Capo VI.
Spettacoli Scenici Spagnuoli nel medesimo Secolo
XVI.
Meglio senza dubbio che non in Germania e in Francia, si coltivava la
poesia scenica nelle Spagne. Le novelle in dialogo furono le prime cose ch’ebbero nella
penisola un’immagine rappresentativa. I portoghesi e gli altri spagnuoli ne composero
moltissime, intitolandole novelle, tragicommedie,
tragedie, e commedie, delle quali inutilmente si
farebbe un catalogo compiuto. Esse non potevano rappresentarsi, per
esser tutte, secondo il Nasarre e altri molti nazionali, lunghissime e senza azione
teatrale. Tale é la Celestina, uscita ne’ principi di questo secolo,
incominciata da Rodrigo de Cota e terminata da Fernando de Roxas, che nell’impressione
di Siviglia del 1539 porta il titolo di tragicommedia. Essa é una
composizione mostruosa e sregolata, se si considera come teatrale; ma come dialogo
romanzesco é un libro da applaudirli, non avendo riguardo se non alla vivacità delle
definizioni e alla franchezza maestrevole del pennello ne’ quadri naturali del costume,
per i quali si mostrano
alla gioventù con somma evidenza le
funeste conseguenze della dissolutezza. «Libro divino
» per tal riguardo
lo chiamò Cervantes nella decima del Poeta Entreverado; e l’autor del
Dialogo de las Lenguas afferma, non esservi in castigliano libro veruno
scritto con maggior naturalezza, proprietà ed eleganza. Incapaci di rappresentarsi sono
parimente la Florinea, la Selvagia,
l’Hechizera, e le tre del portoghese Vasconzelos, intitolate commedie, cioé l’Aulegrafia, l’Olisipo, e
l’Eufrosina, la quale uscì la prima volta nel 1566, e poi nel 1631 si
tradusse in castigliano dal Ballesteros e si pubblicò in Madrid. Un M. Perron nel 1738
volendo pubblicare in Francia un teatro spagnuolo, tradusse alcune di quelle novelle, e
fece credere che la Celestina e l’Eufrosina fossero tragedie spagnuole. I traduttori volgari sogliono esser la sorgente
principale degli errori e pregiudizi nazionali sulla letteratura forestiera. Qualche
cosa teatrale si compose in Portogallo dal famoso comico Gil Vicente, le cui commedie
venivano corrette dalla di lui figliuola Pabla Vicente che altre ne scrisse ancora di
propria invenzione. Il buon poeta Luigi Camoens scrisse un Anfitrione, e
un’altra farsa che leggesi nelle di lui opere.
Quanto al teatro castigliano dobbiamo al noto Don Miguél Cervantes la descrizione circostanziata della fanciullezza e de’ primi avanzamenti di esso. Questo scrittore, nato nel 1549 sotto l’imperador Carlo V sei anni prima che cominciasse a regnar Filippo II, c’informa in un prologo ad otto sue commedie, ch’essendo egli ragazzo, il teatro si componea di quattro o sei tavole poste sopra quattro assi in quadro alti dal suolo quattro palmi. Il suo adorno consisteva in una manta vecchia tirata con due corde, la quale dividea dal palco la guardaroba (che sarebbe il postscenium degli antichi); e dietro di essa stavano i musici che da principio cantavano senza chitarra qualche antica storietta in versi, che in castigliano chiamasi romance. Allora tutti gli attrezzi di un capo di compagnia si chiudevano in un sacco, come quelli de’ pupi, e si riducevano a quattro pellicce bianche guarnite di cartone dorato, quattro barbe e capellature posticce, e quattro bastoni da contadini. Le commedie erano non lunghi colloqui tra due o tre pastori, e una pastorella. Gli andavano poi i commedianti allungando con qualche intermezzo di Negra, di Ruffiano, di un Balordo, o di un Biscaino, caratteri rappresentati a maraviglia da un battiloro sivigliano chiamato Lope de Rueda. Si vuole che costui fiorisse circa il tempo di Leone X, ma Cervantes ragazzo arrivò a vederlo rappresentare.
Questo commediante riuscì nella poesia pastorale, e compose Eufrosina, Armedina, Medora, e i Disinganni, colloqui pastorali impressi nel 1567 in Valenza.
Succedette al Rueda un tal Naharro, nato in Toledo, il quale rappresentava molto bene la parte di ruffiano codardo. Costui ebbe il gusto più cittadinesco, e arricchì l’apparato comico in modo che non ballando più il sacco, vi vollero i bauli per contenerli. Fece anche uscir fuori la musica che prima cantava dietro della manta, e forse la rese più grata colla chitarra che l’ha accompagnata fino a’ nostri giorni. Dispose che gli attori deponessero le barbe posticce, e rappresentassero a volto nudo. Introdusse varie decorazioni e macchine, fìngendo nuvole, tuoni, lampi, e fece vedere in iscena i duelli, e le battaglie.
Mentre tali cose avvenivano nel pubblico teatro, non mancò chi s’ingegnasse di far qualche traduzione e qualche commedia che non si trova mentovata da Cervantes, probabilmente, perché non si rappresentò, né influì agli avanzamenti dell’arte. Fu tradotto ne’ principi del secolo l’Anfitrione dal dottor Villalobos imperfettamente, avendone tralasciato il prologo e vari altri squarci qua e là. L’istessa commedia fu meglio trasportata in castigliano da Fernan Perez de Oliva nel 1555. Il Soldato e i Menecmi, tradotti e imitati con arte, si pubblicarono nel medesimo anno in Anversa; ma se ne ignora l’autore. Con poca intelligenza del latino tradusse Simone Aprile e pubblicò nel 1577 le commedie di Terenzio, e n’é stato deriso in un epigramma dal poco fa mancato Iriarte. Cristofaro Castillejo morto nel 1596 scrisse alcune commedie che io non ho potuto legger finora, le quali, secondo Nasarre, potrebbero passar per buone, se fossero meno mordaci e lascive.
Ho bensì vedute le poesie di Bartolommeo Naarro di Torres intitolate Propaladia, la cui lettura fin dal 1520, quando se ne fece in Siviglia la prima edizione, fu proibita in Ispagna sino al 1573 quando si ristampò. Vi trovai otto commedie, la Serafina, la Trofea, la Soldatesca, la Tinellaria, l’Imenea, la Giacinta, la Calamita e l’Aquilana. Veramente esse sono sommamente basse, fredde, puerili, senza moto teatrale, senz’arte nell’intreccio, senza verisimiglianza nella favola, e senza decenza ne’ costumi. Gli argomenti sono di quelli che debbono bandirli da ogni teatro colto. Ecco l’azione della Serafina, in cui si vede un misto di dissolutezza e religione-floristan un tempo drudo di Serafina cortigiana si marita a Orfea onesta giovanetta; rivede l’amica; si risvegliano gli affetti antichi; Serafina lo rimprovera, e chiede la morte della moglie; egli promette di ammazzarla fra un’ora, e la cortigiana si dispone ad attenderne l’esito, dicendo
Vejam aço que fareu.
Intanto il determinato Floristan si abbocca con un eremita; manifesta come é incorso nella bigamia per aver prima sposata clandestinamente la cortigiana, ed indi con formalità Orfea, e gli confida ancora la risoluzione presa di tor la vita alla moglie,
…… Es menesterque yò mate luego à Orfea,dò Serafina lo veaporque lo pueda creer.
e si consola dell’eccesso con questa scandalosa ragione:
Porque si yò la matare,morirà christianamente,yò morire penitente,quando mi fuerte llegàre.
Frattanto il vizio radicale della favola rende il poeta incerto tra la decenza e la verisimiglianza, le quali non sapendo conciliare, s’inviluppa nelle difficoltà, e cade in contraddizioni. Il servo di Floristan nella giornata I domanda, se ha confumato il matrimonio con Orfea, ed egli risponde,
y aùn consumi el patrimonioque ha fido mucho peor,
il che vuol dir di sì. Ma nella giornata V l’eremita domanda la
medesima cosa, ed ei risponde, «ni pude, ni quisiera»
. Or perché poi
cotesto scempiato eremita, il quale, senza sapersi perché, si rende complice d’un
attentato sì atroce, aspetta fino a quel punto a fare una richiesta sì importante e
necessaria per impedir l’uccisione d’Orfea poco meno che eseguita? E’ chiaro: quando
domanda il servo, la commedia incominciava, e per farla continuare, Floristan dovea
risponder di sì; e l’eremita domanda verso la fine, e se gli risponde di no, perché la
commedia dovea terminare. Tralasciamo poi, che i personaggi vi parlano quattro
linguaggi, un latino scolastico, un italiano insipido, il castigliano, e ’l valenziano;
e neppur mettiamo a conto, che l’eremita cinguetta nel suo barbaro latino con servi e
donne, e tutti l’intendono e rispondono a proposito.
Ebbe dunque torto Nasarre a gloriarsi di siffatte commedie come delle migliori della
sua nazione, ed é interessa della gioventù di ben conoscerle per non prenderle per
esemplari. Di
più quel letterato ci diede una notizia non
vera, né verisimile, allorché scrisse che si «rappresentarono con indicibile
applauso in Roma e in Napoli»
sotto Leone X. Donde il ricavò egli? Paolo
Giovio, minuto biografo di questo Pontefice, che tante particolarità ci riferisce degli
Spettacoli da lui fatti rappresentar in Roma, non parla punto di commedie spagnuole ivi
rappresentate. Don Nicolas Antonio altro di lui non dice, se non che dimorò in Roma in
tempo di Leone X, e vi scrisse alcune satire contra de’ cardinali (e nella
Propaladia ancor se ne legge una) e dovette scapparne via e rifuggirli
in Napoli in casa di Don Fabrizio Colonna. Era poi verisimile che farse così triviali si
tollerassero colà, dove si rappresentavano tante dotte ed eleganti commedie del
Macchiavelli, del Bentivoglio, e dell’Ariosto? Fa torto adunque alla veracità ed
erudizione di un uomo di lettere la vana giattanzia aggiunta dal Nasarre, cioé che
«Naarro insegnò agl’italiani a scriver commedie, e ch’essi trassero poco
profitto delle di lui legioni».
Di grazia, chi scrivea serafine, e tinellarie,
e soldatesche, cosa potea insegnare all’Italia che facea risorger l’eloquenza ed
erudizione ateniese, e producea Sofonisbe ed Oresti
171?
Ma lasciate da banda le visioni del Nasarre, riconosciamo i primi avanzamenti del teatro spagnuolo nelle fatiche del mentovato Cervantes. Egli compose trenta commedie ricevute con molto applauso, delle quali altro non se ne conserva, se non il titolo di alquante. Cervantes le tenne per buone, e noi dovremmo convenir con lui, a giudicarne dalle cose da lui ragionate nel Don Quixote con tanto senno intorno alle commedie; ma quest’argomento perde ogni vigore, quando dall’l’altra parte si riflette, che Cervantes medesimo il quale ragionò si bene, lodò come eccellenti alcune tragedie che la posterità ha trovate strane e difettose. Di più annunziò egli nel suo prologo, come scritte con arte, le otto ultime sue commedie pubblicate un anno prima di morire; e pur sono talmente cattive e spropositate, che nel 1749, per procurar lo spaccio degli esemplari di esse mai più non venduti, il bibliotecario Nasarre prese il partito d’appiccarvi una lunga prefazione, nella quale si ammazzò per dimostrar che Cervantes le scrisse a bello studio così sciocche per mettere in ridicolo quelle di Lope di Vega. Ma le parole del Prologo di Cervantes hanno tutta l’aria d’ingenuità che manca alla dissertazione, e distruggono sì manifestamente le congetture del Nasarre, ch’io giudico che mai questo letterato non credé da senno egli stesso quel che si sforzava di persuadere agli altri.
Cervantes lasciò di scriver commedie quando cominciava a fiorire il famoso Lope de Vega Carpio, il quale sopravvisse diciannove anni a Cervantes, e morì nel 1635 d’anni settantatré. L’antica e la moderna Europa non vide un poeta teatrale più fecondo di Lope. I venticinque volumi impressi sono una parte di ciò che scrisse pel teatro. Montalbàn afferma che le commedie furono più di mille e ottocento, e che unite a los autos sacramentales 172 e ad altre picciole farse, ascendono a duemila e dugento i suoi componimenti drammatici173. Lope ebbe il piacere di vederli rappresentar quasi tutti, o di sentir che per la Spagna si rappresentavano. Egli compose senza farli inceppar da veruna regola prescritta dal verisimile; ma dotato d’ingegno, di fantasia, d’eloquenza, attese con una versificazione armonioso e seducente, e colla moltiplicità degli eventi e delle cose maravigliose, a signoreggiar sui cuori, e a secondar (com’egli dice nell’Arte Nuevo) il gusto del volgo e delle donne, per la cui approvazione trionfava in Ispagna l’anarchia teatrale. Contuttociò il Nasarre senza ragione cerca avvilir affatto il merito di Lope, il quale pur é fino ad oggi il Principe de Comici Spagnuoli. Egli si scatena contra di lui come il primo corruttor del Teatro; però la corruzione suppone uno stato di sanità e perfezione anteriore; ma qual era il Teatro Spagnuolo prima di Lope? Ecco come egli stesso il dipinge a’ suoi contemporanei per discolparsi, e niuno di essi, né i successori hanno potuto tacciarlo di mentitore:
……………………… Hallè que las ComediasEsteban en España en a quel tiempo,No como fus primeros InventoresPensaron que en el Mundo se escribieran,Mas como las trataron muchos Barbaros,Que enseñaron el Vulgo à sus rudezas;Y affi se introduxeron de tal modo,Que quien con arte agora las escribe,Muere fin fama y galardòn.
Lo trovò adunque corrotto, e forse nacque da temi originariamente pontici e silvetrri, come dinota la parola introduxeron; e se in qualche cosa merita Lope di esser ripreso, si é in non aver tentato, come avrebbe potuto, di opporsi al torrente limaccioso delle commedie stravaganti. Contemporanei di Cervantes e di Lope furono il dottor Ramòn, Miguél Sanchez, il dottor Mira de Mescua, Tarraga, don Guillén de Castro, autore del Cid, Aguilar, Luis Velez de Guevara, Antonio Calarza, Gaspar de Avila ed altri molti, i quali scrissero tutti sul gusto di Lope.
Nell’inondazione di tanti scrittori drammatici di questo tempo ne troviamo quattro, i quali scrissero undici tragedie, Fernan Perez de Oliva, Geronimo Bermudez, Giovanni de la Cueva, Leonardo de Argensola. Ma si pretende che prima di costoro, anzi prima degl’italiani, ne avesse scritto un tal Vasco Diaz Tanco de Fregenal.
Subito viene la curiosità di domandar dove sono, o chi l’afferma? Niuno le vide, e mai
non s’impressero. Ma esistettero? L’afferma il solo Tanco medesimo. Egli dice che nella
sua gioventù avea scritti quarantotto componimenti inediti sopra argomenti sacri,
dorici, morali, e tra essi erano alcune tragedie di Assalone,
Amone, Saule e Gionata. Ma furono veramente tragedie?
Non si può sapere, perché gli spagnuoli convengono in dire che questo «Tanco
adolecìa de presumido»
e vanaglorioso; e ’l dotto don Nicolàs Antonio afferma
che i titoli degli accennati opuscoli inediti pieni di novità e di gonfiezza dimostrano
la di lui vanità174. Almeno si
sapesse quando nacque cotesto Tanco! S’ignora affatto Si sa solo che vivea in tempo di
Carlo V, e fece un opuscolo sopra la nascita di Filippo II. nel 1527, e che nel 1547
pubblicò una traduzione
della storia di Paolo Giovio
intitolandola capricciosamente Palinodia, e finalmente che nel 1551 fé
imprimere il suo Giardino dell’Anima Cristiana, di cui parla l’epigramma
apportato in margine. Ad onta di tal’incertezza l’erudito Montiano nel secondo suo
discorso sopra le tragedie vorrebbe con questo Tanco contrastare agl’italiani
l’anteriorità della tragedia, dicendo che la di lui «gioventù poteva essere
intorno al 1502»
(epoca, com’ei crede, della prima tragedia degl’italiani),
«perché non vi é specie che ripugni all’esser nato Vasco nel 1500»
, e
in questo malfondato raziocinio fu seguito dal Compilator del Parnasso
Spagnuolo. Né l’uno né l’altro si avvide che un può essere
in buona Loica mai non produce per conseguenza un é. Del resto si é
veduto già, quante altre tragedie han prodotto gl’italiani assai prima del Carretto. Né
ciò si dice perché importi gran fatto l’esser primo; ché io amerei piuttosto esser
ultimo come Euripide, che anteriore come Cherilo, o Senocle. Passiamo alle undici non
immaginarie tragedie spagnuole.
Fernan Perez de Oliva compose veramente due tragedie castigliane, ma in prosa benché
buona l’Hecuba Triste, tradotta da quella
d’Euripide, e la Venganza de Agamemnon dall’Elettra di
Sofocle, le quali si pubblicarono in Cordova nel 1585. Questo maestro de Oliva prima del
1533 stava in Italia, dove fece le sue traduzioni. Dunque (conchiude il compilatore del
Parnasso Spagnuolo) pudo ser che le componesse intorno al 1520, quando
uscì (dic’egli) in Italia quella del Trissino: dunque (notisi
la logica) gli Spagnuoli hanno avuto tragedie prima degl’italiani. Né
anco di costui si sa l’anno, in cui nacque; e solo il mentovato compilatore ne dice col
solito pudo ser, che forse nacque nel 1497. Ciò concedendo ancora, il
maestro Perez con «lingua di latte snodava voci indistinte»
, e incerte orme segnava menato per los andadores, quando
si leggeva in Italia la tragedia del Carretto, e non era uscito dell’età pupillare,
quando vi si rappresentavano e ammiravano quelle del Trissino e del Rucellai.
Geronimo Bermudez, il quale ancor vivea circa il 1589, pubblicò in Madrid nel 1577
sotto il nome di Antonio di Silva due tragedie sopra Doña Inés de Castro, intitolate
Nise Lastimosa, e Nise Laureada. L’autore le chiamò
«prime tragedie spagnuole»
, e non era vano il vanto, ben meritando il
titolo di prime per essere originali, dove che quelle di Perez erano traduzioni. La
prima é regolare, e tira l’attenzione del leggitore; la seconda ha qualche mescolanza
poco degna della tragedia, come la persona del carnefice introdottavi, e i di lui bassi
motteggi contea i rei. Nel tomo VI del citato Parnasso Spagnuolo se ne fa una analisi
critica giudiziosa e sincera.
Tra le commedie di Giovanni de la Cueva, impresse nel 1588, trovansi quattro tragedie, i Sette Infanti di Lara, la Morte d’Ajace, la Morte di Virginia e Appio Claudio, e ’l Principe Tiranno. Io finora non ho potuto vederle; ma il dotto Montiano ci fa sapere che nella prima si trasgrediscono le regole dell’unità: nella seconda si pecca contra il verisimile: nella terza son due l’azioni principali; e nell’ultima é fantastico il carattere del protagonista.
Finalmente il buon poeta Luperzio Leonardo di Argensola nato nel 1565, essendo nell’età di venti anni compose tre tragedie l’Isabella, l’Alessandra, e la Filli, le quali si rappresentarono con grandissimo concorso e molto profitto de’ commedianti. Sono state sepolte fino a’ giorni nostri, e la Filli tuttavia si occulta; ma le altre due si son pubblicate nel Parnaso Español, dove se ne dà un giudizio nobilmente imparziale. Lo stile é certamente fluido e armonioso; ma il piano, i caratteri, l’economia, ogni altra cosa in somma abbonda di gran difetti, e non meritavano punto gli esagerati encomi di Cervantes.