Che se alcun m’opponesse che i vantaggi di sopra indicati nella lingua italiana appartengono all’accento prosodiaco e non all’accento naturale, o per dir meglio, patetico, assai diverso da quello, e che in questo è riposto il principio ascoso della melodia, io rispondo che l’accento prosodiaco il naturale necessariamente conseguita, poiché le regole della pronunzia nel proferire le sillabe non si sono altronde ricavate, che dalla continua osservazione di ciò che succede in natura, e dai diversi alzamenti, o abbassamenti di voce, dalla diversa rapidità, o lentezza, con cui nell’uomo le passioni si esprimono: e l’asserire che tali regole niente hanno di comune coll’accento naturale, o patetico, sarebbe ugualmente assurdo, e ridicolo, che il dire che la musica strumentale ha fondamenti contrari o diversi della vocale. […] Ma assai si è detto onde si conoscano le sue prerogative per la musica, e l’ingiustizia altresì con cui parlano di essa alcuni scrittori francesi, tra quali il gesuita Bouhours colla leggerezza sua solita nel giudicare non ebbe difficoltà di dire: «Che è una lingua affatto giochevole, che altro non intende che di far ridere coi suoi diminutivi», e notisi, che molti di quelli ch’ei nomina non si trovano frale parole toscane: «Che le continue terminazioni in vocale fanno una musica molto sgradevole», quando le principali bellezze della musica italiana nascono appunto da queste: «Che la lingua italiana non può esprimere la natura, e ch’essa non può dare alle cose l’aria, e vaghezza lor propria, e convenevole: Che le metafore continue, e le allegorie sono le delizie degl’Italiani, e degli Spagnuoli ancora: Che le loro lingue portano sempre le cose a qualche estremo: Che la maggior parte delle parole italiane, e spagnuole è piena d’oscurità, di confusione, e di gonfiezza», come se la gonfiezza, e l’oscurità fossero un vizio delle parole, e non degli autori: «Che i Chinesi e quasi tutti i popoli dell’Asia cantano, i tedeschi ragliano, gli Spagnuoli declamano, gli Inglesi fischiano, gli Italiani sospirano, né ci ha propriamente che i Francesi, i quali parlino». […] [18] Che se alcun volesse filosofando ricercare onde abbiasi la lingua italiana acquistata quella dolcezza, che sì abile al canto la rende, e da quai fonti siano derivati i successivi cangiamenti ad essa avvenuti dai Romani in quà, potrà egli a mio giudizio rinvenirli nelle cagioni seguenti. […] Un intiero volume potrebbe scriversi contro a sì leggiera asserzione, nel quale si proverebbe ad evidenza: Che la pronunzia gutturale della nostra lingua si riduce a tre sole lettere delle ventiquattro, che compongono l’alfabeto, cioè “x”, “g” e “iota”; che il loro suono, quando vien proferito da bocca castigliana la sola depositaria fra noi del bello e colto parlare, è meno aspro, e men rozzo di quello, che sia la pronunzia del popolo più colto d’Italia cioè del fiorentino nel pronunziare in “ca”, dov’essi fanno assai più sentire la gorgia; che la frequenza di esse lettere non è tale, che non possa agevolmente schivarsi, ove si voglia comporre per il canto; che appena la terza parte delle parole spagnuole finisce in consonante, e per ben due terzi in vocale; che esse consonanti finali sono le più dolci, e soavi dell’alfabeto, per esempio “s, d, l, n, r”, ove la pronunzia niuno trova, o pochissimo intoppo; che le consonanti più ruvide, e meno musicali tanto adoperate dai Latini, dai Francesi e dai popoli settentrionali, come sarebbero “f, p, t, c, b, k, g, m, ll, rr” sono affatto sbandite in fine delle nostre parole; che niun vocabolo termina con due consonanti in seguito, come avviene agl’Inglesi, Tedeschi, Francesi e Latini; che però siffatte terminazioni rendono la notra lingua maestosa, e sonora senza renderla per questo men bella, come le frequenti desinenze in “-as, -es, -os” non toglievano alla lingua greca l’esser dolce, e soavissima; che quasi tutti i vantaggi insomma, che sono stati da me osservati nella lingua italiana circa la netezza de’ suoni, gli accenti, e la prosodia si trovano appuntino nella spagnuola, come si dovrebbe da un filosofico, e imparziale confronto, se l’opportunità il richiedesse. […] Che avrò per compagno nella derisione, siccome lo ho nel sentimento, un autore, il quale per esser moderno, e filosofo, e (quello che più importa) francese, spero, che m’abbia a servire di scudo, contro a codesti feroci proseliti della moda.
… Che robaccia ! […] Che figura graziosa ! […] Che personaggio fate ?
Che amabile martir! […] Che fo? […] Che raffinamento in quelli dell’italiano! […] Che attender? […] Che ascoltar?
Ma nell’ampio del mondo orribil Vallo, Per tua gloria maggior vinci poi tanto, Che pure hai l’alma al par d’un bel cristallo.
Che il tutto riceuera per gratia singularissima.
Che semplicità del Signorelli! […] Che lo stile delle otto Commedie senta il sapore usato di Cervantes? Che importa che si dovrebbe supporre questo Scrittore assai stupido e nemico della propria riputazione, perchè sotto gli occhi suoi vedesse e tollerasse cotal forfanteria senza ricercare novella delle sue Commedie soppresse? Che importa che sopravvivesse un anno a cotale oltraggio fatto al suo nome con simile soperchieria, e non ne procurasse il risarcimento, e non se ne lamentasse almeno, quando di molte minute particolarità delle sue cose ebbe egli cura di lasciar memoria ne’ suoi scritti? […] Che poi prima di Lope il Teatro Spagnuolo non contasse se non meschini Poeti, e non insigni conservatori della di lui sanità, il conferma il dotto Bibliografo Spagnuolo l’Antonio, dicendo che prima di Lope la Commedia Spagnuola reptabat, & balbutiebat olim inter manus Lupi de Rueda, Navarri, & similium, absque ulla spe ulterioris ad tolerabilem aliquem statum progressionis.
Che il pensiero di quei taluni sia esatto non oserei affermare, sebbene si possa concedere che l’elemento nordico entri per qualche cosa nella presente modulazion della voce con predominio di note cavernose, e nella presente interpretazione de'vari tipi con predominio di sfiaccolamento fisico. […] Che se poi per maestro si volesse intendere colui dal quale si succhia e il metodo dello studio, e il fondo dell’interpretazione, e le originalità della dizione, allora certo lo Zacconi rigetterebbe il giudizio, come de'più erronei. […] Che vuol dire mai questo circoscrivere l’arte a un tale o tal altro sacerdote ? Che in arte vi sia chi impotente a far del suo, cammina servilmente sull’orme altrui, è indiscutibile : ma quegli non è più artista ; è semplicemente attore. […] Ecco, a te intorno un dolce alito spira Che il bel volto accarezza, E l’alma nostra in fremiti d’ebbrezza Te, o divina, sospira !
Ad ogni lama Che non ha impronta, egli un maestro assegna. […] Isa: Che far poss’ io? […] Che vivacità in Moreto! Che delicato contrasto di un orgoglio nutrito sin dalla fanciullezza, e di un amor nascente nel cuore di Diana! Che interesse in tutta la favola progressivamente accresciuto a misura che si avanza verso il fine!
So ben che a i rari portentosi accenti Tiensi la Notte assai più bella, e parmi Che stian su l’ale taciturni i Venti ; E so che Febo a l’immortal tua laude Vili tenendo al paragon suoi carmi Lascia la Cetra, e col tacer l’applaude.
Che irresistibili effetti di riso in quella misurata, aristocratica comicità ! […] Che nota elegante, che sciccherìa egli ha saputo mettere nel più grottesco delle moderné pochades !
Che titolo porta questa favola? […] Che mi comandate, o Madre? […] Che vuol dir ciò, Amlet? […] Che pensi di fare? […] Che vuoi, ombra veneranda?
Che gran silenzio ! […] Che scorno a la ragione ! […] Che rimane a far più alla gloriosa artista ? […] Che amorosa sollecitudine nelle concezioni ! Che ingegnosa varietà nelle intonazioni !
Che secolo maraviglioso quello che si conosce in Italia col nome del Cinquecento! Che sfoggio di ricchezze letterarie! […] Che ci dice di più il signor Mattei? Che la tragedia e la commedia greca si cantava? […] Che le antiche tragedie e commedie altro non erano che specie d’opere 163?
Che il nome del Bertoldi fosse legato a tutto quanto era manifestazione di arte sulle scene del Teatro di Corte abbiam veduto.
ANTONIA BESEGHI AL BEL SESSO Donne gentili che verace esempio Mai sempre foste di bontà sincera, Voi che di grazie il cor rendeste un Tempio, Non sdegnate onorarmi questa sera : Essendo donna io pur conosco a fondo Che sia la donna, e come vada il mondo.
Con grazia tal ragiona, Che ad ogni motto una novella appicca, Che sempre è lunga, e non è giammai buona. […] Ad ogni lama Che non ha impronta, egli un maestro assegna. […] Che far poss’ io? […] Che vivacità in Moreto! […] Che interesse in tutta la favola progressivamente accresciuto a misura che si avanza verso il fine!
Che più ?
Come saggio del suo stile, riferisco io pure il sonetto recitato da Tibaldello, che è alla fine della tragicommedia : Compito, amici, ho alfin l’alto disegno, Che formava fedel le vostre glorie.
Che parli? […] Che ascolto! […] Che ascolto! […] Che ne risulta? […] Che roba!
Che vuoi da me ? […] Intendimi, nè più sopra di me tua mente fermisi : Che più possibil fia gli monti altissimi veloci andar, che mai io mi dissepari da l’onesto pensier casto e immutabile.
Che anima ! Che vita !
Che lanci di leonessa ! […] Che lagrime sgorgavano da quegli occhi infiammati !
me uolessero acquistar nella forma qui sotto, per non pigliarsi tanto fastidio, farò nuoua Compagnia, e farò in questo modo : Prima entrarò à nuova Compagnia, e fatti li Conti del mio debito sodisfarò con quella porccione, che mi tocarà de Guadagni, e li anni che non si faranno Comedie li pagarò il cinque per cento : Che le spese si farrano nel teatro per benificio de Comici siano comune come anche del Teatro : E perche li ho dato ogn’anno cento scudi di fitto del Teatro, m’obbligo in questo caso, di far quello comandarano le Signorie loro Ill.
E parti Che a quel modo colui senza delitti Viver potrebbe? […] Dopo ciò il servo a forza dì domandare viene in chiaro del succeduto, e presso Menandro così favella: O quanto è sventurato il malaccorto Che nulla possedendo a nozze corre, E di figliuoli caricarsi brama! […] Egli non pensa Ciò che conviensi, pien del suo disegno Che tristi giorni e lunghi guai gli appresta. […] Un altro de’ più pregevoli frammenti di Menandro parmi quello recato da Plutarco nell’opuscolo de Consolatione ad Apollonium, che noi consultata la traduzione del Silandro così rechiamo in italiano: Se quando al dì la madre tua ti espose Con questa legge tu fra noi venisti, Che a tuo piacer girar dovesse il mondo: Se tal felicità propizio un nume A te promise, a gran ragion ti sdegni: Poichè la fe che ti giurò non serba.
Che deliziosa macchietta, ad esempio, quella dell’operaja nell’Ispettore dei vagoni-letto, che invita ai baci col falso tic !
A te del pari Che a me concesso è il vanto Di apprestar del gran dì sacro a Cibele Il festivo apparato. […] È ver, ma a questo Che dividi con me, l’onor tu accoppj D’esser d’un gran regnante oggi consorte. […] Che? […] Ah se ti perdo, ah se a morir son presso Che mi resta a temer?
Che della grazia Quam Deus etc.
Che razza di vigilanza e di cura avesse delle cittadine questo strano funzionario, lo abbiamo visto ; ma quello che ci ha fatto vera sorpresa, si è che il Governatore gli dette ragione, e ne scrisse al Podestà in questi termini : 1636, ai 5 di giugno.
Che cosa facesse, o dicesse non so ; e nessuno seppe, e forse non seppe mai nè anch'egli : improvvisa un discorso pazzo, con alzate e abbassamenti di tono di una comicità irresistibile, poi a piccoli salti, a gemiti interrotti, a grida soffocate, fugge, inciampa, va a gambe all’aria, si alza, esce zoppicando, e il pubblico frenetico lo vuole alla ribalta. […] Che ! Che !
Leggiadri in atto ed in galante foggia Sul francese teatro ivan gli eroi De la Grecia e del Lazio in pria che grande In sua simplicità Talma apparisse Con la toga ed il pallio a offrir l’imago De’ signori del mondo ; e tale allora Dal labbro di quel fiero avvalorati I carmi di Cornelio ebbero un suono, Che da la corte del maggior Luigi Non fu udito giammai. […] Pur della Senna e del Tamigi in riva Ricchezze e onori si profondon’anco A chi fa bella del natio suo riso La classica Commedia,16 e a chi l’accento Che immortale segnò tragica penna Fa possente suonar ;17 nè meno in folla A Riccardi, a Zaire, a Polïutti Che a Silfidi e ad Orfei traggon le genti ; Ove d’Italia in le città più vaste Ad armoniche gole e a piè danzanti Si posposero ognor Mirre e Medee E Saulli ed Oresti ; e scema spesso, Benchè a men costo aperta e men capace, Vider l’arena lor Vestri e Taddei.
Che mai da'nostri cigli a spremer vale così larga vena, nella ognor varia scena o dell’antiqua, o dell’età presente ?
Che cosa fosse Giuseppe Rodolfi come artista, niuno ha mai saputo dire.
Che è questo? […] Che mi comandate, o madre? […] Che vuol dire ciò, Amlet? […] Che pensi di fare? […] Che vuoi, ombra veneranda?
Che bel sentire, per esempio, il seguente vezzosissimo soliloquio che fa Sifone nell’Ercole in Tebe: «Go-go-go-gobo a me? […] Son ca-ca-camerata D’Ercole trionfante, E questo coso tondo Sulle re-rene è un pezzo di quel mondo, Che regger gli aiutai col vecchio Atlante. […] Egli è Ercole, che indirizza in questa guisa il discorso alle donne: «Donne, coi vostri vezzi Che non potete voi? […] Solo una lagrimetta Che da magiche stille esca di fuore, Fassi un Egeo cruccioso, Che sommerge l’ardir, l’alma e il valore; E il vento d’un sospiro Esalato dai labbri ingannatori, Dai campi della gloria Spiantò le palme, e diseccò gli allori.» […] Che se in questa guisa s’anderà avanti nello studio delle lettere e dell’antichità, ben tosto, cangiato l’ordine delle cose, vedrem la barbarie sortita dalla coltissima regione d’Italia diffondersi per tutta l’Europa» 80.
Che dite mai, Messer Torchio ! […] Che concorso, che folla di gente ! […] Che dici ? […] Che fate scellerata ? […] Che cosa fu quest’ Ambigu di cui si cibava il Badini ?
Che mi ha egli fatto? […] Che rappresentarono i Greci se non gli evenimenti della loro storia? Che i Latini stessi nello Scipione di Ennio, nelle Ottavie di Mecenate e di Seneca? […] Che gl’ Inglesi e gli Spagnuoli in quasi tutte le loro favole? […] Che si dirà poi di quella specie di contradanza che fanno nell’atto IV Gastone, Avogaro ed Eufemia?
Che è ciò innanzi all’Annalista della Sicilia?
Che dopo le ricerche di Fr.
Che abbia poi questi che vedere con Bernardino Lombardi, del quale il Belgrano non sarebbe alieno dal crederlo figlio o fratello, e suo successore nella maschera di Pedrolino, non mi riesce di capire.
Che dolore per la povera vecchia ! […] … Che lusso !
Con quella mente Che avea promesso all’altra; intender puoi. […] Io pareggiate v’ho con le parole, E senza alcuno indugio intenderete, Che vi pareggerò co i fatti ancora. […] Non scorgi Quel valor sì sublime, Quella virtù, siasi poi finta o vera, Che d’ogn’intorno splende? […] Che approvino, che fuggano, sia fatto. […] Nell’atto V la Nutrice racconta a Tisi l’uccisione di Merope per mano del padre, e così conchiude: Un certo che sol mormorò morendo, E trafisse la vergine innocente, Che generata avea.
Tu puoi carezzar anco Una Vestale pallida tremante Che già miri spirar la santa fiamma. […] incomincia Porzio, e Catone l’interrompe: Che ha egli fatto? […] Che connessione ha l’una cosa coll’ altra? […] “Che non ho io fatto per voi? […] Che vaga pompa!
» Che il Burchiella fosse valoroso attore sappiamo da Calmo stesso, che di lui faceva sì gran conto, da esclamar nella lettera di chiusa del libro secondo, vòlto alle povere commedie, ridotte a mal partito : « orsù, state di buona voglia ; chè sino al tirar del fiato di Burchiella e a l’aprir delle mie mascelle, vi faremo, per quanto ci sarà possibile, star su l’onor vostro.
A sciogliere la lite di precedenza fra esse, appariscono Apollo nel suo Parnasso coi Poeti ed Aristotele, il quale le affida a Felsina sovraggiunta sopra un carro trionfale, acciocchè essa decida del merito di ciascuna ; la quale dando termine a questa introduzione, così favella : Pregiate Donne, se alla vostra lite Sorta sol per aver la precedenza Delle vostre virtù rare, infinite, Bramate fine impor con gran prudenza : Meco omai, che son Felsina, venite Che m’offero condurvi alla presenza De'saggi figli miei, da'quali avrete Giudizio, onde contente alfin sarete.
«Che giovamento adunque» , dice questo scrittore, «fecero le tragedie cotanto onorate dagli Ateniesi? […] Che si dirà poi dell’arte che avevano i loro musici nel contrasegnare gli accenti, onde così spiccata e sensibile rendevasi l’inflessione? Che della minutezza con cui si badava non solo alla natura dei vocaboli, ma anche all’indole e collocazione stessa delle lettere? […] Che mai si può accordare il valor delle note ove le sillabe prive siano di quantità determinata? Che il movimento ed il tempo mancheranno della dovuta precisione se vogliono tener dietro alle parole?
Che che sia di ciò il Socrate è poi ritornato sulle scene, e ritornerà, e muove il riso, e se ne cerca ognor con gli occhi l’originale. […] Che diremo noi di sì raro e felice ingegno che corrisponda alla sua grandezza? […] Che i di lui splendidi difetti stessi, i quali appartengono agli abusi musici anzi che a lui, lo rendono rispettabile fin anco agli orgogliosi che volgono altrove il capo per non vederne l’odiata luce che gli umilia? […] Che cosa fu quest’obbliato Ambigu, di cui si cibava il Badini? […] Che contrasto sommamente interessante fa quell’aspetto franco e amichevole di Tito, e quella confusione di Sesto lacerato da’ rimorsi!
Che età avesse l’Angeleri non ho potuto accertare, non trovandosi punto d’accordo i due documenti che qui trascrivo, gentilmente comunicatimi dal Conte Paglicci Brozzi.
Che già non avrebbono più ragione di dire esser l’opera una composizione sconnessa, mostruosa e grottesca; ma per lo contrario ravviserebbono in essa una viva immagine della greca tragedia, in cui l’architettura, la poesia, la musica, la danza e l’apparato della scena si riunivano a crear la illusione, quella possente sovrana dell’uomo, e in cui di mille piaceri se ne formava uno solo ed unico al mondo59.
Che fatal colpo per me !
A te del pari Che a me concesso è il vanto Di apprestar del gran dì sacro a Cibele Il festivo apparato. […] È ver, ma a questo Che dividi con me, l’onor tu accoppi D’esser d’un gran regnante oggi consorte. […] Ati Ah se ti perdo, ah se a morir son presso, Che mi resta a temer?
Che se ingannarlo un alito Può ancor di gioventù, La vigoria dei muscoli Non sa ingannarlo più !
Che s’un tolse a Pluton so Mujer, e se l’altro tirò i sassi, vù a Febo fe’ fermar el ziro, e i passi.
Che vita artistica spensierata fu la sua !
Che ne sia di tutto ciò, Ronsardo attribuisce al suo amico Stefano Jodelle la gloria di aver composte le prime tragedie e commedie francesi. […] Che tragico incomparabile risulterebbe dall’uno e dall’altro studio!
Che volto! […] Che mi dì tu, quegli risponde; è qui venuta la moda che i poveri servi amoreggino? […] Che ne dici? […] Che vuoi? […] Che trincata e che scaltra!
Nobile, ampio recar, splendido piatto Che profumando gìa l’aria d’intorno Di grati odori, e a’ commensali intanto L’ore indicava e le stagioni e gli anni; Poichè di tutto il ciel mezzo esprimeva Il globo con quanti astri vi risplendono. […] Che, come, se rapisce un buon boccone Correndo in giro cerca la gallina Dove sicura il becchi, e intanto celere La segue un’ altra, ed essa più si affretta, Non altramente chi si avvenne il primo Nella delizia del prezioso pesce Ghiotto saltella col bel tondo stretto, E fugge intorno e ’l van seguendo gli altri. […] E parti Che a quel modo colui senza delitti Viver potrebbe?
Che vivacità in Moreto! Che delicato contrasto d’un orgoglio antico e di un amor nascente nel cuor di Diana! Che interesse nella favola progressivamente aumentato a misura che si avanza verso il fine!
Che se il tuo nome derivi dall’esser di belle cose adorno, io non veggo come più per tale possi esser nomato, essendosi da te ogni ornamento partito ; dunque non più Mondo, ma oscuro, e tenebroso abisso devi chiamarti. » E di questo passo va innanzi, paragonando, ora che la divina Vincenza se n’è ita, i bei Palagi ad abbandonate spelonche, gli uomini a fiere selvaggie, il giorno alla notte, la primavera all’inverno, e via discorrendo. […] Che fosse nobile e ben nata ne poteano le sue belle creanze e i suoi leggiadri costumi Santi dar chiaro indicio…….. […] Che dirò delle pastorali da lei prima introdotte in scena, le quali di cosi vaghi avvenimenti intesseva, che di troppa meraviglia e dolcezza ingombrava gli ascoltanti ?
Che fare ? […] Che nobiltà, che grandezza, nelle scene aspre col figliuolo ! Che arte somma in quella finale col servo, poi colla Duchessa !
Che volto! […] Che mi dì tu! […] Che ne dici? […] Che vuoi? […] Che trincata, che scaltra!
Con quella mente Che avea promessa all’altra; intender puoi. […] Io pareggiate v’ho con le parole, E senza alcuno indugio intenderete, Che vi pareggerò co’ fatti ancora. […] Non scorgi Quel valor sì sublime, Quella virtù, siasi poi finta o vera, Che d’ogni intorno splende? […] Sì, lo farò, sia pena, o sia misfatto, L’approveranno o fuggiran gli Dei, Che approvino, che fuggano, sia fatto. […] Nell’atto V la nutrice racconta a Tirsi l’uccisione di Merope per mano del padre, e così conchiude: Un certo che sol mormorò fremendo, E trafisse là vergine innocente, Che generata avea.
A essa, come ho già detto, preluse con parole di molta lode Francesco Andreini, tra cui queste : Che il signor Flaminio Scala detto Flavio in Comedia, per non far torto all’ordine suddetto, e tanto da buoni filosofi lodato, nella sua gioventù si diede all’ esercizio nobile della commedia (non punto oscurando il suo nobile nascimento) e in quello fece tanto e tale profitto ch' egli meritò d’esser posto nel numero de' buoni comici, e fra i migliori della comica professione. […] Che carità christiana harei havuta verso questi poveri huomini et loro famiglie ? Che atto di cortesia o di gratitudine harei io dimostrato a costoro che per 7 anni continui mi hanno obbedito al cenno, se io gli havessi rovinati et sprofondati, come loro tengono d’ essere quando saranno disuniti ?
Che se ne’ principi primi dell’arte loro pur sono cosi disadatti e goffi, qual maraviglia se non giungono dipoi a quelle finezze ultime che l’arrivarvi è tanto difficile, e senza le quali non ci può essere nell’azione né dignità né verità? […] Che altro fa la coregrafia se non prescrivere anch’essa al ballerino insieme col tempo i passi e i giri ch’egli ha da fare sopra le note dell’aria?
A teatral talento Natura in te riunì Incantatore accento, Che ogni alma impietosì.
Che più ?
Che verità si scorge nel situare tali personaggi, senza verun perchè e fuori del loro consueto modo di vivere, a giocare e a cenare dove mai ciò non fecero? […] Che dite mai, Messer Torchio? […] (Che indiscreto!) […] Che non compieva gli oggetti essenziali di un teatro, vedere ed udir bene.
Che fa dunque l’artefice? […] Si può brillare cogli ornamenti in quei casi dove il personaggio s’introduce a bella posta cantando come nell’«Oh care selve, oh cara felice libertà» posto in bocca di Argene nell’Olimpiade, o nell’inno «S’un’alma annodi S’un core accendi Che non pretendi Tiranno amor?» […] Che sì che Giovenale nel vedere la strana violenza che fanno i cantori al senso comune avrebbe avuto ragion di esclamare «Quis tam ferreus ut teneat se?» […] [57] Che poi mancando nel canto moderno le due spezie d’imitazione esposte di sopra debba altresì mancare la terza che deriva dalla somiglianza dei movimenti che sveglia in noi la copia coi movimenti che sveglierebbe la presenza dell’originale rappresentato, non occorre fermarsi a lungo per provarlo. […] Che talmente avvenisse presso ai Greci non cel lascia dubitare Aristotile, il quale facendo a se stesso ne’ suoi problemi (§ 19.
Che mi ha egli fatto? […] Che empio Sacerdote! […] Che rappresentarono i Greci se non gli evenimenti della propria storia? […] Che gl’Inglesi e gli Spagnuoli in quasi tutte le loro favole? […] Che meschinità!
Che veggio? […] Che tutto? […] Che comici contrapposti graziosissimi! […] Che sorte di dei giuri tu? […] Che mai?
Che troppo avrebbe del ridicolo che altri facesse un teatro così grande, che non vi si potesse comodamente udire; come sarebbe ridicolo che così grandi si facessero le opere di una fortezza da non le potere dipoi difendere. […] Che se per avventura si domandasse quale sia la più conveniente figura per l’interior del teatro, quale sia la curva la più acconcia di tutte a disporvi i palchetti, risponderemo: la stessa che usavano gli antichi a disporre nel loro teatro i gradini, cioè il semicerchio.
. – Che cosa vuol dire : strike ? […] A ogni nuovo trionfo, il buon pubblico pietoso, che ha sempre come bisogno di mettere un ma stridente a ogni gaiezza della vita, solea sclamar sospirando : « Che peccato !
Della musica [2.1] Che se niuna facoltà o arte a’ giorni nostri di ciò abbisogna, la musica è dessa; tanto ha ella degenerato dall’antica sua gravità. […] Che se pure taluni la pongono come esordio, convien dire che sia di una medesima stampa cogli esordi di quegli scrittori che con di bei paroloni si rigiran sempre sull’altezza dell’argomento e sulla bassezza del proprio ingegno, che calzano a ogni materia e potriano stare egualmente bene in fronte di qualsivoglia orazione. […] Che già avendo essi scosso di per sé il giogo di alcuni vecchi pregiudizi, come è aperto a vedersi in alcune delle loro composizioni, e nell’Andromaca singolarmente del Iomelli, riuscirebbe loro meno difficile che agli altri lo entrare nella intenzion nostra, che è di secondar sempre e di abbellir la natura.
Empietevi, e cadete, Dirà il dio d’Israel; né sia chi sorga, Dal lampo della spada, Che strisciare su voi farà il mio sdegno. Che se dove s’invoca L’alto mio nome alzo la verga, e batto: Voi sol quasi innocenti Ne andrete immuni? […] Più di leon feroce Darà dall’alto Dio la sua voce: E della terra L’estremo lito Del suo ruggito Risuonerà: In sacco, e ceneri Grida urli, e gemiti Date, o pastori: Il giorno è questo Nero, e funesto, Che ovili, e pascoli Vi struggerà.»
Che già niun legislatore non si metterà a dar nuove leggi in uno stato sconvolto, se prima i magistrati non vengano rimessi in autorità; né si accosterà un capitano al nemico, se non abbia prima dal suo esercito sbandita la licenza e il disordine.
Che che di lui motteggi Aristofane nelle Tesmoforie, è certo che Aristotile nella Poetica celebra la tragedia di Agatone intitolata Αιθος, il Fiore, nella quale i nomi e le cose erano tutte inventate dal poeta, e non già tratte dalla storia o dalle favolea.
S. le nostre Miserie, sicuri, che rimirate dalla medema con gl’ Ochi del suo benignissimo Compatimento, non ci lascierà senza sollieuo, senza di cui non sarà possibile, che di quà parta la Compagnia se non ui lascia le Robbe ; Che però prostrati i Comici Ser.
Che riconoscenza poi mirabilmente condotta per tutte le circostanze nell’atto IV, e di qual tragica catastrofe produttrice! […] Che spettacolo Edipo acciecato nella scena II! […] Sacro e possente Dio signor di Delo, Che risanando sgombri I perigliosi morbi, Te col cor tutto riverente onoro. […] Che mai ragioni, o mia regina? […] Ah tu morrai, E di tuo padre il nome Che tanti ne salvò, ti sia funesto!
Tu puoi carezzar anco Una Vestale pallida tremante Che già miri spirar la santa fiamma. […] O numi voi Che penetrate il cuor dell’uomo e i suoi Intimi movimenti ne pesate, Se fallito ho, a me non l’imputate. […] Che connessione ha l’una cosa coll’altra? […] Che non ho io fatto per voi (dice alla moglie nella seconda scena dell’atto II)? […] Che vaga pompa!
Ma v’han ore al mondo Piene così d’inusitata gioia, Che in quell’ore si svia l’amara fonte Dello sdegno e dell’odio, e per un’alta Anima sola, che s’incontra in questi Muti deserti, tollerabil pare Tanta razza di deboli e di rei ! […] appena io ti conobbi, e sento Che potrei con l’ardente anima amarti !
Quando Vedova Ebrea, Che su vedove piume agiava il fianco, Mancar vide, dolente, L’usato cibo, ond’ havean vita i figli, Rivolta lagrimosa a quei dolenti, O affamati, e teneri Bambini Lagrimosa proruppe in questi accenti : Figli, viscere mie, Più del mio stesso core amati figli, Che chiedete piangendo ?
Che se per le colpe de’ Cristiani la Provvidenza avesse loro duplicate le forze della mano e del senno, se da’ loro acquisti sorta fosse, invece di varj piccioli dominj una sola potente Monarchia, o al più due, forse il loro Regno durerebbe tranquillo e rispettato, e forse ad esempio di altre colte nazioni, cangerebbero oggetti, così riguardo alla Filosofia, rigettando la Peripatetica, come alla Poesia rifiutando i frivoli giuochetti meccanici della loro versificazione, e camminerebbero sulle tracce di Galileo e Newton, di Virgilio e di Omero, in cerca della Natura; e chi sa che non ne nascesse un Euripide Moro?
Quindi é che ’l Petrarca, seguendo il sentimento di Platone, disse: Or questo é quel che più ch’altro m’attrista, Che i perfetti giudici son sì rari.
Che sieno però esse state composte avanti che l’Etruria fosse soggiogata da’ Romani, siccome pretenderebbe dare a credere il Dempstero12, è cosa incerta, nè apparisce dal passo di Varrone; ed il chiar.
Egli dice: Dunque le altere doti che amabile lo fanno, Che fur già mia delizia, gli si volgono in danno? […] nè questo cor mi schianto, Che di dolor non scoppia? […] Tu mi accusasti Che di Seleuco io meditai la morte, E per aver qualche ragion sul trono, Chiesi a te le tue nozze. […] Che della sua Bologna liberata armata di una prefazione contro di certo Dottore Don Pietro Napoli Signorelli che non avea lodate le sue tragedie che l’Italia chiama mostruose? […] Che il Monti con quel testo avea voluto enunciare che la sua tragedia era urbana, cioè che trattava di principi ma non di prima classe.
Che fare ? […] Che se destar vuoi'l riso, e s’ hai talento che in pianto sciolga il popol circostante, il clamor cessa, ed il represso a stento singulto a contener non è bastante.
Arminio ne conosce la forza, lo confessa, ma conchiude, Che schiavo esser mi par, s’io re non sono. […] Ogni soccorso Che m’offra il braccio tuo per me diventa Onta e martir. […] Che dirà Sparta ? […] Che dissi mai ? […] Che far vuoi dunque ?
Sonetto CXXV Io non t’amo crudel, che me l’contende Del cor seluaggio la natia durezza ; Pur s’alcun veggio, che di tua bellezza Porti sembianza, à me si vago splende, Che contra’l voler mio nel cor mi scende Vn’affetto d’amara empia dolcezza ; E tanto può la micidial vaghezza, Ch’amoroso desire in me raccende. […] Leggiadro almo Pianeta Tu sorgi à rasciugar le molli brine, Che da gli humidi vanni de la notte Son cadute, nè mai de gli occhi miei Perciò rasciughi il pianto. […] Morta è la nobil Donna, Che fù del viuer mio securo appoggio ; E breu’vrna sotterra Gran beltà, gran virtù, gran lode serra. […] S’esser cruda per me deuesse, ed empia L’innessorabil Parca Col leuarmi dai viui Ben ella in ciò saria veloce, e presta Come fù alhor, che tè da noi diuise ; Ma perch’ella conosce, Ch’essendomi crudel fora pietosa, Perdona al viuer mio, Quando l’alma dolente altro non brama, Che trar gli infausti giorni Per l’occaso di morte al fin de gli anni. […] Pommi col cener freddo de l’amata Mia Genitrice, pommi ou’è colei, Che molto seppe al mondo, e poco visse.
Che risposta recherò al mio re? […] Che pretendi, Numantino? […] Che che sia di ciò in Madrid si rappresentò quindici anni dopo che fu scritta, e vi sostenne la parte di Rachele la sensibile attrice Pepita Huerta morta nell’ottobre del 1779 nell’acerba età di anni ventuno in circa, ma recitatasi appena due volte fu per ordine superiore proibita. […] Che hanno essi fatto sinora (può dire lo spettatore)? […] Che miglioramento è quest’altro di far che nasca in iscena, e si proponga da Cillenio il pensiere di singere l’arca che ha da contenere un peso proporzionato ad un corpo umano, quando Sofocle provvidamente suppone questi preparativi già fatti prima che Oreste capiti coll’ajo in Micene?
Che altri la chiamasse pel suo nome di guerra, capisco : ma non capirei che altri potesse chiamarla col nome del secondo marito (e il figlio specialmente), giacchè sappiam per uso come un’attrice porti con sè oltre la tomba il nome col quale diventò famosa.
— Che lingua – disse al Re il bizzarro attore – vuol Sua Maestà ch’io parli ?
Alme eccelse, graditelo, che vostri servi siamo, E con tal nome in fronte, di noi superbi andiamo : Che se sarem sicuri del perdon vostro almeno, Nelle fatiche istesse lieti saremo appieno.
Che le cose accaggiano secondo l’ordinario tenore, ciò non desta la maraviglia, ma il sentire avvenimenti stravaganti e impensati, il vedere una folla d’Iddi, i quali sospendono il corso regolare della natura, e intorno a cui non osiamo pensare se non se pieni di quel terrore sublime che ispira la divinità, ciò sorprende gli animi consapevoli a se medesimi della propria debolezza, ne risveglia la curiosità e ne riempie d’un certo sensibile affetto misto d’ammirazione, di riverenza e di timidezza. […] Che in oggi lo spirito si preferisce all’onestà, e che la virtù delle donne vien riputata scioccaggine o salvatichezza. […] Che i suoi personaggi altrettanto singolari quanto l’autore, filosofando in mezzo al delirio, pieni di sublimità e di follia, d’eloquenza e di stravaganza non trovano fra gli uomini né originale né modello.
Che poi questa si cantasse tutta, come pretese il Menestrier, ovvero se ne cantassero i soli cori, come noi stimiamo, ambedue queste opinioni sono arbitrarie, ed hanno bisogno di nuova luce istorica. […] Che se di tutte queste cose volesse idearsi una scena stabile, non riuscirebbe difficile compartirvele; ma allora sorgerebbe un dubbio inevitabile, cioè, come mai ninfe e pastori scorrendo per ogni banda non si sono avveduti della via che mena all’inferno, e delle apparenze dell’atto IV? […] Ben tendo a te le braccia, ma non vale, Che indietro son tirata.
Che poi questa si cantasse tutta, come pretese il Menestrier, ovvero se ne cantassero i soli cori, come noi stimiamo, ambedue queste opinioni sono arbitrarie, ed hanno bisogno di nuova luce istorica. […] Che se di tutte queste cose volesse idearsi una scena stabile, non riuscirebbe difficile il compartirvele; ma allora sorgerebbe un dubbio inevitabile, cioè, come mai ninfe e pastori scorrendo per ogni banda, non si sono avveduti della via che mena all’inferno e delle apparenze dell’atto IV? […] Ben tendo a te le braccia, ma non vale, Che indietro son tirata.
Che veggio? […] Che tutto? […] Che mai? […] Che cosa è questa? […] Che fa Giove?
Immaginarsi la gioia di entrambi : Colombina gli fe’dono d’un suo ritratto in miniatura, del quale aveva già fatto promessa per lettera, e sul quale egli scrisse la seguente ottava : Già fu il mio primo nome d’Isabella, Franchini nel cognome fui chiamata, Colombina tra’comici son quella, Ch’ora qui tu rimiri effigiata, Mi mutai di Franchini in Biancolelli, Quando in Francesco già fui maritata : Vedoa restai, & hora non son più, Che son moglie a Buffet Carlo Cantù.
Veggio (Talpa non son) che in te risplende Ciò, che può far, ciò che può dar natura, Che di bearti eternamente intende.