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162. (1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II « NOTE E OSSERVAZIONI DI D. CARLO VESPASIANO in questa edizione accresciute. » pp. 281-290

Siccome i Greci non si stomacarono della Medea di Euripide, contuttochè l’ autore per l’oro de’ Corintj ne avesse affatto cambiato la storia che allora non era troppo antica, così Cicerone, così Quintiliano, e così altri Romani non rimasero nauseati nè della Medea di Ennio, nè di quella di Ovidio, nè delle due altre Medee di Pacuvio e di Azzio, nè probabilmente di questa di Seneca; perchè il gran segreto della scena tragica, come saviamente pensa un nostro chiarissimo scrittore, in due parole è compreso: grandi affetti e stile. […] Son quest’esse le sue parole: . . . . . . […] Dalle leggi che pubblicarono gl’ Imperadori Cristiani del IV e V secolo intorno agli scenici e agli spettacoli teatrali, ricaviamo che le rappresentazioni mimiche di parole, di canti, di gesti e di salti, erano divenute anco a’ loro tempi così necessarie in alcune festive solennità, che doveansi esibire da’ magistrati maggiori non solo nelle principali metropoli dell’Imperio e in Occidente e in Oriente, ma eziandio nelle città municipali da i Duumviri, o magistrati minori.

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