Sia la forza superiore, della quale è l’uomo informato, sia la sua organizzazione più estesa e moltiplice, sia la combinazione dell’una e dell’altra, esso genera ed esprime al di fuori assai più che gli altri non fanno. […] Quindi errano pur coloro, che il carattere del bello da certe forme e movimenti graziosi, morbidi ed eleganti fanno dipendere, i quali sono allor belli, che convengono alla passione a cui si rapportano. […] Ma anche ove questi la obbediscono ciecamente non fanno sempre quell’effetto che far dovrebbero. […] Gli scultori non danno più di sei piedi alla grandezza naturale d’un uomo; ma l’eroica la fanno montare da quel termine fino a dieci, oltre il quale termine comincia la statua a divenir colossale. […] Dacché questa si trova, più che altrove, decaduta miseramente, i commedianti italiani, ch’erano una volta imitati dagli altri, ora non fanno che imitare il peggio di questi, e si può dire ch’essi fanno per lo più consistere il merito della loro declamazione in una specie di predicazione o di cantilena monotona, esagerata, nojosa.
Gli abboccamenti notturni che si fanno al buio ed in luoghi impropri nel quarto atto dell’Ezzelino sono di ciò notabilissimi esempli, oltre quelli del Cesare sopra accennati. […] Contuttociò desiderarei in alcuni d’essi, che si mostrasse più di virtù che di passione viziosa e che si fosse con arte scemata la gravezza di certe lor delinquenze che li fanno apparire men degni di compassione. […] Inoltre agli stessi concetti manca talora la necessaria grandezza, massimamente ove si fanno parlare Romani con la greca semplicità. […] Il linguaggio ordinario delle francesi tragedie è un perpetuo tessimento d’astratti, di segni, di parti che fanno le veci del tutto, di traslati, e di cose simili. […] Gli altri all’incontro non pur fanno sempre cesura nel luogo medesimo, ma la metà posteriore non è che una repetizione della metà precedente.
Rancida parrebbe ancora l’invenzione degli argomenti delle sue favole fondati sulla schiavitù di qualche persona in Turchia o in Affrica; ma si vuole avvertire che in quel secolo essi doveano interessare più che ora non fanno, perchè tralle calamità specialmente delle Sicilie sotto il governo viceregnale non fu la minore nè la meno frequente quella delle continue depredazioni de’ barbari sulle nostre terre littorali non più coperte dalle potenti armate di mare di Napoli e di Sicilia. […] Ciò avverrà appunto, quando scosso il volontario stupore gli uomini giungano a comprendere che, oltre ai tenori con tanto diletto ascoltati, le dolcissime naturali voci delle femmine fanno in iscena, senza che si violenti la natura, quanto mai sanno eseguire le non naturali de’ castrati.
Alcuni soldati che fanno la guardia avanti del real palazzo del re di Danimarca, si trattengono sull’apparizione di una fantasima spaventevole.
Al Capo V medesimo dalla pagina 116 (dopo le parole della pag. precedente spaventano e fanno inorridire) si tolgano le prime dieci linee da La Grange-Chancel nato &c.
Passando poi a componimenti veramente scenici composti in tal secolo da non volgari ingegni, troviamo una tragedia di Gregorio Corraro patrizio veneto morto nel 1464 composta in versi latini nel l’età di soli anni diciotto, intitolata Progne, alla quale fanno plauso, secondo Lilio Gregorio Giraldi, moltissimi eruditi del XVI secolo, e nel nostro col Marchese Scipione Maffei altri letterati ragguardevoli.
Passando poi a’ componimenti veramente scenici latini composti in tal secolo da non volgari ingegni, troviamo una tragedia di Gregorio Corraro patrizio Veneto morto nel 1464 composta in versi latini nell’età di soli anni diciotto, intitolata Progne, alla quale fanno plauso, secondo Lilio Gregorio Giraldi, moltissimi eruditi del XVI secolo, e nel nostro col marchese Maffei altri letterati ragguardevoli.
Per esempio la prima aria dell’atto I non si canta se non dopo 126 versi recitati, e 32 versi poi sono seguiti da due arie: nell’atto II si recitano 150 versi prima di sentire un’ aria, e 70 versi soli fanno nascere cinque pezzi di musica, cioè tre arie, una cavatina ed un recitativo obbligato: altri 98 versi poi precedono un’ altra aria.
— Il Teatro, ovvero fatti di una Veneziana che lo fanno conoscere.
La sua nota erudizione, lo studio che ha fatto del cuore umano, la sua sensibilità, il buon gusto, l’eleganza della sua penna tanto esercitata, le raccomandano al pubblico, e fanno desiderare che si producano. […] Ma Ermione in procinto di perdere Pirro, ha ben ragione di volere indagare per tali picciole cose, se a lei pensi tuttavia; là dove Erbele ha recenti pruove della fede di Gerbino; quindi è che le premure di Ermione svegliano l’attenzione, e quelle d’Erbele fanno svenire; e tanto più che Ermione domanda per la prima volta, ed Erbele ha sentito più volte il racconto di Zelinda, che dice, Più fiate il labro mio gli estremi detti A te narrò, dove se vuolsi pronunziare italianamente, si fa un verso di dodici sillabe dovendosi dire fi-a-te, e non fia-te 1. […] Con una pretesa pietra simpatica, detta altrimenti cornea, si conchiude un matrimonio conteso dal naturalista zio della giovane destinata ad un ridicolo suo discepolo, il quale è preso a sassate, che gli si fanno credere cadute dal cielo. […] I congiurati contro i due sciocchi naturalisti a favore degli amanti, fanno piovere una tempesta di sassi sulle spalle di Don Sossio destinato sposo della nipote di Don Macario suo maestro. […] Lo spettatore però che delle volte suole esser curioso investigatore di quanto fanno o non fanno in iscena i personaggi, fa mille giudizj sull’inselvarsi de’ due ardenti amanti, involandosi agli occhi degli stessi confidenti (quando l’eroine stesse de’ romanzi della Scudery non sogliono parlare a’ loro amanti senza chiamar presso di loro le confidenti) e di mala voglia vedesi tenuto a bada da’ personaggi subalterni, i quali continuano ad orare nel giardino.
Anche il racconto del mostro marino è una prova del gusto del Cosentino, che orna moderatamente l’originale senza pompeggiare, come fanno Seneca e Racine, senza l’inverisimile ardire che si fa mostrare ad Ippolito nell’affrontare il mostro78, senza imitar Seneca, che quando Teseo dovrebbe solo essere occupato della morte del figliuolo, lo rende curioso di sapere la figura del mostro79. […] Di poi col proprio titolo di Tancredi si pubblicò in Bergamo nel 1588, benchè col nome di Ottavio Asinari fratello dell’autore; ma per quanto afferma il conte Mazzucchélli, gli autori del catalogo de’ codici mss della real libreria di Torino ne fanno autore Federico, e così pensò ancora il Signor Apostolo Zeno. […] Ecco in qual guisa argomenta contro del Capitano della sua guardia: Le leggi e ’l giusto, di che tanto parli, E per parlarne assai poco ne intendi, Non hanno sovra i principi potere, Che mal si converria, s’essi le fanno, Ch’essi all’opera lor fosser soggetti.
Ne’ quattro tomi da me veduti del suo Teatro ha publicate quattro commedie in prosa, l’Impressario di due atti dipintura molto comica e naturale in ciascun personaggio introdotto: i Pregiudizj dell’amor proprio in tre atti, i cui caratteri sono più studiati di quelli che presenta la natura: la Scommessa, ossia la Giardiniera di spirito parimente in tre atti, la quale supplisce colla scaltrezza all’effetto che fanno Pamela e Nanina coll’ amore, e con poco fa perdere la scommessa alla Baronessa tirando il Contino di lui nipote a sposarla: i Pazzarelli ossia il Cervello per amore in due atti con ipotesi alquanto sforzate e con disviluppo non troppo naturale, che però è una piacevole dipintura di que’ vaneggiamenti che se non conducono gli uomini a’ mattarelli, ve gli appressano almeno.
tà dell’Imperatore, grazie come tutto giorno fanno in figliuolette che prive di protezione non hanno chi chieda e supplichi per loro.
della dolce forza che ti fanno le passioni espresse in istil nobile ed accomodato agli affetti ? […] Nell’ atto V Penelope si lamenta del tripudiar che fanno i proci per la morte di Ulisse, stando a mensa con Telemaco, ed Ulisse stesso sconosciuto. […] Ciro che prevale ad Astiage, Alessandro a Dario, Tamerlano a Bajazette, sventure di personaggi che altro non fanno che cangiar le catene de’ regni. […] Oramzeb e Maometto fanno confidenza delle proprie scelleraggini ed insidie, l’uno a Jelma, l’altro a Zopiro. […] I Romani vi fanno vergognosa figura per la condotta del legato Flaminio col suo tribuno Albino.
E quindi nasce che tanti si fanno un pregio di coprirli di vergogna. […] Egli ne parlò per tradizione, come fanno per lo più della propria letteratura i suoi compatriotti domiciliati in Italia.
La regina riprende la timidezza dell’amante che si discolpa col rispetto; entrambi fanno pompa di acutezze, là dove era da disvilupparsi una tenerezza contrastata. […] Nell’atto II i maneggi di Elena fanno sì che per due anni e mezzo nè le lettere di Diego giungano alla cugina, nè quelle di lei sieno a Diego indirizzate. […] Sebbene per le passioni generali e per l’intreccio si è veduto con piacere anche ne’ teatri italiani, tutta volta fuori delle Spagne è impossibile ritenere i tratti originali della dipintura degli zingani Andaluzzi che acquistano ancor grazia maggiore nella rappresentazione che ne fanno i nazionali.
In tal guisa lavorano i buoni artefici; essi prendono gli altrui pensieri per sementi e ne fanno germogliare una nuova pianta.
Ben pochi, forse nessuno : ma io sì : e dico con orgoglio a Clementina, e con rammarico per le altre — che ella fu grande, perchè fu vera, vera nel vero patologico e non in un forzato e ricercato verismo con combinazioni di nervosità che fanno della verità una menzogna, dell’arte un giuoco di prestidigitazione !
I canti di Solone fanno andar in tumulto il popolo, se ne abolisce il divieto, se ne allestisce un’armata, e se ne riporta una compita vittoria. […] [18] I Greci lo consideravano come una successivi rappresentazione o immagine degli oggetti dell’universo imitati dalla musica col mezzo del tempo e del movimento, i quali, risvegliando nell’anima la memoria o l’idea di quella tal cosa fanno che si riproduca in noi la stessa passione che ecciterebbe se sopposta fosse ai nostri sensi.
Sventuratamente lo studio stesso che fanno i plagiarii per allontanar da essi il sospetto de’ ladronecci, gli discopre, e riscalda la bile dell’onesta gente. […] Egli dovè parlarne per tradizione, come per lo più fanno della nazional letteratura quasi tutti gli esgesuiti spagnuoli domiciliati in Italia dopo la loro espulsione dalle Spagne.
Escono un medico e uno speziale, che si rallegrano scambievolmente di ciò che i mali degli uomini fanno il loro guadagni, e che la terra seppelisce tutti i loro spropositi.
Queste sono le dipinture che fanno gli stessi eruditi nazionali della decenza della gentil Dama del Signor Lampillas, di sì onesta Dulcinea apologetica.
Alcuni tirano da un lato, altri dall’opposto, e si ritarda l’esecuzione; il che ingegnosamente allude alle città greche, le quali non convenendo nel medesimo progetto, fanno sussistere la guerra.
In tal guisa lavorano i buoni artefici; essi prendono gli altrui pensieri per sementi e con nuova cura ne fanno germogliare una nuova pianta.
Argomento sarebbe questo degno solo di certi ragionatori di ultima moda, i quali spregiano l’erudizione di cui scarseggiano, empiono i lor volumi di sofismi, e si fanno schernire come semieruditi e semifilosofi, cioè a dire nè eruditi nè filosofi.
Gli antichi fanno menzione delle tragedie e della ludica degli etruschi, e ci dicono che le donne ancora rappresentavano ne’ loro teatri60. […] ………………………………………… O si pateant pectora ditum, Quanto intus sublimis agit Fortuna metus, pur leggiadramente imitato dal nostro poeta drammatico: Se a ciascun l’interno affanno Si vedesse in fronte scritto, Quanti mai che invidia fanno, Desterebbero pietà.
Di poi col proprio titolo di Tancredi si pubblicò in Bergamo nel 1588, benchè col nome di Ottavio Asinari fratello dell’autore; ma, per quanto afferma il conte Mazzucchelli, gli autori del catalogo de’ codici mss della real libreria di Torino ne fanno autore Federico, e così pensò ancora l’erudissimo Apostolo Zeno. […] Ecco in qual guisa argomenta contro del Capitano della sua guardia: Le leggi e ’l giusto, di che tanto parli, E per parlarne assai poco ne intendi, Non hanno sovra i principi potere, Che mal si converria, s’essi le fanno, Ch’essi all’opera lor fosser soggetti.
Delle tragedie di Azzio fanno menzione Nonnio Marcello, Varrone, Aulo Gellio e Macrobio. […] E chi di grazia ha rivelato a costui sì bel secreto, che gli autori nel pubblicar le loro favole l’empivano di noterelle, come fanno oggidì i moderni?
Argomento sarebbe questo degno solo di certi ragionatori di ultima moda, i quali spregiano l’erudizione di cui scarseggiano, empiono le loro carte stampate di sofismi, e si fanno schernire come semieruditi e semifilosofi, cioè a dire nè eruditi nè filosofi.
Inglese era Samuel Johnson, e dopo del Rowe e del Pope e del vescovo Warburton, è stato comentatore delle opere del Shakespear pubblicate in Londra in otto volumi nel 1765; e pure nella prefazione dice di lui moltissimo bene e moltissimo male, che è quello appunto che fanno gli esteri imparziali.
Queste cose fanno riuscire il melodramma italiano diversissimo dalla tragedia francese per la ricchezza e l’ economia dell’azione76.
Delle tragedie di Azzio fanno menzione Nonnio Marcello, Varrone, Aulo Gellio e Macrobio. […] E chi di grazia ha rivelato a colui si bel secreto, che gli autori nel pubblicar le loro favole le colmavano di noterelle, come fanno oggidì molti moderni?
Ed intanto mille o duemila altre favole col medesimo pregio dello stil fiorentino fanno sbadigliare, e giacciono seppellite sotto la polvere delle biblioteche. […] E se vi parrà (soggiugne) che in qualche parte l’abbia alterati, considerate, che sono alterati ancora i tempi e i costumi, i quali sono quelli che fanno variar le operazioni e le leggi dell’operare.
Antonio Raff, Giovanni Tedeschi, Tommaso Guarducci, e Giambattista Mancini, che si è anche distinto fra i letterati pel suo bel libro intitolato Riflessioni pratiche sul canto figurato allevati da lui fanno tuttora parte viventi, e parte defunti bella testimonianza del valore del loro maestro.
Per altro l’abuso sorprendente che di tali obbietti fanno i più degli artisti, i quali non gli adoperano le più delle volte fuorché ad abbellire i capricci della loro fantasia, ne ha in tal guisa sformati i lineamenti, e confasi i caratteri, che si credette impossibile il ravvisarli.
Giorgio Lillo giojelliere di Londra, il quale morì l’anno 1739, imprese a scrivere più d’una di simili favole tragiche di persone private sommamente atroci, per le quali si è comunicata alle scene francesi ed alemanne la smania di rappresentar le più rare esecrande scelleraggini che fanno onta all’umanità.
pure leggiadramente recato in Italiano dal medesimo poeta Cesareo: Se a ciascum l’interno affanno, Si vedesse in fronte scritto, Quanti mai che invidia fanno, Desterebbero pietà.
E Metastasio sviluppando l’istesso concetto, Se a ciascun l’interno affanno Si vedesse in fronte scritto, Quanti mai che invidia fanno, Desterebbero pietà.
Mi permetta però di dirgli ch’egli ha indebolito codesto suo argomento, per avere ignorato che non i soli nominati gran poeti, ma tutti i Francesi fanno versi rimati.