(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro I. — Capo IV. Teatro americano. » pp. 19-25
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(1777) Storia critica de’ teatri antichi et moderni. Libri III. « Libro I. — Capo IV. Teatro americano. » pp. 19-25

Capo IV.
Teatro americano.

Dalla scarsa popolazione del vasto continente americano, dalla pressoché generale uniformità de’ costumi e de’ volti, e dal gran numero di picciole tribù tuttavia selvagge, che, poco più di due secoli e mezzo indietro, vi trovarono gli europei, dopo che seguendo le tracce immortali degli argonauti italiani, Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Sebastiano Cabotto, e Giovanni Verazzani, l’ebbero riconosciute, si deduce, non senza fondamento, che quelle terre da non gran tempo sono state popolate. Non crediamo adunque in conto veruno, che i pochi monumenti teatrali incontrativi abbiano preceduto a quelli del vecchio mondo, che noi teniamo per molto più antico dell’americano. Tuttavolta per non interrompere la serie de’ teatri dell’Europa, parleremo innanzi altro del peruviano.

Prima che ci fossero note le contrade americane, due sole nazioni aveano ivi saputo uscire dello stato selvaggio, la messicana e la peruviana. Fioriva la prima in molte arti di lusso, non che di necessità; ma non ebbe della drammatica se non que’ semi, i quali sogliono produrla da per tutto, cioé travestimenti, ballo, musica, e versi accompagnati da’ gesti. Tutto ciò contenevano le danze messicane, chiamate mitotes, nelle quali si trasformavano nobili e plebei, e e divisi in vari cori saltavano, cantavano, gestivano, e beveano11; e pur non seppero i messicani convertirle in drammi. Solo la repubblica di Tlascala, nemica dell’imperio messicano, e strumento della di lui definizione, amando la poesia e la danza, seppe usar l’una e l’altra nelle rappresentazioni teatrali; ma non se ne sa più oltre.

La nazione peruviana senza dubbio la più colta di tutta l’America, oltre all’avere inventata e migliorata l’agricoltura con tante altre arti, seppe qualche cosa di geograsia, meccanica, e agronomia, ed ebbe polizia e legislazione eccellente, nella quale trionfa una sanissima morale. Ebbe pure gli haravec (vocabolo che corrisponde a inventore, trovatore, poeta), i quali fecero versi, in cui si scorgono alcuni lampi di buona poesia; e l’inca Garcilasso ci ha conservato un componimento, nel quale veggonsi le meteore bellamente personificate ed arricchite d’immagini ben aggiustate e vivaci12. Qual maraviglia dunque che questa colta nazione avesse spettacoli teatrali? L’inca mentovato ce ne dà alcune notizie senza istruirci della loro origine. Pure io mi credo di rinvenirne i principi in una festa solenne celebrata in Cusco.

Un annuo sagrifizio e convito pubblico, in cui si bevea fino all’ubriachezza, mescolandosi al ballo il canto e i motteggi, menò i Greci al travamento de’ componimenti teatrali. Un annuo sacrificio e convito pubblico colle medesime particolarità, e di più accompagnato da strani travestimenti e mascherate ridicolose, troviamo ancora in Cusco: or non vi poteva esso, come in Grecia, far nascere lo spettacolo scenico che pur vi si vede coltivato? Le circostanze che accompagnavano tal sagrifizio, rendono assai probabile la congettura.

La più solenne festività che i peruviani celebravano in onor del Sole, si chiamava Raymi, e durava nove giorni. V’interveniva il re, gl’inchi, i capitani, e i curachi pomposamente armati ed inghirlandati. Ognuno dava a conoscere nelle divise la propria origine o prosapia; chi si attaccava al dorso due grandi ale, chi si copriva d’un cuoio di drago, chi d’una pelle di leone13. Tutti portavano maschere orribili, sonavano flauti e tamburi scordati, e faceano gesti e vissacci da forsennati14. Seguiva il sacrificio sontuoso, e poi si mangiava da tutti la carne delle vittime, si bevea con certo ordine e con brindisi scambievoli, e si danzava cantando, e facendo uso ciascuno delle proprie insegne, maschere, ed invenzioni.

Un rito così strano dovette precedere agli spettacoli teatrali, ne’ quali si veggono le idee meglio ordinate. Forse il piacere prodotto in questa festa da’ balli, dal canto, e dalle maschere, fece nascere il disegno di formar di tali cose un tutto e un’imitazione più ragionata. L’armi portate da’ curachi in un luogo di pietà, e di pace e allegrezza, forse col fine d’inculcar a’ popoli di vegliar sempre a difesa della religione e della patria, destarono probabilmente l’idea della rappresentazione eroica e militare; e quelle maschere ridicole, le quali dovettero esser simboli satirici delle stravaganze delle passioni smoderate, poterono facilmente convertirsi in dipinture comiche delle umane ridicolezze.

Ci voleva un capitale di filosofia per far tal passo, e appunto troviamo, che le favole drammatiche del Perù furono inventate e coltivate da’ filosofi, colà chiamati amauti. Essi composero due generi di drammi, uno eroico che rappresentava pubbliche imprese, vittorie, e trionfi, e l’altro comico che si limitava a’ fatti domestici e pastorali. Tali rappresentazioni si faceano nelle sacre festività più solenni (una delle quali era la sopraccennata Raymi), e vi assisteva il maggior inca con tutta la corte; e perciò erano decenti e gravi e degne del luogo, del tempo, e degli spettatori, né mai gli amauti avvilirono i loro talenti all’oscenità di Aristofane, e degl’inglesi.

Cresce finalmente sempre più la probabilità delle nostre congetture sull’origine degli spettacoli del Perù, qualora si rifletta, ch’essi veniano rappresentati da’ medesimi curachi, inchi, e capitani, che si mascheravano nella festa Raymi. Questi nobili attori prima e dopo la rappresentazione occupavano tra’ loro uguali i luoghi corrispondenti alla loro dignità e a’ propri impieghi; e allorché si distinguevano colla grazia e delicatezza nel rappresentare, ne riportavano ricchi doni e favori rimarchevoli15. Non erano adunque gli attori peruviani schiavi abbietti, come nella China e nell’antica Roma, ma persone nobili e decorate, come in Atene. Ma avvegnaché in questo, e in alquante altre cose si rassomigliassero i greci e i peruviani, non diremo leggiermente perciò, che quelli sieno discesi da’ greci, seguendo il modo di ragionare di Laffiteau. Simili idee (ripetiamolo), combinandovisi circostanze simili, si risvegliano naturalmente in diversi luoghi senza bisogno d’imitazione, come senza questa vi si accozzano le particelle elementari, necessarie alla produzione, e vi spuntano e vegetano le piante.

Dopo l’invasione degli europei nel nuovo mondo, quando essi considerandolo come posto nello stato di natura, supposto d’aver diritto ad occuparlo e saccheggiarlo, senza por mente alla ragione degl’indigeni che ne avevano antecedentemente acquistata la proprietà, dopo, dico, l’epoca della desolazione di sì gran parte della terra, le razze africane, americane, ed europee, più o meno nere, bianche, ed olivastre, confuse, mescolate, e riprodotte con tante alterazioni, vi formano una popolazione assai più scarsa dell’antica, distrutta alla giornata da tante cause fisiche e morali, la quale partecipa delle antiche origini nel tempo stesso che tanto da esse si allontana. Così le arti, i costumi, le maniere, le imitazioni, e fino il bestiame e le produzioni vegetabili, vi sono piuttosto avveniticce che naturali; né reca più maraviglia il vedervi abbarbicato quanto si conosce nell’antico continente.

Il popolo, che forse conserva meno alterata l’indole e la natura del suolo americano, trovasi nella nuova Spagna, e propriamente nella provincia di Chiapa, i cui abitanti, d’ingegno, di forza, di statura, e d’idioma più che altrove dolce ed elegante, passano tutti gli altri messicani. Specialmente nella principal città di essa, chiamata Chiapa de las Indias, dove trovansi moltissime famiglie nobili americane, si vede quella cultura che indispensabilmente fiorisce dovunque si gode libertà e proprietà. In effetto non vi si trascurano le arti di necessità, di comodo, e di lusso, fabbricandovisi particolarmente per eccellenza quadri e stoffe di penne, antichi lavori messicani, non mai più da veruno imitati: vi si eseguiscono con destrezza tutti gli esercizi ginnici spagnuoli, come corse di tori, e giuochi di canne: vi si fanno combattimenti navali sul gran fiume che bagna la città: vi si formano alcuni castelli di legno coperti di tela dipinta, e se ne imprende l’assedio, e si difendono: e finalmente vi si coltiva la pittura, la danza, e la musica, e vi si trovano teatri.

Quanto a’ peruviani naturali, i quali gemono avviliti dalla schiavitù, han conservato per li loro antichi riti e costumanze una viva e cara rimembranza, che solo i nuovi padroni avrebbero a poco a poco potuto cancellare, o almeno indebolire, rendendo agl’infelici: il giogo meno pesante e più conforme all’umanità. Essi adunque in certi giorni solenni riprendono loro antica foggia di vestirsi, e menano per le strade le immagini del Sole e della Luna. Alcuni di loro sogliono permettersi di rappresentare certe feste teatrali, e spezialmente una tragedia della morte dell’ultimo Inca Atabalipa, accusato dall’indiano Filipetto divenuto cristiano, e condannato con formalità giuridiche da Pizarro. Quella rappresentazione commuove così fattamente l’uditorio, che prorompe in un dirotto pianto, e talvolta entra in tal furore, che non é cosa rara, vi sia trucidato qualche spagnuolo.