mo Del 1590 abbiamo questa lettera da Roma comunicatami da Angelo Solerti, autore con Domenico Lanza del Teatro Ferrarese nella seconda metà del secolo xvi : Ser.
E da allora pare ch'egli entrasse in compagnia e nelle grazie del Duca, poichè in un documento sincrono dell’Archivio di Stato di Modena abbiamo l’elenco della Compagnia, in cui non figurano i nomi dei coniugi Sacco, bensì quelli di Gaetano Caccia, Leandro (V.
Ma la notizia chiara del suo valore, e soprattutto di ciò che tal valore formava, noi abbiamo da Fr.
Eccolo secondochè l’abbiamo noi tradotto: Piè innanzi piè senza pensar m’inoltro, E giungo a caso, ove dell’acqua i servi Recavan per le mani. […] Oltre de’ teatri di Siracusa e di Agira, abbiamo con qualche particolarità rammentato altrove* quelli di Palermo, di Agrigento, di Catania, di Messina, di Segesta, di Taormina.
Il lungo regno, di Filippo IV amator della poesia, e poeta egli stesso, di cui abbiamo il Conde de Essex ed altri componimenti drammatici, dié agio alla nazione di fecondare il gusto del monarca, e sbucciarono da per tutto i bell’ingegni. […] La regina Sofia Carlotta tratteneva in Berlino l’opera italiana, il cui compositore era il celebre Bononcini, e da quel tempo abbiamo contati fra noi alcuni buoni musici.
Costui nel libretto delle Origini della Poesia Castigliana asserisce primamente, che i Romani portarono in Ispagna i giuochi scenici, senza curarsi di addurne qualche pruova, siccome per altro avrebbe potuo, facendo parola di quanto noi abbiamo non ha guari riferito, cioè de’ giuochi teatrali dati in Cadice da Balbo, del teatro Saguntino e delle rovie teatrali di Acinippo, di Tarteso e di Merida. […] Da quanto abbiamo in questo capo ragionato, si deduce che il principio del vuoto della storia teatrale si trova a’ tenpi de’ Tiberii, de’ Caligoli e degli altri imperiosi despoti, i quali fecero ammutolire i poeti, spaventandoli con diffidenze e crudeltà, e furono cagione che i teatri risonassero unicamente di buffonerie e laidezze, per le quali ci bisogna più impudenza che ingegno.
Molte cose abbiamo a stampa di lui, o che discorron di lui, uomo politico ed artista ; e principali fra esse : I. […] Nessuno certo potè mai più di lui nè come lui suscitar l’entusiasmo nel popolo affollato, sia si mostrasse sotto le spoglie di Paolo, sia di Luigi XI, sia di Saul, sia di David ; o di Adelchi, o di Walenstein, o del Cittadino di Gand, o di Maometto, o d’Icilio, o di Remy, o di Raimondo, o di Dante, del quale interpretava (come abbiamo da un programma di sua beneficiata al Teatro del Giglio di Lucca, la domenica 7 giugno 1840, in Compagnia Dorati), Mino – Francesca da Rimini – Cerbero (Canti V e VI).
Merope stessa, che abbiamo pur data una volta a Parigi, non gli può aver rappresentata l’idea della natura tragica italiana, essendo essa una di quelle Tragedie nelle quali, essendo miste di diversi gradi di persone, può discendersi ad una più familiare natura.
Noi mortali non abbiamo altra felicità che il fare all’amore sino alla morte.
Nella Colombina del xvii e xviii secolo, abbiamo lo stesso tipo con accentuazione marcata di birichineria e di civetteria insieme : vero ideale di servetta.
Chiamato a Mantova dal Duca il 1599, non potè recarvisi per malattia della suocera e sua ; ma vi si recò il 4 aprile del 1600, nel qual giorno, secondo che abbiamo dal Bertolotti, giunse in casa di Tristano Martinelli, arlecchino, sovrintendente di tutti i comici dello Stato mantovano, passando poi all’Albergo della Luna, ov’ erano l’Austoni e Antonio (?).
Ma una supplica pubblicata dal Belgrano abbiam nell’'83 di Bernardino Lombardi a nome degli Uniti Confidenti per recitare a Genova nei mesi di aprile, maggio e giugno, ed altra ne abbiamo nell’'86 al Senato Genovese, de'soli Confidenti.
Poichè sul teatro Greco οιδικῶ, formale, preso come spettacolo abbiamo in grazia della gioventù ragionato a sufficienza, non increscerà per diletto ed erudizione, quando per altro non fosse, formarsi di esso una meno confusa idea, considerandone la struttura ιλικην, materiale. […] Oltre de’ teatri di Siracusa e di Agira, abbiamo con qualche particolarità rammentato altrovec quelli di Palermo, di Agrigento, di Catania, di Messina, di Segesta, di Taormina.
Spinola. » Del 1610 abbiamo una lettera da Ravenna in data 24 marzo, che il Cardinale Caetani scrive al Duca di Modena, pregandolo di dar ordine che capitando Flaminio Scala nel suo Stato con Compagnia di comici li sia prohibito per questo anno il recitar comedie, e ciò perchè gli era stato dato da lui il maggior disgusto che potesse dargli huomo della sua conditione. […] Noi, grazie a Dio, non ci troviamo più a tanta libertà ; ma artisti capaci di rimediare alle così dette scene vuote, e di tenere a bada il pubblico o con un monologo o con una scena, finchè non entri il personaggio che deve entrare, ne abbiamo ancora.
Testimoni indubitati della perizia di tali popoli nell’architettura abbiamo non solo l’invenzione e il nome di un ordine diverso da quelli che ci tramandò la Grecia, ma le reliquie degli antichi edificii che in parte esistono ancora ne’ paesi Toscani.
Della felicità sorprendente nelle transazioni, e nel passaggio d’un affetto all’altro, della dizione semplicissima e naturale, dell’artifizio che par tutto natura, ne abbiamo un esempio parlante nella Lusinghiera dell’avvocato Nota.
Costui nel libretto delle Origini della Poesia Castigliana asserisce primamente, che i Romani portarono in Ispagna i giuochi scenici, senza curarsi di addurne qualche pruova, siccome per altro avrebbe potuto, facendo parola di quanto noi abbiamo non ha guari riferito, cioè de’ giuochi teatrali dati in Cadice da Balbo, del teatro Saguntino e delle rovine teatrali di Acinippo, di Tarteso e di Merida. […] Da quanto abbiamo in questo capo osservato, si deduce che il principio del vuoto della storia teatrale si trova a’ tempi de’ Tiberii, de’ Caligoli e degli altri imperiosi despoti, i quali fecero ammutolire i poeti, spaventandoli colle diffidenze e crudeltà, e furono cagione che i teatri risonassero unicamente di buffonerie e laidezze, per le quali ci vuole più impudenza che ingegno. […] Noi sinora non abbiamo veduto questo trattato per accertarcene su i frammenti istorici che l’autore ne avrà addotti.
Soggiugne poi, che i goti non permisero alla poesia drammatica di allignare in Ispagna; e conconchiude, che gli arabi (che non l’aveano) ve la portarono, adottando senza esame l’opinione di Nasarre, di cui abbiamo veduta la solidità.
Per quanto concerne la dimora del D’Arbes a Dresda, abbiamo dal Barone ö Byrn (op.
Scorrendo queste pagine – stampate in un nitidissimo e largo elzevir, in cui si alternano fregi della più appropriata eleganza, riproduzioni di disegni antichi, tavole cromolitografiche ed autografi inediti di singolar valore per la storia dell’arte – abbiamo provato centuplicato quel piacere che De Amicis seppe tanto abilmente descrivere nella sua Lettura del Dizionario.
Dopo il qual tempo ritornò in Italia, e precisamente a Mantova, come abbiamo da una lettera dell’Elettore al Duca ; a cui raccomanda nel lor ritorno la coppia D’Orsi, e da una nota che ci fa sapere come « i loro abiti da commedianti furono spediti a Mantova in 29 casse.
Le prime notizie che abbiamo di lui son del fratello Drusiano dalla Spagna, ov' erano entrambi, l’uno attore, l’altro direttore, nel 1588.
A ogni modo abbiamo ogni buona ragione di credere che Valerio lasciasse il teatro nel 1667, sostituito dal secondo amoroso Andrea Zanotti bolognese, del quale prese il posto Marco Antonio Romagnesi, esordiente alla Commedia italiana.
Sotto Augusto, il quale pure intraprese a scrivere un Ajace, Aristio Fusco compose commedie togate: un altro Cajo Tizio (diverso dall’oratore soprannomato) secondo Orazio fu buon poeta lirico, e scrisse ancora tragedie: Ovidio fece una Medea, della quale abbiamo un frammento in Quintiliano: e il famoso Mecenate, oltre a varii poemi, scrisse alcune tragedie, delle quali da Seneca si mentova il Prometeo, e da Prisciano l’Ottavia. […] Da quanto riferito abbiamo de’ Tragici Latini di quest’epoca, e della precedente, non parmi che negar si possa che la lingua latina si prestasse felicemente al genio tragico, come accennò Orazio, Et spirat tragicum satis, et feliciter audet. […] Tante ricchezze tragiche a noi non pervenute che abbiamo stimato di ripetere, danno alla posterità diritto di affermare, che un genere di poesia maneggiato da migliori poeti Latini dovette trovare nell’idioma latino ordigni proprii per elevarsi, ed in copia maggiore che non ne rinvenne la poesia comica. […] Ciò abbiamo voluto con ingenuità rilevare, sebbene il piano di questa favola non parmi disposto col giudizio che si richiede per tener lo spettatore attento e sospeso; e bisognerebbe che le scene vi fossero con più artificio concatenate.
Nel riprodurre il testo, abbiamo deciso di adottare una grafia conservativa. […] Noi ne abbiamo una pruova continua nella storia naturale de’ fanciulli, che quella esprime più o meno del selvaggio o de’ primi uomini. […] [2.20] Noi non abbiamo inteso di definire il carattere di ciascun tuono considerato in se stesso, e notarli tutti o i principali, come si fa nella musica. […] [7.1] Noi abbiamo considerato finora l’espressione rispetto a ciascun organo preso isolatamente, ed abbiamo veduto come ciascuno in particolare si presti a servire alla passione che lo predomina, e quindi secondo quale norma più giusta e sicura si sogliano e debbano combinare nella medesima espressione. […] Noi ne abbiamo dato alcun saggio con gli esempi, di cui ci siamo finora giovati per determinarne alcune espressioni.
Senza dubbio Racine apprese tal pratica da Menandro, il quale (come abbiamo osservato nel tomo I di questa istoria) non cominciava a comporre i versi delle sue favole prima di averne disposto tutto il piano. […] La commedia del milanese Niccolò Secchi fornì al Moliere, come abbiamo notato, quella del Dispetto amoroso; ma la commedia italiana termina assai meglio della francese, il cui quinto atto mal congegnato raffredda tutta la favola.
, in vece delle 15 linee che seguono dalle parole abbiamo sino a Teodosio II, si scriva quel che segue, che nè anche si trasmise a Venezia.
Oltre all’album di Yambo, abbiamo sul nostro artista un saporitissimo studio umoristico di Jarro (Fir., Bemporad, 1897), un numero unico illustrato (Pisa, 1886), con una cocente epigrafe di Cavallotti, uno studio novissimo di Antonio Cervi (Bologna, Beltrami, 1900), e finalmente un novissimo scherzo di Jarro(Firenze, 1901) intitolato Il naso di Ermete Novelli.
La traduzione che ci ha data dell’Epitalamio per le Nozze di Peleo e Teti, mi sembra veramente degna di Catullo, e, s’ io non erro, la migliore di quante ne abbiamo avute.
Pare che a Modena si fosse sparsa, molti anni prima, la notizia della sua morte, poichè abbiamo un brano di lettera del 1° gennaio 1735 in quell’Archivio di Stato, così concepito : « Il povero Riccoboni, che avevamo mandato all’altro mondo, vive sempre, e sempre bravo modenese. » Molte sono le opere di teatro ch'egli scrisse, ma tutte ohimè giacenti nell’ oblìo.
Palissot ebbe ragione di così dire: “Per mezzo degli stessi capi d’opera di Cornelio abbiamo noi imparato a conoscere l’ esagerata mediocrità degli ultimi suoi drammi; e pure i più deboli di essi potrebbero passar per eccellenti oggi che ci troviamo sì bisognosi”. […] Dacier fralle altre critiche fatte alle tragedie nazionali, diceva: “Noi abbiamo tragedie, la cui costituzione è sì comica, che, per farne una vera commedia, basterebbe cangiarne i tomi”.
Vuolsi ancora dall’interno del teatro sbandire quella maniera di ornati, tanto alla moda in Italia, che rappresentano ordini di architettura; pedanteria, che abbiamo redata dal secolo del Cinquecento, in cui né scrivania facevasi, né armadio senza porre in opera tutti gli ordini del Coliseo.
Pietro de Napoli-Signorelli non abbiamo più quind’innanzi di che querelarci, né che invidiare più agli esteri.
L’Innamorato, per esempio, pare non avesse che uno studio : quello di recar sulla scena tutto un repertorio di immagini achillinesche, di cui abbiamo avuto un largo esempio nell’orazione funebre di Adriano Valermi per la Vincenza Armani ; mostrando così, come la fama di un attore serio, e sopratutto amoroso, avesse una solida base nella strampalata ampollosità del fraseggiare.
Voltaire preferì il personaggio di Catone a quello di Cornelia del Pompeo di Pietro Cornelio, ed esaltò la sublimità, l’energia e l’eleganza del Catone; ma ne rilevò, come abbiamo osservato, molti difetti, e conchiuse che la barbarie et l’irrègulieretè du thèatre de Londre ont percè jusque dans la sagesse de Addisson . […] L’Abate Arnaud che ne recò un estratto nel tomo VII della Gazzetta letteraria dell’Europa, «noi, dice, non abbiamo potuto leggerlo senza esserne commossi, non già per quella tenera generosa pietà cara ai cuori più sensibili, ma per certo tristo sentimento doloroso, onde l’anima rimane abbattuta, lacerata, istupidita». […] Noi che non abbiamo ancor letta quest’altra opera, non possiamo altro dire, se non che m.
Sotto Augusto, il quale pure incominciò un Ajace, Aristio Fusco scrisse commedie togate: un altro Cajo Tizio (diverso dall’oratore soprannomato) secondo Orazio fu buon poeta lirico e scrisse ancora tragedie: Ovidio fece una Medea, della quale abbiamo un frammento in Quintiliano: e il famoso Mecenate, oltre a’ varii poemi, compose alcune tragedie, come il Prometeo citato da Seneca, e l’Ottavia mentovata da Prisciano. […] Sotto il medesimo Augusto fu composta l’eccellente tragedia intitolata Tieste tanto esaltata nel dialogo intorno agli oratori attribuito a Tacito, la quale, a giudizio di Quintiliano, poteva degnamente compararsi colle migliori tragedie Greche; e pure, come abbiamo accennato, egli riconobbe sinceramente la debolezza de’ comici Latini al confronto de’ Greci. […] Ciò abbiamo voluto con ingenuità rilevare, sebbene il piano di questa favola non sembrami disposto con quel giudizio che si richiede per tener lo spettatore attento e sospeso; e bisognerebbe che le scene vi fossero con più artificio concatenate.
Di Pier Maria Cecchini abbiamo due opere teatrali : La Flaminia schiava ; pubblicata il 1610 a Milano, e L’Amico tradito, il 1633 a Venezia. Ma le opere per le quali dobbiamo essere grati a Pier Maria Cecchini son quelle d’indole didattica, nelle quali unicamente abbiamo, come più volte ho detto, l’idea ben chiara di quel che potesse essere il comico a quei tempi e il suo modo di recitare.
In un teatro illuminato a dovere si verrebbe a manifestare più che mai il vantaggio che noi abbiamo sopra gli antichi, di fare le nostre rappresentazioni sceniche di notte tempo.
Oltre al noto epitaffio di Francesco Loredano, Giace sepolto in questa tomba oscura, Scappin, che fu buffon tra i commedianti, Or par che morto ancor egli si vanti Di far ridere i vermi in sepoltura, abbiamo i due seguenti sonetti, senza nome di autore, inediti, nel manoscritto Morbio, descritto al nome di Andreini-Ramponi Virginia : PER LA MORTE DI SCAPPINO COMICO Proteo costui ben fù, che ’n mille forme Su le scene variò voce, e sembiante, Hor seruo scaltro, ed or lasciuo amante, Edippo, hor Dauo, et hor Mostro difforme.
Del 1585 poi abbiamo un invito del Duca Vincenzo di Mantova a Ludovico da Bologna, fatto col mezzo del Pomponazzi a Milano, perchè si rechi a recitarvi nella Compagnia della Diana ; al quale invito si risponde non potere il Gratiano accettare, ove non abbia insieme il Pasquati.
Risulta da quanto abbiamo accennato che la Celestina giustamente proibita e giustamente lodata ancora, ove però voglia considerarsi come spettacolo teatrale, parrà un componimento per tutte le vie spropositato e mostruoso; là dove mirandola come conviensi qual novella in dialogo, in cui l’autore sempre occultandosi tutto mette in bocca de’ personaggi, sarà un libro ricco di varie bellezze e meritevole di certo applauso. […] E ciò abbiamo trovato di notabile fra’ Portoghesi. […] Non può assicurarsi, che las cortes de la muerte fosse un auto sacramentale; perchè nella penisola di Spagna vi sono stati auti che furono rappresentazioni drammatiche senza essere allusive al Sacramento dell’Eucaristia, e ne abbiamo le pruove nelle già riferite del portoghese Gil Vicente; nè poi traile figure del carro de’ commedianti alcuna se ne mentova che a tal sacramento possa riferirsi. 2. […] Questo titolo non s’immaginò nè si pubblicò che nel 1616 (perchè in tale anno, e non nel 1615, si stampò la II parte del Don Quixote); ma noi abbiamo già parlato degli auti di Lope scritti sin dal XVI secolo; adunque l’autor memorando del Prologo con un corredo di villanie distese in dieci pagine contro del Signorelli trovò appena per l’origine degli auti un fatto dell’innoltrato secolo XVII immaginario e posteriore alla verità istorica raccontata dal Signorelli.
Così termina la tragedia di Numanzia distrutta, il cui piano tessuto per quattro atti e mezzo di episodj mal connessi e di freddi amori sconvenevoli e intempestivi abbiamo voluto esporre agli occhi imparziali del pubblico. […] Se poi nulla si fa nel vuoto degli atti, cade Huerta ancora nel ridevole difetto di lasciar l’azione interrotta, che abbiamo notata in Ayala patrocinato dal Sampere y Guarinos. […] Huerta ha pur tradotta la Zaira che noi non abbiamo letta; e ci auguriamo ch’egli ne abbia tolte le improprietà meglio che non ha fatto nell’Agamennone di Sofocle19. […] Noi qui abbiamo risecato moltissimi esempi tratti dalle altre poesie dell’Huerta, ne’ quali si dimostra pretto Marinista o Gongorista, avendoci la di lui morte determinato a supprimerli.
Quì in fatti abbiamo un vecchio medico geloso ingiustamente della moglie. Quegl’ intrighi pericolosi per gli amanti atti ad esercitar le furberie de’ servi, i quali non abbiamo potuto finora rinvenire nell’Ariosto, nel Bibbiena e nel Machiavelli, regneranno per avventura come nel proprio elemento in questa favola del Bentivoglio che di proposito dipinge un geloso? […] Nel quinto intermedio Roma stessa comparisce scapigliata, incatenata innanzi a un carro trionfale occupato da Alarico, Genserico, Ricimero, Totila, Narsete e dal duca Borbone generale di Carlo V, i quali cantano una canzonetta, che dice Quella che il mondo vinse, abbiamo vinto, alla quale succede il lamento di Roma in due ottave, che conchiudono, Già vinsi il mondo, or servo a gente vile, Come fortuna va cangiando stile. […] Tuttavia non abbiamo sinora sufficienti indizj da non istimarla opera di Torquato. […] Noi che abbiamo studiata un poco più l’Italia e la Spagna, possiamo assicurargli che in tali paesi si sono infinite volte dipinte le donne con siffatto carattere, cioè distinte per grado e per virtù.
Niuna cosa prova più pienamente ciò che abbiamo di sopra ragionato ne’ fatti generali della scenica poesia, quanto questo novello rigore, che incatenò i poeti. […] Ne’ frammenti che di lui abbiamo, si ammira una locuzione nobile sì, ma veramente comica, e vi si sente un sale grazioso che stuzzica il gusto, ma non amareggia il palato53.
Palissot ebbe ragione di così dire: « Per mezzo de’ medesimi capi d’opera del Cornelio abbiamo noi imparato a conoscere l’esagerata mediocrità degli ultimi suoi drammi; e pure i più deboli di questi potrebbero passar per eccellenti oggi che ci troviamo sì bisognosi ». […] Dacier, fralle altre critiche fatte alle tragedie nazionali, diceva: «Noi abbiamo tragedie, la cui costituzione è sì comica, che per farne una vera commedia basterebbe cangiarne i nomi.»
Questo abbiamo visto accadere per l’Innavertito del Beltrame ; e questo forse accadde per la Rodiana, commedia improvvisa del Calmo, trascritta poi sulla scorta di quei primi recitatori dal Ruzzante ?
Dopo ciò che abbiamo narrato, e che si può verificare ad ogni occorrenza, non pare che questa sentenza dell’Andres sia stata dettata da giusta critica, da lettura diligente e da perizia della poesia drammatica.
Si comprende particolarmente da quest’ultimo nome che noi non intendiamo quì di offendere i viaggiatori intelligenti, agiati e sinceri; ma abbiamo in mente soltanto que’ viaggiatori mendicanti, i quali lodano p. e. l’ Inghilterra, perchè qualche Inglese gli ha menati seco pascendoli e vestendoli, e biasimano l’Italia, e Napoli spezialmente, perchè non vi avranno trovato pari opportunità.
Una linea ancora, e forse lo Zacconi toccherebbe il grottesco ; ma la linea non c’è, e invece del grottesco abbiamo il sublime e per concepimento artistico e per espressione….
A noi, oltre a ciò che abbiamo detto dell’Elettra, non sembra la Semiramide una delle migliori tragedie del Crebillon. […] Noi non abbiamo dissimulati alcuni difetti delle migliori sue favole, affinchè la gioventù non creda di trarre da sì ricca miniera sempre oro puro; ma tralasciamo di spaziarci sulle altre più abbondanti di difetti che di bellezze. […] Noi abbiamo accennato queste poche cose senza curarci dal rimanente deriso dal nominato giornalista, il quale ne additò anche molte espressioni false, gigantesche e puerili.
Egli é vero che possiam gloriarci di un Metastasio, nel quale abbiamo, non che un Racine e un Corneille, ma un Euripide: i di lui trionfi però non sono stati seguiti da altri, e l’opera, che tanto si appressa alla greca tragedia, par che declini.
Il Sand inesattamente fa nascere l’Armiani (sic) a Vicenza, anzichè a Venezia, come abbiamo dal Valerini stesso, e dice che nel 1570 ella divien celebre per tutta Italia ; mentre sappiamo ch’essa rese l’anima al Creatore il dì 11 settembre l’anno 1569 ; e che « un Gandolfo, del quale rimane sconosciuto il cognome, a’15 settembre così scriveva al Castellano di Mantova : « La Vicentia comediante è stata atosegata in Cremona.
Egli non pertanto non lascia di notare, parlando della serenata del marchese di Villena (di cui abbiamo ragionato nel capo III di quello Libro), che in vano Calderón si arrogava la gloria d’aver il primo introdotto in iscena personaggi allegorici; da che in quella serenata si veggono personificate la pace, la giustizia ec.
L’Atellana era una commedia bassa, sì, ma piacevole, lontana alla prima da ogni oscenità e licenza scurrile (siccome nel secondo capo del presente libro abbiamo osservato) indi contaminata dall’esempio de’ mimi.
L’Atellana era una commedia bassa sì ma piacevole, lontana alla prima da ogni oscenità e licenza scurrile (siccome nel secondo capo del presente volume abbiamo osservato), indi contaminata dall’esempio de’ mimi.
Noi che abbiamo studiata un poco più l’Italia e la Spagna, possiamo assicurargli che in tali paesi si sono infinite volte dipinte le donne con caratteri nobili, cioè distinte per grado e per virtù. […] Quegl’ intrighi pericolosi per gli amanti atti ad esercitar la furberia de’ servi , i quali non abbiamo sinora trovati nelle commedie dell’Ariosto, del Bibbiena e del Machiavelli, regneranno per avventura come nel proprio elemento in questa favola del Bentivoglio che di proposito dipinge un geloso? […] Nel quinto intermedio Roma stessa comparisce scapigliata iucatenata innanzi ad un carro trionfale occupato da Alarico, Genserico, Ricimero, Totila, Narsete, e dal duca Borbone generale di Carlo V, i quali cantano una canzonetta che dice, Quella che il Mondo vinse abbiamo vinta, alla quale succede il lamento di Roma, in due ottave che conchiudono Già vinsi il Mondo, or servo a gente vile, Come fortuna va cangiando stile. […] Tuttavia non abbiamo sinora sufficienti indizii da non istimarla opera del Tasso giovine.
[1] Tal è lo stato presente del dramma musicale italiano quale noi finora l’abbiamo descritto nel presente volume, e ne’ due ultimi capitoli del secondo. […] Noi abbiamo sopra l’archittetura, la pittura, e la poesia de’ trattati analitici ripieni di precetti e d’esempi, e la musica, quella di tutte le belle arti che più ci commove, quella che ha maggior imperio sugli animi nostri, è l’unica facoltà a cui niuno, ch’io sappia, ha prestato per anco il servigio medesimo.
Arnaud che ne recò un estratto nel tomo VII della Gazzetta letteraria dell’ Europa, “noi (dice) non abbiamo potuto leggerlo senza esserne commossi, non già per quella tenera generosa pietà cara a i cuori più sensibili, ma per certo tristo sentimento doloroso, onde l’anima rimane abbattuta, lacerata, istupidita”. […] Noi che non abbiamo ancor letta quest’altra opera, non possiamo altro dire, se non che M.
Non abbiamo se non l’eloquente Ceruti, che volle provarsi ad animare una Tragedia con una prosa armonica, seguendo le idee di M.
Di questa precisione e aggiustatezza abbiamo pochi esempli tra’ moderni, i quali per lo più fanno rispondere a’ personaggi quel che comanda la rima o L’armonia de’ versi.
Noi nel nostro secolo XVIII ne abbiamo avuti luminosi esempli nella Cuzzoni, nella Tesi, nella Faustina, nell’Astroa, nella Mingotti, nella Gabrieli, nella Toti, nella Bandi, nella Correa Spagnuola.
Di questa precisione e aggiustatezza abbiamo pochi esempj tra’ moderni, i quali per lo più fanno rispondere a’ personaggi quel che comanda la rima o l’armonia de’ versi.
Euripide scrisse ancora un’Antigone, ma ne abbiamo soltanto pochi versi. […] Le tragedie intere che ne abbiamo, sono Elettra, Oreste, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauri, Elena, Alceste, Ippolito Coronato, Ecuba, Andromaca, le Trojane, Reso, Medea, le Fenisse, le Supplici, gli Eraclidi, Ercole Furioso, Ion, le Baccanti, il Ciclopo. […] E ciò non vuol dire, che i moderni abbiano a disperare di poter mai produrre tragedie maravigliosamente belle (perché anzi noi pretendiamo, e l’abbiamo altrove dimostrato, che l’arte mai non avrà a lagnarsi della poca fecondità della natura, celandosi in ogni genere infinte specie di componimenti perfetti benché dissimili); ma sì bene vuol dire che la tragedia greca fondata sul sistema della fatalità su da que’ due maravigliosi Ingegni portata all’apice della perfezione.
Siami dunque lecito d’autorizzare colle proprie parole di questo dotto maestro quanto abbiamo fin qui esposto della musica teatrale, e di accattare a me credito con una sì valevole testimonianza (III.III.25). […] [Sez.II.1.2.33] Ciò che abbiamo insino a qui osservato, vale in qualche modo anche pe’ recitativi: onde da questi brevemente ci spediremo. […] Siami dunque lecito d’autorizzare colle proprie parole di questo dotto maestro quanto abbiamo fin qui esposto della musica teatrale, e di accattare a me credito con una sì valevole testimonianza. […] Ma se abbiamo a dire il parer nostro, costoro in adottare sì fatto artifizio diedero del loro discernimento un’assai ambigua pruova. […] Procureremmo anzi di sopprimer quelli che ne fossero infetti; e non abbiamo il torto.
Noi ignoriamo se gli arabi conoscessero le note figurate, o per dir meglio, abbiamo non poca ragione di credere che fossero affatto sconosciute ad essi. […] Succedettero in seguito i madrigali, dei quali abbiamo fra i primi l’esempio in quelli di Lemmo pistoiese posti in musica dal Casella compositore di cui ne fa menzione il Dante, e nelle tante madrigalesse, ballate, villanelle, serenate, villotte alla napoletana, ed alla siciliana, e in altri componimenti cantati per tutta l’Italia, e posti in musica persin da celebri donne, che gareggiavano coi più gran compositori. […] Dagl’intermedi, e dai cori passò la musica ad accompagnar qualche scena eziandio del componimento, del che abbiamo una pruova nella pastorale intitolata il Sacrificio d’Agostino Beccari recitata in Ferrara verso il 1550, dove il sacerdote si mostra colla lira in mano suonando e cantando la sua parte sul teatro, e similmente si fece nello Sfortunato dell’Argenti, e nell’Aretusa d’Alberto Lollio rappresentate alla medesima corte.
Non vogliono riflettere che la più bella musica del mondo diventa insipida qualora le manchi la determinata misura del tempo e del movimento, che troppo è difficile conservar l’uno e l’altro nelle carte musicali prive dell’aiuto del cantore e della viva voce del maestro, che in quasi tutte l’arie antiche abbiamo perduta la vera maniera d’eseguirle, onde rare volte avviene che il movimento non venga alterato o per eccesso o per difetto, e che il gusto del cantore che s’abbandona a se medesimo nell’atto di ripeterle non può a meno di non travvisarle a segno che più non si riconosca la loro origine. […] Siccome la ricerca può sembrare curiosa e non del tutto aliena dallo scopo di quest’opera, così mi lusingo che non isgradiranno i lettori il trovar qui radunato sotto un punto dì vista quanto di più verosimile intorno a questo quesito può dirsi, il quale per altro resterà sempre oscuro a motivo delle poche notizie sicure che abbiamo intorno all’economia degli antichi teatri, e la natura intrinseca della loro musica. […] Cotesta spezie di canto non si capisce facilmente nelle nostre lingue moderne, ma s’intendeva benissimo nella lingua greca, la quale, siccome abbiamo veduto, era talmente accentuata che bastava misurar la prosa col ritmo poetico perché divenisse cantabile.
Le loro azioni drammatiche formavano un tutto non mai interrotto dal principio sino alla fine, e persino ignota fu a loro la divisione delle tragedie in iscene oin atti, nomi che noi abbiamo appresi soltanto dai latini autori. […] Lambert, Campra e più altri compositori di sommo merito perfezionarono a tal segno la musica de’ balli che «al mio tempo (dice l’Abbate Du Bos, da cui tratte abbiamo in parte le predette notizie) i maestri assegnano fino a sedici diversi caratteri nella d’anca teatrale» 181. […] Omero in più luoghi delle sue opere mi dipinge gli dei poco dissimili dai mortali, hanno eglino pelle, carne ed ossa come abbiamo noi, hanno se non un vero sangue almeno un quasi sangue, vestono la corazza, imbracciano lo scudo, trattano l’armi al paro degli uomini, il poeta dunque non ismentisce se stesso qualora gli fa venire alle prese con loro, né gli spettatori hanno occasione di ributtarsene essendo stati preparati prima a questa credenza dall’ipotesi mitologica offerta loro sin d’avanti.
Un’ idea del suo idioma abbiamo chiara in questa lettera ch’ei scrive alla sua Lampeggiante Stella È tanto l’ardore, che per amor vostro intorno alla pignatta del mio cuore s’è acceso, che dando negli eccessi, il borbottamento d’ogni mio sentimento, dubito che non crepi : mi sforzo però di dimenar il mescolo del mio affetto per disaccenderlo, ma non faccio nulla, dove che dubito che Buffetto biscottato in amore non vi comparisca avanti.
Nel recitativo semplice adunque, che declamazion musicale piuttosto che canto dee propriamente chiamarsi, giacché della musica altro non s’adopra che il Basso, che serve di quando in quando a sostenere la voce, né si scorre se non rade volte per intervalli perfettamente armonici: hanno il lor luogo i personaggi subalterni, che noi abbiamo supposto finora inutili al canto. […] Non nel carattere del protagonista, poiché non si vede qual diversità essenziale passi tra esso e quello della tragedia e della commedia, né come gli affetti, che svegliar mi debbe il primo, si differenzino dagli affetti che svegliar mi debbe il secondo. né tampoco nella scelta degli argomenti favolosi a preferenza dei veri, poiché, come abbiamo veduto di sopra, gli argomenti tratti dalla storia s’addattano egualmente bene, anzi meglio che i favolosi alla natura dell’opera.
Noi nel nostro secolo ne abbiamo avuti luminosi esempj nella Cuzzoni, nella Tesi, nella Faustina, nell’Astrua, nella Mingotti, nella Gabrieli. […] Dopo ciò che abbiamo narrato non pare che queste parole sieno state dettate da giusta critica e da lettura diligente.
Noi abbiamo veduto che non fu se non assai tardi che s’incominciarono a intavolar le melodie ad una voce sola, le uniche che potevano contribuire a dirozzare la musica e a facilitar la sua applicazione alla poesia.
Il Signor Lampillas va ruminando1 i materiali della Storia Letteraria di Spagna intorno alla venuta de’ Fenici alle Coste di Andalusia da tempo anteriore a quello di Salomone, e dice: “E’ certo, e incontrastabile il commercio, e lo stabilimento de’ Fenici nella Spagna anteriore assai all’epoca di Salomone; e perciò abbiamo questo non dispreggevole argomento a provare il valore degli Spagnuoli nelle Scienze”.
Oltre alla corrispondenza del Latouche, abbiamo anche varie commedie : Arlecchino e il Papa, commedia recitata nel 1831 all’Ambigu, e Carlino a Roma, o Gli amici di collegio, memoria storica in un atto di Rochefort e Lemoine recitata lo stesso anno alle Varietà.
Non pertanto dal racconto che ne abbiamo fatto in questo articolo, apparisce a quali stravaganze siesi abbandonato il teatro lirico francese, mal grado dell’ottimo effetto che hanno prodotto le traduzioni e le imitazioni di qualche opera del Metastasio colà recitata colla musica de’ nostri ultimi celebri maestri.
E ciò abbiamo trovato di notabile fra’ Portoghesi. […] Questo titolo non s’immaginò nè si fe pubblico che nel 1616 (perchè in tale anno, e non nel 1615, si stampò la II Parte del Don Quixote); ma noi abbiamo già parlato degli auti di Lope scritti sin dal XVI secolo; adunque l’autor del Prologo, con un corredo di villanie distese in dieci pagine contro del Signorelli, trovò appena per l’origine degli auti un fatto del XVII immaginario e posteriore alla verità istorica rilevata dal Signorelli.
., abbiamo che alla Compagnia furon pagate 1800 lire, in ragione di 600 lire mensili.
Riuscì un poco più col Regolo nel 1773, in cui imitò l’Attilio Regolo del Metastasio, e in ricompensa il censurò; al qual travaglio volendo noi mostrarci grati abbiamo fatto menzione della sua tragedia per conservarne almeno il titolo.
Così termina la tragedia di Numanzia distrutta, il cui piano tessuto per quattro atti e mezzo di episodii mal connessi, e di freddi amori, sconvenevoli, intempestivi, e di equivoci inverisimili, abbiamo voluto esporre agli occhi imparziali del pubblico. […] Se poi nulla si fa nel voto degli atti, cade Huerta ancora nel ridevole difetto di lasciar l’azione interrotta, che abbiamo notata in Ayala patrocinato dal Sampere o Guarinos.
A noi, oltre a ciò che dell’Elettra abbiamo detto, non sembra la Semiramide una delle migliori tragedie del Crebillon. […] Noi non abbiamo dissimulati alcuni difetti delle migliori sue favole, affinchè la gioventù non creda di trarre da si ricca miniera mai sempre oro puro; ma tralasciamo di spaziarci sulle altre più abbondanti di difetti che di bellezze.
Notasi nel prologo di questa favola una novità simile a quella che abbiamo osservata in alcune di Aristofane, cioè l’ illusione distrutta dal medesimo poeta. […] Ora queste tre aggiugnendosi alle venti che ne abbiamo, passerebbero il numero di vent’una da Varrone riconosciute per Plautine.
Egli morì quasi nonagenario in Taranto; e si è conservato l’epitafio ch’egli fece a se stesso come sommamente puro e degno della sua elegantissima gravità, oltre al pregio della verecondia che manca a quelli di Nevio e di Plauto, siccome altrove abbiamo pur detto78: Adolescens, tametsi properas, hoc te saxum rogat, Ut se adspicias: deinde quod scriptum est, legas. […] Le sei commedie che ne abbiamo leggonsi da’ fanciulli (o da quei che sono tali a dispetto degli anni) con una specie d’ indifferenza propria di quell’età: dagli uomini maturi con istupore e diletto: e con entusiasmo da’ vecchi instruiti.
Con nostro singolar compiacimento abbiamo in seguito notato che il su degno nostro amico di remota data, ornamento insieme ed istorico della Letterature Italiana, nelle sue Aggiunte al tomo IV pag. 343 siesi mostrato egli stesso disposto a reputar drammatiche ed animate con parole le rappresentazioni sacre del secolo XIII della Compagnia del Gonfalone ed altre simili.
Si comprende particolarmente da quest’ultimo nome che noi non intendiamo qui di offendere i viaggiatori intelligenti, agiati, sinceri e prudenti; ma abbiamo in mente soltanto certi viaggiatori mendicanti, i quali lodano p. e. l’Inghilterra, perchè qualche Inglese gli ha menati seco pascendoli e vestendoli, e biasimano l’Italia e Napoli specialmente perchè alcuno di simil genio non vi avrà trovato pari opportunità.
Dissi allora, e lo ripeto, che niuna di tali cose mette una differenza essenziale trall’opera eroica e la tragedia; ma ci abbiamo riserbato di trattarne di proposito nel nostro.
Le noie ch’ebbe a patire la Gran Duchessa in persona e soprattutto l’abate Domenico Zipoli, ambasciatore a Parigi del gran duca Cosimo III de’ Medici, le abbiamo in queste importantissime lettere da lui indirizzate all’abate Gondi, segretario del medesimo Gran Duca a Firenze, tratte dall’Archivio di Stato di Firenze (F.
Che ora abbiamo? […] Di essa pare che avesse gettati i fondamenti il medesimo Aristofane col Pluto, dove abbiamo, sì, trovato un coro, ma ben lontano dall’antica baldanza e mordacità. […] Or chiunque aspiri a riuscire nella commedia nobile, cerchi di approfittarsi delle incomparabili reliquie che ne abbiamo, e vi apprenderà l’arte di persuadere da oratore, d’ istruir da filosofo e di dilettare da poeta comico124.
Ma cotai pensieri utili forse allorché si era in tempo di non intraprenderne il corso sono oggi mai divenuti tardivi trappassata che abbiamo la metà dell’arringo. né minor vituperio sarebbe il rimuovere la man dal lavoro dopo averlo una volta incominciato di quello che fosse saggio divisamento l’astenerci dal favellare di Metastasio. […] [49] Come una conseguenza di ciò che abbiamo indicato ne deriva un altro diffetto, dal quale il nostro poeta non ha potuto liberarsi abbastanza.
Notasi nel prologo di questa favola una novità simile a quella che abbiamo osservata in alcune di Aristofane, cioè l’illusione distrutta dal medesimo poeta. […] Ora queste tre aggiugnendosi alle venti che ne abbiamo, passerebbero il numero di ventuna da Varrone riconosciute per Plautine.
Tutti gli uomini abbiamo una dose di pazzia che ha bisogno di svaporarsi; non è forse meglio, che si fermenti nel tempio, e sotto gli occhi dell’Altissimo che fra le domestiche mura?
Il Quadrio cita ancora il Crescimbeni e il Maffei, le cui parole abbiamo già discusse.
Collé, intitolata La Partie de Chasse d’Henri IV che noi abbiamo letta, i caratteri son dipinti con tutta la maestria comica, e la locuzione é molto falsa e felice.
La relazione ch’ella prima di spirare fa della morte del suo amante al marito, e l’estreme sue querele mal corrispondono alla scena patetica e naturale che abbiamo tradotta, essendo il rimanente pieno di arguzie, sofisticherie, scipitezze e concettuzzi impertinenti. […] Da quanto abbiamo ora quì appena accennato, ben si rileva perchè nel XVII ancor meno che nel precedente secolo si rinvengano vere tragedie.
Francesca Manzoni, donna assai valorosa di Milano, e di cui abbiamo molte buone poesie, é ancor autrice di una tragedia passabile.
Fu un poco più felice il Regolo nel 1773, in cui imitò l’Attilio Regolo del Metastasio, e in ricompensa il censurò; al qual lavoro volendo noi mostrarci grati abbiamo mentovata la sua tragedia, perchè se ne conservi almeno il titolo.
Le tragedie che ne abbiamo intere sono: Elettra, Oreste, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauri, Elena, Alcestide, Ippolito coronato, Ecuba, Andromaca, le Trojane, Reso, Medea, le Fenisse, le Supplici, gli Eraclidi, Ercole furioso, Jone, le Baccanti, il Ciclope. […] Nel disconvenir però dal critico lodato, ne abbiamo accettata la divisione in classi o in ispezie e non già in individui, come si espresse Laerzio, per la ragione che soggiungo.
Le tragedie che ne abbiamo intere sono: Elettra, Oreste, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauri, Elena, Alcestide, Ippolito coronato, Ecuba, Andromaca, le Trojane, Reso, Medea, le Fenisse, le Supplici, gli Eraclidi, Ercole furioso, Jone, le Baccanti, il Ciclope.
Non abbiamo notizia alcuna della sua vita prima delle nozze : è certo però che appena sposa, ella, a sedici anni, entrò di punto in bianco nella riforma della Compagnia de’Gelosi, venuta a Firenze di Francia, in qualità di prima donna innamorata, diventando in poco tempo la più celebre attrice d’Italia.
[1.3.6] Fra molte altre moderne tragedie che abbiamo non mancano più saggi d’una ottima elezion di soggetti. […] Al qual proposito non posso non riprovare il giudizio che fa di tale tragedia Vincenzo Gravina21, riponendola fra le migliori che abbiamo, ancorché senza di questa particolarità per cento altri falli meriti appena luogo fra le peggiori. […] Inoltre quegli stessi costumi ch’avevano intenzione di rappresentare non furono nelle loro tragedie dipinti con quel rilievo e con quella vivacità che abbiamo poscia osservato in altre. […] Quindi risorgendo vie più la coltura abbiamo avuto più moderni i quali ne’ lor tragici saggi hanno mostrato che l’italiana favella è capace della natural dicitura senza cadere nel basso e della tragica grandezza senza trasandar nel poetico. […] Per lo che rimane evidente che li Francesi, non avendo avuto fino a’ nostri giorni alcun poema eroico che possa contrapporsi a più mediocri di que’ moltissimi che noi abbiamo, tanto cedono in grandezza agli Italiani quanto si lodano d’avanzarli.
Ma se, come abbiamo provato in altri luoghi e proveremo di nuovo dove si parlerà del canto, il vero filosofico gusto e la perfezione d’ogni arte imitativa consiste nella rappresentazione più o meno abbellita della natura, e nell’esprimere l’oggetto che prende a dipingere senza sfigurarlo né caricarlo più di quello che comporta l’indole della imitazione, se questo fine non s’ottien nella musica se non per mezzo della semplicità, della verità e della naturalezza accoppiata all’espressione, e se ogni e qualunque ornamento, ogni e qualunque bellezza che le si aggiunga senza riguardo a cotale scopo, non è altro che una imperfezione, un difetto di più, in tal caso bisogna pur confessare, e confessarlo con coraggio, che la maggior parte delle pretese finezze armoniche, onde vanno tanto superbi i moderni maestri, invece di provare il miglioramento del gusto altro non provano che la sua visibile decadenza.
[1.52ED] E se per ghiande intendete tutte le frutte, ve la fo buona, non mangiate, dunque, che frutte; e non bevete che acqua. [1.53ED] Ma mi direte d’avere voi migliorato il sistema de’ vostri rozzi antenati colle carni e col vino, perché massimamente dopo il diluvio non si convince che coloro vivessero più di voi, se si ha la dovuta fede agli storici. [1.54ED] Ma io vi soggiungo che noi pure abbiamo migliorata la condizion vostra nel cibo, e le zuppe franzesi e i lusinghieri ragù e i teneri arrosti non ti spiaceranno, tanto più che vedo pochissima differenza fra l’età vostre e le nostre. [1.55ED] Io non voglio correre per gli esempli perché altro che poche sessioni si richiederebbono al nostro ragionamento, né ti credo lontano dal concedermi quanto in simil materia per avventura adducessi. [1.56ED] Nella poesia sì che sta tutto il guaio, perché questa fu, per così dire, inventata e certamente perfezionata nelle teste d’Eschilo, di Euripide e di Sofocle, per parlare (come abbiam proposto) della tragedia. [1.57ED] Ma, padre mio, io so che le tragedie franzesi piacciono più delle vostre e la ragione vi dee ben essere, perché senza valente ragione egli è poi difficile, sapete, il lungamente ingannar l’universo. [1.58ED] Piacciono forse per la corruttela del costume? […] [1.137ED] Ma suole ancora, benché più di rado avvenire e ne abbiamo dalle storie non pochi racconti, che tal volta un principe erri sconosciuto fuor de’ suoi stati per qualche tempo e che poi nel grand’uopo si scopra con incontrovertibili contrassegni, lo che produce meraviglia insieme e diletto negli ascoltanti. [1.138ED] Anche questa sorta d’avvenimento viene verisimilmente ammessa nella tragedia, non sì frequente e naturale come la prima e perciò più perigliosa; di maniera che difficilmente consiglio i tragici a frequentarla, perché pochissime di queste agnizioni si trovano che siano felicemente condotte e che non lascino che ridire. […] — [3.13ED] — Sono persuasissimo, — io replicai — ma una differenza ci è circa lo sceneggiamento fra’ tragici franzesi e fra noi, ed è che i Franzesi hanno per li soliloqui un cert’odio che noi non abbiamo. [3.14ED] Pochi e per lo più brevi se ne leggono nelle loro più rinomate tragedie, ma nelle nostre e (se a me lice parlar di quello di che doverei forse tacere) nelle mie se ne trovano di non brevi, ma che però molto mi servono ad una buona e chiara condotta delle mie favole. [3.15ED] Pretendono i Franzesi che sia da pazzo lungamente dialoghizzar con se stesso ed inventano attori che chiamano ‘confidenti’, con cui interamente possa aprir l’animo suo un traditore, un amante, una vergine, da che (dicon essi) nasce più verisimiglianza in chi rappresenta e più diletto in chi ascolta. [3.16ED] Io (poiché ho cominciato a parlar di me) seguendo in ciò l’esempio del Tasso, del Guarino e di altri nostri Italiani, ho creduto dover regolarmi diversamente ed eccone le ragioni. […] [4.118ED] Perché con l’imaginazione facendosi presente quel caso, si astrae nel medesimo e si figura che la vera Ifigenia parlasse con que’ sentimenti e si smaniasse in quella maniera in cui appunto si esprime e smaniasi la Flaminia, e che il poeta non abbia fatt’altro che mettere in versi il discorso della principessa d’Argo; e così la vera Ifigenia rammemorata, i di lei sentimenti vivamente al popolo ricordàti ed espressi nel loro maggior lume, gli atti della vera Ifigenia ad esso sì spiritosamente rappresentati, muovono il popolo ad ira, a misericordia, ad amore; e fin qui può arrivar l’impostura; imperocché, se altrimenti avvenisse e che non la vera, ma la finta Ifigenia lo movesse, ne avverrebbe infallibilmente che l’ira, la misericordia e l’amore ancora dopo l’azione durerebbero negli ascoltanti verso l’attrice; siccome quando noi per qualche azion fatta di nostro piacere o scontento, amando o pur odiando un obbietto, ancora fuori di quell’azione seguiamo ad odiarlo o ad amarlo; così, finita la rappresentazione, avremmo gli stesse movimenti verso la finta Ifigenia; e pure (quand’altro fine non muovaci) non gli abbiamo, là dove verso la vera Ifigenia, anche fuori della rappresentazione, li conserviamo. [4.119ED] Ed eccoti il vero arcano della mozione del popolo assiso allo spettacolo della tragedia.
Ne abbiamo sei commedie con la seguente epigrafe, Giovine piansi, or vecchio ormai vò ridere. […] A quanto ne abbiamo divisato, e al più che per fuggir noja omettiamo, si scorge che l’Elvira non rivedrà mai più le scene.
Le sei commedie che ne abbiamo leggonsi da fanciulli (o da quei che sono tali a dispetto degli anni) con una specie d’indifferenza propria di quell’età: dagli uomini maturi con istupore e diletto: e con entusiasmo da’ vecchi istruiti che conservano le tracce del gusto.
Da quanto quì abbiamo ora appena accennato ben si rileva perchè nel XVII ancor meno che nel precedente secolo si trovino tragedie vere.
Non abbiamo finora potuto ammirare il terzo dramma intitolato Nancy; ma per l’idea che può ricavarsene da’ fogli periodici, esser dee una vera tragedia cittadina, che non degenera punto in commedia lagrimante.
Nel darne conto non abbiamo stimato di supprimere ciò che già si è di sopra riferito sulle prime sue tragiche fatighe, perchè secondo me ciò darebbe indizio o di una inutile e non dovuta ritrattazione de’ giudizj profferiti o di un totale disprezzo delle precedenti tragedie del conte, nelle quali scorgonsi certamente varj lampi d’ingegno.