ARTICOLO XIII.
I. Se il Poeta Drammatico debba piacere al Popolo, o a’ Savj.
II. Se, al pari di Lope, gl’Italiani antichi e moderni cercarono di compiacere al Volgo.
I.
Quando sperava porre quì il termine a queste mie osservazioni antiapologetiche, mi veggo arrestato da alcune altre coserelle del vostro Volumetto in questa disamina, in cui mal volentieri mi occupo per quella breve famigliarità, che contraemmo, e che io bramo di conservare. Non credo però, che per le mie risposte venga nell’animo vostro alterata, come nel mio non la turbarono le vostre apologie sceniche. Infine egli è concesso a due persone non inimiche il dissentire in qualche punto, il disputare ancora, senzache l’usata armonia ne abbia a soffrire. E poi, caro D. Saverio, voi già non pretenderete, che io pieghi le spalle, e qual servo antico, mi riceva le vostre busse con istoica pazienza.
Promovete nella p. 276. una quistione non nuova.
“Il Signorelli (dite) vorrebbe, che il Poeta teatrale si
studiasse di piacere alla parte più sana e illuminata della Società,
che sono i Dotti”.
Aggiugnete (p. 278.):
“I Poeti, i quali nulla curando che le loro Commedie, o
Tragedie occupino con plauso i pubblici Teatri...”
. . . . . . Lectori se credere malunt,Quam spectatoris fastidia ferre superbi,
“si studieranno di lavorare i suoi Drammi sull’esempio di quelli,
che furono scritti nella caverna di
Salamina”.
Quindi prendete argomento d’insegnarmi, che
i Drammi “non furono inventati per dilettare i Savj
Solitarj ne’ loro Gabinetti, ma per dilettare ed instruire
il Pubblico ne’ Teatri”.
Questo solo in quanto avete detto è
vero; nati sono i Poeti Scenici a dilettare ed instruire il Popolo, come
dice Orazio; ed a tal fine si danno varie instruzioni intorno al buon
gusto, che dee regolarli, se ne compongono tanti, come per saggi, per
giugnere a quel punto di perfezione necessario, e se ne tessono Istorie
ragionate, che con un colpo d’occhio espongano gli sforzi fatti dagli
antepassati per conseguire fine sì bello. Non credo però, che la Storia
de’ Teatri vi abbia dato motivo di pensare, che io pretenda destinare i
Drammi solo alla lettura de’ Savj, come pare che vogliate insinuare,
scappando fuori con quel lectori
se credere malunt bene intempestivo. Che se voi l’affermaste a
dirittura colla usata franchezza, sareste smentito da tutte le parole
del mio Libro. Ma passiamo ad esaminare il vostro savio sentimento.
Egli non è litigio novello, se il Poeta debba prefiggersi l’approvazione
degl’intelligenti, o quella del popolo. Ne’ secoli scorsi si agitò in
Italia con qualche calore: altri pretendendo, che dovesse piacersi a’
Dotti, altri, come il Castelvetro, che la Poesia dovesse essere popolare. Dalla mia prima età io convenni col
Castelvetro; ma compreso poi meglio lo stato della quistione, pensai,
che si vuol piacere a’ Dotti, senza punto rigettare la sentenza del
Castelvetro. E felicemente trovai, che il dottissimo Gravina l’intendeva
a mio modo: “Dee il Poeta (ei dice1) tener del Popolo quel conto, che
ne tiene il Principe, il quale sebbene non dee locar tutta la sua
fiducia nell’affetto ed inclinazione popolare, perchè gira ad ogni
vento; pur non dee credere di regnar sicuramente senza esso . . . .
Il Poeta (soggiugne) non creda di occupar felicemente il trono della
gloria nè col solo Popolo, nè senza il Popolo”.
Così
ragionano i veri Savj. La quistione antica è dunque
ben diciferata, e niuno oggi discorda da questa sentenza. Solo il Signor
Lampillas l’ha renduta nuova coll’intendere per Popolo
il Volgo, la feccia di una Nazione, a cui volle
piacere il suo
Lope. Ma sviluppiamo alquanto
le idee per ispiegare le parole.
Chi credete voi, Signor Apologista, che io intenda per Dotti? Forse certi solinghi, coltivatori delle Scienze più recondite, i quali di rado scendono dalla loro contemplazione a partecipare del commercio sociale, formando quasi una razza inaccessibile separata dal rimanente? Così pare, che l’intendiate voi con dire i Savj solitarj ne’ loro Gabinetti. Nò, amico, costoro con quanti per elezione, principj, o instituto, vivono a così fatto modo, paghi del loro cannocchiale, de’ loro rosi rimasugli dell’antichità, delle loro arrugginite medaglie, de’ loro alfabeti Orientali, della loro notte Metafisica, delle loro guastade, e de’ lambicchi chimici, meritano ogni rispetto, ma non si debbono rimovere dal loro centro, poco atti essendo per la loro rintuzzata sensibilità a intendersi e a gustare delle amene leggiadre Lettere. Per Dotti io intendo certi Nobili personaggi (diversi da i nominati dal Zanotti occupati unicamente in danzare e cavalcare), i quali in molti paesi coltivano con successo e le belle Lettere, e le severe Scienze, e che al punto, che s’inteneriscono con Racine e Metastasio, che si deliziano in Tibullo e Catullo, che si compiacciono di Garcilasso de la Vega e di Errera, del Petrarca e di Torquato, del La-Fontaine, di Tompson, e di Gesner, sanno alle occorrenze maneggiare il Telescopio e il Compasso di proporzione, e parlar talvolta della Cicloide, dell’Iperbole, e della Parabola. Per Dotti intendo ancora un buon numero d’ingegnosi Militari, di cui conosco alcuni, i quali al brio marziale, al buon gusto, alla pratica del Mondo, hanno accoppiato uno studio delle Fisiche, una intelligenza delle dottrine di Keplero, di Leibnitz, e di Newton, da fare arrossire non pochi di certi Savj Solitarj, che si credono i soli custodi della Scienza. Intendo etiandio per Dotti certi brillanti Avvocati Veneziani, Lombardi, Romani, e Napoletani, e Francesi, e Spagnuoli, e Alemanni, certi Giurisprudenti disinvolti, i quali, senza rinunziare alla gioconda Società, senza intanarsi, fortificano la Scienza Legale co’ più sodi e depurati principj del Natural Diritto. Intendo per Dotti tanti Pubblicisti laboriosi, tanti Medici veri filosofi, tanti profondi e graziosi Letterati. Nè ricuso di arrollare tra’ Dotti tanti Cittadini bene educati, forniti di un natural buon senso, di una Sapienza volgare, di quel pronto sentimento di uno spirito ben fatto, donde proviene il Gusto. E Voi, oggi abitatore della Superba Genova, di tali Cittadini di ottimo gusto e discernimento non rinvenite un numero considerevole in quest’amenissima Riviera? nelle Patrie fortunate de’ Colombi, de’ Doria, de’ Chiabreri, de’ Lomellini, de’ Frugoni? Ben io ve ne trovo di molti. E forse tante Dame, ed altre Donne di una classe meno elevata ancora dotate di gusto, e di natural raziocinio aggiustato, delle quali potrei addurre copiosi esempj somministratimi dalle Spagne, della Francia, dall’Italia &c. non meritano di segregarsi dal volgo ignobile e idiota, senza che si ascrivano a quel rigido malinconico branco di Savj Solitarj? Ora tante specie di Dotti socievoli, e tante altre per brevità tralasciate non compongono la parte più pura delle Società? Non formano in ciascuna nazione un Popolo, anzi che una ristretta brigata? Intanto questo Popolo non è mica il vostro diletto Volgo, Signor Lampillas mio. E a questo Popolo rischiarato non fia gloria il piacere?
In oltre quando da tal Popolo illuminato distinguiamo la Plebe, credete voi ch’esso totalmente da questa discordi circa la Poesia Rappresentativa? Oh Amico, su tal punto questa Plebe, e questo Popolo polito e colto sono più uniti di quel che taluno crede. Quando alla Gente onesta da me nominata piace un Dramma, vedrete, che sarà piaciuta ugualmente alla minuta plebe. L’Ataulfo del Montiano, l’Ifigenia di Racine, la Zaira di Voltaire, la Merope del Maffei poste sulle Scene di Madrid uniranno i voti della Plebe e della Gente colta. Oh quanti vostri pregiudizj, Signor Abate mio, avreste detestati, se nello scorso Dicembre del 1781. aveste potuto godere nel Teatro de la Cruz la rappresentazione del Cid di Corneille (non di Castro), tradotto senza stravaganze, lodata dagl’Intelligenti, e ascoltata per moltissimi giorni con prodigioso concorso, silenzio, e diletto da quella Plebe, che Lope e voi credete incapace di compiacersi de’ buoni Drammi. Non è che la Gente colta non goda di un doppio diletto. Essa comprende nelle buone Favole l’artificio, la difficoltà del lavoro superata felicemente dal Poeta, e le vaghezze dello stile, che è il sale che mantiene incorruttibili i componimenti. E questo sale, quest’arte, queste bellezze faranno, che gli uomini di buon gusto, dopo che hanno col Pubblico intero goduto di tali Drammi ne’ Teatri, si pregeranno di conservarli con gl’immortali componimenti che si scrissero nella Caverna di Salamina. Or non è questo il vero scopo, a cui dee aspirare il Poeta Drammatico? E che dunque va fantasticando l’Apologista? Dopo avere ciò letto, gli parranno ancora incompatibili le idee del Volgo, e quelle della Gente onesta e rischiarata, sulla Poesia Scenica? Ma dunque, egli dirà, in che mai si distinguono i Dotti da’ Volgari? In ciò, Signor mio, che i Volgari pensano come i Dotti, ad una buona Favola ben rappresentata, e i Dotti non pensano come i Volgari sul Paolino, sul Koulicán, sulla Conquista del Perù; cioè a dire, che i Dotti accoppiano il gusto al discernimento, e i Volgari attendono al solo momentaneo passatempo. Se volesse dunque un Apologista conoscere i Drammi degni di riprovarsi, sappia che sono quelli, che nella rappresentazione divertirono solo i Plebei; se volesse discernere gli eccellenti, gli ravvisi in quelli, che i Dotti conservano ne’ loro Gabinetti, dopo che se ne dilettarono insieme con i Plebei nella rappresentazione.
E che? Il divino Euripide, che tirava al Teatro anche un Socrate, che da Quintiliano vien detto il Filosofo coturnato, che fa uno de’ più stimabili ornamenti delle più famose Biblioteche, dispiacque forse al Popolo, o fece anzi le delizie degli Ateniesi, e di tutti gli altri Greci? Nè di essi soli, ma de’ Macedoni? Fino nella Sicilia, e nell’Italia Greca correvano i suoi Drammi di bocca in bocca, e i Soldati recitavangli più che non si ripetono oggi gli aurei squarci delle Poesie Metastasiane. I Traci stessi, gli stupidi Abderiti se ne dilettavano a segno, che in un contagio d’altro non furono capaci, che di declamare i versi dell’Andromeda. E voi, Sig. Apologista Catalano, se scriveste Drammi, non sapreste augurare a molti la sorte di convivere con Euripide ne’ Gabinetti de’ Savj? E con chi vorreste convivere con i Mulattieri, i Tavernaj, los Tunos, y los Pillos? E qual maggior gloria di quella, che godè lo Scrittore della Caverna di Salamina, di aver dilettato ugualmente i Filosofi, e i Cittadini migliori, e i popolari contemporanei, e gli stranieri? di aver passato di età in età più di venti secoli sempre con ammirazione estrema de’ suoi Posteri? di essere incessantemente imitato, e tradotto in Ispagna, in Alemagna, in Inghilterra, e principalmente in Italia? di avere del di lui latte nutrito il maggior Tragico Francese dello scorso secolo? E voi, giudizioso Sig. Lampillas, se foste Poeta Drammatico, sdegnereste una riputazione così sicura, e universale? E chi non vi compiangerà!
Menandro, che incantò tutti i Filosofi, che è l’idolo del sobrio Plutarco, che fu citato da’ SS. Padri della nostra Chiesa, forse perciò dispiacque al Popolo? o fu reputato pel Principe della bella Commedia Nuova? o fu onorato con Statue da’ rischiarati Ateniesi nel loro Teatro accanto ad Euripide, e Sofocle1? Publio Terenzio non si studiava, com’egli stesso afferma, di piacere al Popolo? E non era al tempo stesso l’amore de’ Lelii, de’ Furii, degli Scipioni, uomini dottissimi, e insieme gran Cittadini di una Repubblica donna del Mondo? E voi illuminatissimo Signor Apologista, senza riflettere a tali fatti, osate credere incompatibili le idee de’ dotti, e quelle de’ volgari?
Ma lasciando le anticaglie, che forse vi daranno malinconia, come la Caverna di Salamina, venghiamo a’ tempi a noi vicini. Forse l’elegantissimo Racine, che può dirsi l’Euripide Francese, non ebbe ne’ suoi Drammi la più invidiabile riuscita presso la sua Nazione? Non ne tirò a se tutti i voti, fiorendo ancora Pietro Corneille? E perciò forse fu negletto dagl’illuminati? Anzi il più famoso Critico Boileau, e i più dotti personaggi di quella potente rischiarata Monarchia ne beveano avidamente i concetti, la delicatezza, l’eleganza, e l’armonia. E non ha avuta la stessa sorte di piacere a’ dotti, e a’ volgari nel resto dell’Europa? E non convive, e conviverà ne’ Gabinetti più dotti in compagnia di Euripide, di colui che scrisse nella Caverna di Salamina? Le Poesie delle Grazie, cioè a dire di Pietro Metastasio da circa sessant’anni non si ripetono incessantemente, non che per l’Italia, per l’Europa tutta? Non si rappresentano ogni dì senza apparenza di dar luogo a nuove Opere? Non se ne citano universalmente, non che le Arie, le scene intere? E intanto non fanno in tanti paesi la delizia de’ dotti? non sono prezioso ornamento de’ loro Gabinetti, non meno che delle più scelte Biblioteche? Non forma Metastasio con Euripide, e Racine il più rispettabile Triumvirato della scenica Poesia? Le sue Opere-Tragedie non saranno mai sempre da chi ha senno, e buon gusto collocate accanto a quelle composte nella Caverna di Salamina? Or come, insigne Apologista, vi parve strana la mia proposizione così fondata nelle nuove, e vecchie Istorie, e ne’ principj del gusto, e del buon senso? E con quale fondamento, e provvisione di fatti voi ragionate? E se in tali materie non curaste di addottrinarvi, perchè entrate a disputarne? Io vi suppongo un uomo assai dotto ne’ gravi studj, di gran talento, degno di sommo rispetto: ma (perdonatemi) l’amena Letteratura non parmi che sia stata da voi coltivata per tempo, e con pazienza. Lasciate dunque a’ talenti forse da voi considerati per più comuni siffatte ricerche sulle Arti Imitatrici.
II.
Lope de Vega non pensò così, non si curò di Caverne di Salamina, non attese a purgare le sue favole dell’ammasso d’inverisimilitudini, di cui egli, e l’Apologista si compiacciono. Sicuro del voto del Volgo, e de’ Commedianti (a’ quali oggi si unisce quello del Sign. Lampillas) niuna cura si prese de’ dotti giudiziosi contemporanei, e futuri. Così, ad onta della sua vasta fantasia, e della fluidità della versificazione, si rimase nel luogo meritato; e la maggior parte delle sue favole sceniche restò inedita, negletta, e sepolta, e non so quanti nazionali, e stranieri oggi leggono le impresse1. Or che vi pare, Sig. Lampillas? il destino degli scritti scenici del Vega, che disprezzò i clamori de’ dotti coetanei, è più invidiabile di quello delle Tragedie scritte in quella Caverna, che forma il vostro spavento? La barbarie, e uno zelo mal inteso ci privò per tempo della maggior parte delle Favole di Euripide; ma le diciannove, che ce ne rimangono, ed i più piccioli frammenti delle altre perdute, che con tanta diligenza si raccolsero negli antichi Scrittori, hanno durato forse intorno a quindici o venti secoli, e apparentemente dureranno altri cinquanta. Intanto l’Apologista si è appigliato al destino delle Favole Lopensi, la cui maggior parte è perita in poco più di un secolo, e si ride delle Tragedie di quel famoso Ateniese, e di chi le ammira. Si vede che i gusti non sono uguali:
“A chi piaccion le fave, a chi i baccelli”.
Oh quanta gloria trascurò Lope di acquistare, per iscrivere quasi improvvisando a solo fine di far danaro, e contentare il Volgo! Immaginatevi, che, secondando i voti della parte illuminata della Nazione, avesse impreso a introdurre sul Teatro di Madrid Favole quanto vivaci, e ben verseggiate, altrettanto giudiziose, e verisimili. Egli indubitatamente colla sua feracità, e colla ricchezza della sua fantasia avrebbe scritto meno, e riscosso maggiore, e più giusto, e più suffistente applauso, sviando col proprio esempio dalla Penisola il torrente limaccioso delle Favole stravaganti, e divenendo in tal guisa il Padre del buon Teatro Castigliano, come del Francese lo divenne Pietro Corneille. Quale de’ due Lopi sarebbe oggi più rispettabile, più glorioso?
Ma il Sign. Lampillas è dichiarato protettore del Lope qual fu, e non del
Lope che poteva essere. E se n’è così innamorato, che con ogni sforzo
apologetico si adopera, perchè i Lopi continuino
nella propria nazione, e più tardi che si possa sorgavi (che al fine dee
sorgervi) qualche riformatore simile a Corneille. E per riescire nel suo
intento l’Apologista vuol dare ad intendere a’ suoi compatrioti una cosa
contraddetta dalla Storia, cioè che in tutte le Nazioni i Poeti scenici,
al pari di Lope, hanno secondato il gusto del popolaccio. Ecco quel che
dice (p. 282.) degli antichi Italiani: “I Poeti
scenici Latini del secolo di Augusto non ebbero coraggio di opporsi
al corrotto gusto del volgo di Roma”.
E con qual fondamento
ciò egli asserisce? Col seguente passo di Orazio:
Sæpe etiam audacem fugat hoc, terretque Poetam,Quod numero plures, virtute & honore minoresIndocti, stolidique, & depugnare parati,Si discordet Eques, media inter carmina poscuntAut Ursum, aut Pugiles; his nam plebecula gaudet.
Secondo me Orazio altro quì non dice, se non che la plebaglia nel meglio di recitarsi de’ versi s’innamorava di vedere lo spettacolo dell’Orso, o de’ Pugili. Or l’Orso, e i Pugili erano forse rappresentazioni sceniche spropositate, come le crede l’erudito Apologista? Essi erano spettacoli appartenenti al Circo. Siegue Orazio:
Verum Equitis quoque jam migravit ab aure voluptasOmnis ad incertos oculos, & gaudia ranaQuatuor, aut plures aulæa premuntur in horasDum fugiuut Equitum turmæ, peditumque catervæ.Mox trahitur manibus Regum fortuna retortis,Esseda festinant, pilenta, petorita, naves,Captivum portatur ebur, captiva Corinthus.
Anche queste cose credè l’Apologista, che fossero rappresentazioni teatrali strepitose desiderate non meno dalla Plebe, che da’ Cavalieri Romani in vece de’ buoni Drammi; nel che prende ancora un bel granchio. Quì si parla di spettacoli dell’occhio, e non del piacere che danno i versi all’udito: si parla delle corse, che si facevano nel Circo a piedi, e a cavallo: si parla dello spettacolo trionfale (che pur nel Circo solea condursi1), de’ Re prigionieri incatenati, che seguivano il Carro di colui che trionfava, delle ricchezze de’ paesi soggiogati, e delle Navi, e delle Città dipinte che accrescevano quella pompa. Si parla appresso dal medesimo Orazio delle fiere rare o mostruose, che i Capitani soleano mostrare al Popolo per dilettarlo ne’ loro Trionfi, e nomina il Camelo pardale, e l’Elefante bianco. Or chi in tali cose avrebbe trovate le rappresentazioni sceniche spropositate, se non l’Apologista Lampillas? Egli a un bisogno le avrebbe trovate ancora nelle antiche Venazioni, ne’ Bovicidj, e, se non fosse Spagnuolo, le troverebbe nelle Feste de’ Tori sì care alla Nazione.
Ma egli si sarà ingannato con quel media inter carmina, e avrà creduto, che mentre si rappresentava qualche bel Dramma, ne cercassero un altro spropositato e più strepitoso. In prima quei versi accennati da Orazio potevano essere tutt’altro che Drammatici, sapendo che nel Circo soleano darsi varj Giuochi, come gli Apollinari, i Cereali, i Romani, i Megalesi1, ne’ quali talora si cantavano, e si ballavano altri poemi ancora; ed Ovidio ci dice, che se ne ballarono alcuni suoi2:
Et mea sunt populo saltata poemata sæpe.
Di poi, quando anche que’ versi recitati nel Circo fossero stati scenici (che ben poteva ciò avvenire, perchè ne’ Giuochi Romani, Plebei, e Megalesi3 aveano luogo gli spettacoli scenici), questo proverebbe, che il Popolo Romano talora s’infastidiva degli spettacoli teatrali, e desiderava i Circensi, che formavano la di lui passione principale, ma non già, che per avere il gusto corrotto, come fantastica il Sig. Lampillas, corresse dietro alle rappresentazioni teatrali strepitose, sprezzando per esse le Favole di buon gusto. Il Prologo dell’Ecira di Terenzio, quando non altro, poteva di ciò instruirlo. Dice Ambivione:
Cum primum eam agere cœpi, Pugilum gloria,Funambuli eodem accessit expectatio,Comitum conventus, strepitus, clamor mulierum,Fecere, ut ante tempus exirem foras.Vetere in nova cœpi uti consuetudine,In experiundo ut essem: refero denuoPrimo actu placeo. Cum interea rumor venit,Datum iri Gladiatores. Populus convolat;Tumultuantur, clamant, pugnant de loco.
La prima volta adunque fu abbandonata l’Ecira per i Pugili, giuochi Ginnici appartenenti al Circo: la seconda per i Gladiatori, i quali combattevano nell’Anfiteatro. Ma nè i Pugili, nè i Gladiatori, nè i Ballerini da corda, nè le Città dipinte, e le ricchezze de’ nemici portate in trionfo, nè le corse de’ Cavalli, e delle carrette, nè l’O so, nè il Camelo pardale, nè l’Elefante bianco, furono mai, Sig. Lampillas mio dolcissimo, siccome fin quì avete innocentemente creduto, rappresentazioni teatrali strepitose di gusto corrotto. Quel Popolo guerriero amava assai più gli spettacoli Circensi, e Anfiteatrali vivaci, attivi, gloriosi, che non una riposata rappresentazione teatrale, e l’armonia de’ versi. Ma quando poi si compiaceva di ascoltare un Dramma, egli, lungi di cercarlo di qualche Poeta di mal gusto, non si contentava se non de’ suoi famosi Tragici, e Comici Ennio, Pacuvio, Accio, Nevio, Cecilio, Plauto, Terenzio, Afranio1:
Hos ediscit, & hos arcto stipata TheatroSpectat Romapotens: habet hos, numeratque PoetasAd nostrum tempus Livi Scriptoris ab ævo.
Vedete ora, Sig. Lampillas, qual era il gusto del Popolo Romano? Ad nostrum tempus (dice Orazio, la cui Epistola bisognava che leggeste tutta, e col soccorso di qualche comentatore), cioè nel secolo di Augusto, non era volgo di gusto corrotto, come voi andate cianciando, ma sapeva pregiare, ammirare, e ascoltare i suoi migliori Poeti scenici. Nè anche lo strepito che questo Popolo faceva in Teatro, è argomento di mal gusto. Pensate forse, che i Teatri Romani fossero quelli della Cruz, o del Principe, che può dirsi che contengano un branco di spettatori in confronto de’ Latini? Sovvenitevi che il minor numero, che in questi si radunava, era di ventidue a trenta mila, e talora ascendeva a quaranta mila, ed anche ad ottanta mila persone. Or che maraviglia, che ne nascesse un mormorio strepitoso? Da queste cose voi per voi stesso potete ora vedere quanto male la condotta del Vega di servire al gusto del volgo Spagnuolo, venga giustificata dalla sognata corruzione del gusto teatrale della Plebe, e de’ Cavalieri di Roma, fondata sulla vostra erronea credenza, che gli spettacoli dell’Anfiteatro, e del Circo, i Pugili; le Fiere, i Trionfi, i Gladiatori fossero rappresentazioni sceniche spropositate.
Colla medesima felicità, e solidezza discorre il
Sig. Apologista de’ Poeti scenici Italiani moderni.
Secondo lui essi corteggiarono il mal gusto del Volgo. “Sin dal
secolo XVI.”
(ei dice nella p. 285. contro
la notoria verità istorica) “i più rinomati Poeti Italiani si
lasciarono tanto trasportare dalla brama di dilettare il Pubblico,
che nulla curarono di osservare le più importanti regole, purchè
riuscisse loro il piacere agli oziosi concorrenti, e soprattutto
alle Donne”.
Qual maraviglia non cagionerà a’ suoi
Leggitori, per poco che sieno instruiti, questo amabile delirio
dell’Apologista? I più rinomati Poeti di quel secolo,
i quali passarono il centinajo, e scrissero più di mezzo migliajo di
Drammi con tale superstizione, che rare volte posero il piede fuori
delle Greche vestigia, e senza la scorta di Aristotele in quanto alla
forma del Dramma, non si curarono di osservare le più
importanti regole? E dove ha studiate sì pellegrine notizie
questo Apologista? O per meglio dire, dove ha appresa codesta mirabile
franchezza di scriverle, e stamparle? E perchè non prova in quali Drammi
il Trissino, lo Speroni, il Giraldi, l’Alamanni, il Rucellai, l’Ariosto,
il Bentivoglio, il Caro, il Machiavelli sacrificarono le
regole più importanti al popolaccio, e alle Donne? A mostrare
questa sua astiosa ugualmente, che falsissima accusa egli si vale di un
passo del Gravina, nel quale si trova quel che il Sig. Lampillas
asserisce della stessa maniera, che nel passo di Orazio si è trovato,
che il Popolo Romano lasciava i buoni Drammi per le rappresentazioni
teatrali di gusto corrotto. Il Gravina nel Numero XVII. del Trattato
della Tragedia altro non dice, se non che il Guarino,
e il Tasso adescati da’ Romanzieri si scostarono
dalla semplicità naturale nelle loro Pastorali. E questo vuol dire, che
nulla curarono di osservare le più importanti regole, e che vollero
piacere al popolaccio, e alle Donne? Ma quando anche il Tasso, e il
Guarini nelle famose Pastorali posti in giudizio risultassero rei di regole infrante tanto, quanto ne rimasero convinti
Lope, Cervantes, Virues, Castro, Calderòn &c. questo proverebbe, che
nel secolo XVI. gl’Italiani trasgredirono le più importanti regole in
grazia del volgo? E quando vi divezzerete da codesto mal costume di
trarre conseguenze universali da premesse particolari? quando dell’altro
ancor più criminoso di far dire agli Autori quelche non dissero mai? Il
più bello si è, che la riprensione del Gravina cade sulle due celebri
Pastorali appunto per lo stile soverchio studiato, per i concetti
ricercati, per l’armonia della versificazione, in somma per cose che
mirano più a cattar la maraviglia de’ conoscitori, che a divertire il
volgo, e le Donne. A somiglianti assurdi è tratto l’Apologista dalla
scarsezza di materiali Istorici, la quale serpeggia per tutto il suo Saggio. Egli è costretto a mettere a profitto qualche
passo, che abbia alcuna apparente somiglianza con quel che egli vorrebbe
provare, sebbene in sostanza dica tutt’altra cosa.
Con un altro colpo di penna (p. 286.) afferma ancora, che nello scorso secolo, e nel presente gl’Italiani attesero a secondare il corrotto gusto del volgo. Si è giá parlato del secolo scorso, diciamo ora qualche cosa del nostro.
Primieramente nelle prime decine di anni fiorirono moltissimi Drammatici, i quali, aspirando ad avvicinarsi agli Antichi non meno che a’ Francesi, diedero alle Scene Italiche un gran numero di composizioni regolarissime e giudiziose, e talvolta eccellenti: leggete il Martelli, il Zanotti, il Conti, il Baruffaldi, il Gravina, il Maffei, il Granelli, il Pansuti, il Caracci, il Marchesi &c. Poco appresso venne in mente al Dottor Carlo Goldoni di riformare la Scena Istrionica, e fe la guerra alle Maschere con centinaja di Commedie di Carattere ben degne di un buon secolo. Fu seguito dal Chiari, che sebbene non in tutto il secondò, pure produsse almeno intorno a sessanta Commedie, che se mancano al quanto per ciò, che concerne il gusto, non sono però nè sregolate, nè mostruose. Oggi con gusto, e giudizio fiorisce il Signor Marchese Albergati, che appresta alle Italiche Scene non una, nè due Commedie, come conteggia apologeticamente il Signor Lampillas, ma molti Tomi di Drammi pregevoli sotto il titolo di Nuovo Teatro Comico. I Napolitani dal principio del secolo avvivarono le Scene con gli Amenti, i Federici, i Belvederi, e in seguito co’ Liveri e i Cirilli: per nulla dire di quello spirito Drammatico, che dal XVI. fino al nostro tempo ha dominato nelle due Sicilie, per cui varie private Accademie e radunanze di gioventù ben nata, e bene educata ha coltivata estemporaneamente la rappresentazione. I Toscani si sono segnalati co’ Gigli, e co’ Fagiuoli, di cui vi sono moltissimi Tomi di Commedie, non già una o due. Nel cuor della Lombardia un Real Protettore, un Sovrano Infante di Spagna ha dato all’Italia il glorioso impulso, e alle Nazioni Estere l’illustre esempio, perchè la Tragedia e la Commedia rifiorisca, rinnovando gli antichi Certami. Dal 1772. in sino ad oggi non hanno in Parma conseguita la Corona Drammatica se non che otto Drammi. Ma la speranza di ottenerla, quante altre penne non ha posto in movimento? E quanti altri Drammi hanno veduta la luce, i quali sono giudiziosi, regolati, e vicini alla perfezione?
Or sono queste le mostruosità, le arlecchinate Italiane, sincerissimo Signor Lampillas? Gli stessi Strioni sono forse oggidì così dediti a’ loro Soggetti dell’Arte, che gli vadano seminando per l’Italia? Essi hanno un fondo ben differente da i cinquanta canovacci dello Scala. Goldoni, Chiari, Albergati gli hanno fornito un magazino di più centinaja di buone Favole. I Poeti Tragici nostrali gli hanno arricchiti ancora. La Signora Caminer Turca colle tante Traduzioni di moderne Favole straniere ha loro aperta una vena copiosissima di Drammi regolati. Lascio altre Raccolte di traduzioni, come quella di Mantova, e la Biblioteca teatrale di Lucca, e tante altre versioni scelte de’ Drammi di Racine, di Moliere, di Destonches, di Voltaire fatte da valorofe penne Italiane. Ora con tante ricchezze Sceniche gli Strioni abbisognano più dell’Arlecchino, come nel secolo passato? Che se in qualche Villaggio, o Castello, o al più in alcuna Città del terzo, e quarto ordine i meno abili e i più poveri Commedianti vanno recitando alcuna arlecchinata per divertire que’ paesi men colti, sarà questa una pruova, che la Nazione Italiana si delizia nelle buffonate dell’Arlecchino? Dalle rappresentazioni soprammodo sciocche, tronche, mostruose, insulse, che oggi vanno portando di paese in paese in Ispagna los Comicos de la Legua, si dee argomentare della Poesia Scenica Spagnuola? del gusto della Nazione? dell’abilità degli Attori di Madrid, e di Cadice?
E con qual fondamento asserisce il Signor Eximeno, citato
dall’Apologista, che i personaggi mascherati fanno il
diletto e il piacere della Nazione Italiana? E qual parte, e
quanta di essa ha egli osservata? E’ dunque anch’egli ignaro de’ fatti
da me sopraccennati? Si fonda forse nelle rappresentazioni
Carnescialesche della Città di Roma, in cui tuttavia si vede il Pulcinella, e la Popa? Roma oggi Metropoli del
Cristianesimo ha lo spirito che avea essendo dominatrice di gran parte
della Terra conosciuta. Allora l’indole militare l’allontanava dal
dedicarsi con calore al Teatro, come faceano i Greci, perciò chiamati
molli da’ Latini. Oggi la gravità della sua
Polizia vi produce l’effetto stesso; si abbandonano gli spettacoli
scenici nelle mani di particolari Impressarj, che cercano di tirare il
volgo e la folla per uscire dalle spese, e si tollerano dal Governo in
que’ giorni di allegria universale, purchè non ledano il buon costume;
ma punto non si bada al miglioramento di essi in quanto all’arte ed al
gusto, come addiviene in tante altre Provincie Italiane. Ma del Signor
Eximeno accennammo alcuna cosa nella Storia de’ Teatri, che non ci fa
camminar sicuri ed a chiusi occhi su quanto egli asserisce. In questo
medesimo passo ei dice: “Nelle Commedie Sacre Spagnuole compariva
al più un solo Diavolo, ma sul Teatro
Italiano ne vengono delle volte delle Legioni: non è gran tempo,
che vidi in un Teatro di Roma dar principio ad una Commedia con un
Concilio di Diavoli, i quali consultavano sull’ajuto da darsi a una
Maga”.
Io dunque ben diceva, che le di lui osservazioni si
rinchiudevano negli spettacoli del Carnevale Romano. Ma la dimora in
Italia gli avrà fatto dimenticare ciò che si fa in Ispagna. Non si vede
nelle Commedie Spagnuole, che un solo Diavolo? E quante Legioni
potrebbero contarsene in più di un migliajo di esse? Quanti eserciti
composti di Soldati-Diavoli non compariscono nella Baltasarra, nelle Marte, negli Abailardi, nel Negro più prodigioso? Quanti
Concilj di Diavoli non si radunano in ogni più triviale argomento? Nella
Conquista del Perù non si raccolgono simili
Concilj per favorire l’Idolatria personificata? Nel Dramma di S.
Ermenegildo, che ho veduto rappresentare due anni sono in Madrid, si
congregano questi Concilj ad istanza dell’Eresia, non solo una volta, ma
tre e quattro, se non m’inganna la memoria. Dice appresso il Signor
Eximeno, che in Italia si rappresenta con gran concorso il Convitato di Pietra, Commedia Spagnuola piena di machine, e di
Diavoli, la quale non si rappresenta più ne’ Teatri di Spagna.
Egli debbe averne delle notizie bene attrassate. Io gli assicuro, che da
qualche tempo annualmente l’ho io veduta rappresentare in Madrid nel
Teatro del Principe, sostenendo la parte di Don
Giovanni il Commediante Cocque.
Il Signor Lampillas per mostra ancora del gusto corrotto degl’Italiani, reca non so qual favola intitolata il Colombo, piena di sciocchezze, e d’inverisimiglianze. Ma una tal mostruosità e qualche altra ancora, che ve ne fosse, può fare giustamente affermare esser questo il gusto Scenico nazionale in Italia? Io assicuro al Signor Lampillas, che tal Colombo non potrà mai eccedere in istravaganza le stomachevoli pazzie, di cui è composta la mentovata Commedia della Conquista del Perù fatta da Pizarro da me veduta rappresentare dopo il mio ritorno dall’Italia nel Teatro de la Cruz. Ora un uomo, che non abbia perduto il senno per qualche impegno intrapreso, da tal Commediaccia, e da altre simili scritte da’ trapassati da non molto stravaganti Poetastri Ibañez e Sedano, conchiuderà contro il gusto generale della Nazione Spagnuola? Il gusto generale si prende dalla maggior parte della nazione e da’ Drammi che vi si compongono, e non già da uno, e due, e dieci individui ancora, che fossero sciocchie stravaganti. Si prende dal modo di comporre de’ migliori e più famigerati Drammatici, Signor Lampillas mio, i quali formano Scuola, e non da qualche meschino dozzinal Commediografo, che accozzi un numero di scene malcucite. Quando gl’Italiani parlano della Commedia Spagnuola non hanno in mente le farsacce incondite del Koulican, del Paolino, della Conquista del Perù; ma scelgono i prodigj della Comica, i Vega, i Castri, i Virues, i Calderón. Faccia pur così il Signor Lampillas: se vuol comparare con senno e giustizia, pareggi gli oggetti. Il Colombo Italiano venga in confronto della Conquista di Pizarro: le arlecchinate colle buffonerie del Polilla, del Dinero, del Calabaza, ed altri Graziosi Spagnuoli, che volano e sprofondano: i Virues e i Castri co’ Manfredi e i Tassi, i Vega e i Calderón con gli Ariosti, e i Macchiavelli, e i Cari.
Per non fare un Articolo a parte di un’ altra querela del Signor
Lampillas contro il Signorelli, soggiugnerò quì quel non so che da lui
notato sull’amore delle Tragedie di M. Racine. “Si pretende (p. 312.), che abbia Racine purgato l’amore di
quanto contiene di grossiero e d’illecito, presentando sulle Scene
il solo amore onesto e gentile”.
Quel che veramente avea
detto il Signorelli, e che non ben ispiegano queste parole
dell’Apologista, è che Racine, a differenza de’ Greci, fu il primo a
introdurre l’amore nella Tragedia con decenza e delicatezza. E questo
parmi troppo vero; perchè prima sul Teatro Francese non si vedeva altro
che ratti, deflorazioni, ad ulterj, indecenze, che formano la materia
delle favole di Hardy. Racine volle adoperare questa passione sul
Teatro, ma in una maniera onesta sulle idee Platoniche per non offendere
il pudore della nazione. Aggiunse a ciò il Signorelli, che questo
sarebbe bastato a Racine per essere applaudito nella Corte di Luigi XIV.
piena di amoreggiamenti e di galanteria. Tutto questo,
non so perchè (certamente per qualche motivo apologetico), è dispiaciuto all’Apologista, il quale nè anche
so con qual connessione d’idee vi si oppone con dire: “Non è
possibile, che in quella Corte l’amore fosse tutto
Platonico”.
E questo ha che fare nulla con quel che io dico?
E quando son io entrato a discutere, se gli amori di quella Corte erano,
o non erano Platonici? Per parlar sulle Scene
di una polita Nazione dell’amore senza ritegno, e senza farne
risentire la modestia, che è bella, come dicesi, infin ne’ chiassi,
dovea tenersi la condotta di Racine. Basta dunque, perchè si sostenga
l’osservazione del Signorelli, che l’amore delicato, passione inusitata
sulle scene Greche, potè avere in Francia buono accoglimento per le
disposizioni degli animi ad ascoltarlo; nè perciò vi era bisogno, che
fosse ugualmente purificato in quella Corte. Si parla di virtù in
Teatro: i di lei dettati si accolgono dall’Uditorio con applauso
universale; sono però tutti virtuosi gli ascoltatori? Piacesse al Cielo.
Basta intanto, che essi abbiano giuste nozioni della virtù per ben
ricevere gl’insegnamenti seminati dal Poeta. Si vede, Signor Lampillas,
che voi scriveste questi volumetti con troppa precipitazione.
Posso però farvi osservare ancora, che non tutti gli amori in quella Città furono a quel tempo alla militare, o alla Turca. Furonvi ancora salde passioni. Luigi XIV. n’ebbe una non leggiera per Maria Mancini Nipote del Cardinal Mazzarini, e fu anche tentato di sposarla, benchè di poi si vincesse. Ebbe in seguito qualche inclinazione per sua Cognata la Principessa d’Inghilterra Sorella di Carlo II. per la quale conservò poscia inalterabilmente un fondo di stima e di amicizia; ed a quel tempo, dice M. de Voltaire, la Corte di Luigi XIV. (notate, Signor Lampillas: oh se leggeste, quante parole mi avreste fatto risparmiare!) respirava una galanteria piena di decenza. Fu questa medesima Principessa, che indi fe travagliare, senza che l’uno sapesse dell’altro, e Racine e Corneille a un medesimo argomento, cioè alla Tragedia di Berenice. Veda dunque, che eravi non poca conformità tralle dipinture amorose del Teatro di Racine, e la disposizione degli animi di quella Corte. Dietro all’amore della Principessa d’Inghilterra venne la passione più seria e continuata per due anni, che il Monarca ebbe per Madamigelle de la Valiere, colla quale, dice il nomato Storico, gustò il raro piacere di essere amato unicamente per se stesso. Al fine il Re fu sorpreso dalla vivacità della Marchesana di Montespan, e la Valiere, senza lasciar di amare il suo Sovrano, sofferse la perdita del di lui cuore, finchè si determinò a non dargli altro successore nel suo animo, che l’istesso Creatore, e si fe Carmelitana a Parigi col nome di Suora Luisa della Misericordia, e perseverò sino alla morte avvenuta nel 1710. Queste delicatezze di passione, che i Francesi esprimono con la voce sentiment, non furono rare in quella Corte; ma per la questione non occorre di più esemplificare. Esse esprimevansi da Racine con naturalezza, grazia, e maestria, e trovandone i semi ne’ cuori degli spettatori (fossero poi, o non fossero Platonici, che ciò nulla monta), facevano accogliere le sue Tragedie con plauso indicibile, e venivano sostenute da un partito potentissimo a fronte di quelle del gran Corneille. Or che andate voi fantasticando sull’amore Platonico, o non Platonico di quella fiorentissima Corte?