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217. (1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo secondo — Capitolo decimoterzo »

Pensieri rancidi e vieti che si replicano mille volte e mille volte si sentono con fastidio delle orecchie, e con iscapito dell’interesse; motivi, a così dire, abbozzati senza finitura e senza carattere; idee buttate all’improvviso come vengono giù dalla penna, senza la lima che vien dallo studio, e senza la sensatezza che acquistano dalla riflessione; tratti raccolti qua e là nelle carte de’ viventi o de’ trapassati maestri combinati poi bizzarramente, onde ne risulta un ritratto che non ha fisonomia determinata; mosaici composti d’altrettante pietre di vario colore quanti sono i diversi stili, che sovente concorrono alla composizione dell’aria stessa; periodi musicali raccozzati insieme senza disegno a formar un soggetto che per lo più è in contraddizione con se medesimo e col tutto insieme del dramma; una fluidità insignificante di melodia che s’oppone alla robustezza e maestà dello stile, che restringe la musica a non trattare fuorché i rondò e le barcaruole, e che esprime la nobile tristezza d’Ezio o d’Achille col tuono proprio delle canzonette per ballo; i vezzi e le frascherie sostituite all’antica, e non mai pregiata abbastanza simplicità; il desiderio di grattar l’orecchio o di sorprender la fantasia con passaggi capricciosi, con arpeggi fuori di luogo, e con ambiziosi ornamenti; per dir tutto in poche parole il secolo del Marini e del Preti, che va succedendo nella musica dietro a quello dell’Ariosto e del Bembo, ecco il vero, il genuino, il per niun verso alterato quadro della presente musica teatrale in Italia.

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