ARTICOLO XIV.
Intorno alla descrizione de’ Teatri
materiali di Madrid, fatta nella Storia de’ Teatri.
Non avrei mai creduto, che potessi dispiacere all’Apologista nella
descrizione de’ Teatri di Madrid. Non pertanto egli dice (p. 298.): “La descrizione, a dire il vero, non e la più
vantaggiosa al gusto Spagnuolo: se poi lo sia l’originale, lo
decideranno quelli che hanno visto i Teatri di Madrid”.
Vuol
egli con tali parole in prima insinuare, che io gli abbia con malignità così
descritti per tacciar di cattivo gusto gli Spagnuoli (nel che al solito
combatte colle ombre impalpabili): in secondo luogo mette in dubbio la
veracità di chi gli descrive. Nel primo punto avvelena un racconto
innocente, e suppone nella nazione un mal gusto, che io non trovo in questa
parte, nè ho sognato di segnalare; e nel secondo manca (e mi perdoni) di
politezza.
Primieramente qual difetto di gusto risulta dall’essere questi Teatri diversi da quelli, che si costruiscono in Italia? Ho io forse asserita simile fanciullaggine? E dove si è mai sostenuto, da qual moderno Aristotele si è prescritto, da qual Vitruvio insegnato, che il modello archetipo della buona costruzione de’ Teatri debba torsi dagl’Italiani di oggidi? E se tali cose non si leggono in veruna parte della Storia de’ Teatri, dove, Sig. D. Saverio, fondate il vostro sospetto, che la mia descrizione pregiudichi al gusto Spagnuolo? Dite voi ciò per vostro, o per mio sentimento? Se al vostro giudizio sembra, che la costruzione de’ Teatri di Madrid possa intaccare il gusto della nazione, io vi dico spiattellatamente che v’ingannate: se credete che io così pensi, protesto che v’ingannate ancora.
La construzione de’ Teatri di Madrid nulla ha di repugnante al gusto. E’ un
misto di nuovo metodo per gli ordini de’ palchetti che vi sono, e di antico
per le scalinate. Quando anche la magnificenza conveniente a una Corte di sì
possente, e ricca Monarchia, richiedesse che alcuno di nuovo, e in migliore
stato che non è quello de la la Cruz, se n’edificasse, per mio gusto sempre
riterrei le medesime scalinate, e le divisioni di Cazuela,
Barandillas, Gradas, Tertulla, Patio, e Lunetas,
come proprie della nazione, che in fatti per i forestieri formano un certo
vario giocondo spettacolo. Solo desidererei che la figura mistilinea della
Platea composta di un arco di cerchio, e di due rette laterali, incomode
alla veduta per molti palchi, si cangiasse in una figura ellittica o
circolare. Cercherei ancora di togliere quegli oscuri Corridoj, e quelle faltriqueras de’ lati nè comode, nè graziose. Circa
l’entrate ancora esigerebbe l’edifizio qualche miglioramento. Anche la
facciata vorrebbe essere più propria della luce di questa età, e più vaga,
come par che richieda un luogo di una pubblica concorrenza ad oggetto di
divertirsi. Ecco come assennatamente ne favella il Signor D. Antonio
Ponz1: “En quanto à lo material de
los dos edificios, si se comparan con los verdaderos
Patios, ò verdaderos Corrales que habia antiguamente, se pudieran llamar
magnificos; pero en realidad son defectuosos, particularmente el de la
Cruz, que se hizo el primiero”.
E nella p. 323. aggiugne: “La enmienda debiera consistir solo en
mejorar, como se puede, las proporciones y alturas de las mismas partes,
y en dar uso mas comodo, asi à ellas, como à las entradas”.
Ed
in effetto esse entrate, e quelle parti surriferite non pajono fabbricate
colla mira dell’agio de’ concorrenti. Quello però che è più notabile, e di
maggiore importanza, per mio avviso, è il caso di un veloce incendio, nel
quale non so come la calca intanata in que’ meschini Corridoj interiori, e
in quelle angustie de’ varj spartimenti, potrebbe liberarsi prontamente dal
rimanere divorata dalle fiamme, o soffogata dal fumo.
Udiste, Sig. Lampillas, che i nazionali savj non fanno apologie de’ manifesti difetti, ma pongono l’energia del patriotismo nel confessarli, e riprovarli per promuoverne la correzione. Io intanto nell’Edizione della Storia de’ Teatri non volli far uso del passo del Sig. Ponz, con entrare a rilevare i difetti, di cui ora stò ragionando, e mi ristrinsi alla semplice descrizione delle parti colla possibile esattezza colle parole, già che nol facea con un disegno, e pure non ho potuto liberarmi dalla censura del sospettoso Apologista.
Vediamo però di trovare l’origine de’ suoi foschi sospetti. Fosse a caso la mia descrizione condita di motti satirici, d’ironie pungenti, di dileggi, che indichino una depravazione di gusto? Certamente nulla di ciò vi ha scorto il Sig. Lampillas, altrimenti l’avrebbe posto alla vista, e ripetuto al suo solito più di una volta. Gli avesse fatto qualche impressione ciò che vi accennai delle ritirate, e delle oscuritá visibili de’ Corridoj? Niuna offesa parmi che ne ridondi al gusto, se si osserva che esse possono essere una specie di asilo della male intesa libertà del volgo. Ciò si verifica co’ fatti. Sappiate, Signor mio (che io ben mi avveggo, che i vostri gravi studj vi avranno tenuto lontano da molte cose, che sono fuori di voi), che los Chisperos, los Arrieros, e simile gentame, trovandosi al coperto in quelle tenebre, specialmente prima d’incominciare la rappresentazione, per la loro naturale rozzezza, e non curanza per la decenza, soleano bere del vino, fumare, mangiar degli agrumi, delle frutta, delle nocciuole, e gettarne via le bucce sull’altra gente. Soleano veder la Commedia con quei pilei, ovvero cappelli rotondi, o slacciati in testa, di modo che quasi toccandosi per la folla formavano una specie di antica testudine, che a molti impediva la libera veduta dello spettacolo. Mettevano gridi, insolentivano, imponevano di ritirarsi a qualche Attore non accetto, o di un partito contrario, altercavano fra loro ad alta voce senza verun riguardo per gli altri concorrenti, qual proteggendo uno de’ Teatri, e quale l’altro. Davano in somma, tuttochè pochi per numero, idea dello strepito de’ Teatri Latini, di cui diceva Orazio:
Garganum mugire putes nemus, aut mare Tuscum,Tanto cum strepitu Ludi spectantur.
Tutte queste cose nemiche della decenza propria degli spettacoli delle nazioni culte, mostravano in tal volgo la male intesa libertà da me accennata per esserne in parte stato testimonio di vista.
Riparò in gran parte a tali sconcezze il Magistrato di Madrid, e troncò la radice de’ partiti, formando di ambe le Compagnie una sola Cassa comune. Eseguì il resto il rispettabile Sig. Conte di Aranda. E per rendere lo spettacolo più ragguardevole, cominciò dal far dipingere varie vaghe vedute di Scena, e dallo stabilire in ciascun Teatro una Orchestra competentemente numerosa composta di non inetti Professori, e così ne scacciò non solo le ridicole bandine, ma la più ridicola ancora, e inverisimile Chitarra, che, nel doversi cantare alcuna cosa, portava fuori alla vista dello spettatore un Sonatore vestito alla foggia del paese, e colla sua parrucca talora in mezzo degli Attori Turchi, o Persiani coperti di un turbante. Impose poscia l’istesso Cavaliere, che all’alzarsi del Sipario ognuno assistesse alla rappresentazione senza cappello in testa: che più non girassero per la Platea i venditori di frutta: che non si fumasse, non si gridasse, non si fischiasse. E con tali sagge provvidenze inspirò lo spirito di decenza in un Teatro, dove interviene il fiore della Grandezza Spagnuola di ambo i sessi, la Uffizialità più distinta, e la gente seria ben nata, che ama in qualche ora di godere tranquillamente dello spettacolo senza essere disturbata dalla plebaglia. Spense così l’avveduto Presidente di Castiglia i semi di quella male intesa libertà. Il volgo più non se ne sovvenne, rispettò i confini assegnati, gli rispetta ancora, e i Teatri Spagnuoli punto non cedono in decenza a quelli delle altre nazioni. Ora in accennar questi fatti qual sognato detrimento ne soffre il gusto?
Intorno al secondo punto, in cui dimostrate dubitare della verità descritta con quelle urbanissime parole, se poi lo sia l’originale, offendete me, e voi stesso col presumere senza fondamento, e senza veruno precedente esame, una persona mendace. Se mai l’ignoraste, vi dico, che niuna Legge permette simili presunzioni maligne, e temerarie. E che bisogno avea io di alterare il vero in simil cosa? Per quale interesse l’avrei fatto? Il fareste voi? Dall’altra parte come poi avrei potuto salvarmi da’ giusti rimproveri degli abitatori di Madrid al vedere falsamente riferita una cosa materiale esposta alla vista di ognuno? Circa un centinajo e mezzo di esemplari della Storia de’ Teatri essendosi sparsi per la Spagna, domandai a molti illuminati nazionali, che l’aveano acquistata, se trovavano in essa cosa veruna contraria a una moderata Critica intorno al Teatro Spagnuolo formale, e materiale, col disegno di approfittarmi del loro avviso nella ristampa; ed ebbi il piacere di udirgli affermare, che tutto era conforme al vero, e a’ dettati degli eruditi nazionali: che anzi delle rappresentazioni mostruose avea io ragionato con più contenenza di tanti loro Scrittori degli ultimi tre secoli, i quali sono tanti, Sig. Lampillas, che al vederne la lista trasecolareste. E voi osate dire, se lo sia l’originale? Prima di vomitare un dubbio offensivo non urbano, non già sul sapere, ma sulla onestà, e veracità altrui, dovevate cercare di assicurarvi del vero; che per fare delle apologie non manca mai tempo. Ma voi volete sedere, arzigogolare, e tirar giù a mosca cieca, non curandovi nè anche di leggere gli scritti de’ nazionali, e poi spacciate per epigrafe del Saggio le parole di Cicerone, Si occupati profuimus aliquid Civibus nostris, prosimus etiam, si possumus, otiosi? In confidenza quale utile apporta a’ vostri Cittadini l’apologia degli spropositi di Lope, e Calderòn? quale quell’imputare altrui colpe sognate? quale il tignere tutte le cose del fosco colore de’ vostri aerei sospetti1?