., onde habbiamo di comune gusto e consenso riaccettato la sig.ª Valeria tra di noi, con la quale di nuovo uniti cercheremo di mantenerci in quella pace tanto a noi necessaria, e con tanta fatica per nostro honore da V. […] Flavio ci viene prescritto, poi che ogn’uno di noi solo ha per fine il mantenersi in grazia di V. […] quale sarà sempre anteposta a qual si voglia interesse, strettezza di amicizia o vincolo di parentella che sia tra di noi, si come ogn’uno di Compagnia augurando a V. […] Il Pantalone della Podagra è così mal trattato da detto male che l’anno passato con noi in Venetia non si potea vestire ne allacciar la maschera, e per mettere nna statua in scena, che non mova altro che la lingua, non mi par bene.
Torna indietro, noi partiamo”. […] Eccolo secondochè l’abbiamo noi tradotto: Piè innanzi piè senza pensar m’inoltro, E giungo a caso, ove dell’acqua i servi Recavan per le mani. […] Noi recammo nell’opera delle Sicilie uno squarcio del comico Filemone il maggiore tratto dalla commedia del Soldato da noi tradotto, e quì fia bene riferirlo, perchè non s’abbia a rintracciare altrove. […] Non increscerà vedere anche di Filemone il minore un curioso frammento rimastoci della sua commedia il Mercatante tradotto da Grozio in latino, e da noi volgarizzato: A. Questa legge fra noi regna in Corinto.
Appresso tutte le nazioni hanno esse provato una simile vicenda; e al di d’oggi è in esempio tra noi singolarmente la musica. […] Quasi ella fosse ancor rozza e nell’infanzia, non si rifina di volerla tuttavia abbellire con nuovi ornamenti, d’immaginare nuovi arabeschi musicali, nuovi arzigogoli; e quasi fossimo nella infanzia noi medesimi, mutiamo a ogni momento pensieri e voglie rigettando noi oggi e quasi abborrendo quello di cui avevamo ieri tanta fantasia. […] [2.13] La poesia e la musica, comecché tanto strettamente congiunte, camminarono di un passo tutto contrario tra noi. […] A così fatti uomini sarebbe da commettere la musica, quale noi la vorremmo nella nostra opera. […] Attissima bensì ad accendere in esso noi qualunque si voglia passione è la melodia, la quale cammina sempre di un passo e di un tuono allo stesso fine.
Nacque a Palermo l’ottobre del 1828, e fu da suo padre, impiegato governativo, avviato all’avvocatura ; ma, appassionato filodrammatico, preferì la scena alla legge, e dopo di aver preso parte ai moti della Sicilia del '48, si scritturò a ventidue anni in una compagnia d’infimo ordine, poi in quella di Robotti, poi fu in America colla Pezzana, e mercè un suo lavoro dialettale, in cui dipinse al vivo la mafia di Palermo, quest’uomo singolarissimo, celebre in Sicilia, conosciuto a Napoli, sconosciuto a noi, potè girar trionfalmente i più riposti angoli d’Italia, ammirato e stimato come attore, come autore, e come uomo.
L’Alberti è ormai più noto a noi come conduttore e direttore della famosa Compagnia dei Fiorentini di Napoli, nella quale egli scritturò pe’l corso di quarant’anni i più rinomati artisti d’Italia. […] Così, definita che avremo l’indole di questo suo porgere, ne parrà di aver fatto tutto quello che da noi si può meglio in limiti si angusti.
mo Padrone, hà ottenuta là dà noi tanto desiderata licenza ; doppo esser stati per tre mesi Infruttuosi appresso questa Real Corte, è quello che piu importa anco à noi stessi, non hauendo potuto rapresentare che solo u…. sei Comedie con Pochissimo Applauso, è niente d’Vtile ; È be[nsi vero] Però che si hebbe già in due uolte per ricorso fatto alla Nos[tra] Ser.
L' '82 noi troviamo che i Confidenti, a Bologna, non aspettavan che la Diana e Gratiano per recarsi a recitare a Mantova per le nozze della figliuola di Guglielmo, Anna Caterina, con Ferdinando d’Austria. […] Secondo un documento del Belgrano, ad esempio (Caffaro, 29 dicembre 1882), noi la vediamo a Genova nell’estate dell’ 86 con Cesare de' Nobili, fiorentino e altri comici : e probabilmente (V.
Se però all’Apologista parrà dicevole l’usarle, vediamo noi, senza impacciarcene, di ribattere le sue parole. […] Nè anche vide ivi addotta la notizia della Tragedia, a noi non pervenuta, di Giovanni Manzini della Motta, rammentata però in una delle Lettere Latine dell’Autore, il quale nell’idearla vi ebbe il merito di mettere in iscena, al pari del Mussato, una storia nazionale, cioè la caduta di Antonio della Scala Signore di Verona. […] Ora tutte queste sceniche produzioni del secolo XV. che il Lampillas non cura di vedere, non danno al Signorelli dritto di affermare, che fra noi crebbero con tutta prestezza gli studj scenici, e che attendendo alle dipinture de’ caratteri e delle passioni, ed altri meriti de’ Drammi lodati, giustamente si asserisce che allora si coltivò la Poesia Scenica giusta la forma regolare degli Antichi?
Fiorillo Silvio, creatore della maschera di Pulcinella, perfezionata poi dal Calcese, e di quella di Capitan Matamoros, sotto il cui nome arrivò fino a noi, autore di varie opere poetico-teatrali, nacque a Napoli nella seconda metà del sec. […] Egli è nel terzo piano dietro a Le Grand, il celebre Turlupin ; e a guardar bene, noi potremmo stabilire che la parte sinistra è occupata dai comici francesi, e la destra dagl’italiani. […] Dietro il quale esame, noi non sapremmo in che modo rispondere con precisione alle fatte dimande.
Tutto ciò conferma sempre maggiormente, trovarsi in noi una classe di nervi addetti all’uffizio delle passioni, e questi essere propriamente quelli che diatetici noi abbiam nominati. […] Massime ed esempi sì fatti noi non gli soffriremmo in un libro, in un sermone. […] L’illusione che cagiona in noi questo artifiziosissimo spettacolo, ci rende poco attenti a ciò che passa dentro di noi, sì che, uscendo poi di teatro, troviamo alcuna volta in noi stessi delle novità, alle quali avremmo certamente resistito, se altronde non fossimo stati distratti. […] Ecco per appunto l’illusione che l’opera in musica produce in noi. […] Facciamo però giustizia al vero: noi cadiamo in una strana contraddizione.
ma di andare con la loro Compagnia a Padova, di tratenere Trivellino, lasciando a noi Bertolino con la gionta della Moglie e Vicenza invece di Padoua, con più di douere fatto feste andare a fare quattordici o quindecci Comedie a Bologna p. l’obligo che ha con quei Cauag. […] E. ne sia auisata e se cio è la uerita, altro non posso significarle se non che Vicenza non fa per noi in modo alcuno per esser non solo stata sbatuta l’anno scorso, et per non esser hora la sua staggione, mi dò a credere che tutti li compagni insisteranno di non dare la parte alla Moglie di Bertolino, mentre non reciterà, e se ne starà a casa p. la sua insuficienza, non so che cosa andare a fare a Bologna con duoi Morosi che non li uogliono ne sentire ne uedere, e fuori di tempo ruuinando l’Autuno, quando la Compagnia ui debba andare.
Il comme del sur Pedrin è ben comico : ma la causa dell’irrefrenato proromper del pubblico in matte risate noi dobbiam ricercare in qualcosa più che nella parola. […] E dove mettiam noi l’arte del cammuffarsi o truccarsi, che è somma in lui ? […] …… ma voi non sapevate, che creando questi personaggi, così idealmente veri, così comici, aprivate a noi tutti una miniera inesauribile di gioconde allegrezze, di sana ilarità.
VIII), dice : Se il Sacchi avesse que’due compagnoni, (Antonio Vitalba e Rodrigo Lombardi, morti) e la Davia crudel che l’abbandona, (che noi preghiamo tutti ginocchioni a ridonarci ancor la sua persona) ben potrieno i poeti co’ Bordoni, e con la cetra in spalla che mal suona, andarsi nella Persia e nella China, donde hanno tratto la miglior dottrina.
Laonde noi quì distingueremo sempre i Provenzali dagli Spagnuoli; tanto più che ci sembra ingiusta e sconvenevol cosa il distendere il giudizio del Fontenelle, intorno all’ignoranza de’ Trovatori Provenzali, anche alle provincie Spagnuole. Parlando adunque delle regioni che portano incontrastabilmente il nome onorevole di spagnuole, noi troviamo nella Catalogna prima in Barcellona, indi in Tortosa l’accademia della Gaya Ciencia, e parimenti tra gli Aragonesi alcuni poeti degni di mentovarsi.
Laonde noi quì distingueremo sempre i Provenzali dagli Spagnuoli; tanto più che ci sembra ingiusta e sconvenevol cosa il distendere il giudizio del Fontenelle, intorno all’ignoranza de’ trovatori Provenzali, anche alle provincie Spagnuole. Parlando adunque delle regioni che portano incontrastabilmente il nome onorevole di Spagnuole, noi troviamo nella Catalogna prima in Barcellona, indi in Tortosa l’accademia della Gaya Ciencia, e parimente tra gli Aragonesi alcuni poeti degni di mentovarsi.
[1] Tal è lo stato presente del dramma musicale italiano quale noi finora l’abbiamo descritto nel presente volume, e ne’ due ultimi capitoli del secondo. […] Ora una serie di questi medesimi piedi m’ha espresso il movimento proprio di gran parte delle nostre contradanze, e in particolar modo delle da noi chiamate “gavotte” e “vaudevilles”. […] A dir vero noi ci sforziamo a rendere di giorno in giorno più giuste le inquietudini de’ saggi, i quali gridano contro alla decadenza del gusto. […] Ma tornando a noi, la musica de’ Greci fu nella sua origine in tal modo semplice che ogni strumento non avea che un modo solo196. […] Definisco la melodia in generale, o quello che noi chiamiamo “un bel canto” una tessitura di suoni omogenei e proporzionati che hanno un intimo legame fra loro, e ch’esistono in qualche guisa da sé.
Ebbe tre mariti, uno dei quali, il secondo, a noi sconosciuto.
L'ultima sera del carnovale 1754, la Torri recitò un addio, di cui ecco alcune strofe allusive all’abbandono del Sacco e al suo mancato impegno : Chi di sorte il cieco dono amò più del suo decoro loro infuse l’abbandono per saziar sua fame d’oro, e noi pochi, e senza lena, travagliammo con gran pena.
E il nuovo manifesto diceva : « Ora più che mai ferve la lotta ed il bisogno in quell’ Eroica parte dell’ Italia nostra : nessuna occasione noi sfuggiremo per prestarle il nostro fraterno soccorso ».
Pregò, l’udì chi sempre ascolta pio, noi perchè in guerra noi medesmi ogn’ora tener, se ’n pace ella contenta or siede ? […] Quella che di virtù ferma colonna fù sempre, cui diede la Brenta a noi, e cui gemma pregiata hor tien la Sonna. […] Hor noi di si gran perdita dolenti Poco il pomo curiam, poco la fonte, Perchè la fame l’vn, l’altra la sete E domi, e vinca. in altra parte il sonno Sparga pur sua quiete : à noi non cale, Ch’ei dal Mondo ne sciolga, ò da noi stessi. […] A noi Messer Veridico è paruto mill’ anni d’ auer desinato, per uenire a farci pagar da uoi quel debito, al quale uolon-tariamente obligato ui sete. […] Vogliamo noi, o signor Massimiano accettar questo cortese inuito ?
Di buona fede siamo noi sicuri che a’ di di Aristofane sarebbero state accolte con pari effetto da que’ repubblicani baldanzosi e pieni sotanto della loro potenza e libertà finanche le greche favole, la Perintia, l’Andria, non che le straniere posteriori, l’Euclione, l’Eunuco, gli Adelfi, il Misantropo? […] quella che correva tra Atene emula di Serse e tra quella della Grecia avvilita sotto i Macedoni, o tra quella di Roma donna del Mondo noto, o della Francia che noi ammiriamo?
Non increscerà che quì si trascriva il coro dell’atto I del Ciclope del Martirano da noi tradotto, perchè non abbia a cercarsi altrove: Itene al fonte, o capre, ite agli ascosi Folti recessi de le ombrose selve. […] Deh qual parca crudel noi sventurati Di sì spietato mostro a l’ira espone? […] A’ nostri dì abbiamo noi pur veduto più di un esempio di simili giuochetti, nè solo in cose letterarie dilettevoli, ma in libri dida scalici e serii.
E ciò fra noi venne a produrre nel XIV secolo poesie teatrali latine ad esempio delle antiche, le quali precedettero quelle che nel XV si scrissero in volgare. […] Albertino Mussato Padovano, nato nel 1261, e morto nel 1330, ci fa sapere che già nel 1300 scriveansi comunemente tra noi in versi volgari (cioè facili ad esser compresi da’ volgari, benchè latini) le imprese de’ re, e si cantavano ne’ teatria. […] Il Crescimbeni giudicò tal rappresentazione di argomento profano; ma noi accordandoci di buon grado col cavaliere Tiraboschi, lungi dal crederla cosa teatrale sacra o profana, la reputiamo semplice spettacolo popolare senza verun dialogoa.
E ciò fra noi venne a produrre nel XIV secolo poesie teatrali latine ad esempio delle antiche, le quali precedettero quelle che nel XV si scrissero in volgare. […] Albertino Mussato Padovano, nato nel 1261 e morto nel 1330, ci fa sapere che già nel 1300 scriveansi comunemente tra noi in versi volgari (cioè facili ad esser compresi da’ volgari, benchè latini) le imprese de’ re, e si cantavano ne’ teatri27 (Nota VII). […] Il Crescimbeni giudicò tal rappresentazione di argomento profano; ma noi accordandoci di buon grado col chiar.
Grisanti Agostino) ; che non contenti d’ haverci stancato le città la Compagnia del Duca di Parma aveva prima d’essi recitato a Verona trenta commedie) dove dovevamo andarci noi, cercono ancora di non lasciarci fare le nostre opere, che sono mie, in Venetia.
Ci è ancora una ragione di più per ammetterlo nell’opera, ed è l’uniformità che risulterebbe nella musica, se dovesse aggirarsi soltanto intorno ai soggetti patetici, privandoci noi spontaneamente della ricca sorgente di bellezze armoniche, che somministra la pittura degli altri oggetti. […] [19] È però d’avvertirsi, che sebbene il principio da noi stabilito sia generalmente vero, si modifica tuttavia diversamente secondo i diversi generi di poemi, ai quali si applica. […] «Presso di noi, dice il primo, la commedia è lo spettacolo dello spirito: la tragedia quello dell’anima: L’opera quello de sensi.» […] Si dee schivar in quello il lungo raggiramento: si può ammetter questo qualora la favola mescolata di storica narrazione, e per lungo corso de’ secoli fino a noi tramandata, abbia acquistato una spezie di credibilità, che la spogli dell’inverosimile ributtante. […] [43] Il lettore avrà riflettuto che in questo ragionamento si è parlato dell’unione della poesia, musica, e prospettiva, atteso lo stato in cui si trovano attualmente presso di noi queste facoltà, senza pretendere d’applicar le stesse osservazioni a qualunque unione possibile.
Han dato ad intendere al povero abate Conti che le femmine greche non andavano alla comedia, ed egli se l’è creduto, e su ciò fonda che noi dobbiamo far capital degli amori, perché i nostri teatri son pieni di donne, dove, essendo rimosse dal teatro antico, questa effeminata passione venia trascurata dai loro tragici. […] Io tutto ho scritto all’amico, insinuandogli il non darsi così per vinto ai Franzesi: facendoci dell’imposture, vanno poi a ridere ne’ loro caffè della buona fede di noi Italiani39. […] [1.82ED] Non troviamo in tutto perfetto il tuo Omero; e se ciò ti parrà nostra colpa, rispondi al Tassoni e mi quieto; ma stenterai. [1.83ED] Io non voglio dilungarmi ora sui tragici, ma so che sei persuaso come non la cederei al Tassoni. [1.84ED] Vi sono virtù insuperabili e queste imitiamo non perché noi non le avessimo sapute inventare, ma perché i vostri, nati prim di noi, sono stati in necessità d’inventarle. [1.85ED] Certo i primi hanno imitata la natura e noi, imitandola, sembra che quelli imitiamo; perché come vorresti dipingere un uom senza testa, se senza testa uom non fu mai generato? […] [1.127ED] E perciò noi altri, assisi ad una rappresentazione di non regie persone, specchiamo gli strani gruppi de’ casi rappresentanti in qualche nostro avvenimento di ciascheduno, ed assuefacendoci a tollerarli per verisimili arriviamo poi anche a compiacercene. […] [5.76ED] Ma quanto a’ versi, che farem noi sicché non riescan discari al componitor musicale, ai musici, all’uditorio e (se a Dio piace) al verseggiatore medesimo?
Mangiamo pur noi, amici miei. […] Così noi uccelli siamo i più antichi di tutti i beati . . . […] A noi destinar potrete aruspici ed are. […] A noi che siamo dei del cielo. […] Voi me confondete colla miseria; ma dovete sapere che noi siamo due cose ben distinte.
Null’altro sappiamo di questa Comica per poter soggiungere di lei una più lunga, ed accertata notizia, e solo abbiamo in sua lode un sonetto, tolto alle Gemme liriche, libro citato altra volta da noi, ed è il seguente : O splendori, o cinabri, o fiamme belle, chiome, bocca, zaffiri, in cui si giace il colore, il rossore, il bel che piace degli ori, dei coralli, e delle stelle.
Improvvisatore di versi, che, grazie a Dio, non son giunti sino a noi, se giudichiamo dal distico che ne dà il Bartoli e che riportiamo qui in fondo, soleva con una sfacciataggine singolare intromettersi nelle altrui conversazioni, sedersi alle altrui tavole, ciarlataneggiando, declamando, talvolta con grande sollazzo dei commensali, tal altra con gran loro rammarico.
E più oltre, al Capitolo VIII, anno 1840 : con grave dolore perdemmo il bravo artista Luigi Belisario, il quale non volle rimanere con noi, dappoichè avendo per figlia una graziosa giovanetta che aveva grande disposizione per l’arte drammatica, preferì di fare una Compagnia drammatica da lui diretta e portarsi in Sicilia, dove la figlia esordi come prima attrice e fu molto applaudita, ed avrebbe fatta una bella carriera, se dopo pochi anni non si fosse ritirata dal teatro, facendo un vantaggioso matrimonio.
…… noi la vedemmo – scrive l’anonimo – come vinta in quel punto dalla violenza della passione, inchinarsi su di lui, mentre egli si cuopre con le mani la faccia e piange, e guardarlo con tale uno sguardo…. […] Uno scoppio spontaneo, universale di applausi mosse dal popolo maravigliato, e noi, ancora commossi, ricordiamo quel momento, e le potenti emozioni, onde fummo scossi in quella sera. » Le opere che nella non breve carriera della forte artista, si disser suoi cavalli di battaglia, furon : l’Antigone e la Rosmunda d’Alfieri, la Pia di Carlo Marenco, la Gismonda da Mendrisio, l’Ester d’Engaddi, l’Iginia d’Asti del Pellico, la Medea del Duca di Ventignano ; ma con pari ardore, e con pari successo, rappresentava le commedie del Goldoni e del Nota.
E noi pochi e senza lena, travagliammo con gran pena. […] Negli inviti al Pubblico ci entrava sempre il procureremo di superar noi medesimi ; e quando invitava per qualche Commedia del Goldoni, qualunque fosse, la chiamava la più bella che avesse fatta quel celebre Autore.
Attrice rinomata, ma più rinomata capocomica, nacque a Venezia il 1760 da un impiegato alla Quarantìa Criminale, di cui non giunse il nome sino a noi.
Gli fu data al Brasile la croce di cavalier della Rosa, in Portogallo quella dell’ordine di Cristo, e da noi, ministro Coppino, quella della Corona d’Italia.
Aggiungerei anche che il Pasta fosse l’ultimo tipo di primo attore, come s’intendevan una volta, e come dovevan essere : che cominciavan per noi giovani da Alamanno Morelli, e finivan con Giovanni Ceresa.
O perché l’essenza del nostro spirito è riposta nell’azione continua, o perché, essendo di capacità indefinita, non trova alcun oggetto individuale che a pieno il soddisfaccia, onde nasce il desiderio di percorrere tutti gli oggetti possibili, o perché l’ingenita tendenza al piacere lo spinge a variare le sue modificazioni per discoprire tutte le relazioni, che hanno le cose con esso lui, o per qualche altra causa a noi sconosciuta, certo è che l’uomo è naturalmente curioso. […] Perciò gli antichi, i quali sapevano più oltre di noi nella cognizione dell’uomo, stimarono esser la favola tanto necessaria alla poesia quanto l’anima al corpo, all’opposito d’alcuni moderni che, volendo tutte le belle arti al preteso vero d’una certa loro astratta filosofia ridurre, mostrano di non intendersi molto né dell’una né dell’altra65. […] Quindi poi gli amori vicendevoli, le corrispondenze fortissime, l’eroismo d’affetti e di pensieri, d’immaginare e d’agire, che noi per disonor nostro mettiamo al presente in ridicolo, ma che pur vedevasi allora accoppiato colla bellezza nelle donne e coll’onoratezza e il valor guerriero nei cavalieri. […] [17] Benché l’unione della musica e della poesia, considerata in se stessa o com’era nei primi tempi della Grecia, nulla abbia di stravagante, né di contrario, tuttavia considerandola come è nata fra noi dopo la caduta del romano impero, vi si scorge per entro un vizio radicale, di cui gli sforzi de’ più gran musici e poeti non l’hanno potuto intieramente sanare. […] [NdA] Voltaire considerato generalmente e giustamente come l’oracolo di Delfo nelle materie di gusto, inveisce contro a questa fredda filosofia: «È insorta (dic’egli) fra noi una setta di persone dure, che si chiamano solide, di spiriti malinconici dicentisi giudiziosi perché sono privi d’imaginazione, d’uomini letterati, e nemici delle Lettere, che vorrebbero mandar in esiglio la bell’antichità, e la favola.»
Quali però si fussero i versi che animarono tali invenzioni, da noi s’ignora a. […] Gli eunuchi si sono perpetuati, e ad onta della ragione e del buon senno non solo nella China, nella Turchia e nella Persia, dall’abjezione della schiavitù più umiliante passano a’ posti ragguardevoli non solo nella decadenza dell’Impero molti di essi divennero consoli e generali, come i Narseti, i Rufini, gli Eutropii: ma noi, noi stessi gli ascoltiamo gorgheggiare nelle chiese, e rappresentar da Alessandro e da Cesare ne’ nostri teatri. […] Ciò rilevasi da un passo di Teodoro Balsamone già da noi citato, il quale visse in quel secolo: olim cantorum ordo non eunuchis, ut hodie fit, constituebatur, sed ex iis qui non erant ejusmodi a. […] Da ciò si deduce che molti anni prima del 1640 (in cui scrisse Pietro della Valle che erano essi assai comuni sulle scene italiche) gli eunuchi si erano introdotti ne’ nostri melodrammi, Ora riducendo discretamente questi molti anni a soli dodici o quindici, noi risaliremo intorno al 1625, E così se per ora non possiam dire precisamente l’anno del primo melodramma recitato dagli eunuchi, avremo almeno stabilito che l’epoca della loro introduzione sulla scena si chiuda certamente nello spazio che corre dall’anno 1610 al 1625.
A istanza dello stesso Michiele scrisse l’Aprosio una elegia non sino a noi pervenuta, e sollecitò poesie da amici per raccoglierle forse in un volume, pietoso omaggio verso la celebre morta. […] r Flavio dunque, veduta questa perfidia, scrisse e fece che noi scrivessimo a Leandro ch’era a Napoli, dandoli parola di compagnia : là dove il povero giovane, credendo alle nostre parole, ma più alle promesse del Sig.r Flavio, lasciò ogni interesse, ricusò ogni profferta, et a noi diede parola gloriandosi d’hauer acquistato il titolo di servo humilissimo di V. […] E. consideri che abbiamo bisogno di gente che s’affaticha per far guadagnare, ma non di gente che goda della nostra rovina ; ad ogni modo come serrà quadragesima e che non si vedranno dinari, averano gracia di noi e bisognerà che facino a nostro modo ; ma s’inganano di gran lunga poichè non abiamo più che impegnare, e dinari noi non abbiamo, non n’aspetto da nessuna parte e pure sono risolutissima di non essere con loro.
. – Miseria per miseria, dicemmo, facciamo da noi !
Di fatti, oltre alle nominate tragedie a noi non pervenute, ebbero i Romani eziandio in pregio la Medea di Ovidio, il Prometeo e l’Ottavia di Mecenate, il Tieste attribuito a Quinto Vario, a Virgilio, ed a Cassio Severo, tragedia da Quintiliano reputata degna di compararsi colle migliori de’ Greci, in oltre quelle di Curiazio Materno altamente comendate dall’autor del dialogo della corruzione dell’eloquenza, e di Pomponio Secondo stimate per l’erudizione e per l’eleganza, la Medea di Lucano, l’Agave di Stazio sì bene ascoltata in Roma ed encomiata dal satirico Giovenale, tutte queste buone tragedie danno a noi diritto di affermare che un genere di poesia maneggiato da’ migliori poeti latini, dovè trovare in quella nazione ordigni opportuni per elevarsi, ed in copia maggiore che non ne trovò la poesia comica. […] Laonde siamo noi inclinati a prestar tutta la fede a que’ Latini che ebbero sotto gli occhi le tragedie romane da essi esaltate, e che sapevano quel che si dicessero, ed assai poco crederemo al sig.
I più tra noi che di arte antica non capiscon jota, ridon delle compere del Novelli, che dicon vittima della propria ignoranza ; i più, tra noi, che dell’arte tragica del Novelli non han pur l’ombra d’idea, ridon d’una sua interpretazione di tragedia, dicendolo vittima della sua presunzione. I successi clamorosi avuti nel vecchio e nuovo mondo, attenuaron la crudeltà del giudizio de'suoi connazionali ; ma il grande, unico premio, a cui egli ambisse, di veder le platee tra noi riboccanti di popolo sì all’Otello, come alle Tre mogli per un marito, gli fu lungo tempo conteso.
Un pregiudizio volgare va impicciolendo in noi l’idea della coltura delle nazioni a proporzione della loro lontananza. […] Quei che attendono alle cose della religione e alla giurisprudenza, studiano i comenti dell’Alcorano, i decreti de’ Gran-Signori, e i Fetfà de’ Muftì, come noi ci occupiamo sulla Sacra Bibbia, su i santi Padri e sulle costituzioni de’ nostri legislatori.
Gli abitanti di essa (si riferisce da Cook 39) tra varj balli eseguirono una spezie di farsa drammatica mescolata di declamazione e di danza; benchè noi eravamo pochissimo versati nel loro idioma, e perciò incapaci di comprenderne l’argomento.
. – O del Coturno gloria e del Socco, onde ti guarda e freme l’emula Francia a noi rivale eterna, vedendo dalla sua fronte rapita d’arte sì bella la corona illustre della gentile Italia !
Ond’è che a noi d’intorno tanta pietà veggiam sì tosto nata ?
Come poss’ io I favori narrar, que'dolci modi, L'accoglienza gentil che a noi porgeste ?
[9] Ma le diverse circostanze de’ tempi e de’ luoghi non permisero che le rappresentazioni sacre avessero presso a noi lo splendore e la durata ch’ebbero presso a loro quelle dei Greci. […] [13] Tutto l’opposto avviene fra noi. […] Perciò gli argomenti sacri debbono degenerare in assurdità ovunque la religione, e il teatro formano due oggetti separati, come avviene presso di noi, poiché il dissipamento dell’uno si oppone incessantemente alla santità dell’altra. […] Il liquore della saviezza è troppo forte, noi siamo dei vasi troppo gracili per contenerlo, e però fa di mestieri dar un pò d’aria a cotesto vino a fine di scemarne il vigore, perché non si renda nuocevole, come fanno i cantinieri nelle cantine.» […] [23] Ritornando al nostro proposito, e raccogliendo in breve quanto a noi s’appartiene, quattro furono i gradi o l’epoche dell’accrescimento della musica sacra.
Alzò sulle nostre rovine il suo trono il governo feudale, tremenda polizia sino a quel punto a noi ignota e per natura poco propizia all’ordine e alla pubblica tranquillità. Usciti que’ conquistatori da paesi, ove regnava l’ indipendenza, ove i primori riconoscendo un capo della nazione conservavano una gran parte de’ loro diritti, stabilirono fra noi un governo fatto per dividere in vece di unire. […] E questa sorgente di ricchezza ridestò fra noi il sopito natural desiderio di libertà, sotto i cui soli auspici escono gl’ ingegni dalla stupidezza e dall’inazione. […] Veramente noi che reputiamo drammatiche ed espresse con parole quest’ultime, non possiamo recarne nè squarcio che il dimostri, nè testimonio sincrono che espressamente l’ affermi. […] Ma ciò lasciando, la Compagnia del Gonfalone istituita nel XIII secolo per rappresentare i misteri, ne’ tempi più a noi vicini ciò fece con parole a tenore del suo istituto.
Costui nel libretto delle Origini della Poesia Castigliana asserisce primamente, che i Romani portarono in Ispagna i giuochi scenici, senza curarsi di addurne qualche pruova, siccome per altro avrebbe potuo, facendo parola di quanto noi abbiamo non ha guari riferito, cioè de’ giuochi teatrali dati in Cadice da Balbo, del teatro Saguntino e delle rovie teatrali di Acinippo, di Tarteso e di Merida. […] Vedine l’iscrizione rapportata dal Grutero, dal Muratori, dal Tiraboschi, e da noi nel tomo I delle Vicende della Colture delle Sicilie pag. 289. […] Roubo nel trattato de la Construction des Theatres impresso in Parigi nel 1777, quando noi pubblicammo la prima nostra Storia de’ Teatri in un sol volume; e si pretende che fosse stata rappresentata in un teatrine privato costrutto in casa del medesimo Ausonio. A noi non è riuscito di vedere questo trattato per accertarcene su i frammenti istorici che l’autore ne avrà addotti.
Tutte le suaccennate qualità le scorgiamo noi nelle nostre servette ?
Recitava le parti di Graziano nella Compagnia dei Comici Confidenti, che tanto grido levaron tra noi e in Francia nella seconda metà del sec. […] Fu il Lombardi anche autore di una commedia in prosa, intitolata l’ Alchimista, e dedicata a Giulio Pallavicino (Ferrara, Baldini, 1583, poi Venezia, Sessa, 1586, e Spineda, 1602), in cui, scrive Adolfo Bartoli nella sua introduzione agli Scenarj, « noi troviamo quello che è così raro nella commedia italiana del secolo xvi, qualche carattere studiato e disegnato.
Mangiamo pur noi; amici miei. […] Così noi Uccelli siamo i più antichi di tutti i beati…. Tutti i beni più grandi sono da noi compartiti ai mortali.. […] A noi destinar potrete aruspici ed are. […] A noi che siamo Dei del cielo.
L’anno 1759, la domenica 16 settembre, verso le otto del mattino, è comparso da noi, Michele Martino Grimperel, il signor Onorato Gabou, dottore in chirurgia, dimorante in via Mauconseil, parrocchia di St.
ma è stato nella quadragesima passata ricercato in Roma, et in altre parti, hora è in Genova, e mi fa a credere di certo che con poca fatica sarebbe con noi.
Siccome può osservarsi tutto giorno tra noi, dove non pare che i trilli di un’arietta stiano cosi bene in bocca di Giulio Cesare o di Catone, che in bocca si starebbono di Apollo o di Venere. […] Lo essere l’azione a noi tanto peregrina ne renderà meno inverisimile l’udirla recitare per musica.
Ed è questo il quarto fatto da notarsi, che noi troveremo avverato in tutti i teatri Europei, e dall’analogia delle idee ci sentiamo inclinati a conchiudere, che troveremmo eziandio ne’ teatri orientali e in quello del Perù, se gli storici e i viaggiatori, da’ quali soltanto noi possiamo instruirci sulla legislazione e la poesia di tali regioni, si fossero avvisati di riguardarli nel punto di vista che quì presentiamo.
Mi rivolgerei a quel sesso da cui non si dovrebbe aspettare che patrocinasse una simile causa, ma tra il quale gl’inconcepibili progressi della corruzione fanno pur nascere più di una spiritosa avvocata, pregandolo a concorrere per mezzo della influenza cui la natura, non so se per nostra fortuna o per nostra disgrazia, ha dato alle donne sopra di noi, a sradicar un costume il quale divenuto che fosse più generale renderebbe affatto inutile sulla terra l’impero delle loro attrattive, e persin la loro tanto da noi pregiata esistenza140. […] Dalla imperizia de’ cantori in questo genere è venuta l’accusa che vari scrittori fanno al canto moderno di non convenire cioè in alcune occasioni a quello stile sublime, a quelle situazioni inaspettate ed energiche onde tanto s’ammiran da noi i poemi degli antichi, e le tragedie recitabili. […] Chi crede abbia il torto fra noi?» […] Quindi la contraddizione con noi medesimi e colla nostra sensibilità in cui ci pone il canto; poiché essendo certo che appena avremmo potuto frenare le lagrime per la compassione se fossimo stati presenti all’addio di Megacle e alle smanie di Timante, noi sentiam pure modular sul teatro il medesimo addio e rappresentar quelle smanie stesse non solo senza piagnere, ma sbadigliando, o ridendo, o facendo qualche cosa di peggio. […] Ma noi?
Così poggiando sovra l’uso umano di luce splendi più chiara, e lodata, che quel, che ’l giorno a noi porta dal Gange. […] Pelican fortunato ancor tu puoi La spenta prole ravvivar ferendo Te stesso, io no, che ferireimi or ora, E ferito m’avrei prima, che i suoi Lumi chiudesse a noi La mia diletta ; è vero al ciel salendo Per fruir lieta una perpetua aurora, Anzi un’eterno sol, che non tramonta. […] In Verona, in Vicenza, in Brescia altero mandava ognun di noi moneta ed oro, or ha preso il guadagno altro sentiero.
Era uso allora di recitar ne’conviti ; e il Giannotti, ne’suoi Vecchi amorosi fa dire : « Il Barlacchi, se noi il potessimo averc, sarebbe a questa cena come il zucchero alle vivande.
: Dal pigro sonno, che con gli ozj suoi neghittoso alle fredde ombre ti rese, alma risorgi, e fa al mio cor palese quell’affetto d’amor che or dorme in noi.
Non solo ha potuto farvi sfoggio di tutte le sue eccellenti qualità che noi già conoscevamo, ma è stata nel caso di rivelarcene delle altre che eravamo certi si sarebbero sviluppate in lei con una più lunga pratica dell’arte.
Cantare dicesi pur da’ Latini e da noi il recitar versi, per quella specie di canto con cui si declamano; ed ogni poeta dice de’ suoi versi, io canto. […] Che poi questa si cantasse tutta, come pretese il Menestrier, ovvero se ne cantassero i soli cori, come noi stimiamo, ambedue queste opinioni sono arbitrarie, ed hanno bisogno di nuova luce istorica. […] a Venne poi l’Orfeo del Poliziano, nel quale dee riconoscersi la prima pastorale tragica fra noi composta in volgare con qualche idea di regolare azione. […] A noi basti l’aver mostrato ad evidenza con altri non ambigui monumenti ciò che incresce ai Lampigliani, che l’Italia può vantarsi di aver coltivata la drammatica ad imitazione degli antichi con quella felicità che altri le invidia. […] Vuolsi però avvertire, che noi ne parliamo soltanto come una festa stupenda, e non già come componimento drammatico, nè come una specie di opera in musica.
Cantare dicesi pur da’ latini e da noi il recitar versi, per quella specie di canto con cui si declamano; ed ogni poeta dice de’ suoi versi, io canto. […] Che poi questa si cantasse tutta, come pretese il Menestrier, ovvero se ne cantassero i soli cori, come noi stimiamo, ambedue queste opinioni sono arbitrarie, ed hanno bisogno di nuova luce istorica. […] Venne poi l’Orfeo del Poliziano, nel quale dee riconoscersi la prima pastorale tragica fra noi composta in volgare con qualche idea di regolata azione. […] A noi basti l’aver mostrato ad evidenza con altri non ambigui monumenti ciò che incresce a’ Lampigliani, che l’Italia può vantarsi d’aver coltivata la drammatica ad imitazione degli antichi con quella felicità che altri non ebbe. […] Si vuol però avvertire che noi ne parliamo soltanto come una festa stupenda, e non già come componimento drammatico, nè come una specie di opera in musica.
Alzò sulle nostre ruine il suo trono il governo feudale, tremenda polizia sino a quel punto a noi ignota e per propria natura poco propizia all’ordine e alla pubblica tranquillità. Usciti que’ conquistatori da paesi, ove regnava l’indipendenza, ove í primori riconoscendo un capo della nazione conservavano una gran parte de’ loro diritti, stabilirono fra noi un governo fatto per dividere in vece di unire. […] La medesima sorgente di ricchezza, il commercio, ridestò fra noi il sopito natural desiderio dilibertà, sotto i cui soli auspici escono gl’ingegni dalla stupidezza e dall’inazione. […] Veramente noi che reputiamo drammatiche, ed espresse con parole quest’ultime, non possiamo recarne nè squarcio che il dimostri nè testimonio sincrono che espressamente l’affermi. […] Ma ciò tralasciando, la Compagnia del Gonfalone istituita nel XIII secolo per rappresentare i Misteri, ne’ tempi più a noi vicini ciò fece con parole a tenere del suo istituto.
Ed è questo il quarto fatto da notarsi, che noi troveremo avverato in tutti i teatri Europei, e dal l’analogia delle idee ci sentiamo inclinati a conchiudere, che troveremmo eziandio ne’ teatri orientali, e in quello del Perù, se gli storici e i viaggiatori, da’ quali soltanto noi possiamo instruirci sulla legislazione e la poesia di tali regioni, si fossero avvisati di riguardarli nel punto di vista che quì presentiamo.
“Il nostro gusto e i nostri costumi (osservavasi nelle Lettere sulla moderna letteratura pubblicate dal 1759 sino al 1763) rassomigliano più agl’ Inglesi che a’ Francesi: nelle nostre tragedie amiamo di vedere e pensare più che non si pensa e non si vede nella timida tragedia francese: il grande, il terribile, il malinconico fanno sopra di noi più impressione del tenero e dell’appassionato, e in generale noi preferiamo le cose difficili e complicate a quelle che si veggono con una occhiata”. […] Bertola, cui per altro si debbono alcune notizie recenti del teatro tedesco, ha detto che quest’ ultima, oltre all’essere stata imitata in Francia, sia pasjata anche fra noi in un’ opera buffa. […] Le sue favole lugubri a noi note sono: Minna de Barnhelm, Filota, Natan, Emilia Gallotti, e Miss Sara Sampson.
Le maschere moderne coprono il solo volto, e talvolta non interamente; e le antiche coprivano tutto il capo; e può additarsi come una rarità l’unica mezza mascheretta simile a quella che oggi noi adopriamo nelle feste di ballo, la quale si vede nella Tavola XXXV del IV volume delle Pitture di Ercolano sulla testa di una figura di donna che dimostra che stà cantando.
Le maschere moderne cuoprono il solo volto e talvolta non interamente; e le antiche coprivano tutto il capo; e può additarsi come una rarità l’unica mezza mascheretta, simile a quella che oggi noi adopriamo nelle feste di ballo, la quale si vede nella Tavola XXXV del IV volume delle Pitture di Ercolano sulla testa di una figura di donna che dimostra di star cantando.
Infatti, pochi anni dopo, noi lo vediamo abbracciare la maschera di Brighella, nella quale fu eccellente, non tralasciando, nelle commedie premeditate, di sostenere ancora le parti serie.
.), detto Argante, volle presentargli in occasione di dare alle stampe la Tragicommedia col titolo : La clemenza nella vendetta, in altri luoghi da noi mentovata ; e come si disse sotto l’articolo del prenominato Franceschini.
Fu la prima, attrice di rari pregi, se dobbiam credere al seguente sonetto di Paolo Abriani : Dal ciel discesa ad illustrar le Scene, benchè mortal fanciulla a noi si mostri, per debellar, per trionfar de’Mostri Morte, Tempo ed Oblìo, Lavinia or viene.
Oggi è capocomica, e maritata a Vittorio Zampieri ; e dopo un viaggio breve ma fortunato in America, tornò tra noi al Valle di Roma, ove interpretò mirabilmente Zaza, l’affascinante mosaico teatrale di Berton, per riprendere il largo verso la Spagna, ove l’attendevano onori non isperati.
A noi par di vederlo; e ci dispiace di non essere stati in ciò prevenuti da verun critico. […] Parvero, è vero, al sig. di Marmontel le commedie Spagnuole meglio intrecciate dell’Italiane; e noi rispetteremmo ciecamente il suo giudizio, s’egli avesse mostrato di aver letta alcuna delle buone commedie erudite dell’Italia. […] Quali però si fussero i versi che animarono tali invenzioni da noi s’ignora78. […] Gli eunuchi si sono perpetuati, e ad onta della ragione e del buon senno non solo nella China, nella Turchia e nella Persia, dall’abjezione della schiavitù più umiliante passano a’ posti più ragguardevoli; non solo nella decadenza dell’impero molti di essi divennero consoli e generali, come i Narseti, i Rufini, gli Eutropj: ma noi, noi stessi gli ascoltiamo gorgheggiare nelle chiese, e rappresentar da Alessandro e da Cesare ne’ nostri teatri. […] Ora riducendo discretamente questi molti anni a soli dodici o quindici, noi risaliremo intorno al 1625.
Ma non ostante il numero e la magnificenza de’ teatri, e le ricchezze e ’l favore degl’istrioni, noi cominciamo di qui a trovar il vuoto della storia teatrale, perché la poesia drammatica in tal periodo non acquistò veruno scrittore greco o latino che meritaste di passare a’ posteri. […] Il più antico poema di questo genere ne’ secoli bassi, che fino a noi sia giunto, é, s’io non erro, una certa o tragedia, o commedia che vogliam dirla, scritta latinamente e data alla luce dal P.
Pose sulle nostre ruine il suo trono il governo feodale, polizia fino a quel punto a noi ignota, e per natura poco propizia all’ordine e alla pubblica tranquillità. […] E non ostante il titolo di tragedie e commedie, esse altro non erano che meri monologhi, o dialoghi satirici senz’azione, posti in musica da lui stesso118, e cantati insieme con sua moglie, ch’egli menava seco in cambio di menestrels, o jongleurs, da noi detti giullari.
r Pantalone, per riscuotere alcuni pegni, noi godiamo ottima salute l’istesso, spero nell’Altissimo, che sij di V. […] S. occupato nelle fatiche, ora ueniamo a noi.
E noi di questa ci proponghiamo di ragionare in ispecie. […] Ed ecco, secondo noi, il metodo più giusto e più semplice per regolare il tuono della pronunciazione. […] Di tale espressione simultanea, complessiva, completa noi qui ragioneremo particolarmente. […] In questo senso noi diciamo comparativamente l’uno più bello e perfetto dell’altro. […] Ma noi non possiamo egualmente giovarci di tali artifici, che altronde per molto nuocevano all’effetto teatrale.
Pugnano i doveri della religione e delle leggi con molte opinioni adottate dagli uomini, ed in tal contrasto, quando più ci farebbe d’uopo al fianco una Minerva sotto forma di un Mentore, ci troviamo abbandonati a noi stessi, alla nostra scelta, al nostro discorso. […] Adunque senza tener conto veruno della rigidezza affettata di alcuni sedicenti coltivatori de’ severi studii, i quali sdegnano tutto ciò che non è algebra, nè delle meschine rimostranze di qualche bonzo o fachiro, nè delle insolenze di alcuni immaginarii ministri di non so qual filosofia arcana, e molto meno apprezzando le ciance insidiose smaltite fra i bicchieri delle tavole grandi da certi ridevoli pedantacci che ostentano per unico lor vanto l’essersi procacciati varii diplomi accademici, noi avremo sempre in pregio così amena filosofia in azione, di cui gli additati impostori ignorano il valore e la prestanza. […] E’ vero che la parola tromba fra noi significa tromba da sonare e da far salir l’acqua; ma il verbo trombare altro non ha espresso fra’ Toscani, che propriamente sonar la tromba e figuratamente pubblicare e dire a voce alta.
A noi par di vederlo; e ci dispiace di non essere stati in ciò prevenuti da verun critico. […] Parvero, è vero, al signor di Marmontel le commedie spagnuole meglio intrecciate delle italiane e noi rispetteremmo ciecamente il suo giudizio, se avesse egli mostrato di aver letta alcuna delle buone commedie erudite dell’Italia. […] Ma quando anche il dotto Maffei e qualunque altro uomo di lettere più illustre pretendesse formare un mucchio spregevole di tutto ciò che si scrisse in quel secolo pel teatro, noi gli diremmo con rispetto ma con franchezza che s’inganna, ed avremmo dal canto nostro gl’imparziali e meglio informati.
Altre e molte possono essere le cause che concorrono a tale alterazione : forse celate, forse anche opposte in tutto e per tutto a quelle che noi colla nostra gran presunzione di critici indagatori crediamo di conoscere. […] Se lo Zacconi, studioso e scrupoloso all’eccesso (anche per ciò l’Emanuel aveva già dato un esempio colla riproduzione maravigliosa di una morte di delirium tremens nell’Assommoir di Zola), afferma di avere frequentato giovanissimo a scopo di studio manicomi, ospedali, cliniche e reclusori, perchè non dovremmo noi credergli ? […] Tu, che dell’alma il bujo nembo sperdi, O bellissima Iddia, A noi torna benigna e l’arsa via Al tuo sole rinverdi !
Possono in essa notarsi diverse bellezze; ma noi accenneremo soltanto alcuna cosa della terza scena dell’atto secondo, la quale contiene venustà di più di un genere. […] Ora quivi sedendo, ecco ad un tratto, Che in noi si abbatte un giovan che piangeva. […] Eravam noi già tutti Commossi. Quando subito Antifone Comincia: vogliam noi colà portarci Per lei vedere? […] L’esequie intanto s’innoltrava, e noi altri tenevam dietro.
Ma il suo nome non giunse fino a noi. […] r marchese del Buffalo acciò ci fauorischa di entercedere la licenza per noi me ha promesso di fare apresso a Donna Olimpia ogni posibile ma che lassi passare un giorno o dua, cossi hò promesso di recceuere la Gratia ma domandato come sarà la Compagnia io li hò risposto che sarà meglio de quello è adesso, e cossi lui e restato satisfatto et io in conformita del comando ci tornerò e poi ne darò minuto raguaglio. — Me sono informato ch’ el mio figliolo lucha tanto io lo posso far uestire da frate in Roma col farlo figlio del monestero in bologna come se lo uestisse là non sò però a che me resoluerò perche uoglio el gusto del figliolo el quale più aderisse a essere prete che frate. — Suplichiamo S. A., mia moglie et io per il mio povero uechio acciò abbi in bologua una bona Compagnia già che noi non lo potiamo sostentare in nostra Compagnia per non offendere il gusto de S. […] mo Siamo quasi alla fine di Quatragesima e ancora io non ho hauto nisuna lettera per mio Governo et per consolazione de mia moglie et mia pouera famiglia, e pure dio benedetto sa et il mondo uede quanto noi tutti siamo seruitori obbligatissimi et suiserati a S.
Nel terzo si dipinge l’Assemblea Argiva, la quale par che alluda al l’Areopago di Atene, e vi si satireggiano di passaggio alcuni oratori contemporanei del poeta, circostanza per noi perduta ma importante per chi allora ascoltava. […] Carmeli, Ahi sventurata anch’io, Poichè lo stesso carme Per la sciagura d’ambe A noi convien. […] Fra quante agnizioni si sono esposte sulla scena, questa ad Aristotile parve una delle eccellenti, ed a noi parimente pare la più verisimile, la più vivace e la più acconcia a chiamare l’attenzione del l’uditorio, e a tenerlo sospeso. […] Il Ciclope è un dramma satirico, ed il solo che di simil genere a noi sia pervenuto; ma di esso favelleremo nel trattar de’ Satiri. […] Imperocchè siamo noi di avviso che l’arte non avrà mai occasione di lagnarsi della poca fecondità della natura, celandosi in ogni genere specie varie ugualmente degne di trattarsi benchè dissimili.
Recitava e cantava ; era un di quei comici cui la necessità fornisce eccletismo e che noi ritroviamo, a tempo nostro, or nella commedia in prosa, ora nell’operetta.
Composto più sorprendente di così belle sociali pitture noi non troviamo che nelle Allegorie, nelle quali con vive immagini osserviamo i diversi mostri, che mascherati di soave apparenza, si fanno i tiranni dei nostri affetti, e tutto sfigurano il nostro spirito.
Quanta riconoscenza tributava il suo cuore a noi, modesti esecutori del suo lavoro.
Al '59, noi vediamo il Peracchi capocomico, e assistiamo, come ci avverte esso Costetti, al cominciamento della sua parabola discendente.
ra Lavinia che va prima di noi a Firenze, tutti affermono quello che dice l’A. […] Iddio però gli dia bene a lei e non si scordi di noi.
Dovevate anzi pensare, che noi donne al pari degli uomini ci serviamo di questa maschera per ingannar il pubblico. […] Ciò che da noi si chiama tragedia, é una mera mescolanza mostruosa$g di gonfiezze e bassezze buffonesche, ignorando i nostri autori le più comuni regole teatrali. […] La regina Sofia Carlotta tratteneva in Berlino l’opera italiana, il cui compositore era il celebre Bononcini, e da quel tempo abbiamo contati fra noi alcuni buoni musici.
Nel cinquecento imitammo i greci, e fu ben fatto: imitiamo oggi i francesi, e si fa senno: aspettiamo però il tempo, in cui avremo acquistata la destrezza di saper da noi stessi imitar la natura, e allora sorgeranno tra noi gl’ingegni creatori, e si perfezionerà al sommo la drammatica. […] Di cambiar con pravo consiglio il sistema dell’opera italiana per quello della francese, mentre che i francesi alquanto spregiudicati si studiano d’imitar la nostra; di maniera che noi siamo in procinto di cader nelle miracolose stravaganze del teatro lirico francese, ed essi in caso di cagionare in questo una crisi favorevole, e convertir l’opera loro in tragedia confinata all’imitazione della natura, com’é la nostra.
Pugnano i doveri della religione e delle leggi con molte opinioni adottate dagli uomini, ed in tal contrasto, quando più ci farebbe d’uopo al fianco una Minerva sotto forma di un Mentore, ci troviamo abbandonati a noi stessi, alla nostra scelta, al nostro discorso. […] Adunque senza tener conto veruno della rigidezza affettata di alcuni sedicenti coltivatori de’ severi studii, i quali sdegnano tutto ciò che non è algebra, nè delle meschine rimostranze di qualche bonzo o fakir, nè delle insolenze di alcuni immaginarj ministri di non so qual filosofia arcana, e molto meno apprezzando le ciancie insidiose smaltite fra i bicchieri delle gran tavole da certi ridevoli pedanti che ostentano per unico lor vanto l’ essersi procacciati varii diplomi accademici, noi avremo sempre in pregio così amena filosofia in azione, di cui gli additati impostori ignorano il valore e la prestanza. […] E’ vero che la parola tromba fra noi significa tromba da sonare e da far salir l’acqua; ma il verbo trombare altro non ha espresso fra’ Toscani che propriamente sonar la tromba e figuratamente pubblicare o dire a voce alta.
Ma quella cosa da che più l’alme eran percosse, e maggior virtute aveva in noi, furono le rilucenti perle uguali, che qualora dal grazioso riso erano scoperte abbagliavano co’i suoi raggi la vista dei riguardanti. […] Così di te, che i tenebrosi Ecclissi da ogn’alma sgombri, noi spesso contenti, Amor, che in tua virtù sè stesso sface. […] Quel che succede poi, amor solo il può dire, perch’ebbri ambedue noi, nel colmo del gioire perdiam ne’gaudi immensi l’alma, gli spirti, i sensi !
Il 23 marzo del 1848 un avviso di Alessandria, col quale invitava il pubblico a una accademia di declamazione e di canto a beneficio dell’attore Francesco Sterni, cominciava così : La sera di giovedi 23 marzo è sera per noi di beneficenza cittadina, e questo, piuttosto che un ricordo teatrale, è un ricordo comune della tacita e reciproca promessa che ci siam fatta di ritrovarsi tutti come ad un convegno desiderato.
Nel terzo si dipinge l’Assemblea Argiva, la quale par che alluda all’Areopago di Atene, e vi si satireggiano di passaggio alcuni oratori contemporanei del poeta, circostanza per noi perduta ma importante per chi allora ascoltava. […] Fra quante agnizioni si sono esposte sulla scena, questa ad Aristotile parve una delle eccellenti, ed a noi parimente pare la più verisimile, la più vivace e la più acconcia a chiamare l’attenzione dell’uditorio e a tenerlo sospeso. […] Qualche Francese ha confusi questi due Frinici; e noi ancora nella Storia de’ teatri del 1777 attribuimmo quest’ultima avventura del Frinico di Melanta all’ altro più famoso che fu figliuolo di Poliframmone. […] Le scene formate fra noi nel Teatrino del Real Palazzo sotto Carlo III colla direzione del Marchese di Liveri possono esserne tanti evidenti esempj. […] Dopo la vita era per gli antichi il più importante oggetto la sepoltura; e noi nel censurarli non dobbiamo dimenticarci delle loro opinioni.
O non morrà, o noi morremo insieme. […] A noi basti accennare che rendono pregevole questa tragedia grandi affetti, stile nobile, vivace ma natural colorito e versificazione armonica quanto richiede il genere. […] Ci tratterremo noi a dare una compiuta analisi di sì nota tragedia enunciata in tanti giornali buoni e cattivi, recitata in tanti teatri ed impressa tre volte in due anni? […] Brevemente e come da noi si suole senza timore e senza dipendenza coll’ usata nostra debolezza. […] È ciò in natura, si dirà colle parole del Voltaire; ma noi siamo persuasi che l’arte dee scegliere fra gli eventi naturali quelli che non distruggono un disegno dell’artista con un altro opposto.
Giovanni Toselli, colla sua invenzion fortunata della commedia in dialetto giandujesco, può dirsi abbia rinnovata per noi la classica tradizione greca dell’antichissimo Carro di Tespi ; perchè, quando cominciò a far le sue prime prove, la modestissima compagnia, di cui s’era messo in testa, compagnia composta di elementi affatto primitivi, formava nella sua piccola compagine un quadretto così caratteristico e pittoresco da far proprio ricordare il genial Carro di Tespi, che sentimmo descriver nelle scuole, e che Teofilo Gauthier ha così ben modernamente illustrato nel suo immortale Capitan Fracassa.
E molto più perchè osservava, che la gioventù Italiana per simili idee sparse fra noi da varj anni, a gloria del Teatro Francese, cadeva nell’idolatria di esso; e consecrava indifferentemente ogni produzione scenica della Senna senza distinguere le smilze dalle robuste piante, le caduche dall’eterne, e quindi mi parve necessario aprirle cammino, apprestarle un lume, perchè potesse sceverarle, e mi convenne alquanto particolareggiare. Stimai al contrario, che per tante Drammaturgie, Cataloghi, Biblioteche, e Critiche teatrali, la Drammatica Italiana fosse competentemente fra noi conosciuta, e sì la scorsi assai leggermente. […] Del suo gusto teatrale siamo noi pienamente convinti?
Questi semi dierono in appresso nascimento alla Poesia Satiresca, ma i Drammi di questo genere sono per noi perduti, eccetto il Polifemo di Euripide. […] Benissimo, noi ci rallegriamo della felice scoperta.
a PELLEGRINO BLANES nella tragica arte insigne perfetto di natura imitatore nel rappresentare oreste, aristodemo, cincinnato valentissimo, egregio, ammirabile SONETTO E alfin la prisca glorïosa traccia Ricalca, e a noi Melpomene sorride E funeste, tremende, parricide Opre pingendo di terror ne agghiaccia. […] Ed or per te rivive a noi quel tanto Prode Roman, che un di a l’aratro tolto Tornò guerriero in dittatorio manto.
Di taluna di esse (del Padre Prodigo di Dumas figlio) affidò la direzione a Paolo Ferrari, il quale, traeva tale gagliardìa dalla disciplinatezza, dalla sommissione, dal volere di noi giovani, che a volte restava in teatro a dirigere dalle dieci di mattina alle quattro di sera.
Scoppiata da noi la rivoluzione egli pianta tutto, compresi i cassoni, e corre a Bologna a prender parte alla famosa giornata delli 8 agosto alla Montagnola, rimanendo non lievemente ferito all’inguine.
Ma come ciò concorderebbe col bel candore decantato da Francesco Andreini in questo suo sonetto : Or che Delia è sparita, e 'l suo splendore inargenta altre selve ed altri colli, che fia di noi ?
Ma d’assai più interessante per noi è il racconto che fa Bergamino di aver veduto una frotta di commedianti, di cui non tutti pur troppo fu sin qui possibile identificare (V.
Se mai c’incontrerem, c’incontreremo In più felici climi e in miglior spiaggia U’ Cesar non fia mai a noi vicino. […] Dobbiamo a noi stessi . . . […] se vi è inferno, egli è giusto che noi vi siamo tormentati. […] il sole continuerà a risplendere, e tutto compierà il suo corso, intanto che noi orrore e peso della terra saremo ridotti in polvere. […] “A mirar la nostra professione (dice l’infame Peachum ritratto di Jonathan Wild impiccato in Londra nel 1724) per certo aspetto, si può chiamare disonesta; perchè noi rassomigliamo a’ ministri di stato nel dar coraggio a’ malvagi affinchè tradiscano i loro amici”.
In contraccambio ha ella il vantaggio di sembrarci più verosimile e più conforme alla natura, dal che ne viene in conseguenza che sebbene la declamazion recitata abbia minor azione sopra i sensi, è bensì più acconcia a produrre in noi la persuasione, e pertanto ha molto maggior influenza sullo spirito. […] Ma per un difetto prodotto dai costumi ora dominanti fra noi, la poesia non osa più trattar argomenti che non versino sull’amore, e che non si rivolgano intorno ai sospiri, ai lamenti, e alle nenie di quella passione. […] Ivi non comparisce magnanimo, né eroe, né uomo di genio, ma piuttosto un farnetico divenuto giuoco della sua eccessiva sensibilità, uno schiavo della mollezza che ci vendica fra le sue catene dell’ascendente che aveva sopra di noi acquistato la sua fortuna. […] «Potrei accomodarmi all’uso corrente d’Italia che è quello di strozzar i drammi di quell’autore, levando via a capriccio il più bello per inserire in sua vece arie e duetti fatti da qualche versificator dozzinale; dal che restano essi così sfigurati e mal conci che più non gli riconoscerebbe il padre che li generò, se per nuovo miracolo di Esculapio tornasse a viver fra noi. […] Ma vi torno a dire che il buon senso non è fatto per noi.
Se l’apprensione è d’un male, i muovimenti del corpo sono diretti a slontanarlo lungi da noi, come si cerca con ogni sforzo di avvicinarlo qualora si crede di ritrovar in queir oggetto la propria felicità. […] La prima delle accennate osservazioni è diretta a far vedere di qual perfezione sarebber capaci fra noi le arti pantomimiche avendo mezzi più efficaci che non avevano essi per ben riuscirvi. […] Obbligandoci ad un numero senza fine di riguardi ci hanno costretti a stare in perpetua veglia sopra di noi. […] Peggio per noi se cotesto sconsigliato ardimento ci costringe a non vedere se non mostri ed enimmi sul teatro pantomimico. […] Ma da quale ipotesi, opinione, o credenza siamo noi preparati a veder lottare una donna con un’ombra?
E perché in tale occasione molte e varie cose furono disputate intorno alla materia di che convenga fabbricare il teatro, intorno alla grandezza e figura di che ha da essere, intorno alla disposizione dei palchetti e ornato loro, non sarà fuori del presente argomento toccare anche di simili particolari alcuna cosa; acciocchè se, per quanto era in noi, si è dichiarata la vera forma dell’opera in musica, si venga a dichiarare eziandio la più accomodata forma del luogo ove si ha da vedere et udire. […] Dove a noi, che siam privi di tali aiuti, ne convien stare dentro a più ristretti termini; se già non si voglia alzar la voce a guisa di banditore ed isforzarla; che tanto è a dire se travisare non si voglia ogni verità nella rappresentazione.
S’intitolano I el Viejo y la Niña (il Vecchio e la Fanciulla), II la Mogigata, che tra noi meglio s’intitolerebbe la Bacchettona, trattandosi di una giovane che dà ad intendere di volersi chiudere in un chiostro austero, e III la Comedia Nueva. […] Se ne trova però fatta menzione in una delle commedie di Francesco Roxas scrittore comico del passato secolo da noi già mentovato in quest’opera.
Poichè il domani è della giovanezza, sorreggiamola senza fiacchezza e senza ferocia nella via disagevole, non le nascondiamo il pericolo ma rassicuriamola sul valore della propria forza : e se precipita, per disgrazia o per errore, non ci sia rimorso in noi : rimorso di ostacolo corrivo, rimorso di entusiasmo cieco. […] È una sensazione di freschezza e di salute non prima da noi provata ; è una sensazione di dolcezza e di giocondità, quale si prova soltanto nelle dolci mattine primaverili tutte stillanti di rugiada e tutte ebbre di profumi.
Le bellezze di questa favola si presentano in folla, e noi ne accenneremo alcuna colla speranza di eccitar la gioventù a leggere gli antichi con maggior riflessione, se vogliono ritrarre dalla drammatica quel diletto che ben di rado si prova nella lettura delle moderne favole. […] Ora quivi sedendo, ecco ad un tratto Che in noi si abbatte un giovan che piangeva. […] Eravam noi già tutti Commossi, quando subito Antifone Comincia: vogliam noi colà portarci Per lei vedere? […] Ma la tempesta de’ poderi nostri Ecco fuori sen vien, che i dolci frutti Che noi coglier dobbiam, via se ne porta. […] L’esequie intanto s’innoltrava, e noi altri tenevam dietro.
Per mezzo degli autori dell’Italia liberata e del Goffredo fiorì tra noi la buona tragedia; e pel cantore dell’Orlando furioso risorse la Commedia Nuova degli antichi. […] Non correre In tanta fretta, Erofilo; ricordati Che noi siamo in pericolo di perdere La cassa; attendi a quella, e poi. […] Or questa forza comica, questa vivacità piacevole dell’azione noi ravvisiamo appunto nel Negromante. […] Bettinelli io son persuaso che egli ne conosce più di noi i pregi. […] Il Geloso le i Fantasmi videro la luce delle stampe nel 1545; ma de’ Romiti e dell’Arianna è rimasto a noi il solo nome.
«Il nostro gusto e i nostri costumo (osservavasi nelle Lettere sulla moderna Letteratura pubblicate dal 1759 sino al 1763) rassomigliano più agl’Inglesi che a’ Francesi; nelle nostre tragedie amiamo di vedere e pensare più che non si pensa, e non si vede nella timida tragedia francese; il grande, il terribile, il malinconico fanno sopra di noi più impressione del tenero e dell’appassionato, e in generale noi preferiampo le cose difficili e complicate a quelle che si veggono con una occhiata.» […] Le sue favole lugubri a noi note sono: Minna de Barnhelm, Filota, Natan, Emilia Gallotti, Miss Sara Sampson.
Allora solamente saranno i virtuosi sotto regola e governo; e noi potremmo sperare a’ giorni nostri di veder quello che a’ tempi de’ Cesari e de’ Pericli vedeano Roma ed Atene.
Gli abitanti di essa (si riferisce da Cooka) tra varii balli eseguirono una spezie di farsa drammatica mescolata di declamazione e di danza; benchè noi eravamo pochissimo versati nel loro idioma, e perciò incapaci di comprenderne l’argomento.
Nel quarto secolo si compose la nota tragedia sacra intitolata Cristo paziente, la quale per più secoli si attribui al prelodato san Gregorio, e ne’ tempi più a noi vicini ad Apollinare seniore Alessandrino, scrittori che principalmente fiorirono sotto Giuliano Apostata.
Ciò che da noi chiamasi tragedia, era un misto mostruoso di gonfiezze insieme e di bassezze buffonesche ignorando i nostri autori le più comunali regole del teatro.
Ciò che da noi chiamasi tragedia, è un misto mostruoso di gonfiezze insieme e di bassezze buffonesche, ignorando i nostri autori le più comunali regole del teatro.
Dopo i felici studi de’ tuoi primi anni e le alate speranze che li accompagnavano ; dopo il getto magnanimo che tu facesti d’ogni grado accademico per abbracciarti alla grande e funesta Deità dell’arte ; dopo aver lietamente sostenute le ansie e le privazioni a cui essa sottopone i suoi devoti, mirarti oggi, o amico dolcissimo, nell’età che suole essere più fruttuosa e serena, inerte cadavere dinanzi a noi, è pietà inenarrabile.
Lo stesso fervore di una prima rappresentazione noi troviamo in lui alla cinquantesima replica : rade volte, al momento di andare in scena, egli non rilegge all’ uscio d’ entrata o non ripete a memoria la sua parte per addentrarsi nel personaggio.
Infatti noi vediamo il marzo 1581 la Vittoria, prima donna di Pedrolino, supplicare con le più dimesse parole il Duca Alfonso di Ferrara, di ridonar a entrambi la sua protezione, che sembrò loro tolta, quando Pedrolino, trovandosi al soldo di certo Ettore Tron, non potè recarsi a Ferrara a recitarvi il carnevale secondo le richieste del Duca.
Tal verità che alla lettura a noi si occulta, sparirà forse nell’esecuzione. […] Andrea Belmuro autore de’ due intermezzi recitati in Venezia nel 1731, la Contadina, ed il Cavalier Bertone, posti in musica il primo dal famoso Sassone, e l’altro dall’ugualmente chiaro maestro Francesco Mancini, fece pur fra noi commedie musicali. […] Che diremo noi di sì raro e felice ingegno che corrisponda alla sua grandezza? […] Or che diranno I posteri di noi? […] O Nitteti, ricca figliuola di nobil padre e sforzo felice dell’ arte che sa arricchirsi nell’immenso campo della natura di sì varie e vaghe e preziose pompe, ad onta de’ valorosi ingegni che fra noi pur fioriscono, non avrai tu una compagna nel regno dell’armonia?
O non morrà, o noi morremo insieme. […] Se questo ne fosse un requisito essenziale, ne seguirebbe, che per noi moderni non sieno tragedie quelle che ci rimangono del teatro greco, non potendosi avere in conto di nazionali nè da noi, nè dagli Spagnuoli, nè da’ Francesi, nè dalle altre nazioni settentrionali. […] Non saranno per noi tragedie Zaira, Tancredi ecc., Carlo d’Inghilterra, Carlo figlio di Filippo II di Spagna ecc. […] Brevemente e come da noi si suole senza timore e senza dipendenza coll’usata nostra debolezza ne farem parola. […] Ma siamo noi nel medesimo caso della tragedia de’ Greci ?
Se mai c’incontrerem, c’incontreremo In più felici climi e in miglior spiaggia U’ Cesar non fia mai a noi vicino. […] L’Abate Arnaud che ne recò un estratto nel tomo VII della Gazzetta letteraria dell’Europa, «noi, dice, non abbiamo potuto leggerlo senza esserne commossi, non già per quella tenera generosa pietà cara ai cuori più sensibili, ma per certo tristo sentimento doloroso, onde l’anima rimane abbattuta, lacerata, istupidita». […] Dobbiamo a noi stessi… Agn. […] Oh Agnese Agnese, (le dice) se vi è inferno, egli è giusto che noi vi siamo tormentati. […] Il sole continuerà a risplendere, e tutto compierà il suo corso, intanto che noi orrore e peso della terra saremo ridotti in polvere.
Pari verità e sobrietà di stile e giudizio si scorge nell’imitazione del Ciclope di cui mi sembra singolarmente notabile il Coro dell’atto I da noi tradotto e recato nel t. […] Degna di osservarsi è la di lui maniera di tradurre con sobria libertà nel famoso lamento di Elettra che ha in mano l’urna delle pretese ceneri di Oreste, che noi pur traducemmo colla possibile esattezza nel t.
Crebbero poi fra noi con tutta prestezza gli studi scenici, e vi si coltivarono giusta la forma regolare degli antichi da quelli stessi gran letterati, a’ quali dee l’Europa il rinascimento del gusto della lingua latina e dell’erudizione, al dotto Muffato, dico, e al non mai pienamente lodato Petrarca.
Ma in nessun’altra forma portò ella mai la naturalezza e la verità ad un più alto segno, nè mai fu più lepida e sagace che nel carattere di quella donna che i Francesi esprimono interamente col termine prude e che noi indichiamo a metà con gli aggettivi schifiltosa, schizzinosa, smancerosa, leziosa, smorfiosa, ecc.
Vedreste ancora che, quantunque varie Commedie si componessero felicemente fra noi imitando le Latine che pur son Greche, vi si ritrassero però al vivo gl’Italiani moderni; di che saranno sempre testimonio la Clizia del Machiavelli, i Fantasmi del Bentivoglio, e moltissime altre, nelle quali si palpano gl’Italiani del tempo degli Autori. […] Prima degli Oresti, degli Edipi, delle Medee, delle Alcestidi, delle Ifigenie, noi avemmo l’Ezzelino, l’Antonio della Scala, il Piccinino, il Ferdinando, la Sofonisba, la Rosmunda, la Tullia, l’Orbecche, l’Altile, il Tancredi &c. E lungi dal copiare servilmente le antiche invenzioni Comiche noi cominciammo dalle Filologie, da’ Paoli, dalle Catinie, dalle Polissene, da’ Filodossi, da’ Timoni, dalle Amicizie, argomenti così lontani dagli Antichi, e caratteri da colorirsi così diversamente. […] Saverio, avvenne così appunto; ma Voi che altro non volete vedere fra noi, se non il Teatro Istrionico, tornate a dire, che gl’Istrioni anzi le sfigurarono.
Qualche Francese ha confusi questi due Frinici; e noi ancora nella Storia de’ Teatri del 1777 attribuimmo quest’ultima avventura del Frinico di Melanta all’altro più famoso che fu figliuolo di Poliframmone.