Ma le sue opere si pubblicarono quaranta anni dopo che cessò di vivere, cioè nel 1598 da Michele suo figlio che lasciato aveva fanciullo. […] Tralascisi poi che i personaggi usano in tal commedia quattro idiomi, cioè un latino scolastico, un italiano insipido, il castigliano ed il valenziano; e neppur si metta a conto che l’Eremita cinguetti nel suo barbaro latino con servi e donne, e tutti l’intendono e rispondono a proposito. […] Altre sei delle sue favole volle denominar tragedie, cioè el Duque de Viseo, Roma abrasada, el Castigo sin venganza, la Bella Aurora, la Sangre inocente, el Marido mas firme. […] E come poi fu egli il primo a dar precetti della vera commedia, se egli nacque nel 1562, cioè ottantaquattro anni dopo la nascita del Trissino che scrisse una Poetica? […] Mi getta sul viso una collezione di dodici autos con sus loas (che in questo luogo significano introduzioni drammatiche, cioè in dialogo) fatta da un don Joseph Oetiz de Villena pubblicata in Salamanca nel 1644, cioè (notino quest’epoca i signori Huertisti, se ve ne ha oggi) più di mezzo secolo dopo del fiorir di Lope; di che più di un nazionale sincero allora non potè trattenersi di ridere.
Egli si avvezza al facile, cioè ad osservare i particolari e a dipingerseli; e prima di avere acquistata una gran copia d’immagini e di averle in mille guise combinate, non può per una piena induzione sollevarsi agli universali, donde comincia il sillogismo. […] In fatti nelle picciole nascenti popolazioni del vecchio e del nuovo continente trovansi sì bene i semi della drammatica, cioè saltazione, canto, versi ma non rappresentazione che meriti di chiamarsi teatrale. Ne segue parimente un’ altra filosofica e sicura conseguenza, cioè che la poesia teatrale prende l’aspetto della coltura di ciascun popolo: se esso non eccede i costumi primitivi e semplici, l’imitazione scenica ne seconderà la materia: se ha costumi barbari, feroci, romanzeschi, il teatro gl’imiterà: e se si giunga all’ultimo raffinamento e alla doppiezza propria de’ popoli culti, nasceranno i Tartuffi de’ Molieri e i Cleoni de’ Gresset a a.
Certamente erronea è la data dello Jal il quale dà un figlio, Luigi Renato, a Thomassin il 17 dicembre 1727, e un altro, questo Gioacchino, il 2 maggio del 1728 (cioè a dire dopo quattro mesi e mezzo), anzichè del 1723.
Giulio Polluce nomina tre altre favole di Rintone, cioè due Ifigenie in Aulide e in Tauri ed il Telefo. […] Gli antichi rammentano ancora un mimografo nomato Filistione; ma Suida pretende che fosse stato contemporaneo di Socrate, ed Eusebio di Cesarea afferma che viveva trecento anni dopo, cioè a’ tempi di Augusto. […] Ma la poesia rappresentativa meglio sviluppata negli episodj, si appropriò certi attori più esperti nel declamare, cioè nel recitare i versi con azione naturale e con un canto parlante, il quale sebbene accompagnato dagli stromenti non lasciava di appressarsi più al favellare che al canto del coro. […] Avanti di quest’epoca, cioè avanti che la rappresentazione indirizzasse il ballo ad imitar favole compiute o comiche o tragiche o satiresche, e a dire in tal guisa per mezzo de’ sensi qualche cosa allo spirito, altro non era la danza che una saltazione quasi senza oggetto, come il piruettare de i Dervisi Turchi. […] Potino neurospasto soleva colle sue figurine (benchè con rincrescimento de’ buoni cioè de’ pochi) rappresentare alcune burlette o spezie di mimi in Atene e in quel medesimo teatro dove declamavansi le immortali tragedie di Euripide141.
La nazione posta in movimento applaudi al disegno di una riforma, ma se ne disapprovava il mezzo scelto, cioè l’esempio de’ Francesi. […] Ma julle scene napoletane sin dal 1727 (cioè quando Krüger non contava che cinque anni) comparve un dramma intitolato lo Cecato fauzo che è uno sposo che si finge cieco per gelosia66. […] Due tragedie in prosa sul gusto Inglese si coronarono non ha molti anni in Amburgo, cioè i Gemelli di Klinker, e ’l Giulio di Taranto di Leusewitz, nella quale si notano molte bassezze ed assurdità. […] Ma il Postzug, cioè il Tiro a quattro commedia del medesimo Ayrenhoff oltremodo felice in cui si dipingono al naturale i costumi e le ridicolezze della nazione, fe dire al re di Prussia Federigo II che i Tedeschi sono più felici nella commedia che nella tragedia. […] L’autore si prefisse la più bella azione che possa onorare un buon padre di famiglia per farlo trionfare utilmente sulla scena; cioè l’obbligare, ad onta della propria nobiltà, il figliuolo a mantener la fede ad una fanciulla di condizione inferiore, ch’ egli avea renduta feconda.
Albertino Mussato Padovano, nato nel 1261, e morto nel 1330, ci fa sapere che già nel 1300 scriveansi comunemente tra noi in versi volgari (cioè facili ad esser compresi da’ volgari, benchè latini) le imprese de’ re, e si cantavano ne’ teatria. […] Egli compose due tragedie latine, cioè l’Achilleis detta così da Achille che n’era il personaggio principale, e l’Eccerinis, in cui introdusse il famoso Ezzelino da Romano tiranno di Padova. […] Leggonsi però prima cinque versi narrativi, cioè detti dal poeta, e non da qualche attore, per li quali l’azione si vede trasportata ad un luogo diverso: Sic fatus imâ parte recessit domus Petens latebras, luce et exclusa caput Tellure pronum sternit in faciem cadens: Tunditque solidam dentibus frendens humum, Patremque saevâ voce Luciferum ciet.
Albertino Mussato Padovano, nato nel 1261 e morto nel 1330, ci fa sapere che già nel 1300 scriveansi comunemente tra noi in versi volgari (cioè facili ad esser compresi da’ volgari, benchè latini) le imprese de’ re, e si cantavano ne’ teatri27 (Nota VII). […] Egli compose due tragedie latine, cioè l’Achilleis detta così da Achille che n’era il personaggio principale, e l’Eccerinis, in cui introdusse il famoso Ezzelino da Romano tiranno di Padova. […] Leggonsi però prima cinque versi narrativi, cioè detti dal poeta, e non da qualche attore; per li quali l’ azione si vede trasportata ad un luogo diverso: Sic fatus imâ parte recessit domus Petens latebras, luce & exclusa caput Tellure pronum sternit in faciem cadens: Tunditque solidam dentibus frendens humum, Patremque sæva voce Luciferum ciet.
Dalla tragedia cittadina, la quale, ove si preservi da colori comici e si contenti di cedere i primi onori al sublime continuato della tragedia grande, potrebbe tollerarsi anche in un teatro di buon gusto, si discende ad un dramma senza contrasto riprensibile, cioè ad una commedia lagrimante, nella quale s’imbratta con pennellate ridicole un quadro tragico. […] Beaumarchais ha composte altre due commedie lontane dalle tinte lugubri delle rappresentazioni, cioè il Barbiere di Siviglia, e la Giornata pazza ovvero il Matrimonio di Figaro. […] Ad accreditar questo genere che si allontana da’ tristi eccessi del comico larmoyant, ma che per qualche tinta soverchio tetra si diparte dalla buona commedia tenera, ha contribuito ancora il Voltaire con due buone favole malgrado di alcun difetto, cioè col Figliuol Prodigo rappresentato nel 1736, e col Caffè ovvero la Scozzese.
Verso la fine del secolo, cioè nel 1492 Carlo Verardo da Cesena nato nel 1440 e morto nel 1500, che fu arcidiacono nella sua patria e cameriere e segretario de’ Brevi di Paolo II, di Sisto IV, d’Innocenzo VIII e di Alessandro VI, compose due drammi fatti rappresentare in Roma solennemente dal mentovato cardinal Riario. […] Che se di tutte queste cose volesse idearsi una scena stabile, non riuscirebbe difficile il compartirvele; ma allora sorgerebbe un dubbio inevitabile, cioè, come mai ninfe e pastori scorrendo per ogni banda, non si sono avveduti della via che mena all’inferno e delle apparenze dell’atto IV? […] Il pensiero di adoperare ne’ drammi le arie, cioè le stanze anacreontiche che oggi formano il più importante dell’opera Italiana, non ci venne miga dal Cicognini, il quale verso la metà del secolo XVII le frammischiò al recitativo nel suo Giasone. […] Ma io che penso di avere una coscienza un po’ più delicata di cotesto gazzettiere, torno quì a ripetere che le ariette del Notturno interruppero il dramma, nè ciò fecero ne’ cori, ma nel corso dell’atto; ed aggiungo che ciò accadde verso la fine del XV, cioè a dire un secolo e mezzo prima del Cicognini. […] Egli però ciò scrisse nel 1785; ed io gli avea tolto il travaglio di correggermene coll’ accusarmi da me stesso un anno prima, cioè nel 1784, quando uscì il nominato volume III della mia opera sulle Sicilie.
Io senza inoltrarmi in così spinose ricerche ho cercato di far conoscere la rettorica e la filosofia dell’arte, quelle parti cioè le più trascurate dai moderni musici, ma le quali io giudico essere le più essenziali fra tutte, poiché c’insegnano l’uso che dee farsi de’ mezzi particolari ad ottenere nella maggior estensione possibile il fin generale.
Di lui la Gazzetta di Genova del 18 settembre 1822, dell’anno, cioè, in cui egli entrò a far parte della Compagnia, scriveva : « Il signor Righetti, nemico dei lazzi volgari, conosce la difficile arte di saper cogliere dagli spettatori sensati il desiderato sorriso di compiacenza. »
Dalla imperizia de’ cantori in questo genere è venuta l’accusa che vari scrittori fanno al canto moderno di non convenire cioè in alcune occasioni a quello stile sublime, a quelle situazioni inaspettate ed energiche onde tanto s’ammiran da noi i poemi degli antichi, e le tragedie recitabili. […] [22] Ma dove, quando, e come deve usar il musico degli ornati per conciliar fra loro i due estremi difficili, di emendar cioè coll’arte i difetti della natura, e di non sostituire alla natura gli abbigliamenti dell’arte? […] Vengono proscritte dal buon senso tutte le cadenze eseguite nello stile di bravura, cioè quelle cadenze arbitrarie inventate all’unico fine di far brillare una voce accumulando senza disegno una serie prodigiosa di tuoni e raggirandosi con mille girigiri insignificanti. […] Dove all’aria stessa cioè alla stessa passione che conserva la tinta e il colore medesimo si dà tutte le volte che si torna da capo un tuono affatto diverso cambiando il tempo, il movimento e il ritmo, quantunque il cambiamento non abbia punto che fare col basso e coi violini? […] ma che quel canto fosse come il nostro cioè così sminuzzato, raffinato e sottile, questo è ciò di cui mi prendo la libertà di dubitare.
Nacque nel 1742 e viveva ancora al tempo di Francesco Bartoli, editore delle più volte citate notizie, cioè circa il 1782.
Il famoso attore padovano Angelo Beolco chiamato il Ruzzante scrisse alcune commedie che s’impressero nel 1598, cioè lo Fiorina, l’Anconitana e la Piovana, le quali dal Varchi nell’Ercolano furono anteposte alle antiche Atellane. Francesco Andreini pistojese marito della celebre attrice Isabella Andreini, ed attore anch’egli che rappresentava da innamorato, e dopo la morte della moglie da tagliacamtone col nome di Capitano Spavento da Vallinferna, volle ancora distinguersi come autore scrivendo più dialoghi, farse e commedie ove acciabattò quanto aveva in iscena recitato come attore, cioè le rodomontate.
Scrisse centodiciassette o centotrenta ed anche più tragedie, delle quali venti furono coronate; ma non ne sono a noi pervenute che sette, cioè Ajace, le Trachinie, Antigone, Elettra, Edipo re, Filottete, Edipo Coloneo, le quali dovunque fioriscono gli ottimi studii, divengono esemplari de’ più peregrini ingegni. […] Egli si ritira colle figlie nel tempio delle Venerabili Dive, cioè delle Furie, la cui memoria di tanto orrore colmava i Greci, che non ardivano quasi mai mentovarle col loro vero nome, e per antifrasi le appellavano Eumenidi, cioè benevole, benigne da εὑμενέώ, benevolus sum. […] Sulle quali parole fece il critico Modanese in questa guisa la sua esposizione: Tespi, secondo Laerzio, trovò un contrafacitore, che contrafaceva ballando, sonando, e cantando l’azione della tragedia … Eschilo trovò il secondo, cioè un’altra maniera di contrafacitori… dividendo il ballo dal canto e dal suono … E Sofocle trovò il terzo, e divise la moltitudine in tre classi, cioè in ballatori, cantori e sonatori . […] Se fossero stati semplici individui accresciuti uno per volta, ne seguirebbe che Eschilo non avesse introdotti nelle sue favole che due soli attori, oltre del Coro, la qual cosa, come si è detto, sarebbe smentita da quelle che ce ne rimangono; perocchè nel solo Prometeo alla prima scena intervengono la Forza, la Violenza, Vulcano e Prometeo, cioè quattro personaggi.
Ma la Petrucci ha il padre che è caratterista, niente cattivo attore, anzi, a parer mio, buon attore ; e se non sta col padre, passa in podestà del marito, sposa cioè Germoglia che fa il primo attore ; nell’un caso o nell’altro non vedo come possa fare al caso vostro.
Questa Compagnia ha un’ottima qualità complessiva, di tutti, cioè : quella di recitar la commedia naturalmente, parlando, e nessuno glie ne tien conto. » E il Sossaj, nella sua cronaca (Teatro Comunale di Modena, autunno del 1844), della Compagnia Vergnano dice : « Tutto che composta di soggetti di merito discreto, pure fu assai mal corrisposta dal pubblico.
Molto più dacché un altro vizio non minore di questo è venuto di mano in mano prendendo piede, cioè la spessezza della note. […] , le quali esprimono un sentimento risoluto, cioè quello di non condannare il padre? […] Il giuoco degli strumenti prima del “mora” è non per tanto un contrasenso dell’armonia, per ischivarne il quale bisognerebbe posporre le note due parole dopo, cioè inanzi al “Ma chi?” […] [38] Un altro sommo difetto degli odierni maestri quello è di poco o nulla studiare l’accento patetico della lingua, che serve di fondamento alla musica imitativa, cioè i tuoni individuali di ciascuna passione. […] [49] Questo morbo letterario proviene da due principi irremediabili ascosì nell’umano spirito, cioè dalla inquietudine e dalla vanità.
Sotto Mustafà III si è stabilita in Costantinopoli un’ accademia di marina chiamata Muhendis Khanè, cioè camera di geometria aperta verso il 1773. […] Dura tre anni, cioè a dire incomparabilmente meno, non dico delle favole cinesi, ma delle alemanne, spagnuole e inglesi del passato secolo.
Delle poesie di lei vider la luce alcune Poesie musicali composte in diversi tempi, aggiunte alla prima edizione dell’Inganno fortunato, e una raccolta di rime, intitolata : Rifiuti di Pindo, edita in Parigi nel 1666, in 12°, sotto’l nome di Aurelia Fedeli, a proposito del quale si levaron dispute e contese fra’letterati : quello sostenendo che fu per semplice error di proto stampato Fedeli e non Fedele, cioè Aurelia, comica fedele ; questo immaginando che il nome di Fedeli sia quello d’un secondo marito, dovendosi escludere l’error del proto, il quale sarebbe stato continuato da lei e dal figlio di lei, che nelle sue liriche indirizza una poesia a Brigida Fedeli sua madre, a cui tien dietro subito la risposta della signora Brigida Fedeli, madre dell’autore. […] Comunque sia, quel che più preme, che cioè l’Aurelia Fedeli e la Brigida Bianchi fosser la stessa persona, è omai fuor di dubbio ; com’è fuor di dubbio che, dagli esempj che ne dà il Bartoli, e più specialmente il Moland in una sonetto che qui riproduco, si capisce chiaro come questa donna, al pari delle sue gloriose preceditrici, riuscisse nel poetare assai più che sufficientemente.
Lo vediamo in tale ufficio a Modena il 1758, dove immaginò I fuochi teatrali, cioè : Due fontane versanti nella platea le composizioni presenti allusive alle suddette fonti, e ai componimenti suddetti, che pure alludono alle Medesime, siccome all’arme de la serenissima Casa d’Este alle stelle che la circondano, all’ecclissi del sole, ed ai segni del zodiaco, rappresentati dai fuochi sopraddetti, spieganti in generale le glorie della suddetta serenissima casa, alla quale umilmente li dona, dedica e consacra l’ossequiosissimo servidore.
E sì io confesso ch’essa ha molti difetti; ma per trovarsene moltissimi ne’ migliori Tragici Spagnuoli, cioè nel Bermudez, nel Cueva, nel Virues, nell’Argensola, lascia forse il Signor Lampillas di chiamarli eccellenti? […] Insta il Signor Lampillas, piena la mano di alcune autorità Italiane contro di essa, cioè dell’Ingegnieri, del Quadrio, e del Maffei. […] Ma se avesse scorsi i passi di questi Letterati meno alla sfuggita, avrebbe osservato che essi dicono che il Vicentino fu il primo a scrivere una degna Tragedia in questa lingua, cioè in idioma Italiano. […] Io trovo sulle Atellane così contrarie opinioni negli Scrittori, che non saprei determinarmi a diffinirle, se non col prendere il partito accennato nella Storia de’ Teatri, cioè assegnando loro due epoche, o sia riconoscendo in esse un’ alterazione successiva, che di sobrie, gravi, e degne di essere privilegiate, le converse in leggiere, oscene, e licenziose. […] Perdonate però se interrompo un’ estasi così bella con rappresentarvi che le azioni dell’Ecuba Greca non sono già molte, come Voi dite, senza forse ricordarvi della favola di Euripide, ma due, cioè la morte di Polissena, e la vendetta presa da Ecuba di Polimestore; che la morte di Polidoro è seguita prima dell’azione della Tragedia.
Giulio Polluce nomina tre altre favole di Rintone, cioè due Ifigenie, in Aulide e in Tauri, ed il Telefo. […] Gli antichi rammentano ancora un mimografo nomato Filistione; ma Suida pretende che fosse stato contemporaneo di Socrate; ed Eusebio di Cesarea afferma che viveva trecento anni dopo, cioè a’ tempi di Augusto. […] Ma la poesia rappresentativa meglio sviluppata negli episodii, si appropriò certi attori più esperti nel declamare, cioè nel recitar versi con azione naturale e con un canto parlante il quale sebbene accompagnato dagli stromenti non lasciava di appressarsi più al favellare che al canto del Coro. […] Avanti di quest’epoca, cioè avanti che la rappresentazione indirizzasse il ballo ad imitar favole compiute o comiche o tragiche o satiresche, e a dire in tal guisa per mezzo de’ sensi qualche cosa allo spirito, altro non era la danza che una saltazione quasi senza oggetto, come il piroettave dei Dervisi Turchi. […] Del rimanente la saltazione è un esercizio che trovasi presso tutti i popoli ancor barbari e selvaggi; e Frigii e Cretesi e Indiani ed Etiopi ed Egizii e Traci ed Arabi ed Americani, tutti hanno avuto il loro Androne, cioè uno che prima di ogni altro si avvisò di saltare e di muoversi a seconda del suono.
Il Bugiardo, tratto dalla Verdad sospechosa, e dal Mentiroso en la corte degli Spagnuoli, si rappresentò dopo che avea Cornelio illustrate le scene con gli Orazj, col Cinna e col Poliuto, cioè nel 1641 o 1642. […] Volle indi scagionarsi di un sospetto insorto che poteva nuocergli, cioè che nelle imitazioni ridicole avesse satireggiato alcuni ragguardevoli cortigiani; e se ne giustificò alla presenza del re coll’ Improvvisata di Versailles recitata nell’ottobre del 1663, e poi in Parigi nel seguente mese. […] Ma si vuol notare che il Bernagasso ed il Tartuffo vennero dopo di due altri componimenti Italiani, ne’ quali si dipinse il carattere di un falso divoto, cioè dalla commedia latina del Vercellese Mercurio Ronzio De falso hypocrita & tristi, e dall’Ipocrito di Pietro Aretino, in cui nulla desidereresti per raffigurarvi il Tartuffo, se l’autore non avesse voluto nella sua favola aggruppare gli eventi che nascono da una somiglianza, e quelli di cinque coppie d’innamorati, le quali cose gl’ impedirono il rilevar tutti i tratti più vivaci di tal fecondo detestabile carattere sempre necessario di essere esposto alla pubblica derisione. […] Tre altri comici rinomati si vogliono nominar con onore dopo Moliere, cioè Regnard, Brueys e Dancourt. […] Più volte ballò in pubblico Luigi XIV, cioè nell’Ercole amante insieme colla regina, nella mascherata in forma di balletto composta da Benserade nel 1651, e ne’ balletti comici di Moliere sino all’anno 1670.
Cornelio Nipote nel proemio del suo libro degli uomini insigni riferisce una cosa assai più notabile, cioè che in Isparta ogni vedova quanto si voglia nobile compariva sulle scene prezzolata. […] E nella Vita di Silla egli pur mentova un certo Metrobio attore Lisiodo, cioè che rappresentava solo parti di donne, a differenza de’ Magodi che facevano quelle dell’uno e dell’altro sesso. […] Nell’alto della scena eravi il Θεολογειον, cioè il luogo onde parlavano le divinità. […] Laonde Eubulo cittadino potente e adulatore del popolo promulgò una strana legge, cioè che chiunque proponesse di trasportare ad uso di guerra il danajo che si chiamava teatrale, fosse reo di morte169.
Ognun de’Soci doveva confessarsi tre volte l’anno : cioè la Pasqua di Resurrezione, l’Assunzione e il Natale.
Anzi Plauto, nella sua commedia Miles gloriosus at. 2, sc. 2, fa che Palestrione greco personaggio lo chiami poeta barbaro, cioè non greco, ma latino, la qual cosa non avrebbe potuto dire senza sconcio, se Nevio nato fosse nella Magna Grecia. […] Adunque Nevio non ebbe la patria greca ma barbara, cioè straniera. Aulo Gellio nel rimproverare a Nevio il fastoso epitafio che egli compose per se stesso, dice che i suoi bei versi mostravano tutta la nativa alterigia Campana, cioè del proprio paese.
[19] Ben più elevato e più sublime era l’altro vantaggio che aveva il ritmo d’influire cioè sui costumi nazionali, e sulla pubblica educazione. […] E ciò che si dice della poesia rispetto alla musica, si dice ancora della musica strumentale rispetto alla vocale, cioè che vicendevolmente si nuocono per voler ciascuna primeggiare da sé, sottraendosi dalla dipendenza della sua compagna. […] Che al più solo potranno averla nei concerti puramente strumentali, cioè nel genere meno perfetto della musica, siccome quello cui manca il principal fonte della energia, che consiste nella espressione di qualche individuale concetto dell’animo? […] Se si parla delle misure semplici, le quali non sono che due la dupla cioè, e la tripla, la prima non esprime che due soli tempi, e la seconda tre. Se si parla delle composte, queste non sono che quattro, cioè la quadrupla, ch’è una dupla doppia, la dodecupla, ch’è una dupla triplicata, le sestupla, ch’è una tripla doppia, e la noncupla, la quale è una triplicazione della tripla.
Sotto Mustafà III si è stabilita in Costantinopoli un’ accademia di marina chiamata Muhendis Khanè, cioè camera di geometria aperta verso il 1773. […] Dura tre anni, cioè a dire incomparabilmente meno, non dico delle favole cinesi, ma delle alemanne, spagnuole ed inglesi del secolo XVII.
S. ha ordinato che invece di Gaetano Caccia cioè Leandro, e di Galeazzo Savorini Dottore si paghino le lire 45 il mese a Gennaro Sacco detto Coviello, et alla Maddalena Sacco detta Armellina. […] Di quella del Cinque nel prologo, nell’episodio, nel esito, nel Corico, e nel Como ; di quella del sette nelle sue varie specie, espresse dal Donato, cioè : Palliata, Togata, Atellana, Tabernatia, Mimo, Rhintonica, e Planipedia.
Ma già viene il Signor Lampillas colla mano armata di acute folgori, cioè de’ passi di alquanti eruditissimi Italiani, i quali, a suo credere, riprendono ancora il canto nell’Opera. […] La Tragedia Greca si cantava, e non si cantava, dice il Martelli, cioè non era un Canto deciso, come il Moderno, nè un parlar naturale, ma una cosa che partecipava dell’uno e dell’altro. […] Egli sostiene in tutte le sue Scritture l’opinione del Poeta Filosofo Orazio, cioè che Ficta voluptatis causa sint proxima veris, Sentimento espresso con altri termini da un giudizioso Inglese, cioè che il Vero Poetico sia il Verisimile. […] Altro rimedio non vi è fuori della indulgenza dello spettatore, il quale col fatto convenga in non cercare un impossibile, cioè una cosa, che non può andare altramente di quello, che và. […] A queste opere inarrivabili del Pittore di Urbino ne aggiungo un’ altra di uno non meno divino Artefice, cioè del fonte della Grazia pittoresca, Antonio Allegri detto il Correggio.
Il citato Ottone da Frisinga nel succennato luogo ci attesta parimente che le Città Italiane de’ suoi tempi erano senza dubbio più ricche di tutte quelle d’oltramonti; anzi il soprallodato Muratori nella Conclusione degli Annali d’Italia, che trovasi dopo l’anno 1500, giunge a dire queste precise parole: Non si può negare, che negli ultimi predetti secoli, cioè dopo il mille e cento di gran lunga abbondasse più l’Italia di ricchezze che oggidì. […] I Poeti Provenzali, che per quanto chiaramente ricavasi da due passi del Petrarca l’uno del Trionfo d’Amore cap. 4, e l’altro della Prefazione alle sue Epistole Famigliari, vennero dopo i nostri Siciliani a verseggiare e a far uso della rima nelle moderne lingue volgari, si distinguevano con varj nomi secondo i loro varj mestieri, in Troubadores, cioè trovatori, così detti dal trovar prontamente le rime, e dall’inventar favole verseggiando, in Canterres, o cantori, i quali cantavano i versi composti dai Trobadori, e in Giullares, o siano Giucolari, o Giullari, che vale lo stesso che giocolieri, o buffoni, i quali nelle pubbliche piazze, o nelle fiere intertenevano il popolo con varie buffonerie, sonando qualche stromento, o sollazzavano i conviti de’ Principi e gran Signori con canti, suoni e balli, celebrando le gesta de’ Paladini, e le bellezze delle donne. […] Questi Trobadori erano quasi tutti Principi, Cavalieri, Militari con alcuni Vescovi, Canonici, Claustrali, e altre persone le più distinte ed amabili dell’uno e dell’altro sesso, che aveano spirito, senso e talento per la gaja scienza, cioè per la scienza d’ amore e di poesia a que’ tempi usata. […] E sotto questo nome generico di ciarlatani si comprendevano a que’ tempi non solo gli scenici, cioè i mimi, buffoni ed istrioni ma eziandio i giullari e i ministrieri.
., se fosse certo ciò che scrive l’Autore della Storia Critica de’ Teatri, cioè che la Poesia Drammatica a imitazione degli Antichi rinacque in Italia nel secolo XIV.” […] Nè anche vide ivi addotta la notizia della Tragedia, a noi non pervenuta, di Giovanni Manzini della Motta, rammentata però in una delle Lettere Latine dell’Autore, il quale nell’idearla vi ebbe il merito di mettere in iscena, al pari del Mussato, una storia nazionale, cioè la caduta di Antonio della Scala Signore di Verona.
Dal che ben pare che l’esperienza ne insegni qualmente, per l’interior del teatro, a prescegliere si abbia il legno; quella materia cioè di che fannosi appunto gli strumenti da musica, siccome quella che è più atta di ogni altra, quando percossa dal suono, a concepir quella maniera di vibrazioni che meglio si confanno cogli organi dell’udito. […] Quale sia il fondamento di cosi raffinata invenzione, è facile a vedersi: la similitudine cioè, o l’analogia, che immaginarono doversi trovare tra il suono reso dalla campana e la figura della campana che il rende. […] Che se per avventura si domandasse quale sia la più conveniente figura per l’interior del teatro, quale sia la curva la più acconcia di tutte a disporvi i palchetti, risponderemo: la stessa che usavano gli antichi a disporre nel loro teatro i gradini, cioè il semicerchio.
II Bugiardo tratto dalla Verdad sospechosa e dal Mentiroso en la Corte degli Spagnuoli, si rappresentò dopo che avea Cornelio illustrate le scene con gli Orazii, col Cinna e col Poliuto, cioè nel 1641 e 1642. […] Volle indi scagionarsi di un sospetto insorto che poteva nuocergli, cioè che nelle imitazioni ridicole avesse satireggiato alcuni ragguardevoli cortigiani; e se ne giustificò alla presenza del re coll’Improvvisata di Versailles recitata nell’ottobre del 1663, e poi in Parigi nel seguente mese. […] Si vuol notare però che il Bernagasso mentovato ed il Tartuffo vennero dopo di due altri componimenti italiani, ne’ quali si dipinse il carattere di un falso divoto, cioè dalla commedia latina di Mercurio Ronzio vercellese De falso hypocrita et tristi, e dall’Ipocrita di Pietro Aretino, in cui nulla si desidererebbe per raffigurarvi il Tartuffo, se l’autore non avesse voluto nella sua favola aggruppare gli eventi che nascono da una somiglianza, e quelli di cinque coppie d’innamorati, le quali cose gl’impedirono il rilevar tutti i tratti piû vivaci di tal secondo detestabile carattere che sempre con utilità e diletto sarà esposto alla pubblica derisione. […] Tre altri comici rinomati si vogliono mentovar con onore dopo Moliere, cioè Regnard, Brueys e Dancourt. […] Più volte ballò in pubblico Luigi XIV, cioè nell’Ercole amante insieme colla Regina, nella mascherata in forma di balletto composta da Benserade nel 1651, e ne’ balletti comici di Moliere sino all’anno 1670.
Cornelio Silla venne Roscio onorato col l’anello d’oro, cioè fu ascritto all’ordine equestre. […] La qual cosa per avventura non ignorando Giulio Cesare volle che negli spettacoli dati per lo suo trionfo Laberio stesso comparisse in teatro (siccome avea già obbligati i due principi reali dell’Asia e della Bitinia a danzare in pubblico la pirrica) promettendogli cinquecentomila sezterzii, cioè intorno a quattordicimila ducati napolitani. […] Dell’esodio, cioè di questa spezie di tramezzo fatto da’ mimi o ludioni fra il riposo degli atti, vedasi Adriano Turnebo Adversariorum lib. […] Ciò evidentemente dimostra che non vennero compresi nel bando degl’Istrioni i Tragedi e Comedi, cioè coloro che recitavano e cantavano drammi regolati.
La Moda di Napoli dice : « è difficile veder due volte il Marchionni con la stessa sembianza : diverso sempre da sè sotto le diverse forme che veste su le scene, ei non somiglia a sè stesso che in una sola cosa, cioè in esser sempre eccellente. » Di lui abbiamo tragedie : I Martiri, Olindo e Sofronia, Edea Zavella o La presa di Negroponte, La Vestale, che meritò gli elogi di Vincenzo Monti e di Ugo Foscolo ; spettacoli : Pirro, o i Venti Re all’assedio di Troja, La figlia della terra d’esilio ; drammi : Chiara di Rosenberg calunniata, Chiara innocente, L'Orfanello svizzera ; lavori questi scritti per la sorella Carlotta e da lei con molto successo recitati.
Osservammo nel tomo precedente, che la legge or dirige or aguzza gl’ingegni, e l’ arte ne acquista perfezione; ma ciò s’intende quando la legge, cioè la ragione, gastiga i delitti, non già quando un’ arbitraria indomita passione infierisce contro l’innocenza, e punisce in essa i proprii sogni e vaneggiamenti. […] E come trovarne dalla morte di Teodosio I sino allo stabilimento de’ Longobardi in Italia, periodo il più deplorabile per l’umanità a cagione del concorso di tante calamità, cioè di guerre, d’incendii, di fame, di peste che all’inondazione di tanti barbari desolarono l’intera Europa? […] Tra gli Arabi non si trova se non quello che ebbero tutte le nazioni anche rozze, cioè musica, balli e travestimenti adoperati ne’ loro giuochi di canne, quadriglie e tornei. […] Costui nel libretto delle Origini della Poesia Castigliana asserisce primamente, che i Romani portarono in Ispagna i giuochi scenici, senza curarsi di addurne qualche pruova, siccome per altro avrebbe potuto, facendo parola di quanto noi abbiamo non ha guari riferito, cioè de’ giuochi teatrali dati in Cadice da Balbo, del teatro Saguntino e delle rovine teatrali di Acinippo, di Tarteso e di Merida. […] Il perno però su cui volgesi la tragedia Romana, è lo stesso della Greca, cioè il fatalismo, se tralle conosciute se n’ eccettui la Medea, che regge per la sola combinazione delle passioni, nè mette capo nella catena di un destino inesorabile.
Tutto ciò che non è Catone in essa è mediocre; e la sua mediocrità deriva da due sorgenti, cioè da una languida e inutile congiura di due furbi che si esprimono e pensano bassamente, e da un tessuto d’insipidi e freddi amori subalterni di sei personaggi de’ dieci che sono nella favola. […] Vediamo intanto ciò che soprammodo nella storia teatrale contribuisce ai progressi del gusto nella gioventù, cioè le bellezze più che i difetti de’ componimenti, che è la parte nobile della critica inaccessibile ai freddi ragionatori privi di cuore. […] Si lodano negli ultimi fogli periodici due tragedie quivi pur pubblicate nel 1788, cioè la Sorte di Sparta, ossia i Re Rivali, ed il Reggente. […] Il titolo è Beggars’ Opera, cioè l’Opera del Mendico, e non già de’ Pezzenti, come la chiamarono alcuni eruditi Francesi ed il sig. […] Dopo la Nelly, cioè Elena Guyn attrice comica sì cara al re Carlo II, fiorì la celebre Ofields ammira, ta in vita e sepolta poi accanto a’ gran poeti del suo paese in Westminster.
Non certo alcuno menzionato nel dizionarietto del Bartoli, poichè Domenico era già morto nella primavera del 1774, cioè quindici anni prima dell’incontro di questo col Casanova ad Ausburgo : non la Marianna morta a venti anni.
Ma poichè con tanta garbatezza v’ingegnaste di dissipare certi miei Pregiudizj con un ben lungo paragrafo, e mi correggeste gl’importantissimi errori di Critica, e di Storia, cioè l’aver chiamati Colloquj Pastorali tutte le favole del Rueda, quando egli fece anche alcune commediole, e l’avere collocato nel secolo XV. […] Palliare le di lei necessità letterarie, economiche, politiche, militari, alimentarne i volgari pregiudizj, perpetuarne il letargo, è lo stesso che volerne essere a bello studio piaggiatore, cioè nemico tanto più pernicioso, quanto più occulto. […] Vi fiorirebbero tante Società dirette principalmente a promuovere la coltivazione e l’industria, come la Vascongada, quella di Baeza, e l’Economica di Madrid sotto il dolce nome de los Amigos del Pais, come altresì le Accademie, che riguardano al medesimo oggetto, cioè quella di Siviglia, di Barcellona, di Vagliadolid, e di Galizia? […] Con tutto ciò delle celebri Città Italo-Greche ci rimase qualche cosa più preziosa, cioè a dire la memoria gratissima della dottrina di tanti Filosofi, Oratori, Matematici, Musici teorici, e Poeti, ed anche non pochi avanzi de’ loro aurei Libri. […] Si dubita parimente, che Cadice sia fondazione Fenicia, per quel che dice Sallustio ne’ Frammenti, cioè che non la fondarono, ma le mutarono il nome di Tarteso in quello di Gadir.
[6] La consonanza, cioè quell’intervallo armonico, nel quale i due toni grave ed acuto s’uniscono senza confondersi in maniera che l’orecchio percepisce facilmente la differenza e la conformità, l’unione e la distinzione, fu, al mio avviso, trovata per mero accidente, e introdotta in seguito nella musica a cagion di piacere. […] Questo fu d’introdurre le dissonanze, cioè quell’intervallo ove l’accordo di due suoni si trova così differente e sproporzionato che l’orecchio non può determinare se non difficilmente il rapporto loro, lo che essendo cagione all’anima di qualche pena, a motivo che essa appetisce l’ordine fin nella varietà stessa56, rende cotal rapporto de’ suoni spiacevole. […] Uno de’ principali mezzi fu quello d’applicar l’armonia a parole cantabili, cioè a poesie appassionate ed affettuose. […] [21] Nonostante, il Rinuccini non lasciò d’urtare nello scoglio incontro al quale urtano sovente gli inventori in cotai generi, la mescolanza, cioè, dell’antica imitazione colle moderne usanze. […] Potrei citare molte degli altri autori, ma basti per ultima pruova una assai leggiadra tratta dalla Flora d’Andrea Salvadori, stampata nel 1628 cioè anni vent’uno prima del Giasone.
Ella stessa compose varie poesie pubblicate in Lione nel 1547; e dieci anni dopo s’impresse in Parigi il suo Eptamerone, cioè sette giornate di novelle giocose ma soverchio libere. […] Gli attori furono varie persone di buon nome e di talento, e tra esse, oltre al medesimo Jodelle, due altri poeti, cioè Remigio Belleau, e il nominato Giovanni De la Peruse; che anche compose una Medea di assai infelice riuscita.
La nazione posta un movimento applaudi al disegno di una riforma, ma molti ne disapprovavano il mezzo scelto, cioè l’esempio de’ Francesi. […] Due tragedie in prosa sul gusto inglese si coronarono verso il 1780 in Amburgo, cioè i Gemelli di Klinker , ed il Giulio di Taranto di Leusewitz, nell’ultima delle quali si notano alcune bassezze ed assurdità. […] Ma il Postzug, cioè il Tiro a quattro commedia del medesimo Ayrenhoff oltremodo felice nella rappresentazione, in cui si dipingono al naturale i costumi e le ridicolezze della nazione, in cui si dipingono al naturale i costumi e le ridicolezze della nazione, fe dire al re di Prussia Federigo II che i Tedeschi sono più felici nella commedia che nella tragedia. […] L’autore si prefisse la più bella azione che possa onorare un buon padre di famiglia per farlo trionfare utilmente sulla scena; cioè l’obbligare, ad onta della propria nobiltà, il figliuolo a mantener la fede ad una fanciulla di condizione inferiore ch’egli avea renduta feconda.
Pasquali) : Primo Zanni, cioè Brighella, Pietro Gandini Veronese, comico di grandissima abilità, eccellente nelle commedie dette de’ Personaggi ; poichè è arrivato in una sola rappresentazione a cambiare diciotto volte d’abito, di figura e linguaggio, e sostenere mirabilmente diciotto differenti caratteri.
Probabilmente questo sonetto fu scritto del ’72, un anno avanti la pubblicazione delle rime del Vestamigli, quando cioè l’Isola si trovava a recitare a Bologna con Angiola Isola, con la D’Orsi, i Broglia, Milanta, Cimadori, e Riccoboni.
sotto qual cielo acquistarono la forma più perfetta, cioè più dilettevole e più instruttiva? […] Nel primo e nell’ultimo giorno dell’anno, quando l’Imperadore presedeva all’amministrazione della giustizia, si eseguiva una musica chiamata Tchoung-hochao-yo, cioè che inspira concordia verace.
E in un altro, a proposito del recitare in italiano a persone, che per lo più non intendevano, e del bisogno di far delle azioni assai, di trovar dell’invenzioni, mutazioni di scene, e cose simili per contentar l’uditorio, è detto : « Il bravissimo Zanotti non più con la sua Eularia poteva dialogando mostrar la finezza del bel dire, l’argutezza delle risposte, le sentenze, e gli equivochi frizzanti per guadagnar i cuori…. » Ottavio era dunque il capocomico, e dallo stesso Locatelli sappiamo che la Compagnia era composta di nove persone, « cioè due Innamorati, due Donne, la Rufiana, un Coviello, un Pantalone et un Dottor Graziano ». […] (cioè : Giovan Andrea Zanotti detto Ottavio), dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Carlo secondo duca di Mantova, Monferrato, Carlovilla, Guastalla, ecc.
Ed ebbe maggiormente torto per la ragione che ne reca, cioè che l’amore di Marzia è degno di una vergine romana, e che Giuba ama in Marzia la virtù di Catone. […] Sul finire gli sopravviene un dubbio sull’avere troppo affrettato, forse per quello che nel medesimo dialogo di Platone s’insegna, cioè che vieta il sommo Imperante di sprigionar lo spirito prima di un suo decreto. […] Negli ultimi fogli periodici del secolo XVIII si lodano due tragedie pubblicate in Londra nel 1788, cioè la Sorte di Sparta, ossia i Re Rivali, ed il Reggente. […] Dopo la Nelly, cioè Elena Guyn attrice comica sì cara al re Carlo II, fiorì la celebre Ofields ammirata in vita, e sepolta poi accanto ai grandi poeti del suo paese in Westminster. […] Il titolo è Beggars’ Opera, cioè l’Opera del Mendico, e non già de’ Pezzenti, come la chiamarono alcuni Francesi, ed anche il sig.
Quanto alle commedie poi dalla narrazione a cui ci accingiamo di quelle dell’Ariosto, del Bibbiena e del Machiavelli, si vedrà che furono scritte assai prima del 1520, cioè intorno al 1498 o poco più; e per conseguenza che l’epoca gloriosa della poesia regolare drammatica dovrà fissarsi sul bel principio del secolo XVI. […] Reca singolar diletto al filosofo che non arzigogola, cioè che ragiona con sicurezza di dati, il rintracciar nelle commedie alcun materiale da supplire alla storia stessa delle nazioni intorno all’alterazioni de’ costumi e delle maniere ed all’epoche de’ loro abusi. […] Una ne compose in versi ch’è il Pellegrino impressa nel 1560, e sette in prosa, cioè l’Ermafrodito, il Ladro, il Marinajo, la Notte, i Contenti, il Viluppo e la Fantesca pubblicate dal 1549 al 1597. […] Forse l’ultimo scrittore comico del cinquecento fu il vecchio Loredano, che dal 1587 al 1608 pubblicò sette commedie in prosa, cioè i Vani amori, la Malandrina, la Turca, l’Incendio, la Berenice, la Madrigna, e Bigonzio. […] Noi che abbiamo studiata un poco più l’Italia e la Spagna, possiamo assicurargli che in tali paesi si sono infinite volte dipinte le donne con siffatto carattere, cioè distinte per grado e per virtù.
Adlerbeth suo segretario ha secondato con buon successo le reali vedute scrivendo un’ Ifigenia in Aulide tragedia con cori ricavata dagli antichi, e Cora ed Alonso componimento posto in musica dal Nauman, ed altre favole musicali imitate dalle francesi, cioè Procri e Cefalo, Anfione, Nettuno ed Anfitrite.
Il primo, recatosi una sera dopo il suo lungo esilio, al Carignano, ove recitava la Compagnia Reale, e richiesto del parer suo su di essa, rispose : « È senza dubbio una compagnia composta di ottimi attori ; ma sembra a me che fra essi molti declamino, e due soli veramente parlino ; cioè Cesare Dondini e la Romagnoli. » Ed Ernesto Rossi (op. cit.
Non furono forse regolari, ingegnose e facete la Pellegrina di Girolamo Bargagli senese uscita alla luce nel 1611, gli Scambii di Belisario Bulgarini pubblicata nel medesimo anno, e le commedie del Malavolti, cioè i Servi Nobili del 1605, l’Amor disperato del 1611, e la Menzogna del 1614? […] Esse veramente non portano il nome dell’autore che le compose, cioè di Francesco d’Isa sacerdote erudito che dimorava in Roma, dove morì sull’ incominciar del secolo. […] Capuano fu ancora Lorenzo Stellati autore pregevole di altre due commedie, cioè del Furbo uscita in Napoli nel 1638, e del Ruffiano impressa nel 1643 assai comendate da Gio: Vincenzo Gravina.
Dovè dunque concepirsi di tal modo, che le macchine per appagare la vista, l’armonia per dilettare l’ udito, il ballo per destare quella grata ammirazione che ci tiene piacevolmente sospesi agli armonici, graziosi, agili e leggiadri movimenti di un bel corpo, cospirassero concordemente colla poesia anima del tutto, non già qualunque o simile a quella che si adopera in alcune feste, ma bensì drammatica e attiva, ad oggetto di formare un tutto e un’ azione bene ordinata, e cantata dal principio sino al fine, e (per dirlo colle parole del più erudito filosofo e dell’ uomo del più squisito gusto che abbia a’ nostri dì ragionato dell’opera in musica, cioè del conte Algarotti) di rimettere sul teatro moderno Melpomene accompagnata da tutta quella pompa che a’ tempi di Sofocle e di Euripide solea farle corteggio. […] Così terminò il secolo XVI glorioso in tante guise per l’Italia: cioè per aver fatta risorgere felicemente in aureo stile la greca tragedia, il teatro materiale degli antichi e la commedia de’ Latini; per l’invenzione di tanti nuovi tragici argomenti nazionali e tante nuove favole comiche ignote a’ Latini; per aver somministrati a’ Francesi tanti buoni componimenti scenici prima che conoscessero Lope de Vega e Guillèn de Castro; pel dramma pastorale ad un tempo stesso inventato e ridotto ad una superiorità inimitabile; finalmente per l’origine data al moderno melodramma comico ed eroico. […] Don Tommaso Yriarte di porre in eleganti versi castigliani il mio raziocinio, facendo una bella parafrasi delle mie espressioni nel canto IV del suo poema della Musica pubblicato due anni dopo della mia Storia, cioè nel 1779; e benchè egli non si sia curato di citar la fonte onde bevve, pur mi piace di recarne uno squarcio: Los Cantores Son acaso los unicos que ofendan La ilusion teatral, cuya observancia El Comico y el Tragico pretenden?
Notate come il sangue di Cesare lo seguiva (cioè seguiva il maledetto acciajo di Bruto) come sforzandosi di uscire, per sapere, se fosse possibile, che questo era Bruto. […] Non è maraviglia che abbia scarabocchiato un libercolo picciolissimo in tutti i sensi, per provare che in Italia la poesia non è uscita ancora dalla fanciullezza; non consistendo la sua grand’opera che in pagine 104 in picciolo ottavo, delle quali (sebbene protesti di voler fare un libro picciolo) ne impiega ben quaranta solo in esagerate lodi della sua innamorata, cioè di Shakespear. […] Gli si faccia parimente grazia del non aver conosciuta la storia letteraria Italiana, come dimostra proponendo per cosa tutta nuova all’Italia lo studio de’ Greci: a quella Italia, dove anche nella tenebrosa barbarie de’ bassi tempi fiorirono intere provincie, come la Magna Grecia, la Japigia e parte della Sicilia, le quali altro linguaggio non aveano che il greco, e mandarono a spiegar la pompa del loro sapere a Costantinopoli i Metodj, i Crisolai, i Barlaami: a quell’Italia, che dopo la distruzione del Greco Impero tutta si diede alle greche lettere, e fu la prima a comunicarle al rimanente dell’Europa, cioè alla Spagna per mezzo del Poliziano ammaestrando Arias Barbosa ed Antonio di Nebrissa, ed all’ Inghilterra per opera di Sulpizio, di Pomponio Leto e del Guarini maestri de’ due Guglielmi Lilio e Gray: a quell’Italia, dove (per valermi delle parole di un elegante Spagnuolo) la lingua greca diventò sì comune dopo la presa di Costantinopoli, che, come dice Costantino Lascari nel proemio ad una sua gramatica, l’ ignorare le cose greche recava vergogna agl’ Italiani, e la lingua greca più fioriva nell’Italia che nella stessa Grecia 22: a quell’Italia in fine che oggi ancor vanta così gran copia di opere nelle quali ad evidenza si manifesta quanto si coltivi il greco idioma in Roma, in Napoli, in Firenze, in Parma, in Padova, in Verona, in Venezia, in Mantova, in Modena ecc., che essa vince di gran lunga il gregge numeroso de’ viaggiatori transalpini stravolti, leggieri, vani, imperiti e maligni, tuttochè tanti sieno i Sherlock e gli Archenheltz23.
Una dove l’uom non ha altro disegno che di ballar per ballare, cioè di eseguire certi salti regolati o per manifestare la sua allegrezza, o per mostrar il brio e l’agilità della persona, o per porre in movimento i suoi muscoli intorpiditi dall’ozio soverchio. […] Debbe cioè apparire la danza una, varia, ordinata, conveniente e patetica. Una, che rappresenti cioè un’unica azione principale senza divagarsi in episodi inutili e fuori di luogo, facendo anzi che tutte le sortite e le entrate, tutte le scene e le mosse corrispondano ad un solo oggetto168. […] Infine patetica, cioè che così acconciamente dipinga i movimenti propri dei vari affetti umani, che lo spettatore sia costretto a risentirli in se stesso172. […] Sotto la direzione del primo il canto s’intrecciò più felicemente col ballo in varie feste teatrali rappresentate alla corte, in qualcheduna delle quali, cioè pel Trionfo d’Amore ballò il medesimo re Luigi decimoquarto accompagnato dalla reale famiglia, e dal fiore della nobiltà francese.
La dichiarazione di amore fatta da Varo nella scena quarta dell’atto II con tanta poca grazia e fuor di tempo, cioè mentre la reina è in procinto di tutta abbandonarsi alla di lui fede, fa torto al carattere enunciato dell’uno e dell’altra. […] Inimitabili sono le due scene di Bruto con Cesare cioè la quinta dell’atto II, in cui Cesare gli palesa di esser di lui padre, e la quarta del III, in cui Bruto supplica il padre a lasciar di regnare. […] Rimane a parlare di un altro tragico Parigino de’ nostri giorni, cioè di M. […] La sua favola è posta in mezzo a due baluardi istorici, cioè a una prefazione e ad alcune note nel fine. […] Ma sia pure l’ Avogadro un ribelle, cioè un suddito oppresso che non ha la virtù della tolleranza, e che disperando di ottener giustizia dal nuovo signore, si ricovera sotto la protezione dell’antico.
E noi singolarmente non ci dovremmo mostrar ritrosi di prendere dai Francesi con che perfezionare la nostra opera; da quella nazione cioè che ha preso da esso noi la opera medesima.
Adlerbeth suo segretario secondo con buon successo le reali vedute con Ifigenia in Aulide tragedia con cori ricavata dagli antichi, e con Cora ed Alonso componimento posto in musica dal Nauman, e con altre favole musicali imitate dalle francesi, cioè Procri e Cefalo, Anfione, Nettuno ed Anfitrite.
Hiersera i comici nell’ultimo atto della comedia uenerono un pocho alle mani, cioè Triuelino e Ottauio dentro pero, e dicono che fosse Triuellino che dasse un pugno ad ottauio. che subito cio seguito Triuellino uenne fuori senza maschera e domandò perdonanza allo Ser.
che io sempre a tal proposito dirò, tanti pœnitentiam non emo), moltiplichiamo le nostre ciancie, purchè ci troviamo i nostri conti, cioè finchè io mi diverta nel mio ozio, ed Ella possa approfittarsi del diletto che porge ad alcuni suoi paesani. […] La nostra pugna è per una Dulcinea, cioè per una divinità che noi stessi ci formammo dandole il nome di Letteratura.
Avremmo dato di buon grado il Tieste di Seneca, che conosciamo, per quello di Ennio composto nel settantesimo anno della sua età, cioè in quello in cui fini di vivere. […] Notasi nel prologo di questa favola una novità simile a quella che abbiamo osservata in alcune di Aristofane, cioè l’illusione distrutta dal medesimo poeta. […] S’incontrano poi i due messagi Sofoclidisca e Pegnio; e la loro scena è vivace e propria di tali persone, cioè di una fante di un ruffiano e di un ragazzaccio monello. […] Adunque Nevio non ebbe la patria Greca, ma barbara, cioè straniera. Aulo Gellio nel rimproverare a Nevio il fastoso epitafio che per se stesso compose, dice che i suoi bei versi mostravano tutta la nativa alterigia Campana, cioè del proprio paese.
Ed ecco un altro distintivo dell’opera cioè la simplicità, e la rapidità dell’argomento. […] Cosicché chi canta è in qualche maniera fuori dal suo stato naturale come si dicono esser fuori di se gli uomini agitati da qualche sorpresa, o affetto: dal che ne siegue che il linguaggio, che corrisponde al canto, debbe essere diverso dal comune, cioè, tale quale si converrebbe ad un uomo, che esprime una situazione dell’animo suo non ordinaria. […] [21] Ecco che l’accennata interrogazione ci porta ad un altra cognizione non meno interessante, a quella cioè dei diversi generi di canto che corrispondono al diverso carattere, e alla situazione diversa dei personaggi. […] Che se il personaggio non si risolve, ma rimane nelle sue dubbiezze, come talvolta addiviene, allora l’aria dovrà essere come una cscita, una scappata del sentimento, cioè quella riflessione ultima, in cui l’anima si trattiene per isfogar in quel momento il suo dolore, o qualsivoglia altra affezione. […] [34] E qui ci si affaccia un dubbio importante, che conviene dilucidare, il sapere cioè se alla interna costituzione del dramma convengano più gli argomenti tratti dal vero, oppure i maravigliosi cavati dalla mitologia o dalle favole moderne.
Errò Stazio cantando la Tebaide, cioè le discordie fraterne ed il regno alternato combattuto con odj profani e scellerati? […] Terma sacerdotessa dipinge a lungo quel che tutti sanno, cioè la strage che fa la fame ne’ Numantini ridotti, mancate l’erbe e le foglie stesse degli alberi, a cibarsi di cadaveri. […] Era egli troppo angustiato dentro di casa, e spogliato da’ Mori di Spagna e da quattro re Cristiani, cioè di Leone, di Portogallo, di Aragona e di Navarra. […] L’autore in una nota coll’ usata sua modestia si vantava di correggere Sofocle per far che quedase con menos impropriedades, cioè che rimanesse spoglio della maggior parte delle improprietà. […] Rimane a parlare di tre esgesuiti spagnuoli tra noi traspiantati, i quali hanno speso onoratamente il loro ozio in comporre tragedie in italiano, cioè dell’ab.
Chè tal è il porgere di Adamo Alberti, quale gl’Italiani (non parlo di quelli che si tagliano i pensieri alla francese) han sempre voluto che sia : quale la benigna natura glie lo ha largito, dotandolo di una voce scorrevolissima e sonora, d’un volto grazioso ed espressivo, d’un gesto pronto e vivace, d’un movimento libero e securo ; quale glie lo han raccomandato a prova nel suo tirocinio teatrale i due suoi maestri, cioè il proprio genitore, comico distinto a que’tempi, ed il celebre Francesco Augusto Bon, autore ed attore reputatissimo ; e quale finalmente più conveniva allo stile di Goldoni, su le cui commedie si è per dir così modellato sin dalla età sua prima.
All’apparir del dì nell’atto III la riconosce, e si trovano nel medesimo luogo dove l’abbandonò la prima volta, cioè a vista di Benamexì città de’ Mori. […] Senza mettersi per ipotesi che gli amanti sieno un Perfetti e una Corilla, cioè verseggiatori estemporanei, è impossibile persuadere all’uditorio ch’essi s’intendano. […] Egli l’ha inserita nel suo Teatro Spagnuolo con altre due del medesimo autore, cioè col Parecido en la corte, e con No puede ser guardar la muger. […] Distinguonsi in tal particolare altre due commedie applaudite, e solite anche al presente a rappresentarsi in Madrid, cioè el Montattes Juan Pasqual, ed el Sabio en su retiro. […] Adunque dalla favola di Candamo risulta uno sciocco insegnamento, cioè che l’arte del regnare non s’impara se non col solo maneggio degli affari.
Simone Machado anche Portoghese poeta rinomato scrisse quattro commedie impresse in Lisbona, cioè due sull’Assedio di Diu, e due sulla Pastorella Alfea. […] All’apparir del dì nell’atto terzo egli ravvisa Dorotea trovandosi nel medesimo luogo dove l’abbandonò la prima volta, cioè a vista di Benamexi città de’ Mori. […] Senza mettere per ipotesi che gli amanti sieno un Perfetti e una Corilla, cioè verseggiatori estemporanei, è impossibile persuadere all’uditorio ch’essi s’intendano. […] Egli l’ha inserita nel suo Teatro Spagnuolo con altre due del medesimo autore, cioè il Parecido en la Corte, e No puede ser guardar la muger. […] Adunque dalla favola di Candamo risulta uno sciocco insegnamento, cioè che l’arte del regnare non s’impara se non col maneggio.
In ciò, Signor mio, che i Volgari pensano come i Dotti, ad una buona Favola ben rappresentata, e i Dotti non pensano come i Volgari sul Paolino, sul Koulicán, sulla Conquista del Perù; cioè a dire, che i Dotti accoppiano il gusto al discernimento, e i Volgari attendono al solo momentaneo passatempo. […] Le Poesie delle Grazie, cioè a dire di Pietro Metastasio da circa sessant’anni non si ripetono incessantemente, non che per l’Italia, per l’Europa tutta? […] E per riescire nel suo intento l’Apologista vuol dare ad intendere a’ suoi compatrioti una cosa contraddetta dalla Storia, cioè che in tutte le Nazioni i Poeti scenici, al pari di Lope, hanno secondato il gusto del popolaccio. […] Ad nostrum tempus (dice Orazio, la cui Epistola bisognava che leggeste tutta, e col soccorso di qualche comentatore), cioè nel secolo di Augusto, non era volgo di gusto corrotto, come voi andate cianciando, ma sapeva pregiare, ammirare, e ascoltare i suoi migliori Poeti scenici. […] Fu questa medesima Principessa, che indi fe travagliare, senza che l’uno sapesse dell’altro, e Racine e Corneille a un medesimo argomento, cioè alla Tragedia di Berenice.
r Duca Conti, et mi portarono versi p. doi altre machine, cioè il sole che p. non ueder il tradim.º che corse nell’opera si asconde, et il terzo, Nemesi Dea del Gastigo palesa che i traditori saranno puniti, come si uede nel fine di detta opera.
Non solamente fu il Gattinelli attore di gran pregio, ma anche pregiato autore delle commedie : Vittorio Alfieri e Luisa d’Albany, rappresentata l’ultimo anno di vita della Compagnia Reale Sarda ; Clelia e la Plutomania, il ’54-’55, quando cioè la Reale Sarda, non più sovvenuta dallo Stato, diventò compagnia libera sotto la direzione del Righetti ; e La caduta di una dinastia, che s’ebbe il premio governativo nel concorso del’61.
Cornelio Nipote nel proemio del suo libro degli Uomini insigni riferisce una cosa assai più notabile, cioè che in Isparta ogni vedova quanto si voglia nobile compariva sulle scene prezzolata. […] E nella Vita di Silla mentova pure un certo Metrobio attore Lisiodo cioè che rappresentava parti di donne, a differenza de’ Magodi che rappresentavano quelle dell’uno e dell’altro sesso. […] Laonde Eubulo cittadino potente e adulatore del popolo promulgò una strana legge, cioè che chiunque proponesse di trasportare ad uso di guerra il danajo teatrale, fosse reo di mortea Incredibili erano per conseguenza di tanto ardore e di tanta avidità per gli spettacoli, gli applausi le ricchezze, le corone e gli onori che a piena mano versavano gli Ateniesi sui poeti che n’erano l’anima e su gli attori che n’erano gli organi.
Cornelio Silla venne Roscio onorato coll’ anello d’ oro, cioè fu ascritto all’ordine equestre. […] La qual cosa per avventura non ignorando Giulio Cesare volle che negli spettacoli dati per lo suo trionfo Laberio stesso comparisse in teatro (siccome avea già obbligati i due principi reali dell’Asia e della Bitinia a danzare in pubblico la pirrica) promettendogli cinquecentomila sesterzii, cioè intorno a quattordicimila ducati Napoletani. […] Dell’ esodio, cioè di quella spezie di tramezzo fatto da’ mimi o ludioni fra il riposo degli atti, vedasi Adriano Turnebo Adversariorum lib.
Abate per trovare ragioni da rimovere dal giudizio I due Pellegrini del Tansillo, e l’Ecloga del Caro; e intanto si lascia dietro un nemico non meno forte del Cefalo, e dell’Orfeo, cioè l’Egle del Giraldi pubblicata nove anni prima del sacrifizio del Beccari. […] Sarà così: ma non per la piacevole ragione asseritane dal Lampillas, cioè che poco dopo il Rueda morì.
sotto qual cielo acquistarono la forma più perfetta, cioè più dilettevole e più istruttiva? […] Nel primo e nell’ultimo giorno del l’anno, quando l’imperadore presedeva al l’amministrazione della giustizia, si eseguiva una musiea chiamata Tchoung-hochan-yo, cioè che ispira concordia verace.
Ariosto da prima, cioè ne’ suoi verdi anni cominciò a scrivere le sue favole in prosa circa il 1498a; e così furono scritte i Suppositi e la Cassaria. […] Noi che abbiamo studiata un poco più l’Italia e la Spagna, possiamo assicurargli che in tali paesi si sono infinite volte dipinte le donne con caratteri nobili, cioè distinte per grado e per virtù. […] Reca singolar diletto al filosofo che non arzigogola, cioè che ragiona con sicurezza di dati, il rintracciar nelle commedie alcun materiale da supplire alla storia stessa delle nazioni intorno alle alterazioni de’ costumi e delle maniere ed all’epoche de’ loro abusi. […] Essa, parimente si tradusse in prosa francese, e s’impresse in Parigi nel medesimo secolo, cioè assai prima che vi si conoscesse il teatro spagnuoloa. […] perciocchè la terra che vedete quì (cioè nella scena) è Roma, la quale già esser soleva sì ampia…. e ora è sì picciola diventata, che, come vedete, agiatamente cape nella città vostra.
Sette anni dopo, cioè nel 1770 l’istesso Moratin fe rappresentare ed imprimere Ormesinda altra sua tragedia colla medesima versificazione, e la prima di quel secolo XVIII comparsa sul teatro di Madrid. […] Errò Stazio cantando la Tebaide, cioè le discordie fraterne ed il regno alternato combattuto con odii profani e scellerati ? […] Terma sacerdotessa dipinge a lungo quel che tutti sanno, cioè la strage che fa la fame ne’ Numantini ridotti, mancate l’erbe e le foglie stesse degli alberi, a cibarsi di cadaveri umani. […] Ciò verifica vie più il dettato di prudenza e di critica, cioè che non sempre le ricerche istoriche debbono attendersi da’ possessori de’ diplomi di un’ Accademia d’Istoria sa Dio come conseguiti! […] Huerta in una nota coll’usata sua modestia si vanta di correggere Sofocle per far che quedase con menos impropriedades , cioè rimanesse spoglio della maggior parte de’ suoi errori.
Un artefice di falci ringrazia Trigeo, perchè se prima non vi era chi comprasse falci neppure a vilissimo prezzo, ora le vende cinquanta dramme l’una, cioè intorno a sei ducati di moneta di Napoli. […] Te ne additerò una bella, cioè quella di un legno ed una corda, impiccandoti. […] Pur non vo’ lasciare di dirvi cosa che forse non vi piacerà, cioè che la commedia satirica è la più giusta e la più dotta. […] Egli riprende il carattere sospettoso degli Ateniesi ed il loro costume che si andava disusando ed ora torna a venire in moda, cioè d’incolpare per ogni poco le persone di tirannia. […] Egli lo condanna sempre co’ principii della commedia nuova, ed io sempre dovrei ripetere che questa differisce di molto dalla farsa allegorica; cioè dalla commedia antica di Atene.
Nello studio del Byrn non è alcun cenno che riguardi la pensione e la morte della Bastona : solo vi si trova un cenno della pensione del marito, Gerolamo Focher, nel 1763 circa, quando, cioè, la moglie, secondo il Bartoli, era già morta.
Vive ancora sul teatro la trilogia dei Ludri, un tipo tolto ad imprestito a Carlo Goldoni ; e cioè, Ludro e la sua gran giornata, il matrimonio di Ludro, e la vecchiaja di Ludro.
Comprese le mogli di due di essi, di Giovan Maria, cioè, e di Venturino, e compreso Battista Scolari, la compagnia dunque si compose di cinque uomini, due donne e un ragazzo.
Marini, ed essere prima attrice a vicenda con Virginia Marini, e cioè nelle parti che più non si adatta [PAGE 692 MANQUANTE] [PAGE 693 MANQUANTE] ch'egli dice senza lirico abbandono : prodigiosa nella sua semplicità.
Ne’ giorni che durava la festa (cioè dal Natale insino all’Epifania) tutti assistevano all’uffizio divino in abito di maschera o di commedia. […] 36 [22] Tali furono insomma quasi tutte le rappresentazioni delle quali la storia ne somministra memoria in Europa ripiene, cioè, di bizzarre allusioni, d’allegorie grossolane, di spettacoli sconci che meritarono replicate volte le censure della chiesa e nominatamente del papa Innocenzo III, che le proibì. […] I1 terzo, ove s’inventò il contrappunto chiamato “a mente” nato fra il duodecimo secolo e il decimoterzo, cioè quando sopra le sillabe e le antifone principalmente di quelle che appartengono agl’introiti, i compositori si fermavano saltellando con moltiplicità di consonanze secondo le parti di ciascuno con piacere bensì dell’orecchio, ma colla rovina e lo sterminio delle parole. […] Il quarto, ove s’introdusse il contrappunto “fugato”, cioè, una serie di suoni più difficili e più carichi di fughe ed altri artifizi. […] [NdA] In un’opera recente, di cui per alcuni motivi si tace il titolo e l’autore, si mostra gran dispiacere e maraviglia di ciò che dissi in questo luogo della filosofia, e (come avviene quando s’ha più cura di render odioso uno scrittore che d’esporre le cose nel suo genuino aspetto) si è trasferita la mia proposizione dal senso particolare della filosofia applicata agli oggetti religiosi ad un senso tutto diverso, cioè a quello della filosofia, che seguendo il corso delle nazioni forma la partizione delle Opere ragionate.
La versificazione è la più accetta a’ moderni, cioè il verso sciolto endecasillabo; ma la locuzione non è sempre pura e corretta. […] Parlo solo delle non moltissime versioni eccellenti, cioè del Cesare e del Maometto del chiar. ab. […] Ciò che ne dicemmo altra volta, cioè che può bastar loro il servir di capitale a parecchie compagnie di commedianti. […] Che il Monti con quel testo avea voluto enunciare che la sua tragedia era urbana, cioè che trattava di principi ma non di prima classe. […] Tralasciamo alcune tragedie tuttavia inedite, cioè Giovanna d’Arc del chiar. ab.
Esige dunque che Prassitele ne scelga una parte sola, cioè o il cuore, o il cinto, ciò che fa una situazione poco decente. […] Guillaume appartiene a quattro autori contandovi quelli che posero in musica le strofette, cioè Desfontaine, Bourgueil, Barrè, Radet. […] Le sale di tutti gli spettacoli di Parigi (dicono i nazionali) cioè quelle del Teatro Francese, della Commedia Italiana, e del Teatro Lirico, sono senza magnificenza, strette, prive di ogni gusto, ingrate per le voci, incomode per gli attori, e per gli spettatori. […] Vi sono altresì tre scalinate in anfiteatro, cioè una in fondo che guarda il teatro, e l’altre due da’ due lati della sala, il cui fondo è di marmo bianco venato.
La dichiarazione di amore fatta da Varo nella scena quarta dell’atto II con tanta poca grazia e fuor di tempo, cioè mentre la reina è in procinto di tutta abbandonarsi alla di lui fede, fa torto al carattere enunciato dell’uno e dell’altra. […] Inimitabili sono le due scene di Bruto con Cesare, cioè la quinta dell’atto II, in cui Cesare gli palesa di essere di lui padre, e la quarta del III, in cui Bruto supplica il padre a lasciar di regnare. […] La sua favola è posta in mezzo a due baluardi istorici, cioè a una prefazione e ad alcune note stampate nel fine. […] Ma sia pure Avogadro un ribelle, cioè un suddito oppresso che non ha la virtù della tolleranza, e che disperando di ottener giustizia dal nuovo signore, si ricovera sotto la protezione dell’antico. […] Ma è permesso in un fatto recentissimo falsificare la storia nel più essenziale, cioè nell’essere e nel carattere del protagonista?
Cinque o sei anni dopo che Livio ebbe introdotta la poesia teatrale in Roma, cioè verso l’anno 519, Gneo Nevio poeta nato nella Campania vi fe udire i suoi drammi tragici e comici. […] Avremmo dato di buon grado il Tieste di Seneca che già conosciamo, per quello di Ennio da lui composto nel settantesimo anno della sua età, cioè in quello in cui finì di vivere. […] cioè, Chi mi difende? […] Notasi nel prologo di questa favola una novità simile a quella che abbiamo osservata in alcune di Aristofane, cioè l’ illusione distrutta dal medesimo poeta. […] S’incontrano poi i due messaggi Sofoclidisca e Pegnio, e la loro scena è vivace e propria di tali persone, cioè di una fante di un ruffiano e di un ragazzaccio monello.
Costui, al riferir del medesimo Patrizi, fiorì nell’Olimpia. de XXXVIII, cioè l’anno innanzi Cristo 628, e della fondazione di Roma 126. […] Euripide l’anno primo dell’olimpiade LXXV, cioè 479 anni innanzi alla venuta del Redentore, e 224 della fondazione di Roma, nacque in Salamina, ove per la famosa spedizione, che preparavasi da Serse contra la Grecia, si erano ritirati i suoi genitori Mnesarco e Clitona, i quali gli diedero il nome di Euripide per la celebre vittoria dagli Ateniesi di loro compatriotti riportata sopra i Persiani presso alla bocca dell’Euripo in quel medesimo giorno ch’egli uscì alla luce del mondo.
II, c. 23.) leggiamo le commedie de’ nostri poeti prese e tradotte da quelle de’ Greci, di Menandro cioè, di Posidio, di Apollodoro, di Alessi, e di altri. […] Egli è certo, che quando Tiberio cacciò da tutta Italia gl’ istrioni per la loro somma petulanza e immodestia, e che quando Nerone medesimo, alcun tempo dopo averli richiamati, fu costretto per timor di qualche grave periculo a bandirli da Roma, non cessarono le rappresentazioni delle favole teatrali, segno evidentissimo che non vennero compresi nel bando sotto il nome d’ istrioni i tragedi e comedi, cioè coloro che recitavano e cantavano drammi regolati.
Nel prologo, a voler sostenere la sua tesi, che le commedie cioè sono la più moral cosa del mondo, e chi ne dice male un fior d’ignorante, egli conclude : …. […] Ancora : Il sentir nominar Istrioni, non sapendo l’etimologia d’Istrio, nè la derivazione, vi è chi penserà che si dica per Istrioni, Stregoni, cioè incantatori e uomini del Demonio ; e perciò vi sono paesi in molti luoghi d’Italia, che tengono per fermo, che i Comici facciano piovere, e tempestare : e un’orazione in genere deliberativo non sarebbe bastevole a dissuaderli dal mal fondato abuso…… E conclude : Io fo sapere a questi non nati ingegni, aborti della conoscenza, che, allorquando piove, le persone non escono volentieri di casa, e pochi vanno alla Commedia ; e come le persone non vanno alla Commedia, i Comici falliscono ; a tal, che le pioggie sono contrarie a’Comici, e non favorevoli.
Sono nato a Morano sul Po, piccolo paese del Casalasco (Monferrato) or sono 50 anni, cioè l’undici febbraio 1848. […] O giovani, lasciate fare della filosofia all’autore : voi studiate bene le parole, le passioni, il carattere del personaggio, vestitelo secondo il costume del suo tempo, poi recitatelo con anima, senza fronzoli, senza declamazioni, senza preoccupazioni del come è vestito : leggete Alfieri, ma recitate Augier, Goldoni, Molière, Shakespeare, Macchiavelli e Plauto e Aristofane, e recitateli tutti nella stessa maniera, cioè con naturalezza ; e non lasciatevi infinocchiare dalla teoria barocca e ridicola, che per tutti i tempi e per tutti i personaggi ci vuole una recitazione diversa : di diverso non c’è che il carattere e il vestito : e quindi se il personaggio è serio e piange, voi dovete star serii e piangere, ma con naturalezza e verità tanto vestiti alla romana, che alla veneziana, tanto coll’elmo che colla tuba ; e se un personaggio è comico, è comico allo stesso modo tanto in Shakespeare, che in Molière, che in Goldoni, che in Augier, che in Bersezio.
Dicesi che era uno scrittore capriccioso che talvolta attribuiva ad altri le proprie produzioni, e talvolta si appropriava le altrui, cioè quelle di Omero di Esiodo, della qual cosa viene da Camaleone incolpato.
Questi tre rari ingegni spiegavano tutta la loro energia nel delineare con maestria singolare le umane passioni, nel dipignere con verità e naturalezza i costumi, nel trionfare per una inimitabile semplicità di azione, sapendosi per tutto ciò egregiamente prevalere della più poetica e più armoniosa delle favelle antiche e moderne, e adoperando quasi sempre una molla per la loro nazione efficacissima, cioè la forza del fato e l’infallibilità degli oracoli consacrati dalla religione.
Benchè lo stile non possa dirsi difettoso per arditezze o arguzie, essendo anzi elegante, vivace, naturale, è non per tanto a mio avviso lontano dal carattere tragico; nè credo che il rimanente, cioè azione, caratteri, interessi, alla tragica maestà più si convenga. […] Essi increscono molto più a cagione del luogo in cui si tengono, cioè vicino alla corte di Solimano, dove essi debbono certamente ascoltare i segreti propositi de’ congiurati colla regina, la cui partenza attendono per ripigliare il loro ragionamento, come se non potessero altrove proseguirlo. […] Il conte Fulvio Testi, nato in Ferrara l’anno 1593 e trasportato a Modena nel 1598, indi morto nella cittadella di tai città a’ 28 di Agosto del 1646, il quale ad onta del suo stile per lo più manierato manifestò ingegno grande nelle sue poesie e specialmente in alcune pregevoli canzoni Oraziane, lasciò anche qualche componimento rappresentativo, cioè l’Isola d’ Alcina, e l’Arsinda non terminata. […] Posteriore di alquanti anni alle tragedie del Delfino fu il Corradino del lodato Caraccio, essendosi pubblicato la prima volta in Roma nel 1694, cioè quattro anni dopo che ebbe dato fuori il suo poema l’ Impero vendicato ch’egli credeva men difficile impresa che il comporre una vera tragedia66.
Un artefice di falci ringrazia Trigeo, perchè se prima non vi era chi comprasse falci nè anche a vilissimo prezzo, ora le vende a cinquanta dramme, cioè intorno a sei ducati Napoletani ognuna. […] Te ne additerò una bella, cioè quella di un legno ed una corda, impiccandoti. […] Pur non vo’ lasciare di dirvi cosa che forse non vi piacerà, cioè che la commedia satirica è la più giudiziosa e la più dotta. […] Egli riprende il carattere sospettoso degli Ateniesi e il loro costume che si andava disusando ed ora torna a venire alla moda, cioè d’incolpare per ogni poco di tirannia. […] Egli sempre lo condanna co’principj della commedia nuova ed io sempre dovrei ripetere che questa differisce di molto dalla farsa allegorica, cioè dalla commedia antica di Atene.
Fioriva la prima in molte arti di lusso non che di necessità, ma non ebbe della drammatica se non que’ semi che sogliono produrla da per tutto, cioè travestimenti, ballo, musica e versi accompagnati da gesti. […] Non si portò egli in Terra-Ferma un anno dopo del Colombo, cioè nel 1499?
Fioriva la prima in molte arti di lusso non che di necessità, ma non ebbe della drammatica se non que’ semi che sogliono produrla da per tutto, cioè travestimenti, ballo, musica, e versi accompagnati da gesti. […] Non si portò egli in Terra-Ferma un anno dopo del Colombo, cioè nel 1499?
Prende l’Apologista un altro argomento da ciò che scrisse il Signorelli d’intorno a’ trovatori della Drammatica, cioè doversi attribuire alla maggior parte delle nazioni.
Nel luogo selvoso, ov’era Populonia una delle dodici principali città dell’Etruria, appajono molte vestigia di sì famosa città, e specialmente una porzione di un grande anfiteatro, che si congettura essere stato tutto di marmi: tralla Torre di San Vincenzo ed il promontorio dove era la nomata Populonia, veggonsi le reliquie di un altro anfiteatro, presso al quale giaceva un gran pezzo di marmo con lettere Etrusche: di un altro osservansi i rottami fralle antichità della città di Volterra5, Del magistero degli Etruschi nel dipingere, oltre ai vasi coloriti, de’ quali favella il Maffei6 e ad altri posteriormente scoperti, ci accerta il lodato Plinio7, affermando che quando in Grecia cominciava la pittura a dirozzarsi, cioè a’ tempi di Romolo, non avendo il Greco pittore Butarco dipinto prima dell’ olimpiade XVIII, in Italia già quest’arte incantatrice era perfetta, e le pitture di Ardea, di Lanuvio e di Cere erano più antiche di Roma fondata, secondo la cronologia del Petavio, nella VI olimpiade8.
A due generi egli riduce le sue accuse contro di me, al non aver cioè lette, né attentamente esaminate le sue ragioni, e all’aver avanzato delle proposizioni, che a lui non sembrano abbastanza fondate. […] In secondo luogo, postochè la «corda grave e la corda leggiera, il palo congiunto e il disgiunto» (termini oscuri, dei quali non è facile il trovar la chiara interpretazione) significassero appunto quello, che pretende il Signor Abbate, ciò non vorrebbe dir altro se non che gli arabi badarono ne’ loro versi all’accento di rinforzo, cioè all’acutezza e gravità delle sillabe, e ad alternar queste fra loro in diversa foggia, cioè al numero o ritmo; due circostanze che non meritavano d’essere rilevate come capi di somiglianza caratteristica, poiché furono, sono, e saranno comuni a tutti i versi e a tutte le poesie del mondo, non essendo possibile trovar poesia antica o moderna, asiatica, africana, americana, o europea, dove più o meno non trovinsi gli accenti di rinforzo, e il numero o ritmo proporzionato all’indole e pronunzia della lingua. […] «Altrimenti non avrebbe egli detto, che Guido Aretino, il quale fiorì nel secolo XI fu anteriore di tempo, o almen coetaneo al famoso Alfarabi, mentre questi morì l’anno 343 dell’Egira cioè poco dopo la metà del secolo X.» […] Dissi, ed ora lo torno a dire dopo nuovo esame, che il carattere della poesia provenzale massimamente negli argomenti amorosi era d’esser fievole e cascante di vezzi cioè snervata, leziosa, sparsa d’arguzie e di smancerie. […] Sì, lo torno a dire di quella imitazione cioè immediata ed intrinseca, che caratterizza uno stesso spirito ed una origine stessa; non di quei rapporti universali, che nulla provano, perché provano troppo, e sui quali il Signor Abbate inalza la sua fabbrica rovinosa.
Il di lui Telefonte ha il pregio della scelta del più bel soggetto tragico dell’antichità, cioè dell’avventure del Cresfonte di Euripide che il tempo ci ha invidiato. […] Ora tutti questi combattimenti e queste disfide non seguirono nel secolo XVI, cioè in quel tempo in cui fu composto il Torrismondo? […] Il Manfredi è stato il meno avido di sollevarsi a forza di ornamenti stranieri alla drammatica, cioè a dire epici e lirici. […] Tra essi possono togliersi dalla folla i due che soggiungo, perchè ridotti alle leggi della vera tragedia, cioè Jeste di Girolamo Giustiniano genovese impresso nel 1583, e l’altro Jeste di Scipione Bargagli pubblicato in Venezia nel 1600. […] Cita monsignor Giusto Fontanini nell’Eloquenza Italiana l’edizione della Merope e del Tancredi fatta in Parma nel 1597, e poi quella di tutte le cinque tragedie del 1605, cioè tre anni prima della morte dell’autore.
Il di lui Telefonte ha il pregio della scelta del più bel soggetto dell’antichità, cioè del Cresfonte di Euripide che il tempo ci ha invidiato. […] Or tutti questi combattimenti e queste disfide non seguirono nel secolo XVI, cioè in quel tempo in cui fu composto il Torrismondo? […] Il Manfredi è stato il meno avido di sollevarsi a forza di ornamenti stranieri alla drammatica, cioè a dire epici e lirici. […] Tra essi possono togliersi dalla folla i due che soggiungo perchè ridotti alle leggi della vera tragedia, cioè Jefte di Girolamo Giustiniano Genovese impresso nel 1583, e l’altro Jefte di Scipione Bargagli pubblicato in Venezia nel 1600. […] Fontanini nell’Eloquenza Italiana l’edizione della Merope e del Tancredi fatta in Parma nel 1598, e poi quella di tutte le cinque tragedie del 1605, cioè tre anni prima della morte dell’autore.
Lo scarso affetto che regna è tutto lirico, cioè tratto dalla immaginazion del poeta, ma che lascia il cuor vuoto. […] Indi furono visti apparir gli elementi diversamente simbolleggiati, cioè un vascello che significava l’acqua, un teatro per la terra, un mongibello per il fuoco, e un iride per l’aria. […] Gli è vero che visse a que’ tempi Giambattista Doni, scrittore grandissimo, il quale solo varrebbe per tutti, ma la più bella tra le opere sue, e la più acconcia a spargere il buon gusto, cioè il Trattato della musica scenica, rimase fra le tenebre inedita fino a’ nostri giorni. […] A eccezione di que’ pochi mentovati di sopra gli altri cantori si erano di già lasciati infettare da quel vizio che ha pressoché in ogni tempo sfigurata la musica italiana, cioè gli inutili e puerili raffinamenti.
Ben si può lagnare del Signor Lampillas l’Italia e ’l Signorelli, che alla parola Frati, soggiugne per capriccio, cioè Ecclesiastici, e Vescovi. […] Simili sfacciataggini, fughe, ratti, trascorsi vengono abbelliti coll’aspetto della virtù (come bene osserva Don Blas de Nasarre), e non corretti e ripresi, come avveniva nelle favole antiche, che mostravano le meretrici quali erano, cioè spregevoli, detestabili. […] Egli dunque prese a studiare, non già il gusto del volgo, come fece Lope, ma il Mondo, cioè i costumi, i caratteri, e le passioni degli uomini (che questo vuol dir Mondo, Signor Lampillas, e non già, come voi credeste, il gusto volgare); ed anche il Teatro, cioè la pratica osservazione degli artificj comici che più sogliono risvegliare gli Spettatori (che questo vuol dir Teatro); ed a questi due Libri Mondo e Teatro, due cose distantissime dallo studio di Lope, accompagnò il Goldoni gl’insegnamenti d’Aristotile e di Orazio, ch’egli trasse dalle Riflessioni di Rapin da lui citate, e soprattutto la lettura di Moliere.
Benchè lo stile non possa dirsi difettoso per arditezze o arguzie, essendo anzi elegante, vivace, naturale; è non pertanto a mio avviso lontano dal carattere tragico, nè credo che il rimanente, cioè azione, caratteri, interessi, alla tragica maestà più si convenga. […] Essi increscono molto più a cagione del luogo in cui si tengono, cioè vicino alla dimora di Solimano, dove essi debbono certamente ascoltare i segreti propositi de’ congiurati colla Regina, la cui partenza attendono per ripigliare il loro ragionamento, quasi che non potessero altrove proseguirlo. […] Il conte Fulvio Testi, nato in Ferrara l’anno 1593, e trasportato a Modena nel 1598, indi morto nella cittadella di quella città a’ 28 di agosto del 1646, il quale, ad onta del suo stile per lo più manierato, manifestò ingegno grande nelle sue poesie, e specialmente in alcune pregevoli canzoni Oraziane, lasciò anche qualche componimento rappresentativo, cioè l’Isola d’Alcina, e l’Arsinda non terminata. […] Posteriore di alquanti anni alle tragedie del Delfino fu il Corradino del lodato Caraccio, essendosi pubblicato la prima volta in Roma nel 1694, cioè quattro anni dopo che ebbe dato fuori il suo poema l’Impero vendicato che egli credeva men difficile impresa, che il comporre una vera tragediaa.
L’opera è in quarto, di nitida scrittura (certo del ’600), e ha per titolo : Dialoghi Scenici di Domenico Bruni detto Fulvio, Comico Confidente fatti da lui in diverse occasioni ad istanza delle sue compagne, Flaminia, Delia, Valeria, Lavinia e Celia ; cioè : Orsola Cecchini, Camilla Rocca Nobili, l’Austoni, Marina Antonazzoni e Maria Malloni. […] L’opera di Messer Domenico Bruni da Pistoja, ch’io posseggo stampata in Milano da Giovanni Antonio degli Antonij, e che non è nè men la prima edizione, ha la data del 1559 ; mentre il nostro Bruni nacque nel 1580, cioè ventun’anni dopo.
Dal conoscersene però più delle dieci coronate, sembra verisimile quel che col l’autorità di Camaleone asserisce Ateneo nel libro IX, cioè che non prima che pervenisse alla vecchiaja, avesse cominciato ad aver tanto a sdegno l’esser vinto.
[5] Questa avvivata dalle due passioni più naturali all’uomo, il timore cioè e la speranza, giunse perfino a credere le sue finzioni medesime e a compiacersene. […] Dal che si vede che gli uomini si dilettano del maraviglioso mossi dal medesimo principio, che gli spinge a crearsi in mente quegl’idoli imaginari chiamati fortuna e destino, per fare, cioè, maggiormente illusione a se stessi. […] Non parlo di quelli del Chiari, quali per la scipitezza loro non possono far né bene né male: nemmeno di quella folla di romanzi francesi, frutto della dissolutezza e dell’empietà, che fanno egualmente il vituperio di chi gli legge, e di chi gli scrive: parlo soltanto dei due più celebri, che abbia l’Europa moderna, cioè la Clarice, e la Novella Eloisa.
Mairet compose altre due tragedie non molto inferiori alla Sofonisba, le quali si rappresentarono nel 1630, cioè la Cleopatra favola ben condotta, ed il Grande ed ultimo Solimano regolare, ed interessante, in cui l’autore afferma di essersi prefisso di vestire alla francese il Solimano del conte Prospero Bonarelli 1. […] Scriste poi altre due commedie inedite perdute, o dall’autore stesso soppresse, cioè il Secreto della commedia da lui letta a’ suoi amici, ed il Mondo com’ é, di cui solo si conosce il titolo. […] Havvi oltreaciò tre scalinate in anfiteatro, cioè una in fondo che guarda il teatro, e le altre due da’ due lati della sala, il cui fondo è di marmo bianco venato.
Quel Metastasio cioè, l’autore favorito del secolo, il cui nome scorre glorioso da Cadice fino all’Ukrania, e da Copenhagen fino al Brasile 94 interessando in suo favore non solo i letterati, ma quel sesso altresì da cui sovente dipende l’applauso come tante volte il destino degli uomini? […] In quella nazione cioè dove per poco non s’innalzanda per tutto gli altari al sublime genio del poeta cesareo; dove i suoi versi sono oggimai divenuti proverbi, cantandosi nelle bocche di tutti, come già si faceva nella Grecia di quelli di Omero e di Euripide; dove tante penne di rinomati scrittori si sono per l’addietro stancate e si stancano tuttora nel celebrarlo; e dove così male è tornato a quei pochi meschini, che ardirono disturbare anche in menoma parte la sua luminosa e pacifica gloria? […] Questa è al mio parere la sola maniera di render utile ed instruttiva la critica d’un grande autore, quella cioè di tesser la storia de’ suoi pensieri coll’indicare le strade battute da lui nella carriera del gusto, per le quali poscia inoltrandosi chiunque ha vaghezza d’imitarlo sappia trarne egualmente vantaggio dagli errori e dai lumi di chi l’ha preceduto. […] Ora ascolti il terrore umiliante di un’ambiziosa regina, la quale in faccia allo stesso santuario ch’essa meditava di profanare, sente aggravarsi sul suo capo la mano vendicatrice dell’onnipotente, a’ cui cenni la morte e la natura non che i turbini e le tempeste s’affrettano ad ubbidire; ora ti si appresenta uno spettacolo degno dei numi, cioè il dolore sublime d’un eroe che si vede accusato dal proprio padre in presenza del re, in vista di tutta la corte, e sugli occhi dell’oggetto che adora, di un delitto, del quale il solo reo è lo stesso accusatore. […] Dal che avvenne quello, che suole quando s’abbandona un sistema, cioè che per lo più si prende il partito opposto.
La costruzione fu nella nuova maniera con palchetti sostituiti modernamente alle antiche scalinate, cioè con più ordini di stanzini collocati a guisa di gabbie l’un sopra l’altro, i quali avendo l’uscita a’ corridoi, lasciano il passaggio alla voce per dissiparvisi, in vece di essere rimandata alla scena.
Ma appena incomincia l’ottobre torna a rappresentarsi di giorno, spariscono le buone commedie, le commedie stesse nazionali dello scorso secolo, ed allora si scatenano i demonj, le trasformazioni, gl’ incantesimi, le machine, i Sette dormienti azione di più centinaja d’anni, e l’Origine dell’Ordine Carmelitano di Antonio Bazo che contiene un titolo che non finisce mai, e un’ azione di 1300 anni, cioè dagli anni del mondo 3138 sino a’ tempi di papa Onorio III.
Il Fabbrichesi fu il primo a stabilire che i comici pensasser da sè a tutte le spese di vestiario (prima d’allora non dovevan provvedersi per gli abiti in costume che del così detto basso vestiario, cioè scarpe, calze, parrucche, spade, ecc.) e a quelle di viaggio ; ma tale aggravio fu compensato dalle nuove paghe salite a cifre non più sognate : mentre il gran Zenerini trent’anni addietro, e al tempo della sua maggior gloria, non aveva potuto ottenere che uno zecchino veneto al giorno, il De Marini ne aveva 601 all’anno, il Blanes 600, Pertica 450, e Bettini 400.
Così terminò il secolo XVI glorioso in tante guise per l’Italia; cioè per aver fatta risorgere felicemente in aureo stile la greca tragedia, il teatro materiale degli antichi, e la commedia de’ Latini; per l’invenzione di tanti nuovi tragici argomenti nazionali, e tante nuove favole comiche ignote a’ Latini; per aver somministrati a’ Francesi tanti buoni componimenti scenici prima che conoscessero Lope de Vega, e Guillèn de Castro; pel dramma pastorale ad un tempo stesso inventato, e ridotto ad una superiorità inimitabile; finalmente per L’origine data al moderno melodramma comico ed eroico. […] Piacque poì al signor don Tommaso Yriarte di porre in versi castigliani il mio raziocinio non solo, ma le mie parole trascritte nella sua lingua, facendone una parafrasi nel canto IV del suo poema della Musica pubblicato due anni dopo della prima edizione della Storia de’ Teatri, cioè nel 1779.
Il marchese Maffei con due commedie in versi il Raguet e le Cerimonie regolari e bene scritte combattè due difetti correnti, cioè il corrompimento del patrio idioma coll’ affettato barbaro uso delle formole francesi, e l’importunità rincrescevole de’ molesti complimenti vuoti di verità. […] Scrisse, per quanto io so, tre sole commedie interamente, cioè: il Notajo o le Sorelle rimasta inedita; la Marchesa Castracani eccellente pittura della vanità plebea che aspira a sollevarsi dal fango e vi ricade con accrescimento di ridicolezza, impressa senza saputa dell’autore e imbrattata con aggiunzioni d’altra mano; ed il Politico rimasta inedita, che io vidi solo accennata a soggetto, come sono tante altre sue favole, il Saturno, il Metafisico, i Mal’ occhi, il Dottorato, il Salasso, l’Amicizia &c. […] La sua figura irregolare, cioè a ferro di cavallo, ha 51 piedi nel maggior diametro, e 46 nel minore.
Vero è altresì che nelle storie teatrali si suole di quando in quando favellar di comedi antichi e moderni, cioè de’ Satiri, de’ Roscj, de’ Baron, de’ Garrick, degli Scaramucci e de’ Don-Fastidj, bassi oggetti da’ quali difficile e schifiltoso rifugge chiunque presume di tener gran posto contando se stesso tra’ personaggi stragrandi che danno lustro e nome al secolo XVIII.
Che poi seguitasse la Compagnia di quei comici in questo senso, cioè che intervenisse in varie città d’Italia alle recite della sua Merope, è cosa assai nota, e della quale ho in mano le testimonianze e le prove.
Egli è in forza di questa maravigliosa unione di sublimi qualità di natura e di arte, che quest’insigne attore ha saputo cattivarsi l’ammirazione di tutta l’Italia, ad onta di due importantissimi difetti, cioè dell’uso troppo più del bisognevole della mimica.
Ciò fu nel 1658, quando cioè Molière tornò a Parigi dalla Provincia ove l’avean confinato i debiti per l’illustre teatro.
Egli si ritira colle figlie nel tempio delle venerabili dive, cioè delle furie, la cui memoria di tanto orrore colmava i Greci, che non ardivano quasi mai mentovarle col loro vero nome, o per antifrasi le appellavano eumenidi, cioè benevole, benigne, da εὐμενέω, benevolus sum. […] Euripide stesso dice nell’ Ecuba: incomincio il canto delle baccanti, cioè, prorompo in querele da forsennata. […] E pure essa ne contiene una sola, cioè la vittoria riportata sopra Euristeo a favor degli Eraclidi, e ristretta dentro un discreto periodo di tempo. […] Eschilo trovò il secondo, cioè un’ altra maniera di contrafacitori . . . . […] E Sofocle trovò il terzo, e divise la moltitudine in tre classi, cioè in ballatori, cantori e sonatori.
Gli insetti della letteratura, coloro cioè che ronzan dintorno alle più fangose paludi del Parnaso, sono appunto i soli che ardiscano a metter mano in una spezie di poesia la più scabrosa, la più dilicata, la più diffìcile di quante possa offrire la ragione poetica. […] E questa è la cagione per cui la semplice declamazione poetica scompagnata dal canto è naturalmente meno espressiva che non è la musica; cioè perché non trovasi in lei una moltitudine si grande di tuoni, i quali imitino fisicamente i muovimenti dell’anima. […] Di quello per la regola generale che la poesia non può fare una convenevol figura nel melodramma, ove preponderi qualcheduna delle sue compagne, cioè l’armonia o la decorazione. […] È per altro piacevole in bocca di Frugoni la doppia accusa intentata contra ai drammi musicali cioè di guastar i costumi e di rovinar la poesia. […] [NdA] Il problema intorno alle cagioni della deliziosa malinconia generata dalla tragedia che tanto ha occupate le penne di alcuni celebri scrittori del nostro secolo cioè dell’Abate Du Bos, di Fontenelle, di Hume, e di Cesarotti si trova molto prima sciolto mirabilmente da Lucrezio ne’ seguenti magnifici versi Suave mari magno, turbantibus aquora ventis, E terra magnum alterius spectare laborem; Non quia vexari quemquam est iucunda voluptas, Sed quibus ipse malis careas, quia cernere suave est, Suave etiam belli certamina magna tueri Per campos instructa, tua sine parte pericli.
Non furono forse regolari, ingegnose e facete la Pellegrina di Girolamo Bargagli Sanese uscita alla luce nel 1611, gli Scambj di Belisario Bulgarini pubblicata nel medesimo anno, e le commedie del Malavolti, cioè i Servi Nobili del 1605, l’Amor disperato del 1611 e la Menzogna del 1614? […] Esse veramente non portano il nome dell’autore che le compose, cioè di Francesco d’Isa sacerdote erudito che dimorava in Roma, dove morì sull’incominciar del secolo. […] Capuano fu ancora Lorenzo Stellati autore pregevole di altre due commedie, cioè del Furbo uscita in Napoli nel 1638, e del Ruffiano impressa nel 1643 assai comendate dal Gravina. […] Oltre alle prelodate Checca della Laguna e Margherita Costa l’Eritreo ne nomina un’ altra come una delle più eccellenti de’ suoi giorni, cioè Leonora Baroni figlia della nominata bella Adriana di Mantova90. […] La costruzione fu nella nuova maniera con palchetti sostituiti modernamente alle antiche scalinate, cioè con più ordini di stanzini collocati a guisa di gabbie l’un sopra l’altro, i quali avendo l’uscita a’ corridoj, lasciano il passaggio alla voce per dissiparvisi, in vece di esser rimandata alla scena.
Plinioc, affermando che quando in Grecia cominciava la pittura a dirozzarsi, cioè a tempo di Romolo, non avendo il Greco pittore Butarco dipinto prima dell’olimpiade XVIII, in Italia già quest’arte incantatrice era perfetta, e le pitture di Ardea, di Lanuvio e di Cere erano più antiche di Roma fondata, secondo la cronologia del Petavio, nella VI olimpiadea: Agli Etruschi si attribuisce eziandio l’arte della Plastica, o modellatrice.
Al vantaggio non mediocre che gli amatori illuminati di siffatte materie potranno cavare da tal lettura s’aggiunge ancora un conforto non debole per il mio amor proprio quello cioè di trovare gran parte di quelle idee sparse nella mia opera, che da alcuni imperiti sono state riputate insussistenti, avvalorate dall’autorità d’uno scrittore non meno rispettabile per la sua filosofia che per la sua critica, e la sua erudizione. […] Ma da una banda il maggior numero di coloro che hanno professata quest’arte l’han considerata non altramenti che s’ella fosse una cosa di puro istinto e d’abitudine, ned hanno rivolto l’ingegno loro se non se a considerare la sua parte grammaticale, di cui ci esposero soltanto gli elementi; dall’altra poi i filosofi a niente badarono fuorché alle varie combinazioni de’ suoni fra loro, cioè a dire alla sua parte scientifica. […] E a fine di procedere col miglior metodo che per me si potrà nella lettera che mi dò l’onore d’indirizzarvi, io mi farò imprima a scomporre la musica, e ne esaminerò in seguito separatamente le parti principali cioè il ritmo, la melodia, e l’armonia. […] Il quarto tratterà del patetico delle arti, cioè dell’influenza delle passioni sulla espressione e sul gusto, e delle differenti vie prese dalle arti per eccitarle, dove si dimostrerà che il diletto che ci arrecano i diversi generi e gli stili diversi nella pittura, nella scoltura, nella musica, nella poesia, nell’eloquenza, e nella storia nasce da queste due uniche sorgenti amor del piacere, e fuga del dolore.
Quindi vi furono maschere naturali di vecchi di più di un carattere, cioè del curioso, del burbero, del barbuto, e fin anche di un padre che aveva un ciglio eccessivamente inarcato, ed un altro naturale e compostoa; di giovani diversi, del bruno, del ricciuto, dell’appassionato, del gioviale, del rustico, del minaccevole, del ben costumato; di donne diverse, di matrone, di più di una ruffiana, di due false vergini, della meretrice magnifica, della nobile, della coronata, di quella che portava l’acconciatura de’ capelli che terminava in una punta; in fine di varii servi, soldati, mercatanti, eroi, numi, e di altre mentovate nell’Onomastico di Giulio Polluce nel libro IV, capo 20.
Ella stessa compose varie poesie pubblicate in Lione nel 1547, e dieci anni dopo s’impresse in Parigi il suo Eptamerone, cioè sette giornate giocose ma soverchio libere.
Quindi vi furono maschere naturali di vecchi di più di un carattere, cioè del curioso, del burbero, del barbuto, e fin anche di un padre che avea un ciglio eccessivamente innarcato, ed un altro naturale e composto147; di giovani diversi, del bruno, del ricciuto, dell’appassionato, del gioviale, del rustico, del minaccevole, del ben costumato; di donne diverse, di matrona, di più di una ruffiana, di due false vergini, della meretrice magnifica, della nobile, della coronata, di quella che portava l’acconciatura de’ capelli che terminava in una punta; in fine di varj servi, soldati, mercatanti, eroi, numi, e di altre mentovate nell’Onomastico di Giulio Polluce148.
Il Parigino Saurin dopo aver prodotte alcune commedie poco riuscite sulla scena, cioè les Rivaux, l’Orpheline leguée e la traduzione del Beverley, scrisse in prosa la piacevole commedietta de’ Costumi correnti applaudita in teatro e nella lettura. […] Di questo genere sono le seguenti: l’Oracolo impressa nel 1740, in cui intervengono tre personaggi, cioè una Fata, Alcindoro di lei figlio e Lucinda il cui carattere è un leggiadro tessuto di vezzi: le Grazie rappresentata nel 1744 ed impressa l’anno che seguì, il cui soggetto si trasse dall’ode III di Anacreonte di amore immollato dalla pioggia, e dalla XXX dell’istesso amore annodato con una catena di fiori dalle Muse secondo Anacreonte, o dalle Grazie secondo la vaga cantata del Metastasio recitata in Vienna nel 1735: gli Uomini vivace azione drammatica allegorica rappresentata nel 1753, in cui intervengono Mercurio, Prometeo, la Follia e le Statue animate dal fuoco celeste, le quali formano alcuni pantomimi allusivi a i caratteri e alle passioni degli uomini. […] Congedata l’antica compagnia non fuvvi in Francia commedia Italiana per lo spazio di 19 anni, cioè sino al 1716, quando il duca di Orleans regente v’invitò la compagnia di Lelio e Flaminia nomi teatrali presi dal Romano Luigi Riccoboni e dalla sua consorte Agata Calderini (Nota IX).
Ne diremo ciò che altra volta ne scrivemmo, cioè che può ad esse bastare l’aver servito alcuni anni di capitale a parecchie compagnie comiche. Aggiugneremo quel che ne dice un gazzettiere suo parziale, cioè che egli era il tragico del volgo e degli Ebrei. […] Ed in fatti questo scambio amichevole di nomi rare volte non riesce insipido, cioè soltanto nel caso che l’ uno è libero e fuor di pericolo, e l’ altro in procinto di perire, e privo di libertà. […] Egli è punito in fine e cade vittima del proprio padre, non già per l’esecrabil delitto che commette, ma per un altro, cioè per aver trafitto per equivoco fralle tenebre il proprio fratello. […] Che il Monti con quel testo Oraziano avea voluto enunciare che la tragedia del Manfredi era urbana, cioè che trattava di principi ma non di prima classe.
Due coppie di personaggi dissimili, cioè due fratelli e due cugine in continuo contrasto, danno acconcio risalto non meno alla moralità che al ridicolo. […] Eugenio, che egli non ignora sin dall’atto I: che in una favola che l’autore vuol far cominciare di buon mattino e terminar prima di mezzodì, non pare che possano successivamente accadere tante cose, cioè diverse conversazioni riposatamente, consigli, trame, deliberazioni, una scena di ricamare in campagna, un giuoco di tresillo, indi un altro di ventuna, ballo, merenda, accuse contro D.
Cromwel cassò con insolenza il parlamento, e ne convocò un altro composto de’ suoi parziali scelti fra il popolaccio, detto per derisione il parlamento di barebone, cioè osso spolpato.
Cromwel cassò con insolenza il parlamento, e ne convocò un altro composto de’ suoi parziali scelti fra il popolaccio, detto per derisione il parlamento di barebone, cioè osso spolpato.
Scuola di recitazione a Firenze – riuniva in sè le qualità necessarie per una compilazione colossale di tutte le notizie che si possono riferire ai comici italiani, e cioè : coltura, relazioni personali e paziente ardore.
Io credo che se invece di invadere un campo non loro, si fossero contentate di quello naturale cioè a dire di satira in azione, non mai com’oggi avrebber potuto essere salutari al popolo di su la scena.