Usciti que’ conquistatori da paesi, ove regnava l’indipendenza, ove í primori riconoscendo un capo della nazione conservavano una gran parte de’ loro diritti, stabilirono fra noi un governo fatto per dividere in vece di unire. […] Per altro non può negarsi quel che osserva il medesimo Tiraboschi, cioè che siffatti Misteri, ed i versi cantati su’ teatri dagl’istrioni e giocolieri a que’ tempi, non meritino rigorosamente nome di vere azioni teatrali. […] Lampillas per mostrare che gl’Italiani erano a que’ tempi ignoranti e barbari nella lingua latina, adduce uno squarcio di una lettera di Adriano I pieno di solecismi stampato dal Mabillon. […] Lampillas che in altro senso che in questo vengano dal vescovo di Orleans esaltati gli Spagnuoli di que’ tempi come dottissimi ed eloquentissimi? […] Malgrado della coltura che già illuminava la Francia, quest’altra festa di que’ rozzi secoli sussisteva nel secolo XVII in qualche provincia.
Ella è molto vivace, ed è inclinata a que' caratteri dimostranti tenerezza ed umiliazione, o abbattimento di forze con rammarico, ed afflittivi, appassionati contrasti. » E più oltre : « Merita questa attrice le più sincere lodi pel suo valor teatrale, e più per i di lei irreprensibili costumi, spiegando a sua gloria il candido vessillo d’una incorrotta onestà. » La brutta commedia del Cerlone, Le avventure di Donna Irene, sollevava, rappresentata da lei, all’entusiasmo.
Notabile è l’arte adoperatavi dall’industre autore, imperciocchè le perturbazioni tragiche, le piacevolezze comiche, le favole anili, le metamorfosi a vista, un fondo di eloquenza poetica e di riflessioni filosofiche concorsero a formar que’ mostri lusinghevoli che seducevano il popolo Veneziano, ed ebbero un imitatore nel sig. […] Ne’ quattro tomi da me veduti del suo Teatro ha publicate quattro commedie in prosa, l’Impressario di due atti dipintura molto comica e naturale in ciascun personaggio introdotto: i Pregiudizj dell’amor proprio in tre atti, i cui caratteri sono più studiati di quelli che presenta la natura: la Scommessa, ossia la Giardiniera di spirito parimente in tre atti, la quale supplisce colla scaltrezza all’effetto che fanno Pamela e Nanina coll’ amore, e con poco fa perdere la scommessa alla Baronessa tirando il Contino di lui nipote a sposarla: i Pazzarelli ossia il Cervello per amore in due atti con ipotesi alquanto sforzate e con disviluppo non troppo naturale, che però è una piacevole dipintura di que’ vaneggiamenti che se non conducono gli uomini a’ mattarelli, ve gli appressano almeno. […] Nelle serate specialmente di grande illuminazione que’ cristalli, que’ festoni, quell’oro, que’ torchi senza numero, i lumi copiosi de’ palchetti riverberati e in mille guise moltiplicati dalle scintillanti gemme di tanta nobiltà, cangiano la notte nel più bel giorno, e l’uditorio in una dimora incantata di Circe o di Calipso superiore allo spettacolo del palco scenario. […] Ma il fatto diametralmente si oppone alla sua osservazione architettonica, in niun teatro che io sappia vedendosi que’ due oggetti meglio ottenuti che in questo del Vaccaro.
Chi finalmente é fornito d’una mente più vivace e robusta, e fa uso infame di sua penetrazione, concepisce di mezzo a’ que’ velami, onde il poeta filosofo ha involto le più sublimi verità, che averebbero minore attrattiva, se presentate venissero così nude, concepisce, io dico, sentimenti di onore e di virtù, ed una abituale disposizione a riguardare il vizio con orrore e disprezzo. […] Pietro arricchir voglia in brieve il nostro paese di graziose ben condotte commedie, alle quali so di essersi per pura inclinazione determinato, ed ammirar ci faccia egregiamente, eseguiti que’ principi, e con nobile gara imitati que’ colpi di mano maestra, ch’egli con tanto sonno e avvedutezza va discoprendo ne’ drammi altrui, e tratto tratto additando.
E già parvero cose pur troppo secche quelle strade, que’ viali, quelle gallerie che corrono sempre al punto di mezzo, dove insieme con la veduta se ne va anche a finire la immaginativa dello spettatore. […] Ed anche chi non fosse di gran fantasia fornito farebbe gran senno a ricopiare così a puntino que’ loro paesaggi, imitando quel valentuomo il quale, piuttosto che far del suo delle cattive prediche, imparava a memoria e recitava quelle del Segneri. […] Ben può ognuno ricordarsi di que’ teatrini che vanno attorno sotto il nome di vedute ottiche matematiche; e sogliono rappresentar porti di mare, combattimenti tra armate navali e simili altre cose.
Di più, essendo a que’ tempi ricevuta dalle leggi l’appellazione per via di duello, le dame, che non potevano venir a personale tenzone, combattevano per mezzo dei lor cavalieri, ai quali veniva troncata la mano in caso di perdita. […] Lasciando alle stolide menti del volgo il mondo vero e reale qual era uscito dalle mani del Creatore, comparve nei libri di que’ metafisici non diversi in ciò dai poeti un altro universo fantastico pieno di emanazioni, e d’influssi celesti, di nature intermedie, d’idoli, di demoni, di geni, di silfi e di gnomi, vocaboli inventati da loro per sostituirli nella spiegazione delle cose naturali alle qualità occulte de’ peripatetici, da cui volevano ad ogni modo scostarsi. […] E siccome per le cagioni esposte fin qui le favole e il maraviglioso erano, per così dire, l’anima di cosiffatti spettacoli a que’ tempi, perciò la musica ad essi congiunte fu creduta da tai cose esser inseparabile. […] Per quanto adunque s’affaticassero que’ valent’uomini della non mai abbastanza lodata camerata di Firenze, non valsero a sradicare in ogni sua parte i difetti della musica, che troppo alte aveano gettate le radici, né poterono dar alla unione di essa colla poesia quell’aria di verosimiglianza e di naturalezza che avea presso a’ Greci acquistata, dove la relazione più intima fra queste due arti dopo lungo uso di molti secoli rendeva più familiare, e per ciò più naturale il costume d’udir cantar sul teatro gli eroi e l’eroine. […] [NdA] Per far vedere il diverso progresso della morale pubblica in que’ tempi, e ne’ nostri basta, non che altro, gettar uno sguardo sui romanzi morali dei nostri tempi.
Ma quei cori non erano tuttavia ciò che poscia si disse poesia drammatica, e quando questa cominciò a pullulare da que’ semi, l’attore fece uso della feccia, delle capigliature ed indi delle scorze, delle foglie e di simili cose, per imitare il personaggio rappresentato, e non già quell’antica buffoneria villesca. […] Nè poi questa maschera di tutto il capo rimase inutile allorchè si costruirono i teatri chiusi, come quelli di Corinto e di Atene fatti a spese di Erode Attico, e gli altri de’ Romani; poichè in quel tempo ancora l’uditorio rimaneva allo scoperto, e que’ teatri erano così vasti e magnifici che potevano agiatamente contenere quale venti, quale trenta e quale quarantamila persone; per non parlare di quello di M.
Ma quei cori non erano tuttavia ciò che poscia si disse poesia drammatica; e quando questa cominciò a pullulare da que’ semi, l’attore fece uso della feccia, delle capigliature e indi delle scorze, delle foglie e di simili cose, per imitare il personaggio rappresentato, e non già quell’antica buffoneria villesca. […] Nè poi questa maschera di tutto il capo rimase inutile allorchè si costruirono i teatri chiusi, come quelli di Corinto e di Atene fatti a spese di Erode Attico, e gli altri de’ Romani; perchè in quel tempo ancora l’uditorio rimaneva allo scoperto, e que’ teatri erano così vasti e magnifici che potevano agiatamente contenere qual venti, qual trenta e quale quarantamila persone, per non parlare di quello di M.
[2] Quegli schiavi insensati del pregiudizi, que’ corpi senz’anima, quelle creature indifinibili, che si chiamano gente di mondo, le massime delle quali consistono nel distrugger i sentimenti della natura per inalzar sulle loro rovine l’idolo dell’opinione, nel ridurre ogni affezione del cuore alla sola voluttà, ogni morale al personale interesse, nel far che un’apparente politezza tenga luogo di tutte le virtù, e nel colorir con brillanti sofismi l’orrore del vizio non altrimenti che soglionsi coprire con vistosa vernice i putridi legni dalla vecchiezza o dal tarlo corrosi; fanno del teatro quell’uso appunto, che sogliono fare delle altre cose. […] Se ragionasi di teatro, anteporranno l’Ulisse di Lazzarini all’Olimpiade del Metastasio, e tel proveranno con un testo della poetica d’Aristotile comentata dall’Einsio, riguarderanno con disprezzo il Tartuffo e il Misantropo, que’ due capi d’opera sovrani nel genere comico, e vorranno piuttosto seguir l’esempio di Giulio Cesare Scaligero, il quale in una sua commedia intitolata la Valigia introdusse a dialogizzar insieme un coro d’agli e di cipolle per imitar Aristofane, che aveva parimenti fatto parlare sul teatro d’Atene le rane, le vespe, e le nugole. […] Se fosse quistione di scrivere per lo teatro, e non del teatro, l’uomo di gusto esser dovrebbe l’unico giudice, che se ne scegliesse, siccome quello, che avendo meglio d’ogni altro studiate le regole di piacere ad un pubblico illuminato, meglio d’ogni altro saprebbe additare que’ mezzi, che a così fatto fine conducono. […] Senza incolpar i lettori di malivolenza né d’ingiustizia (frase inventata dagli autori infelici per vendicarsi dal giusto disprezzo con cui sono stati ricevuti dal pubblico ) io veggo quante accuse mi si possono fare parte provenienti dalla ragione, parte dal pregiudizio di coloro che il proprio gusto vorrebbero a tutti far passare per legge, e parte ancora da quegli uomini incomodi, i quali veggendo le altrui fatiche esser un tacito rimprovero della loro dappocaggine, si sforzano di consolar il loro amor proprio dispregiandole essi stessi, e cercando che vengano dispregiate dagli altri: somiglianti appunto a que’ satiri che ci descrive Claudiano, i quali esclusi per la loro petulanza e schifezza dal soggiorno delle grazie, si fermavano dietro alle siepi sogghignando maliziosamente a quei felici mortali che venivano per man d’Amore introdotti ne’ dilettosi giardini.
[3] Si tratta di esprimere quella mescolanza di rimprovero e di preghiera, que’ sospetti mitigati dalla speranza, quella eloquenza timida insieme ed ardita che ispira l’amore a coloro, che antiveggendo da lontano l’incostanza dell’oggetto che adorano, cercano pure di richiamarlo con dolenti bensì ma dolcissime querele a’ primitivi trasporti? […] Leggansi nell’atto quinto dell’Attide que’ versi, dov’egli rimprovera a se stesso di essere stato l’omicida di Sangaride: «Quoi! […] Restò bensì sbandita, siccome era da prima, l’unità della scena; unità la quale allorché divien rigorosa ritarda i progressi dell’arte invece di accelerarli93; ma la licenza che indi ne risultava fu limitata dal buon senso prescrivendo al luogo le stesse leggi che al tempo, e misurando la successione per la permanenza: vale a dire, che siccome alla durata dell’azione si permettono ventiquattr’ ore, così permettonsi al luogo que’ cangiamenti che possono naturalmente avvenire camminando una giornata intiera. […] Siffatta usanza era incompatibile colle mutazioni della scena, e vi voleva appunto tutta la corruzione del gusto di que’ tempi per non riflettere che o cangiandosi la scena, rimaneva lo stesso coro stabile, e allora diveniva un assurdo, o si cangiava anche il coro insiem colla scena, e allora bisognava stiracchiar l’orditura del dramma acciò che vi fosse infine d’ogni atto una situazione la quale rendesse necessaria, o almen verosimile, l’esistenza del coro.
Andres, nel dire che nelle tragedie del Mussato vide Padova i primi saggi di tragedia, voleva pienamente far trionfare la verità e la buona fede, dovea alla parola Padova sostituire quest’altra, l’Europa; giacchè a’ que’ di in niun altro paese Europeo videsi una tragedia simile a quelle di Albertin Mussato.
Al contrario gli attori moderni compariscono scoperti quasi tutti, e ce ne applaudiamo a ragione; perchè la più bella parte della rappresentazione, cioè il cambiare il volto a seconda degli affetti, mal potevasi esprimere dagli antichi Roscii, Esopi, Satiri, Neottolemi con que’ duri gran capi di corteccia dipinta, continuo ostacolo all’accompagnar le situazioni co’ successivi cambiamenti di volto.
Al contrario gli attori moderni compariscono scoperti quasi tutti, e ce ne applaudiamo a ragione; perchè la più bella parte della rappresentazione, cioè il cambiare il volto a seconda degli affetti, mal potevasi esprimere dagli antichi Roscii, Esopi, Satiri e Neoptolemi con que’ duri gran capi di corteccia dipinta, continuo ostacolo all’accompagnar le situazioni co’ successivi cangiamenti di volto.
L’antichissima festa de’ tabernacoli, in cui gli ebrei divisi in Cori cantavano Inni al Creatore, tenendo in mano folti rami di palma, di cedro o di altro, conteneva alcuna parte di que’ semi che altrove diedero l’origine alla poesia drammatica; ma pur non si vede che tra gli ebrei la producessero. […] Ognun vede qual sorta di dramma poteva a que’ tempi aspettarsi.
Che bel vedere in Casa uniti que' due celebri Personaggi I L'Impresario al tavolino in veste da camera, in berretta bianca, cogli occhiali sul naso, a rovinar Commedie, pareva un moribondo che scrivesse il suo testamento ; e brighella, coll’ago in mano, il suo sartore che gli facesse l’abito da morto.
Questi Trobadori erano quasi tutti Principi, Cavalieri, Militari con alcuni Vescovi, Canonici, Claustrali, e altre persone le più distinte ed amabili dell’uno e dell’altro sesso, che aveano spirito, senso e talento per la gaja scienza, cioè per la scienza d’ amore e di poesia a que’ tempi usata. […] E sotto questo nome generico di ciarlatani si comprendevano a que’ tempi non solo gli scenici, cioè i mimi, buffoni ed istrioni ma eziandio i giullari e i ministrieri. […] Non meritano lo studio dell’altre nazioni i drammatici Italiani del XVI secolo, se non per altro, per la cultura, proprietà, purgatezza della loro lingua che a que’ tempi rifioriva?
Nel 1587 pare che Messer Battista si fosse fatto capocomico, come può rilevarsi da quest’altra lettera, tolta pure dal D’Ancona (II, 492), dalla quale anche si apprende come egli fosse già da tempo in que’ rapporti relativamente intimi che solean correre fra S.
Aggiugnerò soltanto che fra i moltissimi componimenti che mi è convenuto leggere per formarmi una giusta idea del gusto di que’ tempi, a fatica ho trovato alcuni pochi che non partecipano quanto gli altri della universal corruzione. Questi sono que’ d’Andrea Salvadori, il quale meglio d’ogni altro seppe dopo il Rinuccini far versi accomodati alla musica, alcuni del Conte Prospero Bonarelli, dell’Adimari, del Moniglia, il Trionfo d’Amore di Girolamo Preti, e pochi altri. […] Gli è vero che visse a que’ tempi Giambattista Doni, scrittore grandissimo, il quale solo varrebbe per tutti, ma la più bella tra le opere sue, e la più acconcia a spargere il buon gusto, cioè il Trattato della musica scenica, rimase fra le tenebre inedita fino a’ nostri giorni. […] La relazione sconosciuta, ma da tutti gli anatomici avverata, che passa tra gli organi della generazione, e que’ della voce, impedisce in colpco, cui vien proibito lo sviluppo ulteriore del sesso che s’ingrossino i ligamenri della gola per la minor copia di umori che vi concorre, gli rende più atti a vibrarsi, e conseguentemente a eseguire le menome graduazioni del canto, assottiglia l’orifizio della glottide, e la dispone a formar i tuoni acuti meglio degli altri. […] A eccezione di que’ pochi mentovati di sopra gli altri cantori si erano di già lasciati infettare da quel vizio che ha pressoché in ogni tempo sfigurata la musica italiana, cioè gli inutili e puerili raffinamenti.
Invece di trasportare l’arte di que’ primi Maestri a’ moderni costumi e genj delle Nazioni, esse si videro trasportate a’ tempi de’ Greci, e de’ Romani: e in vece di vedersi sul Teatro i ritratti de’ moderni Italiani, si videro quelli delle nazioni antiche”. […] Voi troverete argomenti, piani, caratteri, colpi teatrali, situazioni, satire, ridicolo, tutto nuovo, tutto tolto dagli originali di que’ tempi, e non già una rancida copia de’ vizj e de’ difetti delle Antiche Nazioni, come voi francamente asserite giurando forse sulle parole di qualche Dedicatoria, senza aver letto neppure una delle Favole Comiche Italiane. […] Saverio, quelle Commedie andarono in disuso, perchè n’era manifesta la irregolarità, e perchè que’ caratteri di Duellisti, e Matasiete, che in Ispagna un secolo primo non parvero alieni dalla verisimiglianza, parvero ben tali in Italia dopo un secolo, e il popolo più non se ne dilettava. […] Ma ciò lasciando, avete Voi riflettuto bene a quelle vostre parole, a que’ tempi gl’Italiani avvezzi alle arlecchinate non potevano aver gusto delicato? […] Le arlecchinate rimasero, come le vostre Commedie Magiche, per pascolo de’ volgari, e delle donne, e di que’ forestieri, che nudi delle giuste notizie letterarie viaggiano, o dimorano in Italia.
Senza dubbio i drammi Cinesi, Spagnuoli e Inglesi contengono un’ arte men delicata, ma pel gusto di que’ popoli hanno un merito locale; i drammi poi de’ Greci e de’ Latini e de’ moderni Italiani e Francesi, come hanno acquistato dritto di cittadinanza nella maggior parte delle nazioni culte, non temono gl’ insulti degli anni, e posseggone una bellezza che si avvicina all’assoluta.
In que’ tempi, che bastava assai poco a far ridere, colui ebbe fortuna.
Nel Tunkin si rappresentano ne’ templi azioni teatrali, che formano una parte del culto di que’ popoli verso i loro idolia. […] Non solo ha fatto parte del dramma cinese, ma essendo negli ultimi tempi caduta in disistimab (siasi ciò avvenuto per l’introduzione della musica europea fatta in que’ paesi dal l’imperadore Kamhi per mezzo del portoghese Pereira e del p.
Sadi autore del Gulistan, o dell’imperio delle rose, é in que’ paesi il principe de’ poeti turchi e persiani, come ne’ nostri Virgilio, il Tasso, e l’Ariosto degl’italiani.
Vitruvio ci fa sapere che in essi soltanto desideravansi que’ vasi di rame che rendevano la voce più sonora, e che questi non istimaronsi necessarii, perchè i tavolati a un di presse so facevano l’effetto medesimo de’ vasi.
Vitruvio ci fa sapere che in essi soltanto desideravansi que’ vasi di rame che rendevano la voce più sonora, e che questi non istimaronsi necessarii, perchè i tavolati a un di presso facevano l’effetto medesimo de’ vasi.
Male ad uno statista, ad un avaro, ad un politico, a que’ caratteri insomma, che capaci solo di passioni sordide, o cupe, e per interesse, o per le circostanze divenuti guardinghi, non sciolgono giammai l’animo ad un ingenuo, e facile trasporto. […] Tutte le quali cose producono l’illusione, non solo come supplemento della musica, e della poesia, ma come un rinforzo eziandio dell’una e dell’altra, poiché assai chiaro egli è, che né l’azione più ben descritta dal poeta, né la composizione più bella del musico sortiranno perfettamente il loro effetto, se il luogo della scena non è preparato qual si conviene a’ personaggi che agiscono, e se il decoratore non mette tal corrispondenza fra gli occhi, e gli orecchi, che gli spettatori credano di essersi successivamente portati, e di veder in fatti que’ luogi ove sentono la melodia. […] Ma il voler bandire dal dramma musicale la verità per sostituirvi il piano adottato da Quinaut, avvilir l’opera italiana per innalzar la francese, è lo stesso, che voler imitare il costume di que’ popoli della Guinea, che dipingono neri gli Angioli, perché stimano, che il sommo grado della bruttezza consista nel color bianco. […] L’Imperatore Carlo VI cui l’Italia è debitrice in gran parte della sua gloria drammatica, era uno di que’ Signori a’ quali non aggradavano gli spettacoli sanguinari, non volendo che il popolo tornasse a casa scontento dal teatro10. […] Supponghiamo che Carlo VI avesse avuto genio contrario, que’ poeti per secondarlo avrebbero fatto andare tutti i loro componimenti a tristo fine, e dall’esempio loro si sarebbe cavata una regola inviolabile pei suoi successori.
Non possiamo su tal racconto assicurarci di essersi da que’ popoli conosciuta la poesia rappresentativa.
Si corruppe finalmente la Greca lingua, e se più tardi in que’ paesi si scrisse alcuna favola drammatica, fu dettata nel Greco moderno.
Di buona fede siamo noi sicuri che a’ di di Aristofane sarebbero state accolte con pari effetto da que’ repubblicani baldanzosi e pieni sotanto della loro potenza e libertà finanche le greche favole, la Perintia, l’Andria, non che le straniere posteriori, l’Euclione, l’Eunuco, gli Adelfi, il Misantropo?
Di lui scrisse Francesco Bartoli : È stato il Medebach un esperto conduttore della sua Truppa, un eccellente recitante in que' suoi particolari caratteri ; ed ha saputo acquistarsi il concetto d’uomo di probità.
Non per tanto si dee riflettere che Euripide era un gran maestro, nè avrà egli presentato a’ suoi compatriotti una cosa che potesse contradire ai loro costumi e alle passioni dominanti di que’ tempi. […] Scopron que’ detti Le tempeste del cuore, Della mente i delirj. […] Ma Carcino non ebbe credito tale da distruggere una tradizione istorica sostituendovi una sua invenzione; e perciò non sembra inverisimile che i Corintii avessero ricorso ad Euripide poeta esimio il quale, sia per dare, a cagione del l’idio naturale che avea contro del sesso donnesco, un carattere odiosissimo a una donna, sia per essersi fatto corrompere con cinque talenti, come asserisce il nominato Parmenisco, compose la sua tragedia facendo rea la madre stessa del l’uccisione di que’ fanciulli, e la menzogna per l’eccellenza del poeta passò alla posterità come storia. Certo è che Elianoa afferma esser fama anche ai suoi tempi (fiorendo egli dopo Adriano) che i Corintii solevano offerire quasi in perpetuo tributo alle ombre di que’ pargoletti certi sacrfizii espiatorii. […] Dando a que’ sommi Greci l’onor dovuto, credo che voglia intendersi che la tragedia greca fondata sul sistema della fatalità appoggiata alla religione, fu da que’ tragici maravigliosi condotta al l’apice della perfezione; giudizio che senza degradare gli antichi conserva a’ moderni il dritto di aspirare a pareggiarli ed a gire più oltre ancora.
Pietro il grande che dal suo famoso viaggio tornò ne’ suoi vasti dominii, come dicesi che Osiri entrasse nell’Indie, accompagnato da tutto il cortegio delle muse, chiamar si può il vero fondatore e legislatore della nazione Russa, avendo cambiata la stessa natura de’ suoi stati ed i costumi di que’ popoli, ed introdotto fra loro lo spirito d’industria ed arti e scienze e collegii ed accademie e librerie e stamperie.
Con quale spontaneità si movevan que' personaggi !
E il 14 novembre : Eccellente Amalia, La tua lettera gelò il sangue a que’ tali che ideavano averti per prima attrice in una Compagnia che per primo scopo doveva riformare il teatro italiano in quanto alla buona recitazione. […] Io pure se Dio mi darà forza e salute ho ferma intenzione di ritirarmi dalle scene dopo altri cinque anni, ma prima di far ciò desidero ardentemente (per quanto il mio scarso ingegno lo permetterà) cooperare con que’ pochi ottimi artisti drammatici che abbiamo in Italia (dai quali cerco imparare e le massime e l’arte) onde formare un buon gusto generale in tutta Italia che va purtroppo scadendo colpa la noncuranza in che si tengono le cose vere e naturali, le finitezze, le sfumature dell’arte come noi le chiamiamo, per applaudire soltanto alle esagerazioni, contrarie il più delle volte al buon senso. […] Descrivere a parte gli altri pregi di questa sua rappresentazione, seguirla in que’ suoi atteggiamenti varj, in quei rapidi trapassi che l’eccesso di una passione immensa, combattuta, rendeva in lei profondi, subitamente veraci, è cosa che non si può significare in brevi parole.
Or perchè non dobbiamo impropriamente stendere il nome di opera fino a que’ drammi ne’ quali soltanto i cori e qualche altro squarcio si cantavano, e molto meno a quelle poesie cantate che non erano drammatiche, ma unicamente attribuire il titolo di opera a que’ componimenti scenici, ne’ quali sarebbe un delitto contro al genere, che la musica si fermasse talvolta dando luogo al nudo recitare: egli è manifesto che l’opera s’inventò nella fine del secolo XVI, e che si dee riconoscere come inventore dell’opera buffa l’autore dell’Anfiparnaso, come primo poeta dell’opera seria o eroica il Rinuccini, e Giacomo Peri come primo maestro di musica, che, secondochè ben disse sin dal 1762 l’Algarotti, con giusta ragione è da dirsi l’inventore del Recitativo.
Ora che diverrà di una Greca di ventidue secoli indietro, se nelle nostre contrade tanto cangiate da que’ tempi remoti prendasi a leggere senza gli accennati requisiti? […] Le commedie sono la storia de’ costumi e delle maniere; e se Aristofane non ha commesso un errore nel costume, in questa scena si scopre la grossolana libertà e schifezza di que’ popoli. […] Veggono un morto condotto a seppellirsi, e gli domandano, se voglia portar que’ vasi; il morto dice che gli porterà per due dramme. […] Vi si troya un colpo che caratterizza l’indole di que’ repubblicani amici di essere, piaggiati, e facili a prendersi colle lodi esagerate. […] Vuolsi a ciò aggiugnere: e della politica conveniente alla repubblica Ateniese, e di ciò che poteva in que’ tempi e su quelle scene dilettare.
Più comune dovea essere siffatto costume a que’ tempi, ove i gran signori ignoranti per educazione e orgogliosi per sistema non conoscevano altro merito al mondo se non quello della nobiltà, né altro mestiere fuorché la guerra. […] Nel mentovato codice, vien riferito, anzi proposto per esempio il primo versetto d’una canzone provenzale posta sotto le note secondo la musica di que’ tempi. […] Le storie di que’ tempi sono piene delle singolari azioni di questi uomini, del favore che ottenevano presso ai signori italiani, e de’ grandi e sontuosi regali, onde veniva rimunerata l’abilità loro. […] Se la mia asserzione sembrasse alquanto dura agli orecchi di que’ pregiudicati italiani che stimano se soli esser stati in ogni tempo gli arbitri del gusto nelle materie musicali, non hanno a far altro che consultar la testimonianza irrefragabile della Storia. […] Apparisce nel trattato di Francone, di Marchetto padovano, di Prosdocimo Bendemaldo, di Mascardio, o negli altri autori di que’ tempi citati da me?
Ma quanto alla prima idea delle bellezze teatrali , la storia contraddice all’asserzione del Linguet che brucia que’ grani d’incenso ad onore degli Spagnuoli. […] Ora niuno di tali eccessi avrebbe potuto il Rapin riprendere nel Torrismondo, e si rivolse a riprovare i costumi stessi di que’ tempi come incompatibili col carattere tragico. […] Bongianni Grattarolo di Salò sul lago di Garda coltivò ancora a que’ dì la poesia tragica talvolta con felicità. […] Meritano di mentovarsi tra que’ tragici del secolo di cui parliamo, i quali si astennero dal trascrivere gli argomenti del greco coturno, Francesco Mondella, e Valerio Fuligni di Vicenza. […] Non meritano lo studio delle altre nazioni i drammatici Italiani del XVI secolo, se non per altro, per la cultura, proprietà, purgatezza della loro lingua che a que’ tempi rifioriva?
Contiene una satira comica contro que’ fisiologi, medici, giuristi e teologi che scrivono barbaramente in latino, e riducono Prisciano all’agonia.
Quanto all’Italia, lasciando a parte que’ melici allori colti dal Zeno ed a piena mano dal figlio dell’armonia e delle grazie Metastasio emulo illustre de’ Rasini e de’ Cornelj, essa ha ben dati nella tragedia e nella commedia e lieti frutti e speranze più liete ancora.
Or perchè non dobbiamo impropriamente stendere il nome di opera sino a que’ drammi, ne’ quali soltanto i cori e qualche altro squarcio si cantavano, e molto meno a quelle poesie cantate che non erano drammatiche, ma unicamente attribuire il titolo di Opera que’ componimenti scenici, ne’ quali sarebbe un delitto contro il genere se la musica si fermasse talvolta dando luogo al nudo recitare: egli è manifesto che l’opera s’inventò nella fine del secolo XVI, e che si dee riconoscere come inventore dell’opera buffa l’autore dell’Anfiparnaso, e come primo poeta dell’opera seria o eroica il Rinuccini, e Giacomo Peri come primo maestro di musica che, secondochè ben disse sin dal 1762 l’Algarotti, con giusta ragione è da dirsi l’inventore del Recitativo .
Egli è vero che Cornelio trasportando il fatto a Siviglia commise un anacronismo, trovandosi Siviglia al tempo del Cid in potere de’ Mori e non de’ Cristiani (che è il grande errore che esultando insolentemente al solito vi notò il fu Garcia de la Huerta); vero è parimente che Scudery e l’Accademia Francese la censurarono per varj difetti con fondamento, anche per aderire al cardinal de Richelieu che volea deprimerla non avendo potuto farla passar per sua; ma il Cid è uno di que’ felici frutti del genio che s’invidiano e si criticano più facilmente che non s’imitano. […] Si vorrebbe ancora ravvisare in que’ primi Romani che dipinge rassomiglianza minore co’ moderni cortigiani Francesi. […] Qual ampio campo aprì Cornelio al moderno coturno col grande oggetto politico dell’abdicazione dell’imperio nella scena in cui Augusto chiede su di ciò il parere di que’ medesimi cortigiani che stanno congiurando contro di lui!
Fioriva la prima in molte arti di lusso, non che di necessità; ma non ebbe della drammatica se non que’ semi, i quali sogliono produrla da per tutto, cioé travestimenti, ballo, musica, e versi accompagnati da’ gesti.
Contiene una satira comica contro que’ fisiologi, medici, giuristi e teologi che scrivono barbaramente in latino, e riducono Prisciano all’agonia.
Or che diverrà di una Greca di ventidue secoli indietro, se nelle nostre contrade tanto cangiate da que’ tempi remoti prendasi a leggere senza gli accennati requisiti? […] Le commedie sono la storia de’ costumi e delle maniere; e se Aristofane non ha commesso un errore nel costume, in questa scena si scopre la grossolana libertà e schifezza di que’ popoli. […] Veggono un morto condotto a seppellirsi, e gli domandano, se voglia portar que’ vasi; il morto dice che gli porterà per due dramme. […] Vi si trova un colpo che caratterizza l’indole di que’ repubblicani amici di esser piaggiati, e facili a prendersi colle lodi esagerate. […] Aggiungasi a ciò e della politica conveniente alla repubblica Ateniese, e di ciò che poteva in que’ tempi e su quelle scene dilettare.
La poetessa Saffo veniva riguardata da que’ di Mitilene come una delle loro più celebri legislatrici non altrimenti che que’ della Beozia ammiravano Pindaro come uno de’ primi loro sapienti. […] Il lettore non ha bisogno d’essere avvertito che parlandosi di que’ secoli quanto si dice della poesia intendersi dee anche della musica, imperocché l’una era inseparabile dall’altra. […] [14] Ennio, il quale era più vicino a que’ secoli remoti, gli dà il titolo di “santi” secondo la testimonianza di Cicerone nell’Aringa in difesa d’Archia, «quare suo jure noster ille Ennius sanctos appellat poetas». […] «Sempre fra gli uomini fu grandissimo il numero di coloro a cui piacque più la loro età che l’antica, non tanto perché reputiamo un atto lodevole pensar bene de’ nostri contemporanei, quanto perché traendo origine ogni nostra affezione dall’amor proprio lodiamo con compiacenza que’ tempi, dei quali crediamo esser noi stati un non mediocre ornamento. […] Ma fin tanto che il dotto scrittore non s’accigne a così magnanima impresa, noi continueremo a far uso dell’edizioni che abbiamo, e a prestar fede a que’ dotti commentatori, l’osservazioni de’ quali non ci fanno punto vedere ne’ drammi greci quelle rassomiglianze coi nostri ch’egli pretende che vi siano.
Ma que’ versi profferiti o cantati altro alla fin fine non sono se non suono vano di parole incatenate e misurate, che sin dall’infanzia delle società si coltivarono anche da’ materiali Lapponi, da’ Negri, Indiani, Messicani, Irochesi, Caraibi ed Uroni. […] Chi avrebbe mai a que’ tempi potuto immaginare che l’uomo non contento delle omeriche ricchezze inventerebbe in seguito qualche genere poetico più utile e più dilettevole alle società?
Essi che aveano assicurato al lor paese il vanto di farla risorgere, compresero prima d’ogni altro che per riuscirvi bisognava ridurre le incondite farse sacre o profane di que’ tempi alla forma servata dagli antichi, e l’eseguirono. […] E per rappresentarsene al vivo i pregi inimitabili occuparonsi in prima gl’ Italiani con somma cura a calcar le stesse orme de’ Greci traducendone ed imitandone le favole; indi, assuefatti all’antico magistero, ad immaginarne altre nuove su que’ modelli. […] Ma quanto alla prima idea delle bellezze teatrali, la storia contraddice all’asserzione del Linguet che brucia que’ grani d’incenso ad onore degli Spagnuoli. […] Ora niuno di tali eccessi avrebbe potuto il Rapin riprendere nel Torrismondo, e si rivolse a riprovare i costumi stessi di que’ tempi come incompatibili col carattere tragico. […] Bongianni Grattarolo di Salò sul lago di Garda coltivò ancora a que’ dì la poesia tragica talvolta con felicità.
Quello però che è più notabile, e di maggiore importanza, per mio avviso, è il caso di un veloce incendio, nel quale non so come la calca intanata in que’ meschini Corridoj interiori, e in quelle angustie de’ varj spartimenti, potrebbe liberarsi prontamente dal rimanere divorata dalle fiamme, o soffogata dal fumo.
Quanto poi al Rosa (aggiugne il citato Baldinucci che ciò racconta) non è chi possa mai dir tanto che basti, dico della parte ch’ei fece di Pascariello e Francesco Maria Agli negoziante Bolognese in età di sessanta anni portava a maraviglia quella del Dottor Graziano, e durò più anni a venire a posta da Bologna a Firenze lasciando i negozii per tre mesi, solamente per fine di trovarsi a recitare con Salvadore, e faceva con esso scene tali, che le rise che alzavansi fra gli ascoltatori senza intermissione o riposo, e per lungo spazio, imponevano silenzio talora all’uno talora all’altro ed io che in que’ tempi mi trovai col Rosa, ed ascoltai alcuna di quelle commedie, sò che verissima cosa fu che non mancò alcuno che per soverchio di violenza delle medesime risa fu a pericolo di crepare.
Il teatro che vuol considerarsi come uno de’ pubblici educatori, per rimediare a que’ mali sovente eccede, trascorre e degenera in malignità, e talvolta avviene che si corrompa coll’ esempio del resto della società.
Fu per opera del Bellotti che cominciarono a scendere in Italia que’ tipi matti e sconclusionati, aventi a guida certi Esiliati in Siberia, tra’quali il pubblico avrebbe voluto vederne l’autore.
L’ utile curiosità congiunta al bisogno che si ha di esempj, onde s’ infiamma e si alimenta il genio, ne renderà sempre accetta la narrazione con gusto e con senno particolareggiata, la quale per gradi e con sicurezza ammaestra; e la preferirà a que’ rapidi abbozzi poetici ove scelgonsi arbitrariamente i colori più vaghi, ed a capriccio si compartono l’ombre ed i lumi, per dipignere d’idea e di maniera, purchè si piaccia alla vista, a costo della verità. […] Di grazia siamo sicuri che sarebbero state allora accolte con pari effetto da que’ repubblicani baldanzosi e pieni soltanto della loro potenza e libertà, la Perintia, Euclione, gli Adelfi, e ’l Misantropo? […] L’ antichissima festa de’ Tabernacoli, in cui gli Ebrei divisi in cori cantavano inni al Creatore, tenendo in mano folti rami di palma, di cedro o di altro, conteneva alcuna parte di que’ semi che altrove diedero l’origine alla poesia drammatica; ma pur non si vede che tra gli Ebrei l’avessero prodotta.
Pare che que’ grand’uomini vogliano essere conosciuti nella guisa stessa ch’essi conobbero la bella natura. […] Qui non cade in acconcio l’esporvi, o Signore, i differenti significati che gli autori più antichi e que’ de’ secoli posteriori attaccavano a siffatta parola. […] Questi magistrati temettero senza dubbio riguardo a’ costumi de’ Francesi que’ tristi effetti che Platone presagiva a’ costumi de’ Greci, ove eglino permettessero che il disordine, la confusione, ed anche il solo cangiamento entrasse nella loro musica195. […] I filosofi gridarono forte contro tale abuso che se ne faceva: pure malgrado il loro zelo e l’eloquenza loro i piaceri della ragione furono sagrificati a que’ dell’orecchio, e d’allora in poi essi compiansero la perdita della musica antica.
É verseggiata in ottava-rima; ma é tragedia composta con arte e giudizio, qual si conveniva a que’ tempi luminosi; e non so donde si abbia ricavato il compilator del parnasso spagnuolo la rara scoverta che la tragedia del Carretto fosse stata una spezie di Dialogo allegorico153. […] » In verità bisogna essere un Welche, un ostrogoto, un candidato degli odierni gaulesi, come Monzù De la Harpe, per insultare con sì feroce stolidezza e calunniare con sì stupida insolenza la più ingegnosa e benemerita nazione europea, che pel suo pensar sodo, gentile e perspicace si é sempremai contraddistinta in ogni genere di arti e di scienze, e possiede capi d’opere da non portar invidia a qualsivoglia popolo antico e moderno, e ch’é stata anche dopo la distruzione dell’imperio romano il primo e gran deposito de i lumi della ragione, donde, come da un centro comune, sono partiti que’ raggi di viva luce lanciati dall’ingegno, che han risvegliato gli spiriti degli abitanti del rimanente dell’Europa. […] I) o crederebbesi, per meglio dire, uno di que’ Caffri o Sciscimechi, che sono tanto balocchi e stolidi, e tanto incapaci a pensare combinare, che paiono anzi macchine semoventi, che animali ragionevoli. […] Ma quantunque io non abbia in questa risposta a M. de la Harpe profferito pressoché cosa alcuna su’francesi, che convalidata non sia coll’autorità de i loro grandi uomini, pure e la ragione e la civiltà richiede, ch’io qui dichiari, non esser mai stata intenzion mia di far oltraggio a una nazione così rispettabile come la francese che io amo e venero, ma sì bene a que’ suoi indiscreti e impertinenti critici e pedanti, che senza cognizion di causa «et de gayeté de cœur» vanno insultando in generale all’onor delle nazioni ch’essi non conoscono.
E chi di que’ chiari individui che la componevano potè smentirlo? […] Or siccome in tal festività soltanto mostravansi senza parole συνθηματα, i segni allusivi al mistero, per le strade, per le quali passava la processione, così poi per le medesime strade prevalse il costume di render parlanti que’ segni, e di recitarsi los Autos Sacramentales durante l’ottava del Corpus. […] Queste parole que allà tienes, indicano che que’ traditori dimorano tuttavia in Castiglia, or come possono nel medesimo dì trovarsi nell’atto IV in Lisbona, esser chiusi in carcere e tormentati, e nell’atto V giustiziati? […] Benchè a quel La Huerta io più non possa mostrare il suo torto in que’ tre o quattro punti da lui toccati contro di me con tutta l’inurbanità che a lui era naturale, giacchè oppresso dalle meritate invettive de’ suoi paesani sin dal 1786 ha finiti angosciosamente i suoi giorni: non lascerò di dire, per avvertimento di chi forse gli rassomiglia, che se i nazionali mi avessero prevenuto in tessere una storia del teatro Spagnuolo, io avrei durata minor fatica ad ordinarne le notizie, e me ne sarei con piacer sommo approfittato. […] Non sono forse spagnuoli que’ che nascono in Madrid?
Il teatro che vuol considerarsi come uno de’ pubblici educatori, per rimediare a que’ mali sovente eccede, trascorre, inveisce e degenera in malignità, e talvolta avviene che si corrompa col l’esempio del resto della società.
E come l’ottomano ardir si affrene da Enrico e l’empia rabbia di que’ mostri fai scorger chiaro, e come il sangue inostri le navi, l’onde e le gloriose arene.
appena uscito il Teatro, invece di deridere l’impostura di un verso vecchio per me rinnovato, si sono dati a strepitare su quella qualunque siasi novità, approvando con tanta generosità i sentimenti, i caratteri e la semplicità di que’ drammi, con quanta ostinazione la maggior parte han disapprovato la nuova (e vedete che nuova!) […] [4.47ED] Finiti que’ versi: [4.48ED] — Ecco — disse — come sarebbesi a far morire nelle botteghe de’ nostri librai tutti i volumi di regolette inventate per rimediare al male della pronuncia perduta. […] — [4.129ED] — Ma che domine son eglino, adunque, — io seguiva — que’ ragionari che di undici in undici sillabe o di sette in sette non punto rimati van riposando? […] [5.125ED] Sbrigato dall’economia dell’azione compartita alla misura degli atti, dei già pensare a dividere ciaschedun atto in scene; e qui non avrai già a sudar poco. [5.126ED] Primieramente dovrai avvertire quanti sieno i principali cantanti per farli operare egualmente, altrimenti quai liti invincibili fra quelle balde fanciulle e que’ rigogliosi castrati! […] [6.12ED] Discerni ne’ fiumi le barche, ne’ porti i vascelli, le galee, le feluche, con forse maggior delizia che se ti trovassi presente a que’ luoghi, perché così impiccoliti, l’occhio li gode con brevità di tempo e senza incomodo di persona.
Palissot, non tutti ravvisarono in lui la mancanza di gusto, e que’ difetti che gli furono poscia rimproverati, e singolarmente la versificazione dura e ampollosa, le massime sparse a piena mano e senza scelta, le frequenti declamazioni sostituite alla passione. […] Essendo amico della Francia avea quel pontefice desiderato che il famoso Bajardo accettasse, come era costume a que’ tempi, il comando delle sue truppe. […] Il ciel conservi a’ suoi compatriotti codesto candore e la natural generosità; ma la stomachevole vanità di Belloy ci obbliga a dire che i Francesi di que’ tempi non diedero molte pruove di candidezza ed umanità ne’ luoghi dove fecero la guerra e dove dimorarono. […] Poco umanamente trattarono cogli abitanti di Castellaneto, spogliandoli e tentando le loro donne; e quando quel popolo si diede agli Spagnuoli ed imprigionò que’ Francesi, qual fu l’implacabile vendetta Italiana? […] La scena che richiede somma varietà, correrebbe rischio di rimaner presto senza spettatori riducendosi a que’ pochi argomenti atti a maneggiarsi senza bisogno di scellerati, che contribuiscono a far esercitar l’eroismo e la virtù in mille guise, e a dar fomento all’energia delle passioni, ed in conseguenza a mantenervi la vivacità che interessa.
Di poi, quando anche que’ versi recitati nel Circo fossero stati scenici (che ben poteva ciò avvenire, perchè ne’ Giuochi Romani, Plebei, e Megalesi3 aveano luogo gli spettacoli scenici), questo proverebbe, che il Popolo Romano talora s’infastidiva degli spettacoli teatrali, e desiderava i Circensi, che formavano la di lui passione principale, ma non già, che per avere il gusto corrotto, come fantastica il Sig. […] Che se in qualche Villaggio, o Castello, o al più in alcuna Città del terzo, e quarto ordine i meno abili e i più poveri Commedianti vanno recitando alcuna arlecchinata per divertire que’ paesi men colti, sarà questa una pruova, che la Nazione Italiana si delizia nelle buffonate dell’Arlecchino? […] Oggi la gravità della sua Polizia vi produce l’effetto stesso; si abbandonano gli spettacoli scenici nelle mani di particolari Impressarj, che cercano di tirare il volgo e la folla per uscire dalle spese, e si tollerano dal Governo in que’ giorni di allegria universale, purchè non ledano il buon costume; ma punto non si bada al miglioramento di essi in quanto all’arte ed al gusto, come addiviene in tante altre Provincie Italiane.
L’inciviltà e la libertà grossolana di que’ repubblicani si manifesta nella dipintura di Blepiro, marito di Prassagora. […] Probabilmente cotesto Gaulese, e di lingua greca, e di poesia, e della politica che conveniva alla repubblica ateniese, e di ciò che poteva in que’ tempi esser pregevole sul teatro, se ne intende meglio del popolo greco, il più illuminato dell’universo, meglio di Platone, meglio di Aristotile, meglio dell’istesso Molière, meglio di tanti e tanti grand’ingegni antichi e moderni, i quali tutti (a riserba di qualche Chamfort) hanno avuta la compiacenza di ammirare Aristofane.» […] Che pensare di que’ commediografi, i quali vi dicono in qualche prefazione, che si sono veduti confusi dopo di avere scritti due de’ tre atti d’una commedia, per non saper di che trattar nel terzo?
Non sanà forse senza profitto della gioventù che conoscer voglia il teatro Greco e l’arte usata da que’ repubblicani nel maneggiar la commedia antica, il presentarle qualche estratto più circostanziato che non feci nel 1777 nella Storia de’ Teatri in un solo volume, delle favole di Aristofane da tutti nominato, da pochi letto, e forsa da pochissimi compreso.
Andres istesso per far pienamente trionfar la verità, dovea alla parola Padova sostituir quest’altra l’Europa, giacchè a que’ dì in niun altro paese Europeo videsi una tragedia vera simile a quelle di Albertin Mussato.
Nel Tunkin si rappresentano ne’ tempj azioni teatrali, che formano una parte del culto di que’ popoli verso i loro idoli22.
E chi di que’ chiari individui che la componevano potè smentirlo? […] Or siccome in tale festività soltanto mostravansi senza parole συνθηματα, i segni allusivi al gran mistero, per le strade, per le quali passava la processione, così poi per le medesime strade prevalse il costume di render parlanti que’ segni, e di recitarsi los autos sacramentales durante l’ottavario del Corpus. […] Queste parole que allà tienes indicano che que’ traditori si trovano ancora in Castiglia; or come possono nel medesimo dì trovarsi nell’atto IV in Lisbona, esser chiusi in carcere e tormentati, e nell’atto V giustiziati? […] Benchè a costui io non possa più mostrare il suo torto in que’ tre o quattro punti da lui toccati contro di me con tutta l’inurbanità a lui naturale, giacchè oppresso dalle meritate invettive de’ suoi paesani sin dal 1786 ha finiti angosciosamente i suoi giorni: non lascerò di dire, per avvertimento di chi forse gli rassomiglia, che se i nazionali mi avessero prevenuto in tessere una storia del teatro Spagnuolo, io avrei durata minor fatica ad ordinarne le notizie, e me ne sarei con piacer sommo approfittato. […] Eximeno con facilità aver notizia che Bernardino Daniello fece imprimere la sua Poetica nel 1536, cioè ventisei anni prima che fosse conceputo Lope de Vega: che l’Arte Poetica del vescovo di Ugento e poi di Cotrone Antonio Minturno fu stampata nel 1564, cioè due anni dopo che il Vega venne al mondo; che quando nel 1570 si pubblicò la prima volta in Vienna la Poetica di Lodovico Castelvetro, Lope contava appena otto anni, cioè neppure era pervenuto a que’ dieci, in cui vantavasi di aver conosciuti i precetti degli antichi, Passè los libros que tratavan de esto Antes que hubiesse visto al sol diez veces Discurrir desde el aries à los peces.
Nel Dionigi sua prima tragedia, secondo l’espressione di Palissot, non tutti ravvisarono in lui la mancanza di gusto, e que’ difetti che gli furono poscia rimproverati, e singolarmente la versificazione dura ed ampollosa, le massime sparse a piena mano e senza scelta, le frequenti declamazioni sostituite alla passione. […] Essendo amico della Francia avea quel pontefice desiderato che il famoso Bajardo accettasse, come era costume a que’ tempi, il comando delle sue truppe. […] Il ciel conservi loro codesto candore e generosità naturale; ma la stomachevole vanità del Belloy ci obbliga a dire che i Francesi di que’ tempi non diedero molte pruove di candidezza ed umanità ne’ luoghi dove fecero la guerra e dove dimorarono. […] Poco umanamente trattarono con gli abitanti di Castellaneto, spogliandoli e molestando le loro donne; e quando quel popolo si diede agli Spagnuoli, ed imprigionò que’ Francesi, qual fu l’implacabile vendetta Italiana? […] Il cittadino Carion de Nizas compose a que’ dì una tragedia intitolata Montmorenci che si recitò nel mese Pratile nel Teatro della Repubblica.
Or perchè mai trascurarono di osservare simili scene ricche di bellezze inimitabili il Robortelli, il Nisieli ed altri nostri critici, per nulla dire de’ transalpini falsi belli-spiriti La-Mothe, d’Argens, Perrault, in vece di perdersi a censurarne ogni minimo neo nello sceneggiamento, e ogni leggera espressione che loro paresse bassa e grossolana, per non avere abbastanza riflettuto alla natura eroica di que’ tempi lontani che i tragici intesero di ritrarre? […] Ma frattanto nel rimanente della tragedia si dimostra appunto la falsità del raziocinio di que’ due spiriti-forti, e si accreditano col fatto le divine risposte, stabilendosi l’infallibilità di Apollo e l’insuperabile forza del fato, quella forza che è il gran perno su cui si aggira il tragico teatro Greco.
Questa menzogna apparente, e qualche altra variazione rende a lui sospetti que’ cavalieri, e gli fa incatenare, rivocando la grazia degli altri schiavi. […] A un cenno di Geldippe parte Tancredi, e neppur vede que’ tre personaggi, caminando forse con gli occhi bassi. […] Il disviluppo segue acconciamente con que’ pochi versi che dal canto possono ricevere espressione e calore. […] Non so però se lo spettatore avvezzo alle furbesche trame comiche di que’ due vili personaggi, presti loro, o non presti fede, e se possa commuoversi col padre. […] Il cavaliere sconosciuto sfida que’ due, i quali bravamente si ritirano alla parte opposta.
Sebbene si é conservato il nome di Antonio Forestier e di Giacomo Bourgeois, autori di qualche farsa, o commedia perduta, vissuti sotto Francesco I, pure la forma della commedia e della tragedia fu conosciuta affatto in que’ paesi fino al regno di Errico II.
In Alemagna erano a que’ tempi assai usitati i giuochi di carnovale, dialoghi che la gioventù mascherata giva nel carnovale recitando per le case.
In Alemagna erano a que’ tempi assai usitati i giuochi di carnovale, dialoghi che la gioventù mascherata giva recitando nel carnovale per le case.
L’arti fioriscono presso la nostra ingegnosa nazione senza veruno di que’ premi e incoraggiamenti infiniti, che trovano gli artisti in Francia e in Inghilterra), sono stati seguiti da un gran numero di ottimi maestri che illustrano oggidì il settentrione. […] Francesco Pizarro Piccolomini; perché il Paolino, goffa produzione di un ignorante stravolto, intitolata Tragedia Nuova alla moda Francese, e stampata nel 1740 con indignazione di que’ pochissimi ch’ebbero la disgrazia d’averla nelle mani, merita solo di esser ricordata per un esempio della pazzia. […] Altre tragedie inedite si trovano in Madrid applaudite da que’ pochi che l’hanno lette, come un’altra Numanzia del Cadhalso, una Rachele di Huertas, e una Zulima dell’italiano Gajone scritta in una spezie di alessandrino castigliano che parve non solo cattivo, ma nuovo a uno spagnuolo, che volle censurarla.
Ma per istruzione della gioventù e per rendere giustizia al vero, osserviamo in qual maniera si condussero que’ due grand’ingegni nel maneggiare in generi diversi due congiure e due perdoni tramandatici dalla storia. […] Con quegli Ezj perchè confuse lo stesso Bettinelli que’ Catoni e que’ Regoli?
Laonde noi incliniamo a prestar tutta la fede a que’ Latini scrittori che ebbero sotto gli occhi le tragedie romane da essi esaltate, a que’ Latini che sapevano bene quel che si dicessero sulla propria lingua e poesia; ed assai peco in concorrenza (non ci s’imputi a colpa) crederemo al lodato Denina che con tutta la posterità non ha veduta nè anche una delle tragedie latine. Nè debbe egli fondarsi nè poco nè punto nella mancanza di originalità desiderata nelle tragedie latine; perchè se tal mancanza derogasse al merito de’ Tragici Latini, nè Eschilo nè Sofocle nè Euripide potrebbero ammirarsi come grandi, giacchè originali neppur dirsi debbono, secondo la regola del Denina, niuno ignorando che gli argomenti di que’ grandi tragici Greci tutti si trassero da Omero, da Esiodo e da’ Tragici che gli precedettero. […] I caratteri sono quali esser debbono, e le passioni non sono tradite dall’affettazione, benchè non mostrino di essere animate da que’ medesimi colori della natura che nella Troade e nella Medea enunciano la mano esperta di un valente pittore.
Biblioteca di Parigi e nella Vaticanad, e nell’Estense benchè senza nome dell’autoree Quella che ne vidi io nella Biblioteca di Parma s’intitola Ephigenia a Secco Polentone, ossia da Polenta, cancelliere della Repubblica Padovana, chiamato dagli scrittori di que’ tempi Sico o Xicus Polentonus, cui i Padovani aggiungono il cognome di Ricci, compose anche in latino verso la metà del secolo una commedia in prosa intitolata Lusus ebriorum, la quale serbasi ms fra’ codici di Giacomo Soranzo. […] Doveva mettergli in bocca que’ versi che mostrano l’autor del dramma proclive al più detestabile sfogo della lascivia?
Secco Polentone, ossia da Polenta, cancelliere della repubblica Padovana, chiamato dagli scrittori di que’ tempi Sico o Xicus Polentonus, cui i Padovani aggiungono il cognome di Ricci, compose pure latinamente verso la metà del secolo una commedia in prosa intitolata Lusus ebriorum, la quale serbasi manoscritta fra’ codici di Giacomo Soranzo. […] Dovea mettergli in bocca que’ versi che mostrano l’autor del dramma proclive al più detestabile sfogo della lascivia?
Specialmente nelle serate di triplicata illuminazione que’ cristalli, que’ festoni, quelle indorature, que’ torchi senza numero, i copiosi lumi de’ palchetti riverberati e in mille modi raddoppiati dalle scintillanti gemme che adornano tante dame, cangiano la notte nel più bel giorno, e l’uditorio in una dimora incantata di Circe o di Calìpso superiore allo spettacolo del palco scenario. […] Il disviluppo segue acconciamente con que’ pochi versi che dal canto possono ricevere espressione e calore. […] Non so però se lo spettatore avvezzo alle furbesche trame comiche di que’ due vili, presti loro o non presti fede, e se possa commuoversi col padre. […] Il cavaliere sconosciuto sfida que’ due i quali bravamente si ritirano alla parte opposta. […] Senza dubbio i drammi Cinesi Spagnuoli e Inglesi contengono parlando in generale un’arte men delicata, ma pel gusto di que’ popoli hanno un merito locale.
Per non avere appreso o per non seguire i veri modi del cantare, adattano le stesse grazie musicali ad ogni sorta di cantilena, e co’ loro passaggi, co’ loro trilli, colle loro spezzature e volate fioriscono, infrascano, disfigurano ogni cosa: mettono quasi una lor maschera sul viso della composizione, e arrivano a far sì che tutte le arie si rassomigliano, in quella guisa che le donne in Francia, con quel loro rossetto e con que’ tanti lor nei, paiono tutte di una istessa famiglia.
Or fino a quanto per gli Apologisti durano que’ primi anni?
L’antichissima festa de’ Tabernacoli, in cui gli Ebrei divisi in cori cantavano inni al Creatore, tenendo in mano folti rami di palma, di cedro o di altro, conteneva alcuna parte di que’ semi che altrove diedero l’origine alla poesia drammatica; ma pur non si vede che tra gli Ebrei l’avessero prodotta.
I due segni d’oro mandati da Filli ridotta all’estremo al suo Tirsi infedele, perturbano sommamente l’azione, che viene nobilitata nel V atto col pericolo della vita di Tirsi, il quale avendo gettati via que’ cerchi dov’era l’immagine del Sultano, per una legge è divenuto reo di morte.
I due segni d’oro mandati da Filli ridotta all’estremo al suo Tirsi infedele, perturbano sommamente l’azione, che viene nobilitata nel V atto col pericolo della vita di Tirsi, il quale avendo gettati via que’ cerchi, ov’era l’immagine del Sultano, per una legge è divenuto reo di morte.
Venuto il Cardinal Ruffo in Napoli, egli fu in que’ moti politici arrestato, e dovè esulare in Francia, d’onde poi ritornato, si rimise a calcar le scene con successo rapido e prodigioso.
Il ’48 Luigi Gagliardi combatte a Vicenza nel battaglione universitario e la giornata finisce miseramente con la semidistruzione di que’ sciagurati e con la più rovinosa delle ritirate.
Le giuro, che que' versi miei sulla Madonna mi parvero altra cosa, cioè meno infelice, quando procurai di recitarli secondo le sue norme.
Nell’edizione che se ne fece in Venezia nel 1525 si vede questa favola preceduta da un prologo in prosa, nel quale l’autore confessa di avere in essa seguitato Terenzio nell’Eunuco e Plauto ne’ Cattivi E veramente parte dell’argomento egli trasse da que’ comici antichi; mentre l’innamorato Erostrato padrone si fa credere un suo servo chiamato Dulippo, e questi passa per Erostrato, prendendone il nome e la condizione. […] E quì si avverta che si parla appunto de’ Rettori di Ferrara, dove si rappresentava la commedia in presenza del principe e forse di que’ medesimi Rettori. […] Altro non aggiungeremo intorno alle commedie dell’Ariosto, se non che egli è sì ingegnosamente regolare e semplice nell’economia delle favole, sì vivace grazioso e piacevole, sì alle occorrenze patetico e delicato ne’ caratteri e negli affetti, sì elegante e naturale nello stile, e con tanta aggiustatezza e verità dialogizza senza aggiungnere una parola che non venga al proposito; che stimo che mai non termineranno con lode la comica carriera que’ giovani che allo studio dell’uomo e della società, per la quale vogliono dipingere, e alla ragionata lettura de’ frammenti di Menandro e delle favole di Terenzio e di Plauto, non accoppino principalmente quella dell’Ariosto. […] A codesto esgesuita che le chiama languide, o a que’ grandi uomini che vi riconoscono, segnatamente nella Mandragola, forza comica e vivacità? […] Domandando Gherardo dell’età della figliuola di Virginio, questi risponde: Quando fu il sacco di Roma, che ella ed io fummo prigioni di que’ cani, finiva tredici anni.
Ne’ tempi felici dei Leo, dei Pergolesi e dei Vinci l’attenzione di que’ sommi maestri era unicamente rivolta a far valere il canto e la poesia, e non gli stromenti, avvisandosi con gran giudizio che questi altro non essendo che una spezie di commento fatto sulle parole, era una stoltezza da non sopportarsi che primeggiassero essi sulla voce e sul sentimento, come non potrebbe non tacciarsi d’ignoranza un grammatico che dasse maggior pregio alle illustrazioni di Servio o de la Cerda sulla Eneide di Virgilio che non al testo istesso del divino poeta. […] Que’ tratti principali, que’ contorni decisivi che caratterizzano le figure, rimangono affatto indistinti. […] Diffatti pochi sono que’ maestri che sappiano diriggere il movimento di tutta l’orchestra al gran fine della espressione, e cavare da esso solo l’utilità che si potrebbe per rimettere, eccitare, trasfondere e variar le passioni. […] Ora tali sembrano a me que’ maestri, che senza consultar prima il buon senso, senza la debita graduazione e preparamento fanno all’improviso passaggio da un recitativo andante e negletto ad una sinfonia in forma. […] La sconcezza in questo genere è arrivata a segno che in un’opera veduta da me dovendo salir sopra un naviglio il primo uomo e cantar prima una cavatina, la nave, che veniva spinta dalle onde, ha dovuto fermarsi, come s’avesse udito e cognizione, attendendo che finissero que’ noiosi arzigogoli.
Ma quell’abitatore d’Icaria, che ne sorprese uno nel suo podere, si trovò interessato a sacrificarlo a Bacco, e que’ paesani che ’l videro, per simile interesse applaudirono al colpo, si rallegrarono, e saltarono cantando in onor del nume. […] Quest’araldo, che ne afferra una per la chioma, e la strascina verso i vascelli, sarà motteggiato da que’ moderni che o non leggono mai Omero e i tragici greci, o son privi della conoscenza de’ principi necessari a leggerli con fondamento. […] Ah pensa Chi t’ascolta, ove sei: scopron que’ detti Le tempeste del cuore, De la mente i deliri. […] Reso é una tragedia senza prologo e senza que’ tratti patetici proprj d’Euripide, ma in contraccambio ha l’arte del dialogo e l’aggiustatezza di Sofocle; per il che qualcheduno pretende che appartenga a quell’ultimo, benché altri la toglie ad ambedue, e l’attribuisce a un tragico loro contemporaneo, e Scaligero a uno ancor più antico31. […] E ciò non vuol dire, che i moderni abbiano a disperare di poter mai produrre tragedie maravigliosamente belle (perché anzi noi pretendiamo, e l’abbiamo altrove dimostrato, che l’arte mai non avrà a lagnarsi della poca fecondità della natura, celandosi in ogni genere infinte specie di componimenti perfetti benché dissimili); ma sì bene vuol dire che la tragedia greca fondata sul sistema della fatalità su da que’ due maravigliosi Ingegni portata all’apice della perfezione.
Infatti nelle lettere di Casiodoro si legge, che Clodoveo conquistatore delle Gallie, desiderando d’avere appo se musici pregievoli, i quali «sollazzassero la gloria della possanza sua», come s’esprime l’originale, scrisse a Teodorico re d’Italia acciocché gli mandasse alcuno di que’ musici ch’erano alla sua orte. […] Guido Aretino monaco della Pomposa, che fiorì dopo il mille, è in que’ tempi tenebrosi ciò che nel mare agli occhi de’ naviganti smarriti è una torre, che veggasi biancheggiar da lontano. […] Giunsero non pochi fra loro a scordarsi, che la simonia, la venere sciolta e l’adulterio fossero peccati, e vi si trovano parecchi canoni de’ concili a que’ tempi destinati unicamente a rammentar ai preti quelle verità, che mai non ebber bisogno di pruova presso le nazioni più incolte.
Or perchè mai trascurarono di osservare simili scene ricche di bellezze inimitabili il Robortelli, il Nisieli ed altri nostri critici, per nulla dire de’ transalpini falsi belli-spiriti la-Mothe, d’Argens, Perrault, in vece di perdersi a censurarne ogni minimo neo nello sceneggiamento e ogni leggera espressione che loro paresse bassa e grossolana, per non avere abbastanza riflettuto alla natura eroica di que’ tempi lontani che i tragici intesero di ritrarre? […] Ma frattanto nel rimanente della tragedia si mostra appunto la falsità del raziocinio di que’ due spiriti-forti, e si accreditano col fatto le divine risposte, stabilendosi l’infallibilità di Apollo, e l’insuperabile forza del fato, quella forza che è il gran perno su cui si aggira il tragico teatro Greco. […] Non per tanto si dee riflettere che Euripide era un gran maestro, nè avrà egli presentato a’ suoi compatriotti una cosa che potesse contraddire ai loro costumi e alle passioni dominanti di que’ tempi. […] Ah pensa Chi ti ascolta, ove sei: scopron que’ detti Le tempeste del cuore, De la mente i delirj. […] Egli è certo che Eliano78 afferma esser fama anche a’ suoi tempi (fiorendo egli dopo quelli di Adriano) che i Corintii solevano offerire quasi in perpetuo tributo alle ombre di que’ pargoletti certi sacrifizj espiatorj.
Il parlare troppo elegante de’ pastori in questa favola ebbe anche fuori dell’Italie un censore nel Rapin, che misurava que’ pastori colla squadra de’ caprai delle moderne campagne; senza avvertire che nell’ipotesi della pastorale del Guarini i pastori Arcadi fingonsi discendenti di Silvani e di Fiumi deificati, e formano una famiglia o repubblica pastorale, di cui i sacerdoti, a somiglianza degli antichi patriarchi, erano i legislatori e maestri. […] E quì domando a que’ dotti scrittori che vorrebbero trarre l’origine dell’opera musicale da secoli più remoti, e riconoscerla in tutte le pastorali, domando, dico, se loro sembri verisimile che il famoso Manfredi sì scrupoloso negli abiti e nel ballo, avrebbe inculcata al compositore di musica tutta la diligenza nelle sole canzonette, punto non facendo motto della musica di tutto il rimanente, se tutta la pastorale avesse dovuto cantarsi?
Il parlare troppo elegante de’ pastori in questa favola ebbe anche fuori dell’Italia un censore nel Rapin, che misurava que’ pastori colla squadra de’ villani e caprai delle moderne campagne; senza avvertire, che nell’ipotesi della pastorale del Guarini i pastori Arcadi fingonsi discendenti di Silvani e di Fiumi deificati, e formano una famiglia o repubblica pastorale, di cui i sacerdoti, a somiglianza degli antichi patriarchi, erano i maestri e i legislatori. […] E qui domando a que’ dotti scrittori che vorrebbero trarre l’origine dell’opera musicale da secoli più remoti, e riconoscerla in tutte le pastorali, domando, dico, se loro sembri verisimile che il famoso Manfredi sì scrupoloso negli abiti e nel ballo, avrebbe inculcata al compositore di musica tutta la diligenza nelle sole canzonette, punto non facendo motto della musica del rimanente, se tutta la pastorale avesse dovuto cantarsi?
Quindi avvenne, che que’ due gran luminari della Greca e Latina eloquenza Demostene e Cicerone, col molto esercitarsi nello studio delle tragedie di Euripide, mirabili progressi fecero nell’arte loro.
Le gemelle avvedute dell’inganno prendono dalla mano del loro fratello un veleno, e lo tracannano a gara, indi ridottesi alle loro stanze si animano a combattere fra loro per togliersi que’ momenti di vita che loro rimangono. […] Non cede il magnanimo, e que’ fidi piegano le ginocchia a lui davanti perchè non vada al re, e vogliono salutarlo imperadore; egli s’oppone con nobile costanza.
O fiumi Non occhi, qui destate alma pietosa A lutto (foste almen mie gioie inferme) Tranquilla mia tu del Picen nel seggio Sovran dov’esser cheggio Teco, giaci sepolta infrà que’ sacri Marmi, ch’ebber di pianto ampi lavacri ; Marmi al Vate maggior d’Ippona eretti Cui patrii fur cartaginesi tetti.
Ennio stimo che anche fuori del teatro potessero piacere al popolo que’ poemi mordaci pieni di sale e di piacevolezze istruttive; e quindi si provò a comporre i primi Sermoni latini simili agli Oraziani; e ad essi diede il nome di Satire; se non che sull’esempio de’ Greci e dello stesso Omero mescolo insieme diversi metri, esametri jambici trimetri tetrametri trocaicia Aureo è quel frammento Enniano, in cui un’altra specie di versi adoperando, con eleganza superiore a quell’età, deride gli auguri, gli astrolaghi, gli opinatori Isiaci e gl’interpreti di sogni, aggiugnendo con somma venustà: Non enim sunt ii aut scientia aut arte divini, Sed superstitiosi vates, impudentesque harioli, Aut inertes, aut insani, aut quibus egestas imperat: Qui sui quaestus caussa fictas suscitant sententias, Qui sibi semitam non sapiunt, alteri monstrant viam, Quibus divitias pollicentur, ab iis drachmam petunt. […] Ma essa che è la speranza delle belle arti, rompa oramai que’ ceppi pedanteschi, e si avvezzi a studiare la natura, a consultare il proprio cuore, a ritrarre la società, a ridere sul viso degli orgogliosi pedagoghi, ascoltando i consigli del buon gusto. […] Chi ha molto agio potrà consultare un gran numero di dotti comentatori, i quali seriamente si sono applicati a interpretare que’ pochi versi scritti in una lingua morta e ignorata, e della quale non rimangono libri che accrescano le umane cognizioni; che sembrami il saggio fine dello studio delle lingue. […] Te fra que’ dieci Compagni ella ha contato, e quindi in bando Andar dovrai. […] Abbondano anche oggi, ed abbonderanno sempre simili Ennii critici di que’ medesimi che essi saccheggiano.
E veramente parte dell’argomento trasse da que’ comici antichi; mentre l’innamorato Erostrato padrone si fa credere pel suo servo Dulippo, e questi è tenuto per Erostrato, prendendone il nome e la condizione. […] E quì si avverta che si parla appunto dei rettori di Ferrara, dove si rappresentava la commedia in presenza del principe e forse di que’ medesimi rettori. […] Altro non aggiugneremo intorno alle commedie dell’Ariosto, se non che egli è sì in gegnosamente regolare e semplice nell’economia delle favole, sì vivace, grazioso e piacevole, sì alle occorrenze patetico e delicato ne’ caratteri e negli affetti, sì elegante e naturale nello stile, e con tanta aggiustatezza e verità dialogizza senza aggiugnere una parola che non venga al proposito, che stimo, che mai non termineranno con lode la comica carriera que’ giovani, che allo studio dell’uomo e della società, per la quale vogliono dipingere, e alla ragionata lettura de’ frammenti di Menandro, e delle favole di Terenzio e di Plauto, non accoppino principalmente quella dell’Ariosto114. […] Domandando Gherardo dell’età della figliuola di Virginio, questi risponde: Quando fu il sacco di Roma, che ella ed io fummo prigioni di que’ cani, finiva tredici anni. […] La Spina ed il Granchio del cavaliere Lionardo Salviati; la Suocera di Benedetto Varchi; la Balia, la Cecca e la Costanza di Girolamo Razzi; il Pellegrino ed il Ladro del Comparini; il Furbo di Cristoforo Castelletti; la Cingana e la Capraria di GianCarlo Rodigino; l’Amore Scolastico del Martini; il Medico del Castellini; il Commodo di Antonio Landi; la Vedova di Giambatista Cini; la Teodora del Malaguzzi; il Capriccio del Cosentino Francesco Antonio Rossi, i Furori di Niccolò degli Angeli; tutte queste commedie scritte parte in prosa, e parte in versi nel periodo di cui parliamo, si faranno leggere da chi vuol conoscere il teatro Italiano, per la regolarità, per le lepidezze, per la purezza ed eleganza dello stile, benchè per la licenziosità di que’ tempi i motteggi e i sali non sieno sempre in alcune i più decenti, ed in altre la favola sia soverchio complicata.
N’é eccellente la scena, in cui Augusto chiede sull’abdicazione dell’Imperio il parere di que’ medesimi cortigiani che stan congiurando contra di lui. […] Se si volesse far il processo a’ francesi, non sarebbe difficile il trovarli spessissimo, anche oggidì, in contrabbando di que’ falsi e frivoli concetti, di quelle arguzie viziose, e di quell’orpello, ch’essi ci vanno continuamente rinfacciando.
Le gemelle avvedute dell’inganno prendono dalla mano del loro fratello un veleno, e lo tracannano a gara, indi ridottesi alle loro stanze si animano a combattere fra loro per togliersi que’ momenti di vita che loro rimangono. […] Non cede il magnanimo, e que’ fidi piegano le ginocchia a lui davanti perchè non vada dal re; e vogliono salutarlo imperadore; egli si oppone con nobile costanza.
Si vorrebbe ancora ravvisare in que’ primi Romani che prese a dipignere rassomiglianza minore co’ più moderni cortigiani Francesi. […] Ampio campo aprì il Corneille al moderno coturno col grande oggetto politico dell’abdicazione dell’Imperio nella scena in cui Augusto chiede su di ciò il parere di que’ medesimi cortigiani che stanno congiurando contro di lui.
Ora che si dirà di que’ commediografi, i quali ci avvertono nelle loro prefazioni di essersi essi trovati imbrogliati dopo di aver distesi due atti de’ tre di una loro commedia, non sapendo di che trattane nel terzo?
Imperocché egli è necessario allora non considerare il gran numero di que’ corpi sonori, di quegli esseri fisici della natura che si rappresentgno cogli sgomenti e non colla voce. […] [17] Ma non tutti i poeti del nostro tempo si sono rivolti alla imitazion dei Francesi: molti ancora vi sono che vollero piuttosto seguitar Metastasio nella sua luminosa carriera somiglianti a que’ satelliti che s’accerchiano intorno all’orbita del pianeta maggiore. […] La cagione si è perché a produrre l’azione (ch’è l’anima del teatro musicale) assai più acconcio è il combattimento e il contrasto delle passioni, qualmente si vede in que’ due sfortunati sposi, che non la saggia fermezza d’un eroe di cui poco si pregia la vittoria perché poco gli è costato il sagrifìzio.
Forse per le stesse mie ragioni il precitato Amico di Venezia scrivendo all’Amico del Friuli non si astenne dal l’usare la stessa voce gergone, e pure si sa in Italia quanto puri ed eleganti scrittori si fossero que’ due Amici.
Si comprende particolarmente da quest’ultimo nome che noi non intendiamo quì di offendere i viaggiatori intelligenti, agiati e sinceri; ma abbiamo in mente soltanto que’ viaggiatori mendicanti, i quali lodano p. e. l’ Inghilterra, perchè qualche Inglese gli ha menati seco pascendoli e vestendoli, e biasimano l’Italia, e Napoli spezialmente, perchè non vi avranno trovato pari opportunità.
Non ebbe la malvagità di animo di fissarsi acerbo su que’ poveri attori che a tutto eran chiamati fuorchè all’ arte del teatro, e che traevan la vita a stento peregrinando di paesello in paesello…. : ma per gli attori che, pur essendo al par di quegli sciagurati negazione di arte, con illeciti mezzi strappavan applausi a i pubblici che avean nome d’intelligenti, e che preferivano, ad esempio, una meschina compagnia rappresentante il Prometeo di Troilo Malipiero ad altra di cui faceva parte il gran Vestri ; che accorrevan a un teatro ove recitava una compagnia Zocchi, composta degli attori più abbietti, mentre in altro era la grande trinità artistica De Marini, Vestri e Modena…. ; oh, per quelli, il Bonazzi fu un vero demonio !
Il conte che veniva a veder Bianca, giugne opportunamente a salvar la regina, la quale coperta di una mascheretta grata al suo liberatore gli dà una banda, che a que’ tempi si reputava un favore e una prova d’inclinazione della dama verso del cavaliere che la riceveva. […] Nell’atto del Guevara si vede alla prima la dipintura naturale di un teatro spagnuolo qual era a que’ tempi. […] Ma che mai trovò egli di rassomigliante nella condotta della tragedia francese e della favola spagnuola, in cui si vedono le additate tinte comiche miste alle tragiche, tante irregolarità, que’ ritratti adorati dal poco grave Ottaviano, quelle avventure notturne, il passaggio alternato da Gerusalemme a Menfi e da Menfi a Gerusalemme, la cura puerile del poeta di accreditar gli errori volgari dell’influsso? […] Non manca di colpi di teatro e di comiche situazioni, e supera l’istesso Calderòn se non nell’eleganza nella proprietà della comica locuzione, non vedendosi nelle di lui favole que’ groppi di stravaganze ne’ quali cade Calderòn. […] Anche lo stile è più sobrio e lontano da molte stranezze nazionali di que’ tempi.
Cosa vogliono significare que’ tanti storcimenti di collo, quel girare cogli omeri, quel non aver mai il torace in riposo non altrimenti che facciano gli avvelenati o i punti dal morso della tarantola nel tempo che si espone la sua ragione ad un principe, o mentre Regolo parla gravemente col senato di Roma? […] Non direste che vogliano ancor sul teatro comparir que’ tali, che sono, che si facciano uno scrupolo di mentire al pubblico e (come diceva a questo proposito graziosamente il più volte lodato Benedetto Marcello) che abbiano timore non l’udienza prenda in iscambio il Signor Alipio Forcone e la Signora Cecilia Pelatutti col principe Zoroastro e colla regina Culicutidonia? […] Dovrebbe inoltre significar coll’azione, coi cambiamenti del volto e coll’atteggiamento della persona que’ tratti di forza e di sublimità che vengono assai meglio spiegati con un silenzio eloquente e con un accento interrotto che colla più pomposa orazione. […] Tu devi poscia chieder da me, che svanita che sia l’illusione, io seguiti ancora a godere della compiacenza riflessa di essere stato ingannato; che ammiri la possente magia dei suoni che pervennero a farlo; che paragoni que’ punti di rassomiglianza col vero onde trasse origine il mio delizioso delirio; che sillogizzi comparando la voce che cantò colla passione o l’idea che voleva rappresentarmi; e che simile all’Adamo introdotto dal Milton, dopo aver vagheggiata in sogno la bellissima sconosciuta immagine della futura compagna, confronti poi svegliato a parte a parte nell’originale il vivace lume degli occhi, l’oro dei capegli, le rose delle labbra, il latte della morbida carnagione e la tornita perfezion delle membra.
Ennio stimò che anche fuori del teatro potessero piacere al popolo que’ poemi mordaci pieni di sale e di piacevolezze instruttive; e quindi si provò a comporre i primi Sermoni Latini simili agli Oraziani, a’ quali diede il nome di satire, se non che sull’esempio de’ Greci e dello stesso Omero meseolò insieme diversi metri, esametri, jambici, trimetri, tetrametri, trocaici47. […] Ma essa che è la speranza delle belle arti, rompa oramai que’ ceppi pedanteschi, e si avvezzi a studiare la natura, a consultare il proprio cuore, a ritrarre la società, a ridere sul viso degli orgogliosi pedagoghi ascoltando i consigli suggeriti dal buongusto. […] Palestra con la compagna si ricovera nel tempio di Venere lungo il mare; vi arriva anche il ruffiano, le vede e vuol menarle via a forza; ma sono difese dal servo di Pleusidippo e dal vecchio Demone che abita in que’ contorni. […] Tu fra que’ dieci Compagni ella ha contato, e quindi in bando Andar dovrai, Dord.
Non convengo con que’ suoi lodatori, diceva Quintiliano, ma discordo ancora da Orazio, perchè scorgo in Lucilio un’ erudizione maravigliosa, una libertà intrepida, acerbità e copia di sale (Nota V). […] Ed avendo Fedria e Geta con Demifone conchiuso che si chiami Antifone e Formione, que’ due partono per eseguirlo, e Demifone s’incamina verso la sua casa Deos penates salutatum. […] E perchè, per quando gli si dica, egli rimane sempre più costernato, que’ due fingono di voler partire e lasciarlo; alla qual cosa Antifone si scuote, s’incoraggia, e si sforza di far buon viso. […] Già questa ella è gran colpa, Ma pure umana, e che commiser molti, E delle volte ancor que’ che fur buoni.
Termina la tragedia coll’arrivo di Fortinbras, il quale dice che paleserà tutto tosto che saranno esposti alla pubblica veduta que’ cadaveri, ed aggiugne l’ultima disposizione di Amlet in favore del principe di Norvergia. […] Non si vuole però omettere di notare che sin da que’ dì sulle scene di quell’Isole cominciò ad allignare un gusto più attivo e più energico che altrove.
Egli fé rappresentar le sue tragedie e commedie dal 1677 in poi dagli scolari del suo collegio, donde passarono agli altri più principali di Alemagna, tutto congiurava a tener lontano da que’ paesi il vero gusto della drammatica.
che quando nel 1570 si pubblicò la prima volta in Vienna la Poetica di Lodovico Castelvetro, Lope contavi appena otto anni, cioé neppur era pervenuto a que’ dieci, in cui si vanta d’aver conosciuti i precetti degli antichi, Passe’ los libros que trataban de esto Antes que hubiesse visto al sol diez veces Discurrir desde el Aries à los Peces.
Non capi codesto pedante che senza le precedenti insolenze, senza que’ pugni scambievoli , non si sarebbe ricorso a reprimerli dopo due anni con quell’espediente?
Ma sovente parmi essere avvenuto a que’ poeti, come a quegli imbanditori di conviti che, per far pompa di condimenti, opprimono il sapor natio delle vivande, o lasciano mancare i messi sostanziali per dar luogo agli accessori. […] Nelle tragedie greche non è notabile tale inconvenienza sì perché il costume di que’ tempi permetteva al medesimo il famigliarizzarsi con li re, come perché alla loro condotta non era per lo più necessaria la segretezza. […] Per ben discernere il merito che hanno in tal parte que’ drammatici scrittori e quindi pareggiarlo con quello degli Italiani, noi distingueremo in vari punti il discorso. […] Taccio que’, ch’al germano, al padre, al figlio per sue voglie appagar dier cruda morte. […] Secondo la qual maniera le rime formate da simil sorta di sillabe son tante, quante sono le vocali in cui finiscono, e que’ dittonghi che alle vocali medesime non s’uniformano.
La di lui commedia di Dupuis e Defronais, benché desti qualche volta la tenerezza ed anche le lagrime, é assai lontana per la verità dei caratteri e per la semplicità degl’incidenti, da que’ drammi romanzeschi, così poco degni di stima sotto il nome di tragedie cittadinesche, e di commedie piangolose, pel cui cattivo genere il signor Collé ha non di rado manifestato il suo disprezzo. […] É stato per altro osservato, che i tragici francesi con quelle loro tirate ambiziose, e con que’ sentimenti studiati e rari ch’essi adoprando vanno con tanta cura e frequenza, peccano spesso nel costume, nei caratteri, e nel verisimile.