Ciò che mi spingeva a studiare l’opera di questo conte bergamasco, nato nel feudo di Calepio nel 1693, e autore di alcuni saggi critici che avevano ottenuto maggior fortuna al di là delle Alpi che non in patria, era un concorso di moventi di diversa natura. […] Il poeta ha voluto ad imitazione dell’Enea virgiliano unire in Oreste la pietà colla fortezza, ma egli è caduto in errore inescusabile, perciocché (omettendo che Enea appresso Virgilio non chiede mai aiuto a donne in simili congiunture, né tra morti, come qui succede ad Oreste) non era da giudizioso scrittore l’imitar Virgilio in una massima, per cui si rese egli stesso condannevole nel suo poema, ove fa piangere Enea ora sotto il tempio di Giunone nel guardare le immagini dell’assedio di Troia, or nella perdita di Creusa, or nell’abbandonamento della patria, or nel partire da Andromaca, or nell’affogamento di Palinuro, ed in più altri luoghi. […] Vietavi tali cure il patrio zelo: poco questo oprarebbe, se congiunti tra voi men foste: è d’uopo immolar, e senz’ira, alla patria il cognato.