Si vogliono al medesimo secolo riferire le sette farse spirituali inedite recitate in Napoli da me descritte nelle Vicende della Coltura della Sicilie a; come ancora le favole drammatiche allegoriche recitate da’ Fiorentini nel 1442 nell’ingresso trionfale di Alfonso I di Aragona in Napoli; e i Misteri della Passione ivi fatti rappresentare nella Chiesa di santa Chiara con magnifiche decorazioni dal medesimo re nella settimana santa l’anno 1452, in cui venne in questa città Federigo III imperadore; ed anche le farse buffonesche inedite di Antonio Caracziolo rappresentate per lo più alla presenza di Ferdinando I; e finalmente li Gliuommere nel dialetto napoletano di Jacobo Sannazzaro, e la farsa toscana del medesimo illustre poeta della presa di Granata rappresentata in quella reggia in presenza di Alfonso duca di Calabria nel 1489a.
Si vogliono al medesimo secolo riferire le sette farse spirituali inedite recitate in Napoli da me descritte nelle Vicende della Coltura delle Sicilie 45; come ancora le favole drammatiche allegoriche recitate da’ Fiorentini nel 1442 nell’ingresso trionfale di Alfonso I di Aragona in Napoli; e i misteri della Passione ivi fatti rappresentare nella chiesa di Santa Chiara con magnifiche decorazioni dal medesimo re nella settimana santa l’anno 1452, in cui vennevi Federigo III imperadore; ed anche le farse buffonesche inedite di Antonio Caracziolo rappresentate per lo più alla presenza di Ferdinando I; e finalmente li gliuommere nel dialetto napoletano di Jacopo Sannazzaro e la farsa toscana del medesimo della presa di Granata rappresentata in quella reggia in presenza di Alfonso duca di Calabria nel 148946.
— Il Teatro delle favole rappresentative, overo la Ricreatione Comica.
Le tradizioni della China parlano in guisa dell’armonia che quasi sembrano aver esse voluto copiar fedelmente le favole greche. […] 129 Il secondo è il famoso Marcello, che nella prefazione alla sua Parafrasi musicale sopra i primi venticinque salmi, parlando di tutte quelle cose che nella musica greca concorrevano ad eccitar le passioni, si spiega in tal guisa: «Ma quanto poi siano queste in oggi tolte a noi da nuovo costume, o trascuratone l’uso di esse, egli è ben facile da comprendersi dal non udirsi che appena o di rado da canti nostri, benché da vari consonante copiosi, e di vari movimenti e leggiadri produrre nell’animo nostro qualche menoma parte di quelli antichi tanto ammirabili effetti, i quali a chiunque odali raccontare sembrar convengono piuttosto favole che veri»130.
La poca felicità notata da’ critici negli scioglimenti delle sue favole, qualche passo dato talvolta oltre il verisimile sol per far ridere, alcuna espressione barbara, forzata, o nuova nella lingua, ripresa da Fénélon, La-Bruyere, e Bayle, molte composizioni scritte per necessità con soverchia precipitazione, la mancanza di vivacità che pretendono di osservarvi gl’Inglesi, tutte quelle cose, ancor, ché fossergli con tutta giustizia imputate, dimostrerebbero in lui l’uomo; ma tanti e tanti suoi pregi, fino a quell’ora trovati coll’esperienza inimitabili, lo manifestano grande a segno, che al suo cospetto divengono impercettibili i contemporanei e i successori.
[2.76ED] Ricorri al tuo Vitruvio e vi troverai che tre cangiamenti di scena si congegnavano sui nostri palchi: tragica, comica e satirica. [2.77ED] La tragica era composta di colonne, di palazzi e di altri segni d’abitazioni reali. [2.78ED] La comica conteneva privati edifici. [2.79ED] La satirica selve, spelonche, fontane ed altre apparenze villerecce e selvagge, e benché paia che a tre sorte diverse di rappresentazioni ciascuna fussero destinate, come la tragica alla tragedia, la comica alla commedia e la satirica alla boschereccia, certa cosa è che favole boscherecce non furono mai poste in scena né da’ Greci né da’ Latini, benché gli uni e gli altri materie bucoliche largamente cantassero, e tu sai tutta la gloria di questa sorta di dramma comunemente esser data al vostro Torquato Tasso, mercé del suo leggiadrissimo Aminta. […] — [3.13ED] — Sono persuasissimo, — io replicai — ma una differenza ci è circa lo sceneggiamento fra’ tragici franzesi e fra noi, ed è che i Franzesi hanno per li soliloqui un cert’odio che noi non abbiamo. [3.14ED] Pochi e per lo più brevi se ne leggono nelle loro più rinomate tragedie, ma nelle nostre e (se a me lice parlar di quello di che doverei forse tacere) nelle mie se ne trovano di non brevi, ma che però molto mi servono ad una buona e chiara condotta delle mie favole. [3.15ED] Pretendono i Franzesi che sia da pazzo lungamente dialoghizzar con se stesso ed inventano attori che chiamano ‘confidenti’, con cui interamente possa aprir l’animo suo un traditore, un amante, una vergine, da che (dicon essi) nasce più verisimiglianza in chi rappresenta e più diletto in chi ascolta. [3.16ED] Io (poiché ho cominciato a parlar di me) seguendo in ciò l’esempio del Tasso, del Guarino e di altri nostri Italiani, ho creduto dover regolarmi diversamente ed eccone le ragioni. […] [5.81ED] Ma a buon conto que’ sentimenti erano facili, lisci e distesi quel solo e non più che richiedevan le note, che forse in quel tal sito egli credé necessarie alla musical simetria; né mai la musica al verso, ma questo a quella serviva, e serviva piuttosto come volontario che come schiavo; e però vorrei mediocremente poeta il componitore, e questo sarebbe il meglio per l’opera, imperocché potrebbe egli ordirsi in mente e tesser poi sulle carte tutta la tela musicale dal principio alla fine del dramma; e visto primieramente dove la forza, dove la tenerezza, dove i recitativi, dove l’arie più convenissero: dove il soprano, dove il basso, dove il contralto o il tenore per la legatura ed intrecciamento di una perfetta armonia dovessero fare maggior figura, vi adatterebbe appresso gli avvenimenti o tolti dalle favole greche o affatto affatto dal suo capriccio inventati qualunque si fossero, e le parole ed i versi facili, andanti e sonori, e caverebbe dalle bocche e dalle borse degli uditori non meno i ‘viva’ che la moneta. […] [5.85ED] Questi drammatici felici desumeranno dall’istorie no, ma bensì dalle favole i loro argomenti, avvisandosi essere, come infatti si è, troppa crudeltà il deformare sfacciatamente la verità de’ successi scritti da Livio, da Giustino, da Salustio e da qualunque più antico e venerato scrittore, lo che saria inevitabile per introdurvi le cose che vuole il compositore, che vogliono i cantori, le cantatrici, che vuole l’architetto, il macchinista, il pittore e sin l’impresario. […] La parabola si conclude con il Perseo in Samotracia (1709-1722) nella cui dedica M. afferma: «mal volentieri per me sopportarsi nella moderna tragedia gli amori tanto per la greca e per la latina abborriti, e ciò non solamente per l’esser noi sottoposti ad un soave giogo di legge, che nelle favole nostre maggior correzioni di costume ne impone, ma perciocché la grandezza di questo austero poema s’infievolisce e si effemina da passione la quale, dovunque allignar si lasci, rigogliosamente vuol sovrastare».
Ma quando anche queste nuove favole non si dovessero all’Italia, non basterebbe ad eternarla l’aver fatto risorgere in tante guise il Teatro Greco? […] Imitar dunque, emulare con aurea eleganza e purità di stile i tragici antichi, inventare a loro norma favole eccellenti, farne risonare le scene per tante città, quando il rimanente dell’Europa altro quasi non avea che farse mostruose in lingue tuttavia rozze e barbare, era l’unico opportuno espediente per diffondere il vero gusto della tragedia; e il fecero gl’Italiani, con tuttochè non avessero, come indi non ebbero mai, teatro tragico fisso e permanente, nè speranza di lucro e di premio, e da qual altra cosa doveano essi incominciare, se non dallo studiare e ritrarre talora con più recenti colori le bellezze de’ greci esemplari?
Rendeva in oltre povera ed uniforme l’antica tragedia, obbligandola ad aggirarsi sempre sopra i medesimi o simili suggetti, perché poche erano le favole che quella rigida unità potessero tollerare. […] Ma la rigorosa unità offende, talora irreparabilmente, il costume e la condotta della favola, vale a dire le più essenziali qualità che si richieggono in un dramma, e restringe le tragiche favole a un picciolo ed uniforme numero, privando l’antica tragedia di molti nobili suggetti, incapaci d’unità, i quali e più varia, e più ricca, e più bella la renderebbero. […] Per muovere adunque un popolo di tal carattere ebbe mestieri l’antica tragedia d’adoperar favole di somma atrocità, che terminassero con esili, miserie, morti di personaggi del più alto affare: altrimenti pochissimo effetto avrebbe potuto promettersi nell’animo degli spettatori. […] Il genere delle sue favole è comico e tende a muoverci a riso. […] Le sue favole sono anche comiche, ma d’un genere più nobile, da taluni detto alto comico.
Si pensava per l’addietro che questo fosse un poema consecrato alle favole e da cui per istatuto se ne dovesse sbandire il buon senso. […] Il secolo dedito intieramente alla voluttà ed alla licenza ripose tra le favole poetiche l’amore eroico del tempo de’ paladini, e rimandò gli aerei ragionamenti degli scioperati scrittori al mondo della luna, dove lungo tempo si conservarono, e si conservan tuttora accanto al senno d’Orlando, insiem coi servigi che si rendono ai grandi, colle parole de’ politici, colle lagrime delle donne, e colle speranze dei cortigiani.
Voi intanto trionfate per essere tutte le vostre favole scritte in versi, e con più manifesta inverisimilitudine, con una mescolanza di Ottave, Sonetti, Terzine, Decime, Quintiglie, Glosse, e di qualunque altra specie di metri.
Platone chiama le favole sceniche un dono che gli dei aveano fatto al genere umano compassionando le sue miserie.