ fu menzione Filostr. in Tyan : I, Hist. così il famoso oracolo di Apollo colpito anche esso restò muto, e di tal silenzio lo stosso Demonio rese la ragione dicendo :
Me puer Hebraeus divos Deus ipse gubernausCedere sede iubet, tristemque redire sub orcum,Aris ergo dehine tacitis abscedite nostris.
(1). Bella assai al suo costume é la descrizione, che nel i. delle sue Eneide fà Virgilio delle affannose voci di questa Dea recatasi da Eolo per ajuto, non che delle consolanti parole, che questi in risposta le diede. Quale descrizione, perchè oltremodo mi rapisce voglio restringerla, se pur mi riesce, in un sonetto.
Per punir il Trojan dell’ opra atroceDi Paride fatal Giuno adirata,Ad Eolo parla con terribil voceFiera, torva, funesta, ed accigliata.Disse : tu sai qual reo dolor mi nuoce,Sai quanto in Ida un dì fui dispregiata,Questa schiatta Trojana empia feroceResti col folle Enea tutt’ annientata.Una mia Ninfa avrai dolce consorte,Purchè punisci la vil flotta abietta,Mostrandoti qual sei possente, e forte.Eolo rispose : a me sì, a me si aspettaPunir le offese tue colla lor morte,I venti, il mar faran la tua vendetta.
(1). Il palladio, che conservavasi in questo tempio dicesi essere stato lo stesso Palladio di Troja, il quale sebbene fosse stato rapilo de Greci, ed altronde recato, pure per mezzo di Diomede di bel nuovo pervennc nelle mani del Trojano Enea, il quale seco lo tradusse in Italia, e dopo molte vicende cadde in potere de’ Romani, i quali vollero che si conservasse nel gran tempio di Numa con tanta gelosia, che solamente la Sacerdotessa maggiore poteva vagheggiarlo, come l’attesta Lucano :
Vestalemque chorum ducit vittata Sacerdos,
(1). Questa Civetta, di ◀cui▶ fù amante Minerva fù la Principessa Nittimene, che mal servendosi delle tenebre per ingannare il suo padre Nitteo, onde conseguirne l’incestuoso commercio fù in pena del suo attentato cambiata in questo animale, che fuggendo sempre la luce cerca nascondere fra le tetre ombre l’orroroso suo fallo Ov.
……….Conscia culpae.Conspectum, lucemque fugit, tenebrisque pudoremCelat, et a cunetis expellitur aere toto.
Per questa ragione Demostene qualora imprese a deridere gli Ateniesi per la ricevuta ingiuria di audarne in bando prese a dire, che Minerva si compiaceva di tre bestie più villane, del Serpente cioè, della Civetta, e del popolo.
Cum intrasset Antiochus, apertoque occnlto aditu templi mittentes lapides percusserunt ducem… et diviserunt membratim.
Desino fata Deum flecti sperare precando Virg: Imperocchè non essendo il nostro Dio il cieco Dio de’ Gentili, gl’atti di sua prescienza puramente speculativa, e conseguente non mai van disgiunti da tutte quelle circostanze, che dovranno accompagnare un effetto future : quindi essendo l’industria, la sollecitudine, l’impegno presso dell’uomo uno dei mezzi previsi, chi può fare ammeno di metterlo ? fuor di senno invero si direbbe un agricoltore, un’ ammalato ec. Che solleciti per la divina prescienza l’uno si astenesse dal seminare, non curasse l’altro le opportune medicine ; quanto più insano dunque dir non si dovrebbe chi commosso per la divina prescienza, disperato indietro si buttasse ogni mezzo ? E desiste mai forse di tentare saranno tuttocchè sappia dover avvenire le cose a norma della Divina prescienza ? del resto non potendo io senza taccia di temerità da Mitologo semplice farmi gran Teologo tacendo ogn’altro argomento conchiudo con questo adattatissimo apologo. Un uomo una volta con un’uccello vivo chiuso in mano portossi da un oracolo per sapere cosa egli rispondesse. La intenzione era di schernirlo ; perocchè se l’oracolo diceva, che quell’uccello era morto egli lo lasciava volare, se lo diceva vivo, egli stringendolo facevalo morire ; ma l’oracolo per eludere l’inganno con invenzione più fina disse : l’uccello è come ti piace. Così, e non altrimenti risponderei anche io a tal giovane, o a chiunque mi interrogasse, che ha preveduto Dio di me ? L’eterna salute, o l’interminabil ruina ? Ha preveduto quel che ti piace, e quello, che in effetto tu operi, e perciò la tua sorte è nelle tue mani.
De semine tuo non dabis, ut consegretur Idolo Moloch ne polluas nomen Domini.
(1). Si barbaro costume di sacrificare invalse non solo presso i Galli, de’ quali parla Tullio Orat. pro Font. ma benanche presso i Greci, Sciti, Traci, Africani, ed altri popoli ; per ◀cui▶ Lattanzio dopo aver esposte, e rampognate si barbare usanze quasi generalmente praticate conchiude con questa Epifonema l’istoria :
Tantum religio potuit suadere malorumQuas peperit saepe scelerosa, atque impia facta.
habete in animo Prudentiam, iu lingua Silentium, et in vultu Verecundiam.
(1). Bella è la descrizione, che dell’effigie di queste Dio efforma Properzio al terzo.
Quicumque ille fuit, puerum qui pinxit AmoremNonne putas miras hunc habuisse manus ?Hic primum vidit, sine sensu vivere amantes,Et levibus curis magna perire bonaIdem non frustra ventosas addidit alas,Fecit et humano corde volare Deum.Scilicet alterna quonium iactamur in unda,Nostraque non ullis permanet aura locis.Et merito hamatis manus est armata sagittis.Æt pharetra ex humero Enossia utroque iacetAnte ferit quonium tuti quam ceruimus hostem,Nec quisquam ex illo vulnere sanus abit.
(1). Tra le più belle pitture, che rappresentano Plutone la più luminosa a mio credere è quella, che colla divina sua penna delineò nella sua Gerusalemme il Tasso, in ◀cui▶ dopo aver descritto di quel Nume lo scettro, la fronte, le corna così quindi soggiunse.
Orrida maestà nel fero aspettoTerrore accresce, e più superbo il rendeRosseggian gl’occhi, e di veneno infettoCome infausta cometa il guardo splende…E in guisa di voragine profondaSi apre la bocca d’atro sangue immonda.
Clamate voce maiore : Deus enim est, et forsitan loquitur, aut in diversorio est, aut in itinere, aut certe dormit ut excitetur.3. Reg. 18.
(1). Sembra, che l’ape romana in questo squarcio abbia succhia to il dolce de’ fiori sparsi nel sonetto del cav. Marino sullo stesso argomento dicendo :
Apre l’ uomo infelice allor che nasceIn questa valle di miserie pienaPria che al sol gli occhi al pianto, e nato appenaVa prigionier fra le tenaci fasce.Adulto poichè non più latte il pasceSotto rigida sferza i giorni mena :Indi in età più fosca, che serenaTra fortuna, ed amor more, e rinasce.Quante poscia sostien tristo, e mendicoFatiche, e stenti infinchè curvo, e lassoAppoggia a un debil legno il fianco antico.Chiude al fin le sue spoglie angusto sasso,Nell’atto a voi che sospirando io dico ;Dalla culla alla tomba è un breve passo