Capo VI.
Continuazione del Teatro Greco.
Frattanto la parte ridicola e satiresca de’ cori che precedettero alla poesia tespiana, appartata dalla tragedia come teoria di niun pregio, errava per gli villaggi sotto il nome di comedia preso o dal vocabolo che nel Peloponneso significava la villa, o da κωμάζεω, banchettare. Ma il piacere che quantunque grossolano, recava a tutti tale spettacolo, mosse alcuni comedi industriosi a megliorarne la forma, togliendo per esemplare la tragedia osservando poi, che questa si arricchiva ne’ poemi eroici d’Omero, pensarono di approfittarsi anch’essi delle fatiche di questo gran padre della poesia, e presero a imitare l’arsa urbana, falsa e graziosa del di lui Margite. Vennero allora in tanta fama che furono chiamati e ammessi a rappresentare in città, e al pari de’ tragedi, ottennero dal governo le spese delle decorazioni del coro. Sufarione, Epicarmo, Connida, Magnete, Formide, Crate furono i poeti comici della più remota antichità.
Trovavasi il teatro ateniese nel colmo della gloria nell’Olimpiade. LXXXI, quando cominciò a fiorir Cratino, poeta di stile austero, mordace, e assai forte ne’ motteggi, da cui si riconosce quel genere di Commedia caustica e insolente, chiamata satirica e antica. Fa seguito e imitato da Eupoli, poeta più grazioso, il quale compose diciassette commedie, sette delle quali riportarono la corona Olimpica. Ma ricevé tal commedia tutta la sua perfezione dall’Attico Aristofane che sempre colla grazia e colle facezie temperava mirabilmente l’amarezza della satira.
Osserviamo intanto, che l’emulazione de’ poeti, la natura del governo, e la prosperità della repubblica, diedero a tal commedia i pregi e i vizi che la caratterizzano.
Appena ebbero i comici, imitando i tragici, data forma e disposizione al lor poema, che gonfi della riuscita, presero a gareggiar co’ loro modelli, e ne sostennero arditamente il paragone colla magnificenza dell’apparato, e colla pompa poetica de’ cori. Impazienti poi dell’uguaglianza, ambirono di sovrastare; e per impiccolire i loro emuli, adoperando le proprie armi, cercarono di attenuar il merito de’ migliori pezzi delle tragedie col renderli ridicoli per mezzo di alcuni leggieri maliziosi cangiamenti; nel che consisteva la parodia che fu l’anima della commedia antica. La vittoria li dichiarò per gli comici, se non si riguardi ad altro che al merito dell’invenzione, e al piacer che produce la novità degli argomenti; imperciocché i tragici traevano i propri dalle favole di Omero e dalla mitologia assai ben nota; e i comici che provvedeansi nella propria immaginazione, presentavano uno spettacolo tutto nuovo. Di là uscirono quelle maravigliose dipinture allegoriche, che incantarono la grecia. Esse accoppiavano alla più esatta imitazione della natura i voli più bizzarri della fantasia, e nobilitavano gli argomenti in apparenza i più frivoli colla più vigorosa poesia, colla morale più sana, e colla politica più profonda. Con tal artificio erano lavorati quegli strani uccelli, geroglifici eloquenti di certi cittadini viziosi, noti in Atene; quelle vespe, immagini de’ magistrati ingordi e venali; quelle rane, simboli de’ molesti e sciocchi verseggiatori; e quelle nuvole, onde satireggiavasi l’ipocrisia morale, e l’inutilità de’ calcolatori fantastici.
Ma se l’emulazione rese tal commedia gloriosa, la fece oltremodo ardita il governo popolare ateniese, nel quale i comici e gli spettatori erano membri della sovranità. Osò per questo un poema sì straordinario internarsi impunemente nel segreto dello stato, trattar di pace, di guerra, e di alleanze, beffeggiare ambasciadori, screditar magistrati, manifestar latrocini de’ Generali, e additar i più potenti e perniciosi cittadini, non solo con una vivace imitazione de’ loro costumi, ma col nominarli e copiarli al naturale colle maschere.
E per ultimo ella riuscì soprammodo sfacciata e insolente a cagione della prosperità della repubblica. La felicità continuata corrompe gli animi, spogliandoli del timore, potentissimo freno delle passioni eccessive. Atene che trovavasi in sì alto punto di prosperità, e per conseguenza, di moral corruzione, mirò senza orrore il fiele che sgorgava da questo fonte, si compiacque della sporcizia che vi regnava, vedendovi il ritratto fedele de’ suoi costumi, e applaudì a quella malignità che mortificava i potenti che abborriva, e i virtuosi che la facevano arrossire. Qual maraviglia dunque che i comici insolentissero a segno, non che d’insultare ai cleoni poderosi, ma di perseguitare in Socrate l’istessa virtù, di motteggiar empiamente la religione, e di rimproverare a tutti i cittadini ciò che leggesi nel dialogo tenuto nelle Nubi dal ragionar dritto e dal torto?34
Risulta da queste cose, che ciò che ora chiamiamo commedia, non rassomiglia alla greca antica, allegorica, e satirica, la quale per invenzione, per novità, per grandezza di disegno, per fale, e per baldanza si allontana da ogni favola comica moderna. I frammenti che ci restano de’ primi comici, non basterebbero a darcene una giusta idea, se il tempo non avesse rispettate undici delle commedie di Aristofane, le quali a sufficienza ce ne instruiscono. Non voglionsi però leggere colla speranza di trovarvi avventure piacevoli, intrighi amorosi, dipinture di caratteri simili a quelle delle commedie moderne. Altr’aria, altre mire, altri comici espedienti vi campeggiano, i quali non appariscono senza la fiaccola de’ principi sopraccennati, senza la cognizione della polizia e del costume ateniese, senza la pratica delle vite di Plutarco, e senza la contezza della guerra del Peloponneso così stringatamente e leggiadramente descritta da Tucidide.
Qualunque produzione d’ingegno porta la divisa del proprio secolo, e vi si ravvisano i
costumi e ’l gusto corrente impressi con caratteri indelebili. Ma la commedia
principalmente che per destar l’attenzione e ’l diletto, ritrae e rappresenta per gli
spettatori presenti e non pe’ futuri, é sopra ogni altra esporta all’abbandono e al
disprezzo, in cui cadono le mode già passate. Una commedia italiana o francese dopo
dieci anni con difficoltà si riproduce sulle Scene nazionali senza notabili cangiamenti.
Or che addiverrà d’una greca di ventidue, o ventitré secoli indietro, la quale passi
nelle nostre contrade sì cambiate da quello che erano allora? E pure oggidì son tanti, i
ridicoli censori dell’antichità, e pretendono giudicare e condannar severamente le
commedie d’Aristofane! Mai abbastanza non si ripete a costoro, che il tuono decisivo e
inconsiderato é quello della fatuità, e che debbono apprendere; e sovvenirsene
allorché son tentati di decidere, che questo Aristofane era un
atenieso, il quale fioriva sul principio del IV secolo di Roma, tempo in cui i romani
niuna cognizione aveano, non che dell’altre belle arti, della poesia teatrale, la quale
pure da gran pezza coltivavasi in Italia dagli osci, e dagli etruschi, ed anche con più
felice successo da i popoli della magna Grecia, e della Sicilia, che, come dice e mostra
il dottissimo Tiraboschi, «in quasi tutte le parti della letteratura furon
maestri ed esemplari agli altri greci»
35.
La poesia di Aristofane é animata, vivace, fantasiosa e faceta, benché acre, maligna, licenziosa, e spessissime volte triviale. Il ridicolo da lui maneggiato appartiene alla commedia bassa e alle farse; e pur serpeggiano nelle di lui favole alcune tinte veramente comiche da piacere in tutti i tempi, e degne di studiarsi.
Nella commedia degli Acarnanii si trova nell’atto III la pittura al naturale del mercato di Atene il che dimostra che la decorazione non era punto trascurata nella commedia. Ma che un venditor di porci insegni ai figli contraffare il loro grugnito per invitar alla compera, egli é una scena propria del più basso comico36.
Negli Equiti, per avvilir Nicia e Demostene addetti totalmente a i voleri di Cleone, il poeta gli fa travestire e parlar da schiavi. Pulcinella Principe a forza, e Sganarello Medico a suo dispetto, si ravvisano in Agoracrito, venditor di carne cotta, che suo mal grado diviene in tal commedia uomo di stato. Non vi fu ipocrita o sia attore che ardisse di rappresentare, il personaggio del potente Cleone, né artefice che ne volesse far la maschera, come si dice nell’atto I; per la qual cosa Aristofane dovette egli stesso montare in palco, e rappresentarlo, tingendosi alla meglio il volto, e studiandosi di contraffarlo in tutto, perché si ravvisasse. Egli riuscì così bene ad accusarlo di prepotenza e ladronecci, che ’l popolo condannò Cleone a pagar cinque talenti, cioé intorno a tremila feudi; e quello pruova che la commedia antica era un’effettiva denunzia di stato37.
La nota commedia delle Nuvole, che fu c composta nel nono anno della guerra del Peloponneso, e che diede agli oziosi ateniesi tanta materia di ragionare anche due mesi prima che l’autore ottenesse la licenza di porla sul teatro, e che preparò la ruina di Socrate38, dimostra per tutto l’arte somma di Aristofane nel dipingere i caratteri39. Con una pennellata sola fa conoscer tosto lo spirito di tutta la casa di Socrate. Strepsiade batte alla di lui porta, e ’l servo del filosofo si lagna del modo indiscreto di picchiare, onde si é interrotto il filo delle sue riflessioni. Se il servo affetta tanto l’uomo d’ingegno e d’importanza, che farà il padrone? E’ artificiosa e piacevole la scena di Socrate con Strepsiade nell’atto II. Quella di costui col proprio figliuolo é molto falsa e vivace, ripetendogli le cose apprese da Socrate. Si osservi come Strepsiade nell’atto IV indirizza la parola agli spettatori, e ciò fassi ancora dal coro in questa e nelle precedenti commedie. Nel coro dell’atto I si accenna che Aristofane diede al pubblico la sua prima commedia anonima, mancandogli l’età di trenta o quarant’anni richiesta per darne col proprio nome. Nell’istesso coro possiam veder ancora un ritratto delle composizioni de’ comici competitori di Aristofane. Egli ne sa la satira, dicendo che la sua commedia non comparisce, come le loro, con vesti lacere per far ridere i fanciulli; non si avvilisce a motteggiare i calvi, e a dilettar con danze oscene; non introduce un vecchio che va col bastone percotendo tutto ciò che incontra; non si presenta con fiaccole alla mano a guisa d’una furia; ma se ne viene adorna del proprio merito e di piacevolezze naturali. Qui pur si trova che Eupoli diede una commedia, intitolata Marica, nella quale (dice Aristofane) ha saccheggiato i miei Equiti, aggiugnendovi solo una vecchia che fa un ballo, disonesto, che pure é rubato a Frinico.
La commedia delle Vespe consiste in un magistrato impazzito per la smania di giudicare, il cui figliuolo tenta di guerirlo con lusingare alla prima la di lui passione, proponendogli di giudicare nella propria casa, e sentenziar fu di un litigio ridicolo d’un cane che ha rubato una forma di cacio. In tutta la commedia si vanno mettendo in ridicolo le serie formalità curiali per qualunque cosa di poco momento. Racine, che da tal commedia ha cavato i suoi Plaideurs, non ha potuto seguirlo passo passo; né anche ha potuto valersi della piacevolezza che risulta dal processo allegorico, né introdurvi il cane accusatore, e ’l cane difensore, che appartiene unicamente alla commedia antica. Oltracciò in Racine il reo é veramente un cane, e ’l cappone rubato non é altro, se non quel che si dice; dove che in Aristofane il cane rubator di un formaggio di Sicilia allude a un capitano, il quale avendo condotte le truppe in Sicilia, si fe corrompere co’ formaggi di quell’isola, cioé co’ regali40 simili circostanze e allusioni per noi perdute davano molto pregio alla finzione d’Aristofane. In generale l’originale greco vince di gran lunga in vivacità la copia francese.
La commedia degli Uccelli ha per oggetto gli affari politici di quel tempo colla Laconia dove erasi rifuggito Alcibiade accusato in Atene, colle maschere di varii uccelli si mettevano in vista i costumi de’ cittadini, ed erano fabbricate di modo che al carattere dell’uccello si accoppiavano i tratti più rimarchevoli delle fisonomie de’ personaggi satireggiati41. In tal commedia interloquisce Prometeo, il quale viene fuori esprimendo il suo timore di esser veduto dal Sole e dagli Dei, e prega Pistetero a coprirlo d’un parasole.
Più d’una commedia di Aristofane tende a inspirar pensieri di Pace agli ateniesi, e quella che ne porta il titolo, é una di esse. Del di lei sale comico prenderà diletto il leggitore a misura che riuscirà negli sforzi che farà per dimenticar, mentre legge, le favole comiche de moderni, e s’internerà nello spirito dell’allegoria. Vari esseri allegorici si animano nelle commedie d’Aristofane, e in questa, oltre a Mercurio e alla pace, si dà corpo alla guerra, la quale pesta varie città, in un mortaio, immagine appartenente al basso comico, ma che subito mette sotto gli occhi popolarmente le perniciose conseguenze di tal flagello dell’umanità. Si butta nel mortaio il porro, donde viene il nome di Prasia. Città della Laconia, e l’aglio, particolar produzione di Megara. Il luogo dell’azione non é uno; da che Trigeo si vede prima in Atmone, indi in aria, e finalmente in certe balze. La cosa più degna di notarli in tal commedia é il giuoco di teatro che risolta dagli sforzi che sa il coro impiegato a tirare alcune corde per ismuovere le gran pietre, ond’é chiusa la bocca della caverna, in cui é serrata la pace. Alcuni tirano da un lato, altri dall’opposto, e si ritarda l’esecuzione; il che ingegnosamente allude alle città greche, le quali non convenendo nel medesimo progetto, fanno sussistere la guerra. I soli agricoltori e vignaiuoli tirano concordemente e con sincerità, e son quelli che principalmente contribuiscono a sprigionar la pace. Che savia lezione di politica e di commercio!42 Della pace ancor tratta la commedia intitolata Lisistrata, ch’é il nome di una ateniese, la quale si fa generale delle donne per astringer gli uomini alla pace; ma ella abbonda di dipinture oscene abbominabili43.
Non meno licenziosa e sfacciata é l’altra intitolata le Oratrici o l’Assemblea donnesca, il cui stile é più sollevato che in ogni altra, e si avvicina al tragico. Le commedie sono la storia de’ costumi e delle maniere. L’inciviltà e la libertà grossolana di que’ repubblicani si manifesta nella dipintura di Blepiro, marito di Prassagora. Egli vedendo mancar di casa la moglie e ’l proprio pallio, costretto da un bisogno naturale prende la vesta della moglie, e fa in piazza ciò che la natura gli comanda.
La satira de’ poeti contemporanei, e spezialmente dei tragici, era molto in voga nella
commedia antica; ed oltre a molti tratti, che si trovano da per tutto, e alle continue
parodie, oltre alla commedia di Cratino, intitolata Eolosicone, in cui
venivano satireggiati Omero e i poeti tragici, Aristofane in due commedie intere prende
a motteggiar, criticare, e render ridicolo Euripide. La prima é quella intitolata
le Tesmoforie, o le Feste di Cerere e Proserpina,
rappresentata mentre Euripide vivea. Sono poetiche e più che comiche l’espressioni del
servo del poeta Agatone in tal commedia, ma si presume preso (come ordinariamente
avviene a i servi de’ letterati) dal furore di far da bell’ingegno a imitazione del
padrone. «Osservate, o popoli, un silenzio religioso, or che il coro delle muse
disceso nel gabinetto del mio padrone, gli sta inspirando nuovi poemi. Ritenete, o
venti, i vostri fiati. Sospendete, o flutti, il mormorio».
Le Rane s’intitola l’altra commedia contro Euripide, che già era morto. Essa ha per oggetto la comparazione del merito di Eschilo e di Euripide; e benché in fine diasi la precedenza al più antico, ambedue vi sono motteggiati acremente. Il coro é fatto dalle rane, una di cui scena molto corta ha dato il titolo alla commedia. Vi s’introduce Bacco vestito da Ercole e molto poltrone, per deridere un poeta, il quale era riuscito male a vestire e caratterizzar quel nume. Egli più d’una volta cangia d’abiti col proprio schiavo, ed é destinato giudice della disputa de’ due tragici. Nell’atto III alla di lui presenza si tratta di qual de i due debba sedere allato di Plutone, e si continua l’esame nell’atto IV; e nel V Bacco giudica a favor di Eschilo.
Nel Pluto si ravvisa un nuovo genere comico; poiché più non si favella degli affari pubblici; e quantunque si nominino tuttavia i particolari, e se ne faccia il ritratto, sono non per tanto motteggiati moderatamente, e dalla sola finzione nasce tutta la piacevolezza. Interloquisce tra gli altri personaggi Pluto Dio delle ricchezze, Mercurio, e la povertà. La spoglia allegorica di questa favola vela un tesoro di filosofiche verità, e mette in azione sotto l’aspetto piacevole e popolare di una favoletta anile le sode dottrine sulle grandi richezze, vigorosamente e dottamente esposte dal nostro immortal filofoso Antonio Genovesi.
Variano assai i giudizi così degli antichi, come de moderni, sopra il merito a Aristofane. Plutarco, Eliano, e la maggior parte degli antichi, si vendicarono col disprezzo di questo venale persecutor di Socrate; e ’l padre Rapin ed altri moderni si sono appigliati al lor parere. Il signor di Voltaire però, copiando la censura di Plutarco, o di Rapin, volle aggiugner del suo, che Aristofane non era né comico, né poeta; il che sembra detto con soverchia leggerezza. Anche M. de Marmontel ha interloquito su di ciò, ridendosi di madama Dacier che avea encomiato Aristofane. Ma questa famosa letterata, se mancava di quel gusto poetico necessario per ben tradurre i poeti, almeno intendeva pienamente il greco, ed ha voto autorevole allorché afferma, che Aristofane é fino, puro, armonioso, ed empie di dolcezza e di piacere coloro che possono aver la fortuna di leggerlo originale, fortuna che auguriamo a quel moderno Scrittore di una lunga, strana e inutile poetica44. Il celebre Gian-Vincenzo Gravina, così perito nelle faccende poetiche e nella lingua greca, versa a piena bocca su questo comico le sue lodi per la verità e naturalezza delle invenzioni, per la proprietà de’ costumi, per la felicità delle allusioni, per la bellezza de’ colpi, e per la fecondità; la pienezza, il sale attico, di cui abbonda, e che oggi a’ nostri orecchi non può penetrare. Il dotto Brumoy non dissimula i difetti non pochi d’Aristofane; ma ne va con profitto degli studiosi additando nel suo teatro greco l’arte e le bellezze dello stile. Questi sì, che possono farsene giudici; ma giudici siffatti, provveduti di tante qualità che richieggonsi a rettamente giudicare dell’opere ingegnose degli antichi, sono rarissimi.
Merita di esser qui rapportato un bellissimo articolo dell’Anno
Letterario 1769 num. 31 fatto dal fu M. Freron in difesa d’Aristofane
maltrattato da un certo M. de Chamfort nell’Elogio di Molière:
«Aristofane, le cui commedie empivano con tanto applauso il teatro ateniese 436
anni prima dell’Era Cristiana, é il più gran poeta comico dell’antichità. Pieno di
coraggio e d’elevazione, ardente dichiarato nemico della servitù e di quanti tentavano
di opprimere il suo paese, esponeva agli occhi di tutti nelle sue composizioni la
segreta ambizione de’ magistrati che governavano la repubblica, e de generali che
comandavano gli eserciti. Era la commedia nelle di lui mani diventata una molla del
governo, il baluardo della libertà, l’organo del patriotismo. Egli vituperava
vigorosamente tutti i vizi dell’amministrazione: or qual carriera più vasta, qual più
nobile, più sublime scopo! Ei non si prefiggeva per oggetto principale il far ridere
gli spettatori con facezie, o piangere con avventure compassionevoli, ma sì bene
l’additar loro
i doveri più sacri, il fortificarli contra
ogni,, nemico domestico o straniere, e l’istruirli con sode lezioni piacevolmente. Gli
ateniesi provando sommo diletto nelle di lui commedie, non contenti di applaudirlo in
teatro, a piena mano gittavano fiori sul di di lui capo, e menavanlo per la città tra
festive acclamazioni; anzi con pubblico decreto gli diedero la corona del sacro olivo, ch’era il maggior onore che far si potesse a un cittadino. Il
gran re, cioé il re di Persia, domandando di questo poeta agli ambasciadori spartani,
e de’ suggetti ordinari delle di lui satire, ebbe a dire che
Fin qui M. Freron, critico eccellente. Quello ch’é più
rimarchevole nelle scempiaggini di M. de Chamfort contra di Aristofane, si é ch’esse
furono nel di lui discorso approvate, coronate, e premiate dall’Accademia Francese nel
1769. Tanto lo spirito di Perrault, cieco e affettato ammirator de’ moderni galli, e
spregiator degli antichi greci e latini ch’esso poco o nulla conobbe,«i di lui consigli
erano diretti al pubblico bene e che se gli ateniesi gli seguivano, si sarebbero
impadroniti della grecia»
45. Il gran
Platone, l’idolo de’ nostri filosofi, che con tanti inutili sforzi si dibattono per
assomigliargli, scriveva a Dionigi il tiranno, che «per ben conoscere gli
Ateniesi e lo stato della loro repubblica, bastava leggere le commedie di
Aristofane»
. L’istesso Platone proccurava di formar la propria maniera di
scrivere sullo stile elegante, polito, dolce e armonioso di questo poeta, e se n’era
talmente invaghito che, onorò un sì eccellente comico con un distico del tenor
seguente: Avendo le Grazie cercato da per tutto un luogo per farvisi un
tempio eterno, elessero il cuore di Aristofane, e mai più non
l’abbandonarono
46.
Ecco quello che agli occhi de dotti era
Aristofane. Dopo ciò, cosa pensereste di un giovane Gaulese, il quale più di duemila
anni dopo la morte di questo gran valent’uomo viene a dirci, ch’egli altro non era,
che un satirico sfrontato, un parodista, un superstizioso, un bestemmiatore, un buffon da piazza, un Rabelais sulla scena, e che le di lui
commedie sono un’ammasso di assurdità, donde qualche volta scappano
fuori alcune bellezze inaspettate? In tal guisa vìen egli malmenato da M. de Chamfort.
Probabilmente cotesto Gaulese, e di lingua greca, e di poesia, e della politica che
conveniva alla repubblica ateniese, e di ciò che poteva in que’ tempi esser pregevole
sul teatro, se ne intende meglio del popolo greco, il più illuminato dell’universo,
meglio di Platone, meglio di Aristotile, meglio dell’istesso Molière, meglio di tanti
e tanti grand’ingegni antichi e moderni, i quali tutti (a riserba
di qualche Chamfort) hanno avuta la compiacenza di ammirare
Aristofane.»
passando di mano in mano per tanti e tanti criticastri, ha invasata e corrotta la maggior parte de francesi, fra’ quali oggigiorno tanto abbondano i Castilhon, e i Chamfort47!
Alterossi poco dopo in Atene il governo, e nell’oligarchia cangiò la commedia di portamento. Que’ pochi cittadini, tra’ quali tutta si concentrò la pubblica autorità, posero il freno alla licenza di quel dramma, e più non vollero sofferire di essere impunitamente nominati e motteggiati sulla scena. Eupoli che fiorì nell’Olimpiade LXXXVIII, fu la vittima della loro potenza, estendo stato per ordine di Alcibiade gettato in mare. E comeché si pretenda da alcuni, che non morisse in mare, ma in Egina, e che dopo quel tempo avesse scritto altre favole, sempre é certo che per un editto di Alcibiade non si poté più nominare in teatro verun personaggio vivente, e così cessò la commedia antica 48.
Da quest’editto nacque la mezzana. I poeti doveano obedire, ma voleano conservar la satira. Cercando adunque di conseguir coll’industria l’effetto stesso che produceva il nominare i cittadini, gli dipinsero sotto nomi fìnti con tal artificio che ’l popolo non s’ingannava nell’indovinarli, e con maggior diletto gli ravvisava. In questa commedia per la legge divenuta più ingegnosa e più dilettevole, il coro, nel quale più che in altra parte solea senza ritegni spaziar l’acerbità, fu tuttavia satirico e pungente. Ma non tollerando il governo di veder delusa la sua speranza di correggere la mordacità de’ poeti, viene il far uso in qualunque modo di soggetti veri, e impose silenzio al coro incapace di cambiar natura49.
Platone poeta comico, contemporaneo di Aristofane, é tenuto per il primo tra quelli che si distinsero nella commedia di mezzo e compose intorno a trenta commedie, delle quali a noi non son pervenuti se non pochi frammenti.
Niuna cosa prova più pienamente ciò che abbiamo di sopra ragionato ne’ fatti generali della scenica poesia, quanto questo novello rigore, che incatenò i poeti. Esso raccolse, come in un centro, tutte le forze del loro ingegno, e ne ingrandì l’attività. Indi venne una commedia nuova, senza dubbio più dilicata e meno acre delle due precedenti, della quale sembra che avesse gittati i fondamenti l’istesso Aristofane col Pluto, dove si trova sì un coro, ma ben lontano dall’antica baldanza e mordacità.
Fiorì questa commedia intorno al secolo del Grande Alessandro, quando la formidabile potenza macedone, dando nuovo aspetto agli affari greci, avea richiamato in Atene quell’utile timore che rintuzza l’orgoglio, rende men feroci i costumi, e induce a pensar giusto. Or perché eccitato una volta in qualunque guisa lo spirito filosofico, rinasce l’ordine, e ogni cosa rientra nella propria classe, il gabinetto allora si separò dal teatro, e più non si agitarono questioni politiche in uno spettacolo di puro divertimento.
Si circoscrisse adunque la commedia nuova a dilettar la multitudine col ritrarre la vita comune, e a dirigerne le opinioni secondo le vedute del legislatore e gl’insegnamenti della morale. Rifiutò ogni dipintura particolare, perché appresa dalla filosofia che i difetti d’un sol privato sotto una potenza che tutto adegua, non chiamano la pubblica attenzione. Atteso dunque a osservar le debolezze più generali, ne raccolse i lineamenti più visibili, ne vestì un carattere poetico, e con mirabile sagacità in un preteso ritratto particolare espose alla derisione i difetti di un ceto intero. Gioconda, ingegnosa sapienza! A dispetto della magia dell’amor proprio ha saputo astringere i viziosi e i ridicoli motteggiati ad accompagnar il riso universale e vituperar se stessi nella dipintura immaginaria.
In quest’ultima dilicata commedia de’ greci, dalla quale é uscita la moderna,
travagliarono con ottimo successo Apollodoro, Difilo, Menandro, Alesside, Filemone,
Posidio, de’ quali ci rimangono appena pochi frammenti. Spiccò sopra tutti il famoso
Menandro, discepolo di Teofrasto, che fiorì nell’Olimpiade CXV. Scrisse cento e otto
commedie, ma solo otto volte fu coronato nel certame. Filemone, poeta molto a lui
inferiore, gli era sempre preferito. Infinita esser dovea la distanza dell’uno
all’altro, e ben manifesta giacché Menandro avendolo un giorno incontrato, con
tranquilla superiorità gli disse: «Di grazia, Filemone, dimmi senza alterarti,
non arrossisci al sentirti proclamare mio vincitore50?»
Ma quello che di lui rapporta il
Giraldi51 coll’autorità di Plutarco e di Acrone merita di esser ripetuto per
infrazione della gioventù tratta dal proprio fuoco prima a scrivere che a pensare.
Menandro mai non si applicava a verseggiar la favola avanti di averne formato tutto il
piano e ordinate le parti fino alla conchiusione; e tal caso facea di questa
necessitaria pratica che, se non ne avesse scritto un sol verso, quando ne avea ordita
la traccia, diceva di averla terminata52. Ne’ frammenti che di
lui abbiamo, si ammira una locuzione nobile sì, ma veramente comica, e
vi si sente un sale grazioso che stuzzica il gusto, ma non amareggia il palato53. Chiunque voglia coltivar la
commedia nobile, studii quelle reliquie preziose, e ne apprenderà l’arte di persuader da
Oratore, instruir da filosofo, e dilettar da poeta comico.
Oltre alla tragedia e alla commedia, e a qualche favola pastorale, quale sembra il Ciclope di Euripide, ebbe il teatro greco ilarodie, mimi, e pantomimi.
Ilarodia, o ilarotragedia, secondo l’idea che ce ne dà Ateneo, era una pavola festevole e di lieto fine, nella quale interloquivano Personaggi grandi ed eroici, ma vi si dipingevano i fatti che loro accadevano come uomini, non come eroi.
I mimi greci furono picciole favole buffonesche le quali poterono derivare da quelle farse satiriche che si andavano rappresentando per gli villaggi prima che la commedia acquistasse la forma regolare. Senarco, e Sofrone siciliano contemporaneo d’Euripide, furono scrittori di favole mimiche.
I pantomimi erano imitazioni mute fatte co’ gesti e accompagnate dalla musica. Dal contraffar con gli atteggiamenti tutte le cose, sembra che prendessero il nome quest’istrioni-ballerini. Da principio la rappresentazione e la danza furono indivise dalla musica e dalla poesia. Queste varie imitazioni con gesti, pasti, fiumi, e parole, formarono quel tutto che si chiamò festa teatrale, la quale tutta consisteva nel coro, e quei che ’l componevano, e cantavano e ballavano indistintamente. Ma la poesia rappresentativa meglio sviluppata negli episodi, si appropriò certi attori più esperti nel declamare, cioé nel recitar i versi con un’azione naturale e con un canto parlante, il quale, sebbene accompagnato dagli stromenti, non lasciava di appressarsi più al favellare che al canto corale; e allora questa classe di attori ad altre non attese che ad animar con musica moderata e con vivace energica rappresentazione la poesia. Rimase al coro il pensiero d’intrecciar parole cantando; e in questo la poesia, per accomodarsi al canto, era più lirica, e la rappresentazione, per servire al Ballo, era men naturale. Ma i movimenti ginnastici del saltatore, il quale era nell’istesso tempo cantore54, bentosto ne ingrossavano il fiato, e ne rendevano inutile la voce; per la qual cosa bisognò dividere gl’individui del coro in istrioni-musici che coltivassero il solo canto, e in istrioni-ballerini dedicati unicamente alla danza. La rappresentazione continuò a mescolarsi in entrambi gli esercizi; perocché tutto ha bisogno d’espressione; ma nel canto ch’é animato dalle parole, ebbe minor parte che nel ballo, il quale privo del soccorso della poesia, tutto cercò nella rappresentazione. E quanto più le arti imitatrici si perfezionavano, più il ballo imitava con buon senso, più si soggettava a una rappresentazione vivace e vera, più se ne desiderava lo spettacolo; e quindi uscì l’arte pantomimica portata dagli antichi all’eccellenza. Avanti quest’epoca, cioé avanti che la rappresentazione insegnasse al ballo a imitar favole seguite e compiute tragiche e comiche, esso non era altro che una saltazione quasi senza oggetto, come il piruettar dei dervisi turchi. Presso gli antichi coribanti e cureti era un rito strepritoso e bellico più, che un ballo delicato. I traci spiccarono nella saltazione bellica, e se ne servivano ne’ gran conviti. Si vuole che Androne di Catania sia stato il primo che sonando la tibia vi accompagnò i pasti e ’l movimento del corpo in cadenza; e perciò presto gli antichi σικελιζειν significò saltare 55. Del resto la saltazione é un esercizio generale trovato presso tutti i popoli ancor barbari e selvaggi; e frigi, cretesi, indiani, etiopi, egizi, traci, arabi, americani, tutti hanno avuto il loro Androne.
Quali molle e ingegni non mette in opera il bisogno che ha l’uomo di riposare e divertirsi! In mezzo a tanti magnifici spettacoli scenici ne troviamo uno assai puerile. Ebbe la grecia i suoi neurospasti, o ciarlatani, i quali con fila e cordicelle faceano gestire, rappresentare, e saltare, come se fossero persone umane, certe figurine di legno, simili agli odierni fantocci chiamati volgarmente pupi. Potino con esse rappresentò (benché con indignazione de’ buoni, cioé de’ pochi) alcune burlette in Atene e in quella medesima orchestra, in cui Euripide declamava le sue tragedie immortali. Or che perciò? Volgo, idioti, fanciulli di dieci, di trenta, e di sessant’anni, trovansi in qualsivoglia popolo. N’ebbe Atene, n’ebbe Roma, ne han le patrie de’ Newton, de’ Descartes, de’ Galilei. Criticastri meschini, per ispacciarvi da uomini d’importanza, di spirito, di gusto, di buon senso, rinfaccerete, gonfiando la bocca, i potini ad Atene, gli orsi e i funamboli a Roma, i duelli de’ galli e ’l teatro delle teste da parrucche di M. Fout a Londra, gli spettacoli delle fiere e dei baluardi a Parigi, e l’arlecchino all’Italia? Voi sarete una dimostrazione rigorosa dell’esistenza del volgo e de’ fanciulli canuti della vostra nazione.
Dopoché tanti spettacoli scenici furono dalla campagna introdotti in Atene e in altre chiare città della grecia, si videro magnificamente rappresentati in vari superbissimi teatri, Oltre al primo già mentovato, eretto in Atene colla direzione di Eschilo dall’architetto Agatarco, del quale favella Vitruvio, vi fu ancora il famoso Teatro di Bacco, tutto di marmo, fatto dal celebre architetto Filone, del quale in fino ad oggi si veggono gli avanzi56. Argo, Corinto, Tebe, Delo, Megalopoli, aveano i loro Teatri, qual per vastità, qual per magnificenza, qual per delicatezza di magistero rimarchevole, come quello degli Epidauri architettato dal famoso Policleto57. Sparta medesima, l’austera Sparta, avea un assai magnifico teatro, della cui eccellenza e bellezza favellano lo storico Pausania, e Plutarco nella vita di Agesilao. Nulla parmi che si possa aggiugnere a ciò che giudiziosamente adduce il signor De la Guilletiere o Guillet nella II parte della sua Lacedemone Ancienne et Nouvelle per confutar l’errore del Cragio, il quale hassi creduto, che gli spartani non avessero avuto spettacoli scenici, inducendo alcuni altri scrittori nel medesimo errore. Quel teatro, i cui vecchi fondamenti si additano presto la tomba di Pausania vincitor de’ persiani nella battaglia di Platea, era veramente fatto per gli esercizi ginnici; ma vi si facevano ancora pubbliche rappresentazioni. E Ateneo rapporta, che gli spartani aveano alcune commedie ridicole, ma semplici, quali a tale nazione convenivano, e vi s’introducevano o ladroni che rubavano delle frutta, o medici stranieri. I loro commedianti chiamanvansi dicelistae; e secondo Suida, il grammatico Sofibio spartano avea composto un trattato sul genere di commedie usato dalla sua nazione.