(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro I. — Capo V. Teatro greco. » pp. 26-81
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(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro I. — Capo V. Teatro greco. » pp. 26-81

Capo V.
Teatro greco.

Quante novità forse un dì apporteranno i più comuni oggetti ch’or ci veggiamo intorno senza prenderne veruna cura! Da fonti lontani e quasi impercettibili scaturiscono spesso gli eventi più rimarchevoli. Quel chimico che vide la prima accidentale esplosione del nitro, imprigionò Montezuma, strangolò Guatemazin, e spopolò l’America. Ma bisogna che un interesse personale astringa il primo osservatore a fisarvi lo sguardo, e che di poi la sua riflessione si comunichi a’ circostanti per un interesse ancor più generale, e che vada così di mano in mano continuando e prendendo forma, finché giunga a costituire un’epoca. Quanti capri avranno rose e guaste tante volte le viti delle montagne dell’Attica senza produrre veruna novità! Ma quell’abitatore d’Icaria, che ne sorprese uno nel suo podere, si trovò interessato a sacrificarlo a Bacco, e que’ paesani che ’l videro, per simile interesse applaudirono al colpo, si rallegrarono, e saltarono cantando in onor del nume. Di qui nacque una festa, un sagrifizio, un convito rinnovato ogni anno in tempo di vendemmia, nel quale la licenza del tripudio e l’ubriachezza svegliarono quella satirica derisione scambievole, che piacque tanto, e che perpetuò la festa. Quel motteggiarsi vicendevolmente, e quegl’inni sacri cantati e ballati, formarono insensibilmente un tutto piacevole che da Τρυγη vendemmia si chiamò trigodia 16, e fu come il germe che in se contenea la gran pianta della drammatica, che vedremo bentosto ingombrar tant’aria, e spander per tutto verdi e robusti i suoi rami.

Seguendo in tal guisa lungo tempo questi cori pastorali ed inni dionisiaci, doveano naturalmente partorir sazietà, e determinare alfine un osservatore a rianimarli con qualche novità. Così avvenne infatti. Vi é chi attribuisce ad Epigene di Sicione il pensamento d’interporvi altri racconti chiamati episodi, per rendere la festa più varia, o per dar tempo a’ saltatori e cantatori di prender fiato17. I primi cori contenevano le sole lodi di Bacco, e gli episodi parlavano di tutt’altro: il popolo se n’avvide, e mormorò della novità18; ma continuò ad ascoltarli, e la novità parve felice e dilettevole. Questa storia ci si presenta ad ogni passo negli scrittori più veridici e giudiziosi dell’antichità, e punto non ripugna alla serie delle idee umane, le quali vanno destandosi a proporzione che si maneggia l’arte, e la società si avanza nella coltura. Chi dunque a’ giorni nostri arzigogolando sdegna di riconoscere da tali principi la tragedia e la commedia greca, non altro si prefigge se non che solo di dar un’aria di novità e d’importanza a’ suoi scritti, e di far la storia della propria fantasia più che quella delle arti.

Fino all’olimpiade LX o LXI il genere tragico non si distingue dal comico. Tespi contemporaneo di Solone, fornito di competente gusto e discernimento, gli separò; e perché si attenne sempre al solo tragico, gli fu attribuita l’invenzione della tragedia, avvegnaché altri drammatici l’avessero preceduto. I Giovani Sacri, il Forbante, il Penteo, sono nomi di alcune delle favole tespiane.

Gli episodi così purificati da ogni mescolanza comica, nel passar circa l’olimpiade LXVII nelle mani di Frinico discepolo di Tespi, di parte accessoria del coro divennero corpo principale del dramma, e formarono uno spettacolo sì dilettevole che meritò d’essere introdotto in Atene. Cherilo l’ateniese, che fiorì nell’olimpiade LXIV, avea trovata la maschera ed abolita la feccia, di cui prima tingevansi gli attori, e Frinico accomodò quest’invenzione anche alle parti di donna. Avendo riguardo allo stato della drammatica di quel tempo, Frinico fu un poeta degno d’ammirazione. In una sua tragedia fece alcuni versi così pieni di senno, robustezza, energia, e vivacità militare, e gli rappresentò con tanto brio, che scosse in tal modo gli animi degli spettatori, che nel medesimo teatro fu creato capitano, giudicando assennatamente gli ateniesi, che chi sapea con sì fatta solidità ragionar delle operazioni belliche, era degno di comandare alle squadre per vantaggio della patria19. Egli fu sì amato, che assalito da un suo natural timore ed orrore, mentre rappresentava la presa di Mileto, gli ateniesi versarono molte lagrime di compassione, e lo fecero ritirar dalla scena20. Pleuronia, gli Egizi, Atteone, Alceste, Anteo, le Danaidi, sono i nomi che ci restano delle di lui favole.

Epigene, Tespi, e Frinico, furono tre uomini di talento, ognuno de’ quali sorpassò il predecessore, e diede un nuovo lustro alla tragedia. Con alquanti passi di più sorse l’ultimo di essi l’avrebbe condotta a quel grado di perfezione, nel quale le arti, come ben dice Aristotile, si posano ed hanno: la lor natura. Eschilo, il settatore di Pittagora, sopravviene in punto sì favorevole, corre lo spazio che rimaneva intentato, coglie il frutto delle altrui e delle proprie fatiche, ed é il primo ad esser meritamente onorato da Aristotile e da Quintiliano col titolo di genio, e di padre della tragedia; poiché egli seppe con più arte e felicità trasportar nel genere tragico le favole omeriche, e dargli uno stile molto più grave e più nobile. Valendosi dell’opera del famoso architetto Agatarco, fece innalzare in Atene un teatro magnifico, e assai più acconcio a rappresentarvi con decenza e sicurezza, dove che Pratina e altri tragici del suo tempo si servivano di alcuni tavolati non solo sforniti di tutto ciò, che può contribuire all’illusione, ma così mal costrutti, che soleano sovente cedere al peso e cadere con pericolo degli attori e degli spettatori. Abbigliò ancora le persone tragiche con vestimenti gravi e maestosi, e migliorò l’invenzione della maschera di Chetilo e di Frinico.

Volle inoltre egli stesso, non solo comporre la musica de’ suoi drammi, ma inventar l’azione de’ balli, e prescrivere i gesti e i movimenti del coro che danzava e cantava negl’intervalli degli atti, togliendone la direzione agli antichi maestri ballerini, i quali non doveano a suo tempo essere nell’inventare e nel disporre più giudiziosi e felici di quello che, fino a circa diecianni fa, o poco più, si sono dimostrati i moderni. Secondò parimente assai meglio l’idea de’ suoi predecessori di scemare il numero degl’individui del coro musico e ballerino, per accrescerne quello degli attori degli episodi; e con questa seconda classe di rappresentatori rese l’azione vie più viva e variata. Seppe egli in somma per molti riguardi farli ammirare come attore, come direttore, e come poeta eccellente. Settanta, o come altri vuole, più di cento tragedie compose Eschilo, delle quali appena sette ce ne rimangono, e riportò la corona olimpica intorno a trenta volte. Guerriero, capitano, vittorioso nella pugna di Maratona per Atene sì gloriosa, mostra nello stile la grandezza, il brio militare, e la fierezza de’ propri sentimenti. Il suo carattere é grande, robusto, eroico, benché talvolta turgido, impetuoso, e gigantesco. In grazia della gioventù permettiamo in quell’opera, secondoché la storia ne presenta i poeti antichi, un breve esame delle principali bellezze de’ loro componimenti, senza dissimularne qualche difetto.

Le tragedie rimasteci di Eschilo sono Prometeo al Caucaso, le Supplici, i sette Capi all’Assedio di Tebe, Agamennone, le Coefori, l’Eumenidi, i Persi. Dal Prometeo al Caucaso traspare l’elevazione dell’ingegno di Eschilo, e l’energia de’ suoi concetti mista a certa antica ruvidezza, e vi si scorge ancora il grand’uso ch’egli faceva delle macchine, e decorazioni. Interloquiscono in questa favola numi, ninfe, eroi, e personaggi allegorici, come la forza e la violenza. Notabili e patetiche sono le querele d’io nell’atto IV, e quelle di Prometeo nel V dopo le minacce di Mercurio.

Nella condotta delle Danaidi supplichevoli si osserva una regolarità di azione così aggiustata e naturale, che con tutta la sua semplicità tiene sospeso il leggitore fino all’atto V, quando le danaidi passano dall’asilo alla città, e viene discacciato l’araldo dell’armata egiziana, nemica di quelle principesse. Quest’araldo, che ne afferra una per la chioma, e la strascina verso i vascelli, sarà motteggiato da que’ moderni che o non leggono mai Omero e i tragici greci, o son privi della conoscenza de’ principi necessari a leggerli con fondamento.

I sette Capi all’assedio di Tebe é una tragedia che si fa leggere con attenzione e piacere anche a’ giorni nostri, piena di bei tratti, di movimenti militari, di sospensioni meravigliose, e fatta per presentare uno spettacolo sorprendente. Longino ne cita un vago pezzo dell’atto I, che in Italiano potrebbe così tradursi:

Sette guerrier spietatamente audaci
Stan presso a un’ara di gramaglie avvolta
In atto minacciosi, e con orrendi
Giuramenti spaventano gli Dei,
Alta giurando insolita vendetta
A Gradivo, a Bellona, a la Paura,
Mentre le mani tingonsi nel sangue
Fumante ancor d’un moribondo toro.

Sommo impeto di tragica e vigorosa eloquenza si ravvisa nel coro del medesimo atto I, e la dipintura vivace del sacco d’una città presa d’assalto é notabile nel coro dell’atto II. Il V sembra un accessorio superfluo dopo il IV, dove narrasi l’assedio tolto per l’esito funesto del combattimento de’ due fratelli.

La tragedia d’Agamennone fu coronata, e certamente, anche a giudizio de’ posteri intelligenti, lo meritava. L’azione sembra languire alquanto ne’ primi atti, ma essi preparano ottimamente l’evento orribile, e si veggono nel V le passioni menate al più alto punto. L’esclamazioni di Cassandra, tutte piene di enimmi enfatici e d’immagini inimitabili, manifestano l’ingegno vigoroso di Eschilo.

Le Coefori, o sia donne che portano le libazioni, rappresentano la vendetta di Agamennone presa da’ suoi figliuoli, la quale fu trattata ancora dai due gran tragici che vennero dopo. Sin dalla prima scena vi si ammira lo stato dell’azione esposto con somma arte e nitidezza per maniera che l’antichissimo riformatore e padre della tragedia non ebbe bisogno dell’esempio altrui per condurre alla perfezione questa sì rilevante parte de’ componimenti drammatici, nella quale tanti moderni fanno pietà a’ savi a differenza del chiarissimo signor abbate Metastasio, che vi riesce sempre mirabilmente. L’energia e la forza del coro dell’atto I difficilmente può passare in un’altra lingua. La riconoscenza del fratello e della sorella si sa nell’atto II per mezzo de’ capelli gettati da Oreste sulla tomba, e delle vestigia impresse nel suolo simili a quelle di Elettra, e per un velo da lei lavorato, essendo Oreste fanciullo. Euripide finalmente se ne burla nella sua Elettra; e non sembra al certo la migliore delle agnizioni teatrali questa di Eschilo, benché si possa in qualche modo discolpare. Egli per altro mostra molto giudizio nell’istesso atto, facendo che Oreste rifletta sull’impresa, a cui s’accinge; che si lagni dell’oracolo di Apollo, onde é stato minacciato de’ più crudeli supplici, se lascia invendicato il padre; che s’intenerisca alla di lui rimembranza; che si mostri sensibile ancora a i mali de’ popoli sacrificati agli usurpatori. Tutto ciò rende in certo modo sopportabile il gran parricidio ch’é per commettere. Né di ciò pago il savio poeta, in una lunga scena del coro e di Elettra con Oreste fa che questi palesi la ripugnanza ed incertezza che lo tormenta, la quale si va dissipando col sovvenirsi delle terribili circostanze dell’ammazzamento d’Agamennone, alle quali intenerito dice fremendo, che darà la morte a Clitennestra, e poi a se stesso. Questi riguardi, queste sospensioni e cautele erano necessarie per disporre l’uditorio a uno spettacolo sì atroce, come é quello di vedere un figlio bagnarsi del sangue di una madre. Nell’atto IV segue l’uccissione di Egisto; e ’l pianto sparso da Clitennestra per l’usurpatore serve di cote al furor d’Oreste, e lo determina alla di lei morte. Nel V il poeta si dimostra parimente gran maestro, facendo vedere, benché in abbozzo, l’infelice situazione di Oreste, che trasportato da’ rimorsi va perdendo la ragione.

L’istesso Oreste perseguitato dalle furie, e poi liberato dalle loro mani per lo favor d’Apollo e di Minerva, e per la sentenza dell’areopago, é l’argomento della famosa tragedia dell’Eumenidi, il cui spettacolo riempì di terrore il popolo ateniese. Eschilo in essa trasgredisce le regole del verisimile, facendo passare una parte dell’azione nel tempio di Apollo in Delfo, e un’altra parte in Atene. É notabile nella prima scena la pittura orribile delle furie, fatta dalla sacerdotessa, l’inno magico, infernale, e pieno del fuoco di Eschilo, cantato dalle furie nell’atto III, avendo trovato Oreste, e ’l giudizio fatto nel V coll’intervento di Minerva alla testa degli Areopagiti, di Apollo avvocato del reo, e delle furie accusatrici. Il coro delle furie che negl’intermezzi é cantante, nel giudizio é parlante come ogni altro attore, ed uno solo é quello, che per tutti interloquisce; il che si osserva nel rimanente delle tragedie antiche.

Finalmente i Persi, tragedia data da Eschilo otto anni dopo la giornata famosa di Salamina sotto l’arconte Menon, é fondata sulla spedizione infelice di Serse nella Grecia, argomento trattato ancor da Frinico prima di Eschilo. La condotta n’é così maestrevole, che il leggitore dal principio fino al fine vi prende parte come nato in Grecia, tale essendo l’arte incantatrice degli antichi, posseduta da pochissimi moderni, per mezzo della quale un’azione semplice viene animata da tutte le più importanti circostanze con sifatta destrezza, che ’l movimento e l’interesse va crescendo coll’azione a misura che si appressa al fine. Il racconto della perdita della battaglia nell’atto II, bellamente interrotto di quando in quando dalle querele del coro de’ vecchi persi, é una delle più rimarchevoli bellezze di tal tragedia. L’atto IV, in cui comparisce l’ombra di Dario, é veramente un capo d’opera, con tal senno e grazia vi contrasta il governo di Dario divenuto pacifico coll’ambizione di Serse, la prudenza del vecchio colla vanità del giovane, e con tal delicatezza mettonsi in bocca di sì gran nemico le lodi della Grecia. La venuta di Serse nel V aumenta la dolorosa situazione del consiglio di Persia. Questa tragedia merita di leggersi attentamente per apprendervi la grand’arte d’interessare, e per conseguenza di commuovere e piacere21.

Dopo questa succinta analisi delle sette tragedie di Eschilo, ascoltiamo ciò che ne dice D. Saverio Mattei nel Nuovo sistema d’interpretare i Tragici Greci. Esse «altro non sono che feste teatrali di ballo serio, preparate da alcune patetiche declamazioni». Il leggitore, che conosce tali tragedie, rimane sorpreso al veder nella dissertazione del signor Mattei tutte l’idee naturali scompigliate per lo prurito di dir cose nuove, le quali in fine si risolvono in nulla22; e chi non conosce le greche tragedie, dee sulle di lui parole concepirne un’immagine totalmente aliena dalla verità, e credere che le patetiche declamazioni in Eschilo preparavano il ballo serio, come i discorsi di Tancia e Lisinga in Metastasio introducono al ballo cinese. «Feste teatrali di ballo serio»! Le tragedie di Eschilo furono, come quelle di Sofocle e di Euripide, vere azioni drammatiche eroiche, accompagnate dalla musica, e decorate dal ballo; né altra differenza può ravvisarsi fra ’l primo e i secondi, se non quella che vi ha fra Tiziano e Correggio, fra Zeno, e Metastasio, fra Corneille e Racine, cioé quella che si scorge ne’ differenti caratteri degli artefici che lavorano in un medesimo genere. Le Prosopopeje, come il signor Mattei chiama le Ninfe, il Padre Oceano, l’Eumenidi, la Forza ecc., non dimostrano, secondo il suo credere, che la tragedia era allora «una Danza animata dall’intervento di questi geni mali e buoni piuttosto che una vera azione drammatica»; ma convincono solo, che Eschilo introduce ne’ suoi drammi Ninfe e Numi, Ombre e Furie, e dié corpo a vari esseri allegorici, come Sofocle ed Euripide nelle loro tragedie si valsero delle apparizioni di Minerva, di Ercole già nume, di Diana, di Apollo, di Nettuno, di Bacco, di Castore e Polluce, della musa Tersicore, d’Iride, d’una Furia, di un’Ombra, della Morte ecc. Di grazia, in che discordano i secondi dal primo su questo punto?

Eschilo trasportato una volta dal proprio entusiasmo cantò alcuni versi notati di manifesta impietà, e ’l governo, che vigila per la religione e i costumi, sentenziò a morte l’ardito poeta. Ma Aminia di lui fratello, che nella pugna di Salamina avea perduta una mano, alzando il mantello e scoprendo il braccio manco, intenerì i giudici, e ’l colpevole fu perdonato. Eschilo disgustato della patria così per questo contrattempo, come perché cominciavano ad applaudirsi piò delle sue le tragedie del giovane Sofocle, si ritirò presso Jerone re di Siracusa, e secondo i marmi d’Arondel, morì di sessantanove anni nel primo dell’Olimpiade LXXX23.

Ma la soverchia semplicità delle favole di Eschilo, qualche reliquia di rozzezza nella decorazione, e la scarsezza di moto, dovettero additare al famoso Sofocle una corona tragica non ancor toccata. E per conseguirla, attese a formarsi uno stile grave, sublime, grande al pari di quello di Eschilo, ma spogliato d’ogni durezza, e a interessar l’uditorio più col movimento e colla vivacità dell’azione, e con una mirabile economia, che colla magnificenza delle decorazioni. E perché tuttavia gli parve di mancar di attori per l’esecuzione del suo pensiero, staccò dal coro una terza classe di cantori e ballerini, e l’aggregò al corpo de’ semplici declamatori. E acciocché tutto concorresse all’illusione, che tanto importa per disporre gli animi alle commozioni che si pretende eccitare, volle che si dipingesse il palco24, probabilmente per mettere alla vista il luogo dell’azione. Ebbe ancora l’accortezza di scegliere argomenti adattati al talento e alla disposizione de’ suoi attori giacché egli per mancanza di voce non poté rappresentare, come faceano gli altri poeti, i quali per lo più recitavano nelle proprie favole. Stese Sofocle le sue osservazioni fino alle più picciole cose per far risplendere l’abilità di ciascuno; e perché si vedessero in teatro brillare i piedi de’ ballerini, fé calzar loro certe scarpe bianche. Delle cento diciassette, o cento trenta tragedie da lui scritte, solo sette ad onta de’ secoli ne sono a noi pervenute, cioé l’Ajace, le Trachiniane, l’Antigone, l’Elettra, l’Edipo Re, il Filottete, e l’Edipo Coloneo, le quali dovunque fioriscono gli ottimi studi, divengono gli esemplari degl’ingegni più pellegrini. Lo stile di Sofocle é talmente sublime e grande che, per ben caratterizzare la gravità della tragedia, dopo Virgilio suol darsi al Coturno l’aggiunto di Sofocleo. Oltracciò é tale l’aggiustatezza e la verisimilitudine che trionfa ne’ piani da lui conceputi, che senza contrasto vien preferito a tutti i tragici, per l’economia della favola.

Nell’Ajace detto Flagellifero dalla sferza, colla quale quest’eroe furioso percoteva il bestiame da lui creduto Ulisse e gli altri capi del campo greco, si ammirano con particolarità tre scene egregiamente espresse, la situazione di Aiace, rivenuto dal suo furore, con Tecmessa sua sposa, e con Euriface suo figlio, la naturalissima pittura della disperazione di Aiace che s’ammazza, e ’l tragico quadro della troppo tarda venuta di Teucro, e del dolore di Tecmessa, e del coro alla veduta d’Aiace ucciso. Oh quanto é vaga la natura ritratta da un gran pennello! Ma oh quanto oggidì si scarseggia di gran pennelli, i quali sappiano mettere in opera i bei colori della natura, agli antichi sì famigliari!

Si rappresenta nelle Trachiniane la morte di Ercole, avvenuta per lo dono funesto di Dejanira, nella quale si vede con tutta verità e delicatezza delineato il carattere d’una moglie tenera o gelosa. Nell’atto IV Ilo viene a riferire alla madre l’effetto del regalo fatale della veste inviata al padre nell’atto III: ma Ilo l’ha egli stesso veduto nel promontorio Ceneo, ed é venuto a narrarlo in Trachina. É naturale ch’egli avesse passato in tempo sì corto uno stretto considerabile interposto da un luogo all’altro? Dall’altra parte il giudizioso Sofocle avrebbe esposto agli occhi de’ greci un’inverisimilitudine sì manifesta, se il fatto non si rendesse sopportabile per qualche circostanza importante, allora nota, ed oggi involta nell’oscurità di tanti secoli? Sommamente patetico in tale atto é il silenzio dell’ingannata Dejanira alle accuse del figlio addolorato; silenzio eloquente e giudizioso che sempre precede in Sofocle a una gran disperazione e a un suicidio. Nell’atto V trovasi quel pezzo maraviglioso, che latinamente, e con molta eleganza tradotto, adorna il libro II delle Tusculane di Cicerone «O multa dictu gravia, perpessu aspera» etc., di cui Ovidio nel IX delle Metamorfosi fece una bellissima imitazione. Tragica e degna del gran Sofocle é pure l’ultima scena.25

L’Antigone, conosciuta per moltissime traduzioni, si aggira su gli onori della sepoltura, ch’erano tanto a cuore all’antichità, prestati da Antigone al fratello Polinice mal grado d’un rigoroso divieto di Creonte. E’ notabile nell’atto II la scena delle due sorelle Antigone ed Ismene, ciascuna delle quali, disprezzando la morte, accusa se stessa a competenza d’aver trasgredita la legge. Questo contrasto tenero e generoso fu dal Tasso imitato nell’episodio di Olindo e Sofronia, e da Metastasio avvivato con tutto il patetico d’una passione grande, e quindi reso vie più interessante nella scena X dell’atto II del Demofoonte, in cui Timante e Dircea si disputano a gara la reità principale della seduzione nel loro vietato Imeneo. Antigone n’é sepolta viva. Emone figlio del re che l’ama, si ammazza, ed Euridice di lui madre che ne intende il racconto, istupidita dal dolore, parte senza parlare, e si uccide come Dejanira. Questa patetica tragedia rappresentata con sommo applauso ben trentadue volte, produsse all’autore il vantaggio d’esser decorato della prefettura di Samo. Dove si sonosce il pregio dell’arte, si premiano i talenti. In Groelandia rimarrebbero inonorati e confusi tralla plebe gli Archimedi, i Galilei, i Newton ec. Euripide scrisse ancora un’Antigone, ma ne abbiamo soltanto pochi versi.

L’Elettra contiene l’istesso argomento delle Coefori di Eschilo, maneggiato con maggior esattezza. L’intermezzo, o sia canto del coro dell’atto II, é congiunto alle querele di Elettra. La riconoscenza molto tenera fassì con maggior verisimilitudine che non nella Tragedia del predecessore, per mezzo di un anello d’Agamennone; e fu così vivacemente rappresentata da Polo che facea la parte di Elettra, che tirò un torrente di lagrime dagli occhi degli Spettatori. Patetico é il dolore, d’Elettra, e nella scena con Crisotemi si vede a meraviglia scolpito il suo carattere. Non per tanto agli occhi de’ moderni può parere orribil cosa il veder due figli tramare ed eseguire l’ammazzamento d’una madre benché colpevole. Chi oggidì non fremerebbe alle parole d’Elettra che incoraggisce Oreste a replicare i colpi, παῖσον διπλῆν? La fatalità discolpava il poeta presso i greci: ma avrebbe fatto male Sofocle a mostrar meglio il contrasto delle voci della natura colla necessità d’obbedire all’oracolo che dovea fuor di dubbio lacerare in quel punto il cuore d’Oreste? Eschilo non gliene avea dato nell’istesso argomento un bell’esempio? Sofocle, a mio giudizio, resta pure inferiore ad Eschilo allorché scema la sospensione dello spettatore col far seguire la morte di Clitennestra prima di quella d’Egisto, e le rende lo scioglimento meno interessante.

L’Edipo Re é senza dubbio la disperazione di tutti i tragici, e ’l modello di tutte l’età. Nulla di più regolare, e di più tragico ha prodotto l’ingegno umano26. Tutta la stupidezza di certi pregiudicati moderni, sforniti de’ soccorsi necessari per leggere gli antichi, appena basta per ingannar se stessi sul merito di questo capo d’opera, e per supporre la tragedia ancora avvolta nelle fasce infantili nel tempo che producea simili componimenti che nulla hanno di mediocre. «Torresti tu (dicea col solito discernimento Longino nel capo XXVII. del suo Trattato del sublime) di esser piuttosto Bacchilide che Pindaro, e nella tragedia Ione Chio, che Sofocle?… E chi farà quegli, che avendo fior di senno, messe tutte insieme le opere d’Ione, al solo dramma dell’Edipo ardisca di contrapporle? Certo niuno». Si apre così famoso dramma con uno spettacolo curioso e patetico. In una gran piazza si vede il real palagio di Edipo; alla porta di esso si osserva un altare, innanzi al quale si prostra un coro di vecchi e di fanciulli; e si rileva dalle parole, che in lontananza dovea vedersi il popolo afflitto radunato intorno a i due templi di Pallade e all’Altare d’Apollo. Né ciò era difficile ne’ greci teatri, la cui grandezza pienamente non si ravvisa ne’ moderni, benché ci vantiamo del Teatro del Ritiro di Madrid, di quello di Torino, del famoso di Parma, e del veramente regio e magnifico Teatro di San Carlo di Napoli, il quale passerà alla memoria de’ posteri, come il più superbo e vago che si abbia la moderna Europa. Dopo il contrasto di Edipo e Creonte, Giocasta nell’atto III cercando di consolare il consorte con iscreditar le predizioni, racconta come andò a vuoto un oracolo d’Apollo, che presagiva che un di lei figlio doveva estere l’uccisore del padre; perocché essendo stato il bambino esposto sul Monte Citero, il padre cadde per altra mano, avendolo ucciso alcuni ladroni in un trivio. Questo trivio ricordato e descritto con esattezza presta all’azione un calore e un movimento inaspettato, facendo sovvenire al re della morte da lui data a un anziano in un luogo simile, e a misura che si rischiarano le cose, la scena diviene interessante. Si osservi ancora, come qui Giocasta si sforza di torre il credito agli oracoli, e nell’atto IV Edipo stesso, all’udir che Polibo, suo creduto padre, é morto in Corinto, ne deduce per conseguenza l’inutilità di consultar l’oracolo d’Apollo. Ma frattanto il rimanente della tragedia mostra appunto sa falsità del raziocinio di quei due spiriti-forti, e accredita col fatto le divine risposte, stabilendo l’infallibilità d’Apollo, e l’insuperabile forza del fato, ch’é il gran perno, su cui si aggira il tragico teatro greco. Che riconoscenza poi mirabilmente condotta per tutte le circostanze nell’atto IV, e di qual tragica catastrofe produttrice! Aristotile n’era incantato con ragione. Giocasta, a cui le parole del messaggiero non lascian più dubbio alcuno dell’essere di Edipo, concentrata in se stessa, e piena del suo dolore, dovette essere agli ateniesi un oggetto sommamente compassionevole. Ella, giusta la maniera di Sofocle, esprime col silenzio l’intensità della sua pena e ’l funesto disegno che poco dopo eseguisse. Qui é dove veramente il silenzio é eloquente e patetico, e produce l’effetto che in vano cercano di conseguire i declamatori e ragionatori. Edipo accertatosi esser egli il colpevole additato dall’oracolo, chiude con energia e passione tutte le sue sventure in queste brevi patetiche querele:

Terribile destino ecco una volta
Tutti svelati i tuoi decreti! Io nato
Son di cui non dovea: ho un letto offeso,
Cui d’innalzar anco un pensier fugace
Era sceleratezza: il giorno ho tolto
A chi mi dié la vita. O Sol, sia questa
L’ultima volta che i tuoi raggi io miri.

dove solo abbiam posposta l’apostrofe alla luce, Ω φος ec., che nel testo precede all’epilogo. Ma quanto é tragico e spaventevole nell’atto V il racconto della morte di Giocasta e dell’acciecamento d’Edipo! Che spettacolo Edipo acciecato nella scena II! Ivi é il bel passo ammirato e citato da Longino, e così tradotto dal Giustiniano nella elegante, esatta, e vivace versione dell’Edipo:

…………………… O nozze, o nozze!
Voi me qui generaste, e generato
Poscia, o sceleratezza! ritornaste
Nel ventre della madre il seme istesso
Concependo di lui parti nefandi.
Fratelli, padri, e figli produceste
D’un sangue istesso, e d’un istesso ventre
E nuore, e mogli, e madri, in unmischiando
Tutto ciò che più turpe e più nefando
Tra’ mortali si stima.

ne’ quali versi si vede bene espresso quell’αῖμʹ εμφύλιον, sanguinem cognatum, che il dottissimo Brumoy desiderava nella per altro elegante traduzione di questo passo fatta da Niccola Boileau. Lacera finalmente i cuori sensibili la preghiera di Edipo ridotto in sì misero stato per abbracciar le figliuole, e quando brancolando va loro incontro nella scena IV chiamandosi or di loro fratello, ora padre:

Figlie, ove sete, o figlie?
Stendete pur le braccia all’infelice
Vostro… Fratello. Non fuggite, o care,
Quelle man che dagli occhi a vostro padre
Trasser sa luce.

e quando le abbraccia, e non sa separarsene, tutte situazioni appassionate vivacemente dipinte. Termina il coro la tragedia colla sentenza di Solone. Tutti i Cori di essa ritraggono al vivo la gravità e sublimità dello stile di Sofocle; e ’l Giustiniano che gli ha tradotti con una elegantissima fedeltà, ci appresti il modo di farne concepire una giusta idea alla gioventù studiosa. Ecco la maggior parte del coro che conchiude l’atto I.

Santo oracol di Giove
   Che sì soave spiri,
 Con che annunzio venisti
 Dagli eccelsi di Delfo aurati tempi
 A la nobile Tebe?
 Trema la mente in me stupida e tutta
 Per timor sbigottita:
 Da sollecita tema
 Scuotere il cor mi sento.
 Sacro e possente Dio signor di Delo,
 Che risanando sgombri
 I perigliosi morbi,
 Te col cor tutto riverente onoro.
 Quali sono or le tue risposte? e quali
 Nell’avvenir saranno?
 Dinnelo or tu, fama immortal, soave
 Frutto d’amica e preziosa speme.

Indi, invocata Minerva, Diana, ed Apollo, si passa a descrivere i mali di Tebe:

 Giace dal morbo afflitto il popol tutto,
 Né so dond’io m’impetri
 O soccorso, o consiglio.
Già de li frutti suoi ricca e cortese
 La terra or nulla rende,
 Né resister possendo
 Cadon da morte oppresse
 Le femmine dolenti
 Ne le angosce del parto.
Come spessa d’augei veloce torma
 Fende l’aria volando,
 Tal da li corpi un sopra l’altro estinti
 In largo e folto stuolo,
 Più che ’l foco leggere,
 Fuggon l’alme di Stige a i tristi liti.
 Ma l’infinita turba abbandonata
 Da la pietate altrui,
 A cruda morte giunta,
 Priva de l’altrui pianto,
 Sopra il nudo terrea giace insepolta.
 E le tenere spose,
 E le madri canute,
 L’una de l’altra a canto,
 Piangon supplici e meste i loro mali.
 In varie parti, dove
 Son per le rive i sacri altari alzati,
 Si raddoppiano gl’inni,
 E con lor risonando,
 Fanno il pianto e i sospiri
 Un doglioso concento.
Levaci tu da tanti strazi omai,
 Bella di Giove figlia;
 E il dannoso nemico,
 Che senza scudo e armi
 In crude fiamme mi consuma e strugge,
 Quinci a fuggir costringi;
 E da questa cittade
 Entro al letto l’immergi
 De la grand’Anfitrite, o tra li scogli
 Del Mar Trace lo scaccia;
 Però che quel che ci lasciò d’intatto,
 E di salvo la notte,
 Il dì venendo invola.
Questo, Giove, vibrando
 Le fiammeggianti faci,
 Col tripartito tuo pungente strale
 Struggi, e spegnilo in tutto.
 Tu, Re di Licia, ancora
 Il nervoso e aurato arco tendendo,
 L’infallibili tue forti saette
 In nostro aiuto spendi.
Deh ci consenta il Ciel, ch’anco Diana
 Da l’alte cime, ov’ella
 Per li monti di Licia errando vassi,
 I suoi più accesi lumi
 Scuota, in darci soccorso.
E tu, Bacco, non meno, a cui le tempie
 Cinge aurata corona,
 E godi aver con questa
 Città comune il nome,
 A le Menadi tue compagno e duce
 Unico qua t’invia:
 E questo tra li Dei
 Spirto infame e nocivo
 Fa che da la tua ardente
Face trafitto giaccia.

Simili traduzioni animate, fedeli, armoniose e robuste de’ nostri cinquecentisti dimostrano come ben sapeano essi render con eleganza lo spirito poetico de’ greci, e quanto intendevano oltre il vano suono delle parole. Non so dunque, come il signor Mattei affermi nella sopraccitata dissertazione pag. 210, che «i nostri antichi traevano da quelle miniere (de’ tragici Greci) solo il piombo, e lasciavano l’oro». E ne sono sempre più stordito in leggendo poco dopo nella pag. 218, che «dalla greca tragedia aveano i francesi e gl’italiani con felice successo preso ed unito insieme tutto il bello». Di grazia, signor Mattei, intendiamoci bene: gl’italiani hanno da’ greci «preso con felice successo tutto il bello», o han tratto «dalle loro miniere tutto il piombo, e lasciato l’oro»? Passiamo alle rimanenti tragedie di Sofocle.

Egli é un altro capo d’opera dell’antichità Filottete, le cui saette fatali conducono in Lenno Ulisse e Neottolemo, perché si richiedevano indispensabilmente per sa caduta di Troia. Filottete é il più compiuto esemplare dell’inimitabile semplicità della tragedia antica, e della costante regolarità ed aggiustatezza di Sofocle. Tutto in essa é grande e sostenuto fino al fine da un interesse ben condotto, tutto va al suo scopo con energia. Pennelleggiato a maraviglia é il carattere di Neottolemo. I moderni non vedrebbero oggi con piacere sul teatro un personaggio, come Filottete, zoppicante, e disteso nel II atto colle convulsioni. Ma ciò si rappresentava senza sconcezza sul teatro della savia Atene. E questo prova che un certo sublime idropico e romanzesco, e che io chiamo di convenzione teatrale, perderebbe affatto il credito ancora sulle scene moderne a fronte delle belle situazioni naturali e patetiche, sempre che vi fossero introdotte con garbo da un bello ingegno che sapesse renderle al pari di quelle di Sofocle veramente tragiche e grandi. Si può osservare in questi tragedia, che i cori del I e del III atto sembrano più parlanti del II, il che si trova in altre tragedie ancora, e può servir di prova, che non sempre terminavano gli atti con un canto sommamente lontano dalla declamazione del rimanente della tragedia. Il coro del IV é accoppiato a i lamenti di Filottete, i quali paiono una spezie de’ moderni recitativi obbligati, o vogliamo dire, accompagnati dagli stromenti. La prima scena del V é molto viva, per lo bel contrasto della virtù di Neottolemo colla politica di Ulisse. La tragedia termina per macchina coll’apparizione di Ercole, pel cui comando Filottete accompagna Neottolemo a Troia. Tra’ frammenti di Euripide si trovano alcuni versi d’una sua tragedia su questo Filottete.

 L’Edipo Coloneo, ossia in Colono, patria di Sofocle, contiene la venuta di Edipo cieco in Atene, fuggendo la persecuzione di Creonte re di Tebe. Egli si ritira colle figlie nel tempio delle venerabili Dive, cioé delle Furie, implorando la protezione di Teseo, e secondo l’oracolo va a morire in un luogo a tutti ignoto. Fra questa tragedia e quella delle Supplici di Eschilo si scorge qualche analogia, riguardo al piano. Sofocle decrepito poco prima di morire fu da Iofante suo figliuolo chiamato in giudizio e accusato di fatuità, e ’l poeta, per convincere i giudici della falsità dell’accusa, recitò loro quest’Edipo Coloneo, scritto da lui in quell’età sì avanzata, e ne fu ammirato e assoluto, e l’accusatore istesso fu dichiarato insano. Morì questo gran tragico strangolato da un grano d’uva d’anni novantacinque27,

Era Sofocle già vecchio, quando Euripide lasciò la palestra degli atleti per darsi tutto alla tragica poesia, e d’anni diciotto osò metter fuori la prima sua tragedia. Ardua impresa per sì pochi anni gareggiar colla riputazione d’un Sofocle! Pur quali ostacoli non vince l’attività, l’ingegno, e lo studio? Egli vi si accinse con alacrità e coraggio; vi si accinse con tutti i soccorsi, onde i frutti poetici si stagionano per l’immortalità, avendo appresa da Prodico l’eloquenza, e da Anassagora le scienze fisiche, e coll’amico Socrate coltivata la filososia de’ costumi; e vi si accinge finalmente con quella somma attenzione indispensabile per isviluppare l’ingegno e rintracciar le bellezze originali di ogni genere; perocché per natura avverso alla mollezza, cercò nei gli orrori d’una caverna tutto l’agio per esaminare e dipingere il cuore umano, e per istudiare il vero linguaggio delle passioni. Per tali mezzi si pervenne egli a saper meglio d’ogni altro l’arte di parlare al cuore, e rapir gli animi con un patetico sommamente dilicato e mai più non vedano sulle scene ateniesi, per cui fu da Aristotile onorato del titolo di Τραγικωτατος. Infatti il suo stile si distingue molto dallo stile de’ suoi predecessori per l’arte mirabile di animar col più vivace colorito tutti gli affetti e spezialmente quelli che si appartengono alla compassione. «Euripide (dice Longino) é veramente industriosissimo nell’esprimere tragicamente il furore e l’amore, nelle quali passioni riesce sommamente felice». La gravità delle sentenze, e una gran ricchezza filosofica caratterizzano altresì il di lui stile. Secondo Quintiliano, egli si appresta al genere oratorio, e vi riesce mirabilmente, e a niuno de’ più eloquenti rimane inferiore; ma questo stesso talvolta lo mena lontana dal vero dialogo drammatico. Gli s’imputa un poco di negligenza nella condotta e disposizione delle favole; il che fa vedere ch’egli ponea maggior cura a ritrarre la natura che a consultar l’arte. Scrisse, secondo alcuni, settantacinque tragedie, ma contando le diciannove intere che ce ne restano, e i frammenti di tante altre, raccolti nella bella edizione del Barnes, si può con altri asserire più fondatamente, che ne componesti fino a novanta due, otto delle quali erano satiriche28. Esse furono avidamente accolte sempre nel Teatro di Atene e ammirate successivamente dalla più dotta posterità; ma nel certame olimpico cinque solo riportarono la corona, e nelle altre soggiacque alla solita (ventura de’ grandi uomini di esser posposti a competitori ignoranti. Tale era Xenocle (figlio di Carcino, tragico anteriore a Euripide), il quale gli fu preferito da’ giudici, come dice Eliano, sciocchi, o subornati. Le tragedie intere che ne abbiamo, sono Elettra, Oreste, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauri, Elena, Alceste, Ippolito Coronato, Ecuba, Andromaca, le Trojane, Reso, Medea, le Fenisse, le Supplici, gli Eraclidi, Ercole Furioso, Ion, le Baccanti, il Ciclopo. Fece in esse sempre uso del prologo per mettere con chiarezza sotto gli occhi dello spettatore quanto stimava necessario per l’intelligenza della favola; ma Eschilo e Sofocle senza prologo seppero esporre a maraviglia lo stato dell’azione.

Nell’Elettra Euripide rimane a Sofocle inferiore appunto per l’introduzione. Quanto alla riconoscenza del fratello e della sorella, riesce in Eschilo molto più animata, ma in Euripide é più verisimile, avvenendo per mezzo dell’Ajo di Oreste, e per una cicatrice ch’egli avea in fronte fin dalla fanciullezza. Quella di Sofocle però supera l’una e l’altra per l’effetto vivace che produce in teatro; perocché Oreste creduto morto, e trovato inaspettatamente vivo, apporta la rivoluzione della fortuna di Elettra, e la fa passare da un sommo dolore a una somma gioja. Il carattere d’Elettra in Euripide é assai più feroce e vemente che non apparisce negli altri due tragici. Elettra si prende essa la cura di uccidere la madre, ed espone l’artificio, con cui pensa di trarla nella rete; orribile disegno d’una figlia, neppur mitigato dalle savie prevenzioni di Eschilo. Ma quale é mai l’artifizio di Elettra? Chiamar Clitennestra nella propria casa, perché voglia assisterla nel finto parto imminente. Era però verisimile che una madre che la lasciava perire nell’indigenza, volesse appunto in quell’occasione ripigliar la tenerezza di madre? Tuttavolta il poeta la fa venire dalla figliuola: ma quando? quando già era stato da Oreste ucciso Egisto in un solenne sacrifizio. Un fatto sì strepitoso avvenuto in pubblico, poteva ignorarti con verisimilitudine dalla regina? non dovea esso interrompere il piano delle operazioni? Mal grado di tali negligenze la tragedia d’Euripide é piena di moto e calore, e i costumi vi son vivacemente coloriti, e le passioni espresse con energia.

L’Oreste, ch’é una delle di lui tragedie coronate, seguita la materia dell’Elettra. Egli non solo é perseguitato dalle Furie vendicatrici, ma é presso ad esser punito per l’uccisione della madre. Nell’atto I vi é un brieve dialogo di Elena e d’Elettra, le quali si motteggiano in una maniera forse poco conveniente alla tragedia. Nel III si dipinge l’Assemblea Argiva, che sembra alludere all’Areopago d’Atene, e di passaggio vi son dipinti e satireggiati alcuni oratori del tempo del poeta, circostanza perduta per gli moderni, ma che dovea esser importante per gli ateniesi. Vi si veggono per tutto tratti assai popolari e pressoché comici e lontani dal gusto moderno. La scena però d’Elettra e di Oreste nell’atto IV é sommamente tenera e ben degna del pennello d’Euripide: vago é parimente il contrasto d’amicizia di Pilade ed Oreste.

Ifigenia in Aulide é uno degli argomenti da lui maneggiati con maggior vigore e leggiadria, trionfandovi da per tutto la sua maravigliosa maniera di dipigner gli affetti che destano la compassione. Che delicato contrasto fanno nell’atto III le innocenti naturali domande d’Ifigenia e le risposti equivoche e patetiche di Agamennone, la di lei gioia sincera all’abbracciare il padre, e ’l profondo dolor di lui, nascosto sotto l’esteriore serenità e allegrezza forzata! Simile situazione trovasi nell’Isacco di Metastasio, quando Isacco chiede della vittima, e Abramo risponde, «provvederalla Iddio», frenando il paterno dolore; ma in Abramo trasparisce una forza eroica sovraumana che lo guida, e rende incomparabilmente più grave e rispettabile l’evento. L’azione acquista dal principio dell’atto IV gran calore e movimento per l’avviso dato dallo schiavo a Clitennestra e ad Achille. Vigorosa é la declamazione di Clitennestra nell’atto IV; e ’l discorso d’Ifigenia sommamente tenero e patetico e sostenuto da un continuo interesse, benché cominci con una spezie di esordio rettorico, augurandosi ella «l’eloquenza di Orfeo, e l’arte ond’ei seppe costringere i saffi a seguitarlo». Lodovico Dolce ha mitigato in parte quel cominciamento; ma la sua traduzione, sebbene degna di lode per vedervisi l’intelligenza ch’egli avea dell’originale, riesce snervata e languida quali sempre, perché mancavagli il gran calore che accendeva la fantasia del tragico greco. Notabile é in questo luogo un modo di esprimersi d’Ifigenia. Ella dopo le dolorose esclamazioni della madre dice: «la medesima misura di versi conviene allo stato mio»; al che il P. Brumoy soggiugne: «l’attore dee mai mostrarsi inteso di parlare in versi»? Ma l’espressione é figurata, e non ne mancano altre di simil fatta altrove, come p.e. nell’Ecuba, nella quale si dice «incomincio il canto delle Baccanti», cioé prorompo in querele da forsennata. L’espressione dunque d’Ifigenia non dee tradursi letteralmente per l’istessa misura de’ versi, ma sì bene per lo medesimo lamento, e così fece il Dolce:

Madre, misera madre,
Posciaché questa voce
Di misero e infelice
Ad ambedue conviene, ec.

Un nuovo moto acquista l’azione nella scena delle donne con Achille, e ’l patetico delle preghiere di Clitennestra, e la pietà che ne mosti Achille, si converte in ammirazione pel cambiamento d’Ifigenia. Ella, durando il lor dialogo, dovette mostrarsi sospesa e agitata da varj pensieri sulle conseguenze della difesa che ne vuol prendere Achille. Una muta rappresentazione sommamente eloquente, non veduta da’ grammatici e da’ freddi critici, a’ quali fa d’uopo che sifatte cose sieno accennate in note marginali, dovette far comparire sul di lei volto la riflessione del pubblico interesse che le sopravvenne a contrapporsi al primo terror della morte. Or questo salva il poeta dalla pedantesca opposizione dell’ineguaglianza del carattere d’Ifigenia, che alla prima piange e prega per esser sottratta alla morte, e di poi si offre vittima volontaria del pubblico bene per acquistare

Ne’ secoli futuri onore e gloria.

Un’altra apparente opposizione possono fare i poco esperti al carattere d’Achille, che essendosi mostrato prima sì fervoroso a difenderla, ne soffre poi pacificamente il sagrifizio senza nulla tentare in suo pro. Achille avea promesso di salvarla dalla violenza; ma quando essa si offre di buon grado al sacrificio, secondo i principi della religione pagana, non gli era più lecito involarla alla morte senza esser sacrilego, ond’é che desiste giustamente dalla prometta difesa. Siegue a ciò una scena molto patetica, in cui Ifigenia rassegnata a morire prende congedo dalla madre, la quale le va rammentando i suoi più cari. Finalmente con somma conoscenza del cuore umano quello grande ingegno mostra più eloquentemente l’immenso dolore del padre di quello che altri fatto avrebbe con una lunga declamazione:

Poiché fu l’innocente al loco giunta
Dove i greci facean larga corona   
Al nostro re, come venir sa vide
Benché fuori di tempo e troppo tardi
Da paterna pietà gelossi ’l sangue,
E la pallida faccia addietro volse,
Indi col manto si coperse il volto.

Timante trasportò nel suo famoso quadro questa felice situazione. Volle ancora M. Racine conservarla nella sua Ifigenia; ma egli rappresenta un’armata divisa in due partiti, uno de’ quali é retto dall’iracondo Achille, pronto ad attaccar l’altro; e in tal congiuntura la situazione di Agamennone che si ricopre il volto, é assai men bella, perché fuor di tempo ci mostra un generale pieno del suo privato dolore, che si ricorda solo d’esser padre, e tralascia di adempiere a i doveri di capo in occasione così pericolosa. Oltreacciò e’ contraddice apertamente al propio carattere, da che egli per ritenere il comando e ’l titolo di Re de’ Re era condisceso a sacrificar la figlia. Si osservi come in varie scene, e ne’ cori, Euripide si vale d’una misura più corta di versi, come più atta ad esprimere il dolore, e Lodovico Dolce ha seguitato l’originale. Gli atti di questa tragedia a me sembrano sei, dovendo finire il V colla scena VIII e col coro che par mancante, e ’l VI atto comincerebbe dalla IX scena.

L’Ifigenia in Tauride rappresenta la riconoscenza di Oreste colla sorella sul punto d’esser da lei sacrificato, e la loro fuga, seco portando la statua di Diana Taurica. É rimarchevole in questa tragedia la tenera scena d’amicizia tra Pilade e Oreste, colla quale termina l’atto III senza coro. Maneggiata con somma delicatezza e sopraffino giudizio é sa bellissima incomparabile riconoscenza, che mi pare la più verisimile, la più vivace, e la più atta a chiamar l’attenzione dell’uditorio e a tenerlo sospeso, di quante ne abbia prodotte l’antichità. Osserviamo in questa tragedia che dopo la scena d’Ifigenia e Toante, il coro canta solo nella scena IV dell’atto V, «Celebriamo le lodi di Febo e di Diana ec.» Or non sarebbe questo il finale d’un atto? Allora potrebbe la tragedia dividersi in quattro atti così: Il I, composto del I e del II della prima divisione, terminerebbe col canto del coro, «O rupi Cianee che congiungete i mari ec.» il II conterrebbe il III e ’l IV, terminando col coro che incomincia, «Tenero augelletto che errando vai ec.»; il III terminerebbe col suddetto coro della scena IV dell’atto V; e ’l IV comincerebbe dalla scena V. Ma la divisione degli atti non mi sembra in conto veruno essenziale per ben conoscere l’eccellenza de’ tragici antichi. Egli é vero che ’l signor Mattei la stima a tal segno importante, che afferma che niuno europeo «ancora ha capito che cosa sieno le tragedie greche»; perché niuno, a suo credere, le ha ancora ben divise: ma queste esagerazioni enfatiche (sia detto con pace di tanto letterato) non par egli che rassomiglino alle precauzioni prese da’ sacerdoti gentili per accreditare i loro responsi che vendevano per oracoli?

Nella tragedia intitolata Elena si tratta di Elena virtuosa in Egitto, secondo quello che ne racconta Erodoto nel Libro II; e si maneggia la fuga di Menelao con quest’Elena, ingannando astutamente Teoclimene che n’é innamorato. Quanto alla disposizione, ella sembra gettata nella stampa dell’Ifigenia in Tauride; ma, a mio giudizio, le cede assai in patetico, in movimento, in interesse, e nobiltà.

Nell’Alceste che si offre vittima volontaria alla morte in cambio di Admeto suo Marito, dagli stupidi ammiratori de’ moderni dee leggersi attentamente l’atto II per apprendere l’arte di distinguere la natura con verità ed energia29. Alceste moribonda e poi senza vita, i suoi figli, il marito, il coro, formano un quadro sì patetico che farà cader la penna dalle mani di chi oggidì si accinga a scriver tragedie. Il contrasto però di Admeto col padre, e i di lui rimproveri fatti a quel povero vecchio, cui non é bastato l’animo di morire in vece del figlio, potevano forse apparir tollerabili presso de’ greci, ma fra noi sembreranno sempre ingiusti e poco urbani, e in niun modo tragici. Non per tanto bisogna retrocedere almeno venti secoli per giudicar diritto perché un sì gran maestro, come Euripide, non avrà presentato agli occhi de’ greci cosa che potesse contraddire i loro costumi e l’opinioni dominanti.

Ippolito coronato contiene la morte d’Ippolito per l’accusa di Fedra. Questa tragedia fu coronata sotto l’Arconte Epameinon nel terzo anno della guerra del Peloponneso, avendo Euripide trentacinque anni. Ippolito nella prima scena dopo il prologo viene con una corona in testa, e di poi l’offerisce alla statua di Diana. Per questa corona dunque, e non già per quella riportata dal poeta, Ippolito si chiamò Στεφανηφορος, come l’Ajace di Sofocle s’intitolò ΜΑΣΤΙΓΟΦΟΡΟΣ per la sferza che portava in iscena. Quei che credono che si dicesse coronato dalla corona data al poeta, non riflettono, che tante altre tragedie e commedie diedero la corona Olimpica ai poeti, e niun’altra di esse ne acquistò il titolo di coronata. Or perché si darà ad Ippolito per tal ragione, quando egli porta la corona effettivamente nel dramma? Nell’atto I, partito Ippolito, resta il coro solo e canta sullo stato di Fedra; non potrebbe esser questa la fine dell’atto? ma vi é stata attaccata ancora la scena di Fedra: la quale naturalmente par congiunta colla prima dell’atto II. La felice distrazione accennata nella sua Fedra da M. Racine, «Dieu que ne puis-je assise etc.», é una bellezza originale d’Euripide. Fedra circondata dalle donne del coro, e assistita dalla nutrice, così favella distratta presso Euripide, secondo la nostra debole traduzione:

Fed. Ah perché non poss’io spegner la sete
    Ne l’onda pura di solingo rio?
    Perché sul verde prato al rezzo assisa
    I miei mali ingannar non m’é concesso?
Nut. Che mai ragioni, o mia regina? Ah pensa
    Chi t’ascolta, ove sei: scopron que’ detti
    Le tempeste del cuore,
    De la mente i deliri.
          Fed. Al monte, al monte.
    Seguiam la traccia de’ fugaci cervi.
    Giovi aissar il cacciatore alano.
    Col grido eccitator, Tessalo dardo
    Brandir, lanciar ver la tremante preda.
Nut. Deh ritorna in te stessa: in quai ti perdi
    Vani pensieri! oimé! cacce, foreste,
    Ombre, ruscelli… A queste torri appresso
    Limpidi fonti non vi sono e piante?
Fed. Dive di Limna, a presedere elette
    A l’esercizio de’ corsieri ardenti,
    Deh perché non poss’io con questa mano
    Generoso destrier domare al corso?
Nut. Ma, principessa, ancor vaneggi? I cervi
    Ora inseguivi per le alpestri rupi,
    Or domi al piano un corridore! Un Dio,
    Un Dio nemico t’agita e confonde.
Fed. Misera me, che parlo? Ove son’io?
    La ragion m’abbandona, é vero; un Nume
    Avverso e crudo me la toglie! Ah sono
    Pur sventurata. T’avvicina, amica,
    Ricomponi i miei veli, onde m’avvolga:
    Di me stessa ho rossor: coprimi, dico;
    Nascondi agli occhi altrui quello, che ’l volto
    M’inonda e bagna, involontario pianto.
    Sento che avvampo di vergogna. O cruda
    E pur cara follia! L’error mi piace,
    La ragion mi rattrista. Ah cedi al fato,
    Cedi, meschina, al tuo delirio, e mori.

La scena dell’atto II, in cui Fedra manifesta alla nutrice la cagione del suo male, fu da M. Racine trasportata quali interamente, a riserba d’uno squarcio molto dilicato, dove Fedra risponde all’istanze della nutrice:

Ah, prevenirmi perché mai non puoi?
Perché non dir tu stessa
Ciò che forza é scoprir?

Per altro il sig. Racine scorre più rapido e con più energia senza fermarsi con Euripide a far dire a Fedra: Sai tu che mai sia una certa cosa che si chiama amore? e giudiziosamente s’appiglia a quelle parole: Conosci tu il figlio dell’amazone? La scena di Teseo e Ippolito dell’atto IV é stata copiata maestramente da M. Racine; benché la greca riesce più tragica e importante per lo spettacolo di Fedra morta. Il Racine che ha preso un cammino quanto differente, ha dovuto perdere varie bellezze della tragedia greca, come il dolore di Teseo per sa morte di Fedra, e la tragica scena d’Ippolito moribondo. Il carattere d’Ippolito sembra un ritratto di quello del poeta per lo sempre avverso ch’egli avea alle donne, per lo spirito filosofico, e pel gusto oratorio che si manifesta specialmente nella di lui giustificazione col Padre. Il racconto della morte d’Ippolito é vagamente ornato; ma sobrio e naturale nel greco: presso il Racine é soverchio pomposo e poetico. Osserva il P. Brumoy che all’incontro del mostro il greco poeta pieno del terrore che ne presero i cavalli, non lascia altro tempo ad Ippolito, se non quello di studiarli di governarli: Seneca nella sua tragedia gli dà maggior coraggio, facendolo disporre a combattere: e M. Racine passa più oltre, e gli fa lanciare un dardo e ferire il mostro: Nel che (soggiugne quell’uomo dotto) si scorge il progresso della mente umana che tende sempre alla perfezione. Ma lo dirò io? Il greco mi sembra assai più occupato della verità dell’accidente. E in questo si vede chiaro lo spirito de’ greci sempre intento a dipigner la natura, e lo spirito de’ moderni inclinato a spingerla oltre, e a preferire al vero lo specioso. Soggiugniamo qui un bellissimo parallelo dell’Ippolito di Euripide colla Fedra di Racine, tratto da una    dissertazione dell’erudito sig.    abate    le Batteux    letta    nell’   Accademia delle Iscrizioni  e Belle Lettere di Parigi 30. «Il nome del sig. Batteux (dicono i dotti e giudiziosi compilatori romani) é abbastanza illustre nella storia filosofica delle belle lettere, e questa dissertazione fa veramente onore al suo gusto squisito, alle sue profonde cognizioni, ed al suo tatto fino, delicato e profondo. Non si aspetterebbe mai da un francese di vedere sopra il gallo pregiato l’attico coturno. Egli osserva in generale, che la tragedia francese é più complicata, più involta in vicende, in intrecci, in episodi, che la greca. Ha essa più parti: queste parti hanno bisogno di maggior arte per essere conciliate insieme; onde é più difficile di formarne un tutto naturale. Vi entra maggior numero di passioni, delle quali alcune tutt’altro sono che tragiche. L’anima dello spettatore negli spettacoli moderni é così sovente sollevata dall’ammirazione e dall’entusiasmo, che abbattuta dal terrore e dalla pietà, sente in somma la sua forza, mentre indi a poco si accorge della sua debolezza. Non é così della tragedia greca, la quale sembra odiare la magnificenza, e tutto ciò che può distrarre il dolore. Dessa é perfettamente semplice. Una sola azione incominciata dal punto in cui comincia ad interessare, si estende dal principio al fine del dramma, si avanza, s’imbarazza, scoppia finalmente, diremo così, per il fermento di certe cagioni interne, gli effetti delle  quali si sviluppano con diverse scosse fino alla catastrofe.» Bellissima, ottima gradazione! Essa, addita alla gioventù la vera arte del dramma, che consiste in porre sotto gli occhi un’azione che vada sempre crescendo per gradi finché per necessità scoppi con vigore, e non già in ordinare varie elegie, e declamazioni; perché queste, in vece di avvivar le passioni e renderle atte a commuovere col seguirne, come si dovrebbe, il trasporto progressivo, le rendono pesanti e fuor di proposito loquaci, e quindi stancando la mente, senza mai parlare al cuore, diminuiscono l’interesse e per conseguezza l’attenzione dello spettatore. «Tutto (prosiegue il sig. le Batteux) vi si trova disposto come nella natura allo spettatore non deve esercitarsi, non deve esercitare, il suo ingegno. Il dolore nella natura si abbandona a se stesso, e non hai più spirito, e  lo stesso deve essere nelle opere dell’arte, e mule di quelle della natura». Entrando quindi  nel confronto de i due più bei pezzi forse dell’antica e della moderna tragedia, il sig. Batteux rende gli elogi dovuti alla Fedra, ma conviene ancora, che l’azione dell’Ippolito é una ed unica, e tutto vi succede con maggior verisimiglianza. Racine congiunge all’azione principale l’azione episodica d’Ippolito e d’Aricia, che contiene più di 400 versi. Due amori due confidenze, due dichiarazioni d’amore l’una accanto all’altra, nel primo e nel secondo atto. Nell’Ippolito non si ragiona della morte di Teseo. Questa morte non é preparata in alcuna guisa nella Fedra, ed altro effetto non produce che d’incoraggiare la regina a dichiarare il suo incestuoso amore ad Ippolito. Più decenza in Euripide che in Racine. Fedra in quello confessa il suo amore, non come una passione, ma come un delitto. La nutrice é quella che svela il segreto ad Ippolito nonostante il di lei divieto. La regina non soffre davanti gli occhi il rifiuto, ma lo ascolta, senza esser veduta. In Racine Fedra stessa confessa una passione vergognosa, la confessa innanzi a tutti gli spettatori sposa del padre al figlio, e nel primo istante, che se ne crede la morte. Euripide ha saputo conservare il pudore del poeta e degli attori. In Racine l’interesse dominante si divide tra Fedra, Ippolito, e Teseo; in Euripide é tutto per Ippolito da principio al fine. Tutto é lagrime in Euripide; lagrime di Fedra, lagrime d’Ippolito, lagrime di Teseo, lagrime del coro, e della nutrice. Tutto spira dolore e tristezza, tutto é veramente tragico. Il dramma di Racine é una serie di quadri grandi di amore, amore timido che geme amore ardito e determinato, amor furioso che calunnia, amor geloso che spira sangue e vendetta, amor tenero che vuol perdonare, amor disperato che si vendica sopra se stesso. Ecco la tragedia di Racine. Altrettanti quadri si trovano nell’Ippolito, ma quanto più sostenuti, quanto più austeri! I caratteri quanto non sono più virtuosi e più nobili nella tragedia greca? Niun tratto, niun movimento, niun dialogo, che raffreddi la pietà degli spettatori. Giovine, fornito di nobili costumi, sofferente nella calunnia senz’accusare il calunniatore, rispettoso e tenero per il padre benché ingiusto, Ippolito non lascia per un momento d’interessare tutti i cuori sensibili. Fedra in Racine ha alcuni torti violenti che raffreddano la compassione, e si scuopre nel poeta un’arte infinita per coprirne e scusarne i difetti. Teseo attrae a se tutto l’interciso del terzo atto. L’amore d’Ippolito per Aricia vietato dal padre quanto non toglie al carattere del giovine eroe, virtuoso sempre, sempre degno di compassione in Euripide debole qualche volta, qualche volta ozioso nel poeta francese. Termina il nostro signor abate le Batteux questo parallelo, che non può estere né più giudizioso, né più vero, con attribuire alle nazioni il diverso carattere dei poeti. L’amico di Socrate non sarebbe stato mai così mal accorto di presentare a i vincitori di Maratone e di Salamina un’Ippolito amoroso, ed avido d’intrighi. Il poeta francese ha dovuto lusingare la debole delicatezza della sua nazione, ed Euripide nelle stesse circostanze non avrebbe fatto di meglio, ed avrebbe avuta sa stessa indulgenza per un popolo che dovea essere il suo giudice. Quest’esame, ben degno della dottrina, e del discernimento e buon gusto del celebre autore delle Belle Arti ridotte a un Principio, compensa solo tutte le fanfaluche affastellate lungo la Senna contro gli antichi dai Perrault, La Motte, Terrasson, e dal marchese d’Argens, il quale colla solita sua superficialità e baldanza asseriva, che i poeti tragici francesi tanto sovrastavano agli antichi, quanto la repubblica romana del tempo di Giulio Care superava in potenza quella che era sotto il consolato di Papirio Cursore.

Euripide ha composto su gli eventi che dipendono dalla guerra troiana, oltre alle Ifigenie ed Elena, varie altre tragedie, come Ecuba, Andromaca, le Troiane, Reso, che ci son pervenute intere, e Palamede, Filottete, i Troiani, delle quali rimangono pochissimi frammenti. L’Ecuba s’aggira sulla morte di Polissena, e sulla vendetta dell’assassinamento di Polidoro. Eccellente é la scena di Ulisse con Ecuba e Polissena nell’atto II, dove i leggitori che amano le dipinture naturali, si sentiranno scoppiare il cuore. Nel patetico racconto della morte di Polissena nell’atto III si ammirano varj tratti pittoreschi e tragici, come il nobile contegno di Polissena che non vuole esser toccata nell’attendere il colpo, il coraggio che mostra nel lacerar la veste ed esporre il petto nudo alle ferite:

Ella poiché si vide in libertade
Volgendo gli occhi in certo atto pietoso
Che alcun non fu che i suoi tenesse asciutti,
La sottil vesta con le bianche mani
Squarciò dal petto infino all’ombilico
E ’l suo candido seno mostrò fuori ec.

e finalmente l’atto grande e nobile di cader con decenza dopo il colpo,

Cadd’ella, e nel cader mirabilmente
Serbò degna onestà di real donna.

Le sentenze morali d’Ecuba dopo tal racconto funesto son veramente alquanto intempestive. Il tragico che serpeggia in tutta la tragedia, é terribile; ma l’azione é doppia, benché tutta si rapporti ad Ecuba. Brumoy osserva nella scena dell’atto IV, in cui si annunzia ad Ecuba la morte di Polidoro, che vi sono sparse alcune strofe, alle quali forse si congiungeva una musica più patetica. Per farle notare, Lodovico Dolce le ha tradotte in versi più piccoli; il che fa vedere, che il signor Mattei non ben si appone, quando afferma che niuno degl’interpreti antichi ha capito l’artificio de’ tragici greci per rapporto alla musica. Egli stesso non ha fatto di più nella bellissima traduzione di questa medesima scena. Essa senza dubbio non é tradotta alla Salviniana, e vi si sente lo spirito della passione; ma il terzetto preteso vi si é formato come si formerebbe ancora, sempre che si volesse, dalle tragedie inglesi o russe, non che dalle greche. Di più tal terzetto rallenta l’impeto della passione espressa con veemenza dopo le parole καταρχομαι νόμων βακχειων da Erasmo tradotte Cantionem Moenadum ingredior, e dal signor Mattei ottimamente amplificate, benché forse con minor precisione di quel che sarebbe d’uopo. Egli dice,

……………… Son’io? vaneggio?
Qual furor mi trasporta? E’ cruda furia
Questa che ’l cor, la mente infiamma, accende,
Lacera e squarcia? Io fuor di me già sono,
Comincio a delirar.

Dopo ciò non pajono freddi i versi donde incomincia il terzetto,

Dunque é ver? o questo é inganno?

Questa dubitazione non é contraria al senso e alla lettera dell’originale, in cui non dubitativamente, ma con enfasi Ecuba afferma che vede una strage inopinata, sorprendente, tutta nuova? Si osserva in oltre che ne’ greci i cantici per l’ordinario non han luogo, so non conosciuta perfettamente la sventura; ma in questo squarcio che si é voluto convertire in terzetto, si va cercando ancora l’autore della morte,

     …………………… Quo jaces
     Fato? peremit te quis?
Fam. Me latet; at hunc in littore offendi maris.
Hec. Ejectum ab undis, an trucidatum manu?
Fam. In littus, arenosum
     Marinus illum fluctus aestu ejecerat.
Hec. Hei mihi etc.

Tutto ciò é parlante nell’originale, e (secondo che oggidì si maneggia la musica e si maneggerà finché il sistema non ne divenga più vero) sarebbe anche ora contrario all’economia musicale il chiudere simili particolarità in un duetto o terzetto serio, cose, che a giudizio del celebre signor Gluck, hanno bisogno di passioni forti per dar motivo alla musica di trionfare. I cori di questa tragedia son tutti tratti dal soggetto, e pieni di passione, e poetici. Veggasi quello dell’atto I, in cui le schiave troiane sollecite del loro destino vanno immaginando dove toccherà loro in sorte d’esser trasportate. Il Dolce l’ha tradotto fedelmente, e solo si é disteso alquanto verso il fine. Quello dell’atto IV mi sembra il più patetico, e ’l Dolce ne ha fatto una troppo libera imitazione. Ci sforzeremo di tradurlo, ritenendo al possibile le immagini e lo spirito dell’originale per dare un’idea ancora de’ cori d’Euripide:

Patria (ahi duol che m’ancide), Ilio superbo,
     Or più non sia che a le nemiche genti
     Inaccessibil Rocca Asia t’appelli,
     Ché già di greche squadre un nuvol denso
     Ti copre e cinge, e desolata e doma
     E vinta giaci, e de le altere torri
     Già la corona in cenere conversa
     Nereggiano de’ muri i sassi informi,
     D’orride strisce di fuligin tinti.
Ahi più non ti vedrò! mai più le vaghe
     Tue spaziose vie
     Non calcherà il mio pié! Memorie amare!
     Avea mezzo il cammin la notte scorso,
     Quando, fin posto a le solenni danze
      E a’ lieti canti, un placido sopore
     Aggrava le pupille. Inerme ingombra
     Già ’l mio consorte le sicure piume;
     Né a’ lidi intorno pe i troiani campi
     Surgon le argive tende. Io che raccolte
     Le sparse trecce e in vago gito avvinte
     Entro bende notturne, il mar mirando,
     Al geniale talamo m’appresso,
     Arme arme, ascolto in marzial tumulto
     Per la frigia città gridar repente;
     Cessate, o greci? Ah se veder v’é caro
     Le native contrade, ite, abbattete,
     Cada il forte Ilion… il dolce letto
     Lascio allor sbigottita in lieve avvolta
     Semplice gonna: di Diana all’Ara
     Mi prostro e piango, oh vani prieghi e pianti!
     Tratta per 1 ‘onde io son, misera, e veggio
     Trucidato il consorte, acceso il cielo
     Di funeste faville, Ilio distrutta,
     E le vele nemiche a i patrii liti
     Pronte a tornar, e dall’Iliaco suolo
     A svellermi per sempre! Il duol m’oppresse,
     Caddi abbattuta, mille volte e mille
     Elena detestando, e ’l suo rattore,
     E l’adultere nozze, e d’un avverso
     Genio persecutor l’odio potente,
     Che l’avito terren m’invidia e fura.
     Deh la femmina rea sempre raminga
     Erri in balìa de’ minacciosi flutti,
     Né i patrii tetti a riveder mai giunga.

L’Andromaca d’Euripide non contiene l’azione dell’Andromaca di Racine; perché questa, é la vedova di Ettore che teme per la vita d’Astianatte; e nella tragedia greca é Andromaca già moglie di Pirro, che teme per la vita di Molosso avuto da questo secondo matrimonio. Oggi desta più compassione il nobile dolore di Andromaca vedova di Ettore, che la semplicità di Andromaca moglie di Pirro. É rimarchevole nella tragedia d’Euripide il carattere di Ermione, reso poi senza dubbio più delicato da Racine, e divenuto sempre più vero, attivo, e vigoroso nell’ambiziosa Vitellia di Metastasio. Osservisi in tanto che nell’atto IV Ermione e Oreste fuggono da Ftia per andare a Delfo a uccider Pirro, e nell’atto V si narra in Ftia quest’uccisione già avvenuta in pochissimo tempo, e vien portato il cadavere di Pirro; sconcezza che offende la verisimilitudine.

La morte d’Astianatte é trattata nella tragedia intitolata Le Troiane, insieme col destino di queste prigioniere. Le profezie di Cassandra nell’atto II e l’addio ch’ella dà alla madre e alla patria, sono notabili, e rassomigliano in parte a quelle di Eschilo nell’Agamennone. Squarcia poi i cuori men sensibili ancora il dolore d’Andromaca nell’atto III al vedersi strappar dalle braccia Astianatte: ma le traduzioni non son sufficienti per farne conoscere il patetico, e molto meno questa nostra:

Figlio, viscere mie, da queste braccia
     Ti svelgono i crudeli! Ah tu morrai,
     E di tuo padre il nome
     Che tanti ne salvò, ti sia funesto!
     A che sei tu d’Ettore figlio, io sposa?
     Per dominar sull’Asia
      Non per morir tra’ barbari sì presto,
     Credei produrti, o figlio… Oh Dio! tu piangi?
     Prevedi il tuo destin. Perché mai stringi
     L’imbelle madre tua, e ti raccogli
     Nel seno mio, quale augellin rifugge
     Sotto l’ali materne? Ahi non é quello
     Più un asilo per te. Morì già Ettorre,
     Né dall’avello, per serbarti in vita,
     Fia che risorga. Di sostegno privo,
     In man del crudo inesorabil Greco,
     Chi può rapirti al precipizio orrendo?
     Ahi dolce oggetto de’ timor materni,
     A ciò ti porsi ’l seno, e del mio sangue
     Io ti nutrii? Vieni, ben mio, ricevi
     Gli ultimi amplessi; i tuoi sospiri estremi
     Fa ch’io raccolga… Oh barbari, spietati,
     Inumani, tiranni, e che vi fece
     Un misero fanciullo? Il furor vostro
     A disarmar non giunge
     Quella tenera età, quell’innocenza?
     O al vinto e al vincitor fatale ognora
     Elena, furia a grecia e a’ Frigi infesta ec.

Reso é una tragedia senza prologo e senza que’ tratti patetici proprj d’Euripide, ma in contraccambio ha l’arte del dialogo e l’aggiustatezza di Sofocle; per il che qualcheduno pretende che appartenga a quell’ultimo, benché altri la toglie ad ambedue, e l’attribuisce a un tragico loro contemporaneo, e Scaligero a uno ancor più antico31. L’argomento é lo stratagemma d’Ulisse che con Diomede ammazza quello re di Tracia nel campo troiano. Nell’atto IV comparisce Minerva a Ulisse e Diomede, la quale vedendo sopraggiugner Paride, per salvare i due greci, fa travedere al duce troiano, e si fa creder Venere, mentre i suoi favoriti non lasciano di ravvisarla per Minerva. Tali cose allora convenivano a i principi e alle opinioni de’ greci, e perciò non parevano assurde e stravaganti. Lo scioglimento si fa per macchina (come nella maggior parte delle tragedie antiche) dalla musa. Terpsicore madre di Reso, la quale apparisce in aria sopra di un carro, tenendo il di lui cadavere sanguinoso sulle braccia.

Medea é una delle più terribili tragedie dell’antichità, che contiene l’atroce vendetta presa da Medea contro Giasone, Creonte, e la di lui figliuola. Questa tragedia di Euripide ha fornita la materia a molte altre formate su tal modello. Uno de’ più importanti squarci di essa é nell’atto IV, dove Medea intenerita con i suoi figli, gli abbraccia e gli rimanda, gli compiange e gli destina alla morte, ascolta i moti della natura e la tenerezza di madre, e sente risvegliare i suoi furori alla rimembranza dell’infedeltà di Giasone. Il racconto della morte della principessa e del di lei padre Creonte é terribile. I figli che cercano scampar dalla madre che barbaramente gl’inseguisce, gli riconduce dentro, e gli trucida, formano un movimento Teatrale sommamente tragico. Quello che mai non piacerà in questa tragedia, é il personaggio di Egeo introdottovi senza veruna ragione per preparare un asilo a Medea, della cui salvezza lo spettatore é ben poco sollecito dopo l’orrenda esecuzione della sua spietata vendetta.

Le Fenisse, una delle tragedie d’Euripide che fu coronata, contiene la morte di Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta, avvenuta nell’assedio di Tebe. Lodovico Dolce che ne fece un’imitazione libera, ne tolse il prologo che trovasi nel greco, e fece che Giocasta narrasse a un servo tutti gli avvenimenti passati di Edipo: e perché? scarsezza d’arte. Appresso in Euripide vi é una scena tra un vecchio e Antigone, che d’alto stanno osservando l’armata argiva, e ne vanno descrivendo i capi; il che é un imitazione felice di un patto del III libro dell’Iliade, che pur fu dal Tasso trasportato nella Gerusalemme. Il Dolce non si curò di questa bellezza, e la sua scena rimane sterile. La scena vigorosa di Giocasta co’ figli é degna di particolar riflessione per la maestra dipintura de’ due fratelli ugualmente fieri e accaniti nell’odio reciproco, ma di carattere ben diversi, e per lo dolore interessante della madre che s’interpone, e cerca di contenerli e disarmarli.

Le Supplici d’Euripide si aggirano sulle conseguenze dell’assedio di Tebe, e sulla sepoltura negata da’ tebani ai capi argivi, doveché le Supplici di Eschilo, come si é detto, trattano delle Danaidi; pur queste due tragedie hanno tra loro qualche rapporto per la condotta. Lo spettacolo della prima scena dovea far somma impressione. Etra madre di Teseo sta coll’offerta in mano a pié dell’altare in mezzo a’ sacerdoti: il tempio é pieno di donne che portano in mano rami d’olivo: Adrasto re d’Argo resta nel vestibulo colla testa velata, circondato di figliuolini delle Argive in atto supplichevole. Oltre a molti tratti assai patetici, vi si trovano varie allusioni alle Greche antichità e tradizioni; il che alle occasioni non lasciavano di fare i tragici greci per mostrare la nobiltà e antichità de’ loro costumi, leggi, e origini a gloria della nazione. Nell’atto II Teseo risolve di portar la guerra in Tebe, e appena incominciato l’atto III, la guerra é fatta, e Teseo ritorna vincitore. E’ un miracolo? vi é passato il tempo necessario? é l’istesso difetto di verisimile, osservato nell’Adromaca.

Negli Eraclidi si tratta de’ figliuoli di Ercole perseguitati da Euristeo, e ricevuti sotto la protezione degli ateniesi. I tragici ateniesi nulla trascuravano che potesse ridondare in onor della patria.

Ercole Furioso fino all’atto III tratta della giusta vendetta presa da Ercole contro di Lico, Tiranno e oppressore degli Eraclidi, e negli ultimi due atti cambia di oggetto; e una furia, chiamata da Iride, viene a turbar la ragione di Ercole a segno che di sua mano saetta i suoi figliuoli. Nulla più tragico e vivacemente dipinto di questa strage deplorabile.

Ione nato d’Apollo e di Creusa, figlia d’Eretteo Re d’Atene, fondatore dell’Ionia, é l’Eroe della tragedia così intitolata. Questo Ion, a se stesso ignoto e alla madre, sa quale ha poi sposato Xuto, é allevato in Delfo tra’ ministri del tempio di Apollo. Dopo il prologo fatto da Mercurio, mentre Ion attende alla cura delle cose sacre del tempio, il coro composto di donne ateniesi va osservando curiosamente e con molta naturalezza il vestibulo. Si appressa poi Ion a queste straniere, e la loro osservare i quadri e i bassi rilievi, diciferandone le storie: Vedete qui il figlio di Giove, che colla dorata falce ammazza l’Idra di Lerna. Cor. Lo vedo bene. Ion. E quest’altro che gli é appresso, e porta una fiaccola accesa. Cor. Chi é mai egli? Sembra una figura che sogliamo rappresentare ne’ nostri ricami. Ion. Egli é Iola, scudiere di Ercole. Vedete quest’altro sopra un cavallo alato in atto di ferire quel mostro di tre corpi ec. E così é condotta tutta la scena. Virgilio in simil guisa descrive Enea che osserva le dipinture del tempio di Cartagine: ma Virgilio le anima colla passione e coll’interesse di quel troiano, perché appartenenti alle sventure di Troia. L’immortal Metastasio, fino discernitore delle bellezze degli antichi, si vale della scena di Euripide nell’Achille in Sciro, ma sulle tracce di Virgilio le rende intercisami per l’allusione vivace alla situazione d’Achille in quella regia. É rimarchevole nel medesimo atto I la scena di Ion e Creusa che non si conoscono. Il discorso di Ion a Xuto nell’atto II é vaghissimo e molto naturale, ed é stato delicatamente imitato da Racine nell’Atalia, e da Metastasio nell’Oratorio del Gioas; dappoiché non v’ha bellezza in Euripide, che questi due gran maestri della poesia drammatica francese e italiana non abbiano saputo incastrare ne’ loro componimenti. La scena di Creusa e di Ion che termina l’atto IV, e che forse dovrebbe esser la prima dell’atto V, é una delle più rimarchevoli. Anche il riconoscimento fatto nel V é vivace e sveglia l’attenzione; ma le domande di Ion mettono in angustia la madre, e ’l poeta é costretto a far discendere Minerva per giustificar Creusa. Questa tragedia ha non pochi difetti e incoerenze, ma é sommamente teatrale. La situazione di una madre e d’un figlio, che non conoscendosi, per errore si tramano la morte, é vaghissima, e Metastasio ha saputo usarla delicatamente e rettificarla nel Ciro Ricosciuto.

L’argomento delle Baccanti é l’avventura di Penteo fatto in pezzi dalla madre e dalle di lei sorelle, descritta da Ovidio nel III delle Metamorfosi, e forse trattata anche da Stazio nella sua Agave. Questa tragedia di Euripide ha un carattere differente dalle altre sue, ed ha molto dello spettacolo satirico e delle antiche tragedie che trattavano solo di Bacco. Vi é nell’atto IV una scena totalmente comica tra l’infelice Penteo già fuor di senno, vestito come una baccante, e tra Bacco che gli va rassettando la vesta e l’acconciatura. Molti tratti allusivi agli effetti del vino si veggono ne’ cori e nel rito dell’Orgie. É terribile il racconto dell’uccisione del disgraziato re preso per un cinghiale; e tragica é la scena, in cui Agave riviene dal suo furore, e riconosce nella pretesa fiera il suo figliuolo dilaniato.

Il Ciclopo é un dramma satirico, ed é il solo che ci é pervenuto di questo genere. Contiene l’avventura d’Ulisse con Polifemo, e vi si vede una mescolanza di tragico, di pastorale e di buffonesco.

Della Danae, del Cresfonte, dell’Auge, della Menalippe, del Meleagro, della Niobe, dell’Acmena, del Teleso, della Penelope, dell’Edipo, del Frisso, del Teseo, e di molte altre tragedie d’Euripide, non é a noi pervenuti altro che alquanti frammenti che talvolta appena bastano per conoscerne in parte l’argomento. Questo gran tragico, sì savio conoscitore del cuore umano, sì gran filosofo, e ragionatore sì eloquente dimorando in Macedonia, dopo di aver cenato col re Archelao, nel ritornarsene a casa, fu lacerato da’ cani forse scatenatigli addosso da Arideo Macedone, e da Crateva Tessalo, poeti invidiosi più che della gloria poetica, del di lui favore presso il regnante. Morì delle ferite nell’Olimpiade XCIII, e i macedoni talmente si gloriavano di possederne le ossa, che quando vennero gli ambasciatori ateniesi per ottener licenza di trasportarle dov’egli era nato, unanimi persistettero in negarle loro32. Sofocle sopravvisse ad Euripide, e nella morte di questo suo Emulo mostrò un dolore sì vivo e sì vero, che lo rende meritevole degli applausi della posterità al pari dell’Edipo, e del Filottete. Egli l’onorò col suo pianto, e impose a’ suoi attori di presentarsi sulla scena senza corone, senza ornamenti, e con abiti i più lugubri. Finì in questi due rari Ingegni la gloria della poesia tragica greca33.

Ben avrebbe questa contato certamente fra suoi coltivatori più insigni un altro ingegno capace di fecondarlo di nuove maraviglie; se avesse continuato a esercitarvisi il divino Platone, il quale, secondo Eliano, prima di dedicarsi totalmente alla filosofia, fece tre tragedie e una satira, delle quali si componea la Tetralogia necessaria per concorrere nel Certame Olimpico. Anche l’Orator Teodette, il quale con Teopompo e Naucrite concorse nel Certame Panegirico istituito da Artemisia in onor del Marito, compose una tragedia molto applaudita, intitolata Mausolo, la quale a’ tempi di Aulo Gellio ancor correva.