Capo III.
La Poesia Drammatica nel Secolo XV fa maggiori progressi
in Italia. In Francia cominciano i Misteri.
Due ben differenti aspetti, contraddittori all’apparenza, sogliono d’ordinario presentare a chi le esamina, quelle colte Nazioni che si sono rendute chiare per le cose operate o patite nella pace e nella guerra. Mirandole nel punto di vista che discopre i molti loro progressi nelle scienze e nelle arti, sembrerà che un aurea pace abbia dovuto fornir tutto l’agio agli artefici e filosofi tranquilli per gire tant’oltre. E se si osservino dal punto che ne manifesta le politiche turbolenze e le guerre tollerate nel tempo stesso, si temerà pel destino delle arti, supponendole esiliate, oppresse, o annichilite. Ma tali riflessioni che possono esser giuste nelle inondazioni de’ barbari, nelle quali tutto é orrore e distruzione, ben di rado si avverano nelle guerre apportate da’ popoli colti. In queste la nazione che le soffre, fida nel sovrano che vigila per tutti, e conta ne’ casi avversi nella moderazione del vincitore; c ond’é che gli artisti, a somiglianza dell’api, attendono con una certa serenità di animo ai loro lavori. Arse l’Italia d’un grand’incendio di guerra in diversi suoi paesi nel secolo XV, ma le contese de’ pisani co’ fiorentini, de’ veneziani co’ duchi di Milano, degli angioini cogli aragonesi, non impedirono l’alto favore, la generosa protezione, e la magnanima liberalità e munificenza de’ nostri principi, ministri, generali, e grandi verso le lettere, scienze ed arti tutte, e verso i coltivatori di esse133, non la fervida e quasi generale applicazione di ogni uomo di lettera ad apprender profondatamente le due più famose lingue de’ dotti, non l’universale entusiasmo di quanti a quel tempo eruditi viveano, di andare da per tutto, anche in lontane regioni ricercando e disotterrando i codici greci e latini134, non l’ardente premura di moltiplicarli colle copie, confrontarli, correggerli, interpretarli, tradurli, comentarli, non il raccorre da ogni banda diplomi, medaglie, cammei, iscrizioni, statue ed altri antichi monumenti, non lo stabilimento di varie accademie, non la fondazione dì altre università, non l’istituzione di nuove cattedre, non l’aprimento di pubbliche biblioteche e di teatri, non la rapida e maravigliosa moltiplicazione delle stamperie per le città e sin anco per le più ignote contrade d’Italia, non il promovimento dello studio della platonica filosofia per mezzo di Giorgio Gemisto Pletone, e singolarmente di Marsiglio Ficino e di Giovanni Pico della Mirandola in Firenze, e del cardinal Bessarione in Roma, non il risorgimento dell’epopea italiana e i progressi dell’arte drammatica, non il felice coltivamento dell’eloquenza e della poesia latina, e di ogni altro genere di erudizione, precipuamente per le cure, l’ingegno e ’l buon gusto del degretario e vonsigliere de’ nostri re aragonesi Giovanni Pontano135, e del precettore di Leone X Agnolo Poliziano, e del nostro Regnicolo Giulio Pomponio Leto, non impedirono in somma l’acquisto e ’l dilatamento delle piacevoli ed utili cognizioni letterarie e scientifiche, né l’attività e ’l progresso dello spirito umano136.
Quanto agli studi teatrali divennero sempre più comuni in questo secolo, e ne sieno testimoni parlanti le tante produzioni erudite che presentiamo a’ poco instrutti dell’italica letteratura.
Sull’esempio del Muffato il patrizio veneto Gregorio Corraro, morto nel 1464, compose in versi, latini nell’età di soli 18 anni una tragedia intitolata Progne, alla quale fanno plauso con Lilio Gregorio Giraldi e Scipione Maffei tutti gl’intelligenti del latino linguaggio e della poesia drammatica. Fu stampata per la prima volta in Venezia nel 1558, e il Domenichi la tradusse in Italiano, spacciandola qual cosa sua. Laudivio, poeta natìo del regno di Napoli137, e uno tra coloro che componevano l’accademia del Panormita, compose anche una tragedia latina in versi giambici, divisa in cinque atti, dedicata al duca di Ferrara Borio d’Este, e intitolata De captivitate Ducis Jacobi. L’argomento di questa tragedia, la quale conservasi manoscritta nella Biblioteca Estense138, sono le vicende del famoso generale Jacopo Piccinino, che l’anno 1464 fatto improvvisamente arrestare da Ferdinando re di Napoli, fu poscia per ordine dello stesso re ucciso139. Il marchese Maffei nella Verona Illustrata part. II parla eziandio di una tragedia latina di Bernardino Campagna sulla passione di Cristo, da lui dedicata al pontefice Sisto IV.
Giovanni Sulpizio che sotto il pontificato d’Innocenzo VIII teneva scuola di Belle
Lettere in Roma, vi fece rappresentare un’altra tragedia, e fu la prima veduta in quella
città dopo molti secoli, secondo ciò che scrive l’istesso sulpizio nella dedicatoria
delle sue note sopra Vitruvio fatta al cardinal Rafaello Riario nipote
di Sisto IV140. Pietro Bayle, citando il padre Menestrier,
afferma che questa tragedia fu cantata come un’opera musicale d’oggidì, fondandosi sulle
le parole del medesimo Sulpizio. «Tragoediam quam nos agere et
cantare primi hoc aevo docuimus».
Sembrami però ch’essi facciano
significar troppo a quell’agere et cantare. Egli é vero che quelle
voci potrebbero far sospettare alquanto, che la tragedia fosse stata tutta, come ora
l’opera drammatica, dal principio fino al fine posta in musica; ma potriano con
interpretazione forse più fondata aver due altri significati, in ciascun de’ quali
sparisce ogn’idea di opera. Primieramente potrebbero esprimere rappresentare e declamare, perché cantare dicesi pure
da’ latini e da noi il recitar versi, per quella spezie di canto, con
cui si declamano; ed oltracciò, io canto, dice ogni poeta che prende a
narrare; cantano alternando i pastori siracusani, e mantuani, e gli arcadi romani.
Secondariamente si può aggiugnere, che Sulpizio avrà voluto
dinotar coll’agere il rappresentar nudamente la tragedia, e col cantare il cantarne con vera musica ciò che va cantato, cioé i cori, qual cosa si direbbe acconciamente con latina proprietà agere et cantare tragoediam senza convertirla in melodramma moderno.
Sopra simili fondamenti il P. Menestrier, e qualche altro erudito ritrovano l’opera in
musica dovunque si son cantati versi solennemente, ne’ canti de’ pellegrini di Parigi,
nelle sacre cantate delle chiese, nelle cantilene riferite dal Muffato ec.; e potevano
allungarne la lista co’ versi cantati da’ mori prima delle giostre, con i corei
messicani, colle musiche peruviane, con i cantici rustici de’ selvaggi, e con che no? Ma
i moderni alla voce opera aggiungono un’idea complicata e
circostanziata per modo che la diversificano, non che dalle cose soprannomate, ma dagli
stessi componimenti drammatici greci e latini, a ’quali, assai s’avvicina141. Si aggiunga di più, che dicendo Sulpizio d’aver dopo molti secoli fatta rappresentare in Roma una tragedia, ci fa retrocedere
col pensiero almeno fino a’ Latini, e non
possiamo altrimenti
concepire la tragedia di cui fa motto, se non come quella degli antichi, e non già come
l’opera eroica moderna. Ciò che solo con certezza si deduce dalle parole di Sulpizio, si
é che quel componimento fu una tragedia. Che poi quella si cantasse tutta, come pretende
il P. Menestrier, o i soli cori, come noi proponiamo, son due opinioni arbitrarie che
hanno bisogno di nuova luce istorica.
Verso la fine di quello secolo, cioé nel 1492 Carlo Verardi da Cesena, arcidiacono nella sua patria, e cameriere e segretario de’ brevi di Paolo II, di Sisto IV, d’Innocenzo VIII, e di Alessandro VI, compose ancora due drammi, che furono stampati e fatti solennemente rappresentare in Roma dal sopraccennato Cardinal Riario; l’uno in prosa latina (trattone l’argomento e ’l prologo che sono in versi giambici) sull’espugnazione di Granata, fatta dal re Ferdinando il Cattolico; e l’altro intitolato Fernandus servatus, ideato dal Verardi all’occasione dell’attentato di un sicario contra la persona del medesimo re Ferdinando, e poi disteso in versi esametri da Marcellino suo nipote.
Non parleremo qui delle rappresentazioni de’ misteri, le quali, essendosi ne’ secoli precedenti usate in Italia, furono pure in questo continuate a Roma e in altri luoghi con maggior sontuosità ed arte, e per lo più in volgare idioma142. Coteste sacre rappresentazioni, quasi tutte per l’addietro incondite, indecenti e sconnesse, risvegliando nuovamente ad alcuni dotti e ingegnosi italiani l’idea dell’antica drammatica da moltissimi secoli già estinta, dieder loro probabilmente la prima spinta a trattar anche sulla scena argomenti profani e in latino e nella natìa favella con più eleganza e sfoggio e con qualche regolarità e principio di buon gusto, secondo che que’ tempi lo potevano in tal genere di composizione permettere, nella stessa guisa che i rozzi cori pastorali ed i semplici inni dionisiaci della primitiva tragedia greca mossero l’ingegno di Epigene, di Tespide, e di Frinico a darle nuova forma e nuovo lustro.
La prima tragedia che nel risorgimento delle lettere venisse a luce in bello ed
elegante stile italiano, e con qualche idea di ben regolata azione, fu certamente
l’Orfeo del soprallodato Angiolo Ambrogini da Montepulciano, detto
comunemente Angiolo Poliziano. Non oltrepassava l’autore, per quanto
credesi da taluni, l’anno diciottesimo della sua età quando la compose in tempo
di duo giorni
, come egli stesso dice in una sua lettera a Carlo Canale,
«intra continui tumulti a requisizione del Reverendissimo Cardinale Mantuano»
Francesco Gonzaga in occasione che questi da
Bologna, ove risiedeva legato, portossi a Matova sua patria, ove era vescovo, nel
1472, siccome con il dotto abate Bettinelli stabilisce il chiaro padre Ireneo Affò di
Buffeto minor osservante, che nell’anno scorso ha fatto a onore e beneficio della
letteratura italiana stampare in Venezia appresso Giovanni Vitto l’Orfeo,
tragedia di Messer Angiolo Poliziano tratta per la prima volta da due vetusti codici
ed alla sua integrità e perfezione ridotta ed illustrata
143.
Parlando ora delle commedie, veggiamo che parecchie trovansene fino alla metà di questo
secolo scritte in latino da i nostri più accreditati Letterati. Il celebre Leonardo
Bruni, che da Arezzo sua patria é comunemente detto Leonardo Aretino, nato nel 1369, e
morto nel 1444, fece una comedia latina, intitolata Polissena, stampata
più volte in Lipsia nel principio del XVI secolo. Leon Battista Alberti, uno de’ più
gran valentuomini de’ suoi tempi, nato secondo il Manni e ’l dottor Lami nel 1398,
secondo
il Bocchi nel 1400, e, secondo che con maggior
probabilità congettura il Tiraboschi, nel 1444, scrisse anche in latino nell’età di 20
anni una comedia, intitolata Philodoxeos, che per due lustri fu creduta
opera di antico scrittore «perché (al dir del prelodato
Tiraboschi) comunque scritta in prosa, ha nondimeno alquanto dello stile de’
comici antichi, e pruova lo studio che l’Alberti avea fatto della lingua
latina»
. Questa commedia poi, quantunque stata fosse dall’autore all’età di
trent’anni ritoccata e divolgata come sua, e dedicata al marchese di Ferrara Leonello
d’Este, uno de’ più dotti principi della sua età e de’ più splendidi mecenati della
letteratura, fu da Aldo Manuzio il giovane pubblicata nel 1588 sotto il nome di Lepido
comico poeta antico. Un’altra commedia, intitolata Philogenia, fu
eziandio data alla luce in buona prosa latina circa il tempo medesimo d’Ugolino da
Parma, della famiglia Pisani. Di essa non sappiamo indicar edizione alcuna: contuttociò,
per quanto ci riferisce il Tiraboschi, conservarsene copia a penna, ma senza nome di
autore, nella Biblioteca Estense, e Alberto da Eyb ce ne ha dato un estratto144. Verso
la metà del secolo Secco Polentone, o Sia da Polenta, il quale dagli scrittori di que’
tempi vien comunemente chiamato Sico, o Xicus
Polentonus, e a cui i padovani aggiungono il cognome di Ricci,
compose pure latinamente una commedia in prosa, che ha per titulo Lusus
ebriorum, e che serbasi manoscritta fra’ codici di Giacomo Soranzo. Di
questa poi fece una traduzione italiana Modello Polentone, e
pubblicolla in Trento nel 1472 col titolo di Catinia da Catinio
protagonista della favola, la quale, secondo che pensa Apostolo Zeno145, é la più antica commedia in prosa volgare, che si abbia
alle stampe.
Nell’anno 1486 cominciarono ad imitazione di Roma, e con maggior magnificenza, a rappresentarsi in Ferrara feste e spettacoli teatrali sotto la direzione dell’infelice Ercole Strozzi, figlio di Tito Vespasiano Strozzi Ferrarese146 e niuno vi ebbe (dice l’eruditissimo Tiraboschi) che nella pompa di tali spettacoli andasse tant’oltre quanto Ercole I duca di Ferrara, principe veramente magnifico al pari di qualunque più possente sovrano147. Al 25 di gennaio del succennato anno, secondo l’antico diario ferrarese, questo splendido duca fece rappresentare in un gran teatro di legno, fatto innalzare nel cortile del suo palagio, la commedia dei Menecmi di Plauto, alla traduzion della quale egli istesso avea posto mano148; e a’ 21 di gennaio dell’anno seguente vi si rappresentò la favola pastorale di Cefalo, divisa in cinque atti, e scritta in ottava rima dall’illustre letterato e guerriero Niccolò da Correggio, dell’antichissima e nobilissima vala de signori di Correggio; ed indi a’ 26 dello stesso mese l’Anfitrione di Plauto, tradotto in terza rima da Pandolfo Collenuccio da Pesaro, il quale a richiesta parimente di Ercole I scrisse la sua commedia, o a dir meglio tragedia, intitolata Joseph, che fu poscia stampata nel 1564. Antonio da Pistoia ancora scrisse due drammi ad uso di questo teatro149, pel quale altri celebri letterati furono eziandio impiegati nel tradurre alcune altre commedie di Plauto e di Terenzio150. Il famoso Matteo Maria Boiardo ad istanza del medesimo duca Ercole compose pure in terza rima e in cinque atti una commedia intitolata il Timone, tratta da un dialogo di Luciano, la quale trovasi impressa la prima volta senza data, ma fu certamente scritta prima del 1494, in cui avvenne la morte dell’autore e se ne fece nel 1500 una seconda edizione. Il rinomato traduttore di Tito Livio, Giacomo Nardi, compose in versi di vario metro l’Amicizia, commedia che per le ragioni addotte da monsignor Fontanini dee essersi prodotta almeno nel 1494.
Ma intanto che la drammatica poesia fioriva in Italia nelle mani degli eruditi, si estinse totalmente nella Provenza, e cominciò in Parigi da’ misteri rozza ed informe. Il canto reale prese forma di dramma rappresentando la Passione di Cristo nel Borgo di San Mauro. Argomento pel mondo cristiano sì importante attrasse anche in Francia una prodigioso folla di spettatori; ma il prevosto di Parigi stimò bene di proibir quelle rappresentazioni, scorgendovi una certa profanazione delle cose più sacrosante della religione. Gli attori che ne traevan profitto, ricorsero al favor della corte, prendendo il titolo di Fratelli della Passione, e nel 1402 ne ottennero da Carlo VI l’approvazione. Posero allora il teatro nell’ospedale della Trinità, e vi rappresentarono per tutto il secolo varie farse della Passione, e differenti misteri del Testamento Vecchio e Nuovo. Uno di questi drammi della Passione, scritto circa la metà del secolo, si crede composizione di Giovanni Michele vescovo d’Angers, morto in concetto di santità. Conteneva la vita di Cristo dalla predicazione del precursore fino alla resurrezione; e consisteva in una sfilza di scene indipendenti l’una dall’altra senza divisione d’atti, che si recitavano in più giorni. V’interloquiva il padre eterno. Gesù Cristo, Lucifero, la Maddalena, i di lei innamorati ec., Satana zoppicando per le bastonate ricevute da Lucifero per aver tentato in vano Gesù Cristo, la figlia della Cananea spiritata che diceva cose assai libere, la Maddalena baciata dall’Innamorato, l’anima di Giuda, non potendo uscir per la bocca che avea baciato N. S., si figurava che scappasse fuori pel ventre insieme colle interiora, Gesù Cristo sulle spalle di Satana volava sul pinnacolo ec. Tali rappresentazioni si adornavano con molte decorazioni; e vari squarci d’importanza, p. e., le parole del padre Eterno, vi si cantavano.
In Portogallo si coltivava nel declinar di questo secolo la poesia latina, e Luigi De la Cruz compose varie tragedie latine.
Nel rimanente della penisola delle Spagne il popolo si divertiva colle buffonerie de’ giullari degenerati in meri cantambanchi. Nelle chiese si recitavano le farse sulle vite de santi, così ripiene di scurrilità che verso la fine del secolo ne furono per sempre escluse per un canone del concilio toledano tenuto nel 1473. La diligenza del bibliotecario Nafarre trovò pure in tal periodo due componimenti drammatici d’uomini di lettere; uno di D. Errico d’Aragona, marchese di Villena, ch’era una serenata, o favola allegorica, nella quale intervengono la giustizia, la pace, la verità, e la misericordia; e l’altro del poeta Giovanni de la Encina, che il conte de Uregnas fece rappresentare in casa sua, ospiziando il re Ferdinando che passava a Castiglia per isposar la regina Isabella.
In Alemagna erano a que’ tempi in assai voga i giuochi di carnevale, ne’ quali la gioventù mascherata si portava per le case, e vi recitava alcuni dialoghi convenienti alla maschera presa da ciascheduno. Piacevano oltramodo per gli colpi satirici che vi li portavano piacevolmente; e perciò si attese a comporli con più cura, e mettervi più azione, migliorarli. I più antichi giuochi di carnovale che siensi conservati, sono della metà del secolo, e furono composti in Norimberga da Giovanni Rosenblut. Se ne contano sei intitolati, I. Giuoco di Carnevale; II. i sette Padroni; III. il Turco, nel quale il soldato viene in Norimberga a pacificare i cristiani, e un inviato del pontefice viene a participargli come egli ha commessione di caricarlo ben bene d’ogni sorta di villanie151; IV. il Villano e ’l capro; il V. tratta di tre persone che si son salvate in una casa; e ’l VI. fa una dipintura della vita di due persone maritate. Oltre alle suddette farse cominciarono gli alemani verso la fine del secolo a tradurre Terenzio. Si conserva nella Biblioteca del Collegio di Zwickau un estratto di due commedie terenziane destinate ad esser rappresentate dagli scolari del Collegio. Nel 1486 s’impresse in Ulm una traduzione dell’Eunuco, e nel 1499 quella di tutte e sei le commedie di Terenzio.
Nelle Fiandre troviamo a fatica in questo tempo quel genere di rappresentazione muta che solea praticarsi ne’ giorni delle gran Festività nelle chiese oltramontane, e ne’ pubblici ingressi de’ sovrani nelle città principali. Allorché Carlo ultimo duca di Borgogna entrò in Lilla nel 1468, i fiaminghi vi fecero rappresentar per mistero senza parole il Giudizio di Paride. Tre femmine nude erano le tre dive: una donna robusta, pingue, e d’una statura gigantesca, figurava Giunone: Venere era d’una magrezza straordinaria, e Pallade una nana, gobba, e panciuta. Così si concepivano allora e si esprimevano per mistero alla fiaminga i personaggi della mitologia152.