(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « DISCORSO STORICO-CRITICO. — ARTICOLO VI. Tragici Spagnuoli, secondo il Signor Lampillas, negletti, o censurati a torto dal Signorelli. » pp. 43-68
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(1783) Discorso storico-critico da servire di lume alla Storia critica de’ teatri « DISCORSO STORICO-CRITICO. — ARTICOLO VI. Tragici Spagnuoli, secondo il Signor Lampillas, negletti, o censurati a torto dal Signorelli. » pp. 43-68

ARTICOLO VI.
Tragici Spagnuoli, secondo il Signor Lampillas, negletti, o censurati a torto dal Signorelli.

I.
GIOVANNI MALARA.

Il primo Tragico Spagnuolo, per cui si lamenta il Signor Apologista che io non l’abbia mentovato, è l’Andaluzzo Giovanni Malara Scrittore del XVI. Di costui non si è conservata cosa veruna teatrale; ma si vuole che ne avesse scritte a migliaja rappresentate verso il 1579.; di maniera che al Malara più giustamente converrebbe lo stupore de’ Posteri tributato alla fecondità di Lope. In un Discorso in versi di Giovanni della Cueva, intitolato Esame poetico, si dice che il Malara compose mille Tragedie. Or chi gli terrà dietro, fosse anche un Lope?

Ma furono mille? furono Tragedie? furono degne di tal nome? Circa il numero confessa il Signor Secano, la exageracion 1; e il Signor Lampillas, fedele seguace del nominato Autore, parimente conviene in dire, che il Cueva, l’Esaminatore poetico, esagerò. Ed in vero egli dovè tanto esagerare, che giammai fiato fanciullesco non ingrossò gocciola di acqua con sapone in una palla piu enorme e mostruosa; nè immaginazione d’infermo convertì una mela, in una testa più gigante ca e colossale. Egli esagerò per tal modo che le Mille non resteranno neppure cinquecento, neppure trecento, neppure cento, nè cinquanta, nè dieci, nè due. Il Malara più ingenuo dell’Esaminatore ci ha conservata memoria di Una sola sua Tragedia intitolata Absalon 2. Così uno per miracolo operato da un Esaminatore che ti voglia favorire, e di un buono Apologista che ti sostenga, può arricchirti di un Migliajo.

Diasi non per tanto che, oltre all’Absalon, il Malara scrivesse altre Favole, può assicurarsi che fossero Tragedie? Egli che nominò il suo Absalon, non avrebbe fatta menzione ancor passaggiera delle altre? Il solo Esaminatore parla delle mille Tragedie, ma se ne hanno altre pruove? v’è qualche altro testimonio che l’appoggi? Mi perdoni il Signor Lampillas questa mia discredenza. Ma di un Esaminatore così iperbolico, e sospetto, anzi convinto di falsità nel numero, chi si può fidare circa il genere? La di lui medesima incostanza nelle lodi che dà al Malara piuttosto ci conduce a ravvisare in lui uno de’ tanti Drammatografi di quel tempo, che forse si attenne al sentiero calcato da’ compatrioti. E quale esaminatore giudizioso, dopo mille Tragedie composte da questo Andaluzzo, l’avrebbe decorato del titolo di Menandro Betico? E pure il Cueva di questo si vale per encomiare il Malara. Andate poi a sudare per comporre mille Tragedie, per non riportarne infine altro titolo che di Comico! Io credo, Signor Lampillas, che potremo per lo meglio affermare, che le favole del Malara fossero state Tragedie, come le sei del Vega. Vorreste replicare, che poteva aver fatte anche Commedie, e meritar questo titolo? Sì; ma per cancellare la memoria di Mille Tragedie ci voleano almeno due mila Commedie incomparabilmente più eccellenti.

Ora se le mille Tragedie non bastarono ad acquistare al Malara nome di Sofocle Betico, che dovè contentarsi di quello di Menandro, non sarà malignità e invidia forestiera il dubitare del loro merito. L’Esaminatore stesso ci dà a ciò motivo col confessare, che le pretese Tragedie non furono scritte secondo il metodo degli Antichi, ma secondo il gusto nazionale. Dall’altra parte il Cueva asserisce (secondo alcuni versi di lui rapportati dal Lampillas in Italiano), che il Malara, guardando obediente l’uso antico nelle Commedie entrò

“. . . . per la stretta via
“Illustrando la Comica Poesia.”

Adunque o le favole del Malara chiamate Tragedie n’ebbero il nome per l’abuso nazionale d’intitolare alla rinfusa le favole sceniche or Tragedie, or Commedie, or Tragicommedie: o esse non meritarono la stima de’ savj per essere state scritte secondo il gusto volgare, e non secondo il metodo degli Antichi.

E se il Malara fu uno Scrittore, che probabilmente si accomodò al gusto generale introdotto nella Penisola, pare al Signor Apologista, che, dove di molti Greci, Latini, Italiani, Spagnuoli, Francesi, de’ quali abbiam pure più fide memorie, ed anche opere, io tralasciai di far menzione, per non potersene, a mio avviso, trarre molto vantaggio per la gioventù, dovessi poi consumare il tempo sulle favole del Malara che non esistono, nè si sa che cosa fossero? Io cedo volentieri questo campo agli Apologisti.

II.
GIOVANNI DE LA CUEVA.

Non potendo dire il Signor Lampillas che del Cueva io non abbia favellato, almeno si lagna, che io omettessi di narrarne i pregi, quando sulla fede del Signor Montiano ne avea rapportati i difetti. A dirla io non posi studio veruno a ponderare questi difetti diffusamente rilevati da quell’Erudito; e solamente intesi di accennare il modo di comporre del Cueva, che io non avea letto come il confessai, sul testimonio di un nazionale. Perchè però (mi stringe l’Apologista) non ne accennaste anche i pregi coll’istesso testimonio? Ma caro Signor Apologista, poteva io farmi mallevadore dell’analisi compiuta fatta da un Nazionale di quattro Tragedie da me non lette? Ciò qualche volta può farsi senza taccia, secondo le buone regole della Critica: ma quando? quando più testimonj affermano la stessa cosa, e più se essi appartengano a diversi popoli, o sieno dichiarati emuli, o nemici. Ma se un solo testimonio loda un nazionale, è sempre in certo modo sospetto di condiscendenza. Non così quando tal testimonio censura il compatrioto morto due secoli indietro, come il Cueva; perchè se tal testimonio nazionale è intelligente nella materia, come il Montiano, la sua censura conserva un pieno vigore.

Vediamo però in qual maniera il Signor Lampillas risarcisca l’omissione del Signorelli in onore della Letteratura patria. Egli si prende l’immensa laboriosa cura di trascrivere le lodi generali date al Cueva dal Montiano. E quindi tutto asperso di nobile sudore, come se avesse posti alla vista del Pubblico i più bei squarci della Poesia Castigliana, dice trionfando: “Crede il Signorelli che sieno moltissime le Tragedie di quel secolo che possano pregiarsi di altrettanto?” Io credo, Signor Apologista, che non sieno moltissime le ottime Tragedie; e perciò queste medesime parole che Voi degnate onorare incastrandole nel vostro bel Saggio, io indirizzai al P. Lalantè a proposito del Torrismondo. Ma sapete che cosa credo ancora? Che questa domanda quì ripetuta ci stia, come dicesi, a pigione; e che vi abbia del gran tratto dal fare al contraffare. Io del Torrismondo, oltre all’averne rilevati i pregi con parole, addussi alcuni squarci che forse presso gl’Intelligenti giustificano le lodi date a quella Tragedia. Ma quale squarcio avete Voi estratto da quelle del Cueva per farvi dire altrettanto? Volete Voi, a quel che pare, far la guerra sedendo nella Reggia alla maniera de’ Monarchi Assirj? Bisogna sudare, caro Signor Lampillas, e tediarsi colla molesta lettura de’ Drammi de’ secoli andati, per trarne qualche spirito di buona Poesia a beneficio della gioventù, o almeno a vantaggio della vostra causa. Voi avete tanto e tanto zelo per la vostra Nazione, e intanto nulla volete intraprendere, e vi contentate di congetturare, e di copiare gli altrui giudizj. Ma se questi sono erronei, malfondati, dove va allora il vostro saggio? Torniamo al Cueva.

Nella prima di lui Tragedia, Los Siete Infantes de Lara, confessa il Signor Lampillas con penna tremante, che l’Autore si discostò dalle regole degli antichi Maestri . . . . . e fra gli altri cambiamenti tolse un Atto alla Tragedia riducendola a quattro. L’Apologista, che degli altri difetti non sa come discolparlo, tutto si occupa in due pagine in difenderlo dall’ultimo cambiamento, di cui spera ottenere l’assoluzione. Ma di questo chi mai l’accusa? a che dunque consumare in vano la carta? Il tempo de’ rancidumi è passato; anzi sin dal Cinquecento i veri Letterati se ne ridevano. Il famoso Antonio Moreto tra tanti altri, osservò che questa meccanica divisione di Atti e di Scene fu invenzione de’ Gramatici posteriori, e non degli Antichi, e nel risorgimento delle Lettere molti la trascurarono. I Moderni sono avvezzi a vedere Drammi di uno, di due, di tre, di quattro, e di cinque Atti; e sono ben rari coloro che riprendono la Sofonisba del Carretto per la divisione degli Atti. Sono però gelosi i Moderni di quei precetti Drammatici che costituiscono l’essenza dell’ottimo componimento scritto secondo i dettati della verisimiglianza. Vadano adunque le favole del Cueva in quattro atti como pies de niños, secondo il motto di Lope sulle antiche Commedie; e niuno certamente per questo gli moverà lite. Il male è che Montiano taccia questa prima Tragedia come difettosa, slogata, irregolare, contro le quali imputazioni tutte le belle parole generali dell’Erudito Signor Francesco Zannotti, e del Conte Algarotti, e l’eloquenza Tulliana stessa non mai la scagioneranno. E perchè dunque (ripiglia il Signor Apologista) riprendete tai difetti Voi che asierite che ci è maggior lode in trov e le bellezze di un componimento? perchè ad esse non vi atteneste in questa Tragedia? Torno a replicarvi che dovevate leggere nel mio Libro, che io non avea avuto sotto gli occhi le favole del Cueva. Ma per quella mia osservazione vorreste forse assolvere i componimenti spropositati? credereste perciò imporre silenzio agli osservatori, affinchè non rivelino le infermità occulte de’ corpi Drammatici? Quella osservazione che altri ancora ha fatta, tende a tutt’altro che a provvedere di salvo condotto l’imperizia.

La inverisimiglianza dell’Ajace seconda Tragedia, viene difesa dal Signor Lampillas coll’esempio del Prometeo di Eschilo e degli altri Greci, che introducono Numi ed Esseri allegorici personificati, nella quale apologia si commettono due gravi falli. Il primo è che egli non ha riflettuto, che tra un Poeta Cristiano e i Tragici Gentili in sì fatte cose non corre uguaglianza veruna; perchè se questi introducevano i loro Numi sulla Scena, ciò facevano per essere essa fondata sulla Religione, pel qual motivo nelle loro utili e necessarie Apologie si scagliarono contro gli spettacoli Scenici i Tertulliani, gli Arnobj, i Lattanzj, i Cipriani, i Giustini Martiri. L’altro fallo è che l’Apologista, per iscusare una trasformazione reca la Forza e la Violenza del Prometeo: risposta che siede veramente alla quistione come il basto al bue. Se in un Poeta Cristiano si riprendesse p. e. la Fede, la Misericordia e che so io, allora si allegherebbero acconciamente gli Esseri allegorici personificati da’ Gentili; ma questi nulla hanno che fare con la Trasformazione. Trovi il Lampillas messa sulla Scena Antica una transformazione, come ne hanno mostrato più migliaja i Drammatografi nazionali, e allora potrà discolpare il Cueva coll’esempio. Ma la Storia de’ Teatri Antichi non gliene ha suggerita alcuna. Autorizzati dalla loro Religione bene avrebbero potuto usarne gli antichi Poeti, e pur nol fecero. E di là venne che Orazio consigliò che non si converta sulla Scena Progne in uccello e Cadmo in serpente, aggiungendone anche la ragione,

Quodcunque ostendis mihi sic, incredulus odi.

Or quanto più non debbe starne lontano un Poeta Cristiano in una Platea di Cristiani? Ebbe dunque ragione il Signor Montiano a dire, che l’Ajace del Cueva peccava d’inverisimiglianza, e che nulla avea di comune coll’Ajace di Sofocle, “porque Cueba quiso imitar algo del Griego, y descuidò de lo mejor.”

Nella Morte di Virginia e Appio Claudio terza Tragedia censura il Montiano la duplicità dell’azione; e il Signorelli espresse lo stesso dicendo esser due le azioni principali. Il Signor Lampillas non potè tranguggiare quel principali, parendogli che rendesse più grave questo difetto. Ma egli non vide, che se non si fosse trattato di azioni principali, il Montiano impropriamente avrebbe usato il termine di duplicità. Vide bensì contuttociò la causa perduta e convenne col censore. Volle tutta volta accennare che in simile caso di un Autore Italiano il Signorelli avea detto, che le osservazione della fredda Critica non sogliono ascoltarsi da’ cuori sensibili. E’ verissimo; ma sapete quando ciò avviene? Quando il patetico è maneggiato egregiamente, come nelle disgrazie di Ecuba del Signor Ab. Ceruti. Potrebbe il Lampillas dire che fosse tale nella Tragedia del Cueva? Il manifesti con qualche scena; che io a pruova ne produrrò alcun’ altra di quella del Ceruti. La fredda, cioè la riposata Critica, per veder bene, fa serenare la commozione riportata dal patetico del Teatro; e quei cuori sensibili che trovansene tuttavia riscaldati, non si curano di ascoltarla. Questo forse vuol dire che la Critica tranquilla non merita di essere ascoltata? Vuole ciò dire che l’errore del Cueva non è errore? Masticate le altrui parole, Signor Apologista, altrimenti, giusta il vostro proverbio, voi tornerete sempre tosato nel voler tosare.

Viene ultimamente dal Signor Lampillas ripreso il Montiano (accompagnandolo col Signorelli), perchè quel Letterato (che in tali studj vide molto, nè parlò di materie da lui non intese, o imparate al declinar della età) censura la quarta Tragedia del Cueva, per essere fantastico il carattere del Protagonista, cioè tratto dall’immaginazione del Poeta, e non accreditato da esempj della storia, o della tradizione. Ma se il Cueva si comporta in quel carattere in tal guisa, che si diparte da ciò che la natura suol mostrare possibile coll’attuarlo talvolta, il Montiano censura giustamente, e il Signor Lampillas ingiustamente se ne querela.

Ma questo acuto Apologista dice di non vedere il fondamento di tal critica, e poichè il dice uopo è crederglielo; e vorrebbe che il Signorelli gliel facesse sapere (p. 102.). Questo veramente è troppo pretendere da chi riferisce l’altrui Critica, da chi ha confessato di non aver potuto leggere le Tragedie del Cueva. Ed uno più disinvolto gli direbbe colla frase del Boccaccio, Vada e se l’appari; o gli direbbe uno più pigro, Vada e il rintracci ne’ Discorsi del Montiano. Ma il Signorelli che ama di compiacerlo, rende della censura le seguenti ragioni.

Essa principalmente si appoggia in alcuni versi Oraziani, che non parlano già o di numero di Atti, o di quello delle persone da ammettersi in una scena, ma bensì di quelle eterne ragioni dettate dalla Natura bene osservata, la quale, perchè sia ben ritratta esige certe condizioni, senza di cui ricusa di comparire in Teatro. Dice dunque Orazio in un luogo,

Aut famam sequere, aut sibi convenientia finge:

e dice in un altro,

Ficta voluptatis causa sint proxima veris,
Nec quodcumque volet, poscat sibi fabula credi.

O seguir bisogna la fama, la voce comune, o fingere in modo che ad essa non disdicano le cose immaginate; esse debbono al possibile avvicinarsi alla Verità, non avendo il favoleggiatore diritto ad esser creduto in qualunque suo capriccio. Questa insinuazione non è arbitraria. Per chiamare l’attenzione degli ascoltatori gli si vuol parlare di cose, benchè finte, simili a quelle di cui essi conservano le idee; che se voi gli parlerete delle idee fantastiche sugli abitatori di Saturno o di Mercurio, delle quali niun seme rinvengono nella loro fantasia, si ristuccheranno presto, ascolteranno senza credere. In somma bisogna che essi trovino corrispondenza tralle immagini apportate dalle parole del Poeta, e tra quelle che conservano nella fantasia; dalla qual comparazione risulta il loro diletto e la loro istruzione. Un Critico Filosofo presenta una dottrina che rischiara ancora il contenuto ne’ citati versi: “Prima di natura fu la cosa rappresentata, che la cosa rappresentante.... La Verisimilitudine dipende tutta dalla Verità, e in lei riguarda: e la cosa rappresentante dipende tutta dalla rappresentata, e in lei riguarda.” Il dottissimo Gravina ciò dichiara in mille guise nella Ragion Poetica, nel Trattato della Tragedia, e nel Discorso sulle Favole. Egli fa nelle sue Opere serpeggiare il bellissimo cappio della Finzione, e del Vero; e in aspetto più gentilesco del Castelvetro, e non meno filosoficamente disviluppa le idee del Verisimile poetico, vero perno su cui si volge il Teatro, anzi la Poesia tutta, e le altre arti imitatrici. Non disconvengono da tali insegnamenti i migliori Critici Francesi, Fiaminghi, Alemanni, Spagnuoli, e Italiani; de’ quali non cito le parole per non pedanteggiare. Adunque se un carattere è chimerico, sfornito di somiglianza di un vero noto, che non risveglia nell’ascoltatore veruna idea di cosa rappresentata, necessariamente sarà mal ricevuto, e il Poeta soggiacerà alle censure della Filosofia. Non so se a questi fondamenti si appoggiasse il Montiano; quanto a me, a tali dottrine io mirava nell’ammetterne la censura. Se il Sig. Apologista, poichè ha soddisfatto alla sua curiosità a mie spese, volesse distruggere la censura, cominci dal bombardare e incenerire questi fondamenti. A lui riescirà facile trovando qualche Dedicatoria, qualche Prefazione, qualche Lettera, qualche Esame poetico, che l’inanimisca a rendersi superiore a qualunque dottrina. Gli consiglio però a non fondare speranza veruna sull’esempio delle Medee Greche e Latine, e sul Maometto (p. 103.), per avere, come il Principe Tiranno del Cueva i Protagonisti estremamente malvagi. Imperciocchè Medea è sostenuta dalle antiche tradizioni, e il Maometto dalla storia della mezzana età, per cui tali caratteri non si tengono per incredibili, per fantastici. Dipoi convien riflettere che la censura non riguarda semplicemente la malvagità del Protagonista, ma la malvagità fantastica, chimerica, inusitata; e così precipita giù rovinosamente la gran macchina delle congetture Lampigliane.

III.
ANDRÉS REY DE ARTIEDA.

Della Tragedia Los Amantes di quest’altro Scrittore favellarono non solo il Ximeno, ma l’Antonio, e il Montiano, ed altri, ed io non ho voluto ometterla nella preparata nuova Edizione del mio Libro, tuttochè non se ne trovi pesta, ad onta dell’impressione di Valenza del 1581. Questo Letterato detestava gli errori scenici de’ suoi compatrioti (e noti l’Apologista che allora fiorivano i Drammatici Andaluzzi nominati dal Cueva, e tra essi spiccava l’Autore delle Mille Tragedie); e mostrava di avere gusto migliore; e quindi così declamava1.

“Galeras vi unavez ir por el yermo,
 “Y correr seis caballos, por la posta
 “de la Isla del Gozo hasta Palermo.
“Poner dentro Biscaya Famagosta,
 “Y junta de los Alpes Persiay Mediá,
 “Y Alemania pintar larga y angosta.
“Como estas cosas representa Heredia
 “A’ pedimento de un amigo suyo,
 “Queen seis horas compone una Comedia.”

Ciò mi animava a sperare che la di lui Tragedia potesse essere regolare. Ma come fidarsi più d’inferire da quello che si predica quello che può eseguirsi, dopo l’esempio del Cervantes, che intorno al Teatro parlò sì bene, ed eseguì sì male! Perciò allora omisi di parlare della Tragedia del Rey; e se ora l’ho rammentata, è stato a solo fine di pascere l’altrui curiosità. Che io non imiterei mai il Lampillas, che con una fiducia senza pari e con tutta la serietà ci assicura della bontà di tal Tragedia . . . Il merito singolare (p. 104.) dell’“Autore . . . . può bastare a collocarla fralle regolate opere teatrali”. Egli al più avrebbe potuto dire, può farci sperare, che sarebbe stata regolata. Toglierei poi la giunta de Teruel data al titolo Los Amantes per un semplice sospetto del Ximeno. Qual prò da giunte inutili non provate e improbabili? Il Teatro Spagnuolo quasi ogni anno mostra una favola col titolo Los Amantes de Toruel, che appartiene al Montalban. Di questa nella nuova Edizione della Storia de’ Teatri vedrà l’Apologista i difetti e le scene interessanti; non già, come si fa nel Saggio, con lodi vaghe applicabili ad ogni Dramma, o con biasimi che tengonsi ammaniti come le formole delle private Segreterie: ma con una competente analisi accompagnata da qualche scelto squarcio.

IV.
LUPERCIO LEONARDO DE ARGENSOLA.

Niuna cosa più chiaramente dimostra, che il Sig. Lampillas non cerca se non diffusi panegirici di tutto ciò che appartiene a’ Drammatografi Spagnuoli, quanto ciò che dice del Signorelli a proposito delle Tragedie di questo buon Poeta. Si lagnò l’Apologista che di quelle del Cueva io avea narrato i difetti, e non i pregi: di queste di Argensola accennai i difetti, e qualche pregio, e pure si lamenta perchè ne dò una sommaria notizia. Conviene il Sign. Lampillas de’ manifesti difetti dell’Alessandra; ma non vede che i medesimi si trovano nell’Isabella, e si diffonde in sette pagine e mezza nella difesa di quest’ultima. Io non vi trovo, egli afferma, i pretesi gran difetti che altri dice. E se vi è qualche neo, si dee, secondo lui, attribuire a MS. viziati, ne’ quali si trovarono versi tronchi, o mancanti. Su di che è da notarsi, che nell’Isabella non si scorge un sol verso tronco o mancante, come nell’Alessandra se ne trovano moltissimi. Colpa de’ MS. viziati, a parere del Lampillas, è il disordine nella distribuzione delle scene: quasi che questa potesse introdurre nella favola la moltiplicità delle azioni dove non sia. Egli però pretende che sia una sola l’azione principale, e le altre subalterne. Questi subalterni dell’Isabella sono della natura del Generale de’ Giapponesi, il quale esercitando tutti i dritti principeschi, e disponendo del destino del Regno, lascia a un fantasma coronato il nome e le insegne di Sovrano.

Qual’è l’azione principale? La morte d’Isabella insieme con Muley? Intanto è preceduta da quelle del di lei Padre e della Madre e della Sorella, le quali distraggono e dividono la compassione e il terrore in molti oggetti. E finisce quì? Al principio dell’Atto III. si è già sparso tanto sangue, è morta Isabella, oggetto principale della Tragedia, e si può dire che la favola stia nel maggior vigore. Si continua l’intreccio: siegue la morte di Audalla: si prepara la rovina di Alboacen: si effettua l’uccisione di questo Re per mano di Aja di lui sorella. Termina poi? Un intreccio, tanto alieno dal martirio d’Isabella, degli amori infelici di Adulze Re di Valenza richiede uno scioglimento, e questo siegue in fine col di lui suicidio, il quale porta in conseguenza l’altro di Aja. Così che non cessa l’Autore finchè non ha fatti morire tutti i nove personaggi più principali, lasciando appena in vita alcuni servi introdotti nella favola. Quindi è che se io dovessi dire, quante sieno le azioni principali, affermerei esser tre, non contando le subalterne: cioè 1. la Morte d’Isabella e Muley per l’amor lascivo del Tiranno colorita col pretesto della Religione; 2. la Morte del Tiranno derivata dalle sue crudeltà e dall’avere ucciso l’amato della Sorella; e 3. la Morte di Adulze avvenuta per eroismo, non volendo egli mancare nè all’amistà, ed alla gratitudine dovuta al Re, nè alla promessa da lui fatta all’amata. Che se poi dovesse esaminarsi quali di queste tre principali azioni sia la più degna e propria per una Tragedia, io subito sceglierei l’ultima della morte di Adulze, personaggio veramente tragico, e più di ogni altro interessante (salva la Religione che ci attacca ad Isabella), il qual personaggio ci fa mirare come cosa già dimenticata la morte dell’Eroina Cristiana, e quella di Alboacen. Ora se ciò stà alla vista di ogni Leggitore, se il Signor Sedano non niega questa moltiplicità di azioni, egli è assai notabil cosa che l’Apologista impugni l’evidenza, e che, quando a due azioni dell’Ecuba Greca diede il titolo di molte, a queste dell’Isabella, che molte sono, dia il titolo di Una. Aritmetica Apologetica!

Ma forse a ciò si ristringono i difetti dell’Isabella non veduti dal Signor Lampillas? Sono forse poco rilevanti le imputazioni del Sedano intorno al vedersi in essa la strana uniformità, che porta tutti i persognaggi ad agire pel medesimo impulso dell’amore? e intorno à las vulgaridades y bajezas que desdicen de la gravedad de la Tragedia?

Oltre a ciò discolperà l’Apologista l’inutile apparizione dello spirito d’Isabella, che viene a recitare un Sonetto caudato, per dire che qual Fenice dalle fiamme è risorta per gire al Cielo, e domandare all’Uditorio il Plaudite? Io non disapprovo la preghiera del Padre e della Madre fatta ad Isabella, perchè interceda presso il Tiranno in prò de’ Cristiani; ma il Signor Don Saverio mostrerà esser cosa plausibile che quei due Vecchi dabbene le propongano, come già propose Idraotte Saracino e Mago ad Armida, che vada a lusingare il Re, che ne fomenti l’amore, che ne sostenga e nutrisca le speranze? Ecco come si spiega Lamberto:

“Al Rey por cierto tiempo fingir puedes
 “Precisa castidad tener votada,
 “Y que quando del voto libre quedes,
 “La prenda le daràs tan deseada.
 “En este medio tiende astutas redes,
 “Suspiros, llantos, vistas regaladas,
 “Y lagrimas, si puedes, amorosas.”

Giustificherà l’Apologista la mancanza del tempo necessario per l’esecuzione della morte d’Isabella accompagnata dalle varie circostanze narrate dal Messo, che richiedono non poco tempo, nella scena III., quando ella è partita dal Teatro terminata la I., nè vi s’interpone che il soliloquio di Aja?

E fluida, sonora, armoniosa la verificazione: ma il Signor Lampillas, che tralle altre cose rinfaccia alla Sofonisba del Carretto l’Ottavarima, difenderà poi l’Isabella versificata in Terzine, Ottave, Sonetti, ed altri metri rimati usati da’ Poeti Lirici ed Epici, improprj nella Drammatica? E pura, elegante la locuzione: ma è conveniente al genere teatrale, che ricusa molte figure, molte descrizioni, molti ornamenti poetici permessi ad altri generi? Come si scagionerà questa favola di certe apostrofi non brevi fatte da Isabella al fiume Ebro nella 2. scena dell’Atto I., e da Adulze alle piante nella 3. dell’Atto II.? Sono proprie della Scenica Poesia le lunghe, studiate, poetiche, liriche comparazioni che si trovano sparse nell’Isabella? Lasciando quella già accennata dello spirito d’Isabella, che in due quadernarj spiega l’indole della Fenice, a cui si compara, che dirà il Signor Lampillas di quella della 5. scena dell’Atto I. recitata da Audalla e chiusa in una Ottava,

“Qual Toro que delexos vè que asoma?”

che di quella della 2. del II. detta da Isabella prolongata per dodici versi,

“Qual suele de los vientos combatida?”

che di quella della 3. scena dell’Atto III. declamata dal Messo in nove versi,

“Asi lavid nudosa, retorcida?”

Belle, felici, se non nuove, esse sono certamente: ma non conservano nella Drammatica la bellezza che hanno in altri generi: non erat hic locus, dice Orazio. Non mi distendo di vantaggio, non essendo mio intendimento di mettere in vista tutte le pruove, che ha dato in questa favola il per altro famoso Poeta Argensola, e della poca età in cui la scrisse, e del gusto al suo tempo dominante nella Penisola, che non gli permise maggiore esattezza.

L’Apologista intanto non sa vedere i pretesi difetti dell’Isabella, e la paragona alla Zaira. Volle poi combattere la censura del Sedano pel carattere perfettamente buono d’Isabella; di maniera che di lui acconciamente può dirsi in tal proposito ciò che dell’Europa affermava l’Ariosto,

Lampiglia è in arme, e di far guerra agogna
“In ogni parte fuor ch’ove bisogna.”

Non capisco però perchè per tal motivo si lagni anche del Signorelli, che nulla ha detto della bontà o malvagità de’ tragici protagonisti. Forse perchè ha lodata la imparzialità del Sedano? Io adotto la imparzialità di chi non indora i difetti de’ morti per ingannare i vivi: ma voglio poi un libero esercizio della mia facoltà di pensare, e una scelta non precaria, non dipendente, circa le opinioni letterarie da ammettere o rifiutare. Censuri adunque l’Apologista quello che io dico, ma non si curi d’interpretare senza fondamento nè bisogno quello che io non rivelo.

V.
CRISTOFORO VIRUES.

Rimane questo Capitano e Poeta Sivigliano. Dispiace all’Apologista (p. 110.) che io dica delle di lui Tragedie, che, a riserba dell’ultima, non osservò nelle altre regola veruna, siccome confessa il Montiano. Va poi arguendo contro questo Erudito, e rivangando la di lui confessione da me accennata su ciascuna Tragedia del Virues.

Nella Semiramide (ei dice) confessa il Montiano, che il Poeta non osservò veruna delle tre unità; ma non è preceduto a questa confessione degli altrui peccati un maturo esame. Non avvertì dunque il Sign. Lampillas che l’istesso Virues fece la sua confessione nel Prologo della Semiramide, manifestando di aver mancato all’arte antica, e insieme alla usanza moderna. Non di meno egli alla meglio cercò discolparsene dicendo di aver pensato a fare di ognuna delle tre Giornate una Tragedia. Di questa discolpa, strana al certo, fa galloria il Lampillas, come di un sicurissimo asilo. Ma il Montiano incalza il nemico che si ritira, e grida, e pretende che ciò sia contrario all’uso antico e al moderno, e aggiugne: “Questa intolerabile licenza, se vi ha alcuno che ne abbia usato o ne usi, è la cosa più sconnessa degli antichi e de’ moderni, e la più assurda e riprensibile di tutte le stranezze, nelle quali si è incorso o s’incorre contro i preziosi statuti della Ragione.” E di ciò non pago passa ad analizzarle tutte e tre quasi fossero Tragedie distinte, e trova che da questa separazione stessa nascono di molti assurdi. Di passaggio osserva ancora che il Virues attribuisce alla Nazione Assira le Vergini Vestali della Romana. Io non rapporto ora nè gli altri assurdi, nè la falsità e inuguaglianza di varj caratteri. Accenno solo la insussistenza dell’esempio addotto dal Sign. Lampillas per giustificare la stranezza di una Tragedia composta di tre, come il corpo favoloso di Gerione; cioè i Tramezzi e i Balli che s’interpongono fra atto e atto in altri Drammi. Il Leggitore, e forse l’istesso Sign. Lampillas, vedrà bene la poca connessione che ha una Tragedia divisa in tre (che piacevolmente potrebbe nomarsi Tritragedia, se pur nome può ricevere un capriccio Cinese), di cui la seguente non può stare in piedi senza l’antecedente, con un Ballo o un Tramezzo o un Mimo antico o una Petite-piéce Francese, corpi che reggono da se, nè abbisognano del Dramma, come il Dramma di loro non abbisogna. M’incolpa poi l’Apologista per non avere mentovato i pregi di questa Tragedia. Ma con questi principj capricciosi, con tali assurdi e difetti ne’ caratteri, mi parve che riescir dovesse poco accetta a’ posteri la memoria di alcun pensiero elevato che vi si trovasse; che quanto alla concatenazione naturale degli accidenti, e alla proprietà della locuzione, mi sembrano cose che neglette partoriscono vergogna, ed osservate con tutta diligenza non producono lode. Dovrebbe sapere il motto Oraziano: Vitavi denique culpam, non laudem merui. Evitare il vizio non è eroismo. Nemo enim unquam est Oratorem, quod latine loqueretur, admiratus: si est aliter, irrident . . . . Nemo extulit eum verbis, qui ita dixisset, ut qui adessent, intelligerent quid diceret, sed contempsit eum, qui minus id facere potuisset 1. Udiste ciò che si è insegnato quasi venti secoli fa? Ci vogliono cose che facciano stupire, e, secondo il medesimo Cicerone, inorridire in certo modo ed esclamare gli ascoltatori, per fare che degnamente passino a’ Posteri. Ma per soddisfare alla domanda del Sign. Lampillas “se io creda, che tutte le Tragedie che occupano nobil posto nella mia Storia, abbiano tanti pregi” risponderò

“. . . . . . . come da me si suole
“Liberi sensi in semplici parole;”

che più di una volta mi sono imbattuto in una Tragedia infelice con questi medesimi pregi, che rapiscono l’Apologista. Anche a un Poeta dozzinale (non che al celebre Virues) scappano tal volta certi lampi d’ingegno degni di ogni lode; ma il punto stà a sostenersi sulle ali, e a ideare un Poema non freddo, non debole, non capriccioso, non maltessuto, non pieno di manifeste inverisimiglianze. Circa all’altra domanda, se io creda, che si possa dire altrettanto della Semiramide del Manfredi, rispondo colla medesima nettezza, che da questa sola domanda comprendo che l’Apologista non l’abbia letta, nè abbia udito parlarne, e che il Virues avrebbe potuto approfittarsi di essa, essendo stato in Italia, e la Tragedia del Manfredi essendovisi impressa sette anni prima di spirare il secolo XVI.; ma ciò non volle la sorte del Teatro Spagnuolo, e il Virues compose la sua Tritragedia. Oh caro Sig. Apologista! Io auguro alle Scene Castigliane, che tosto giunga l’epoca fortunata di un Tragico, che arrivi a pareggiare il merito non equivoco del Manfredi, e l’eccellenza, l’eleganza, la forza, il colorito, la regolarità, l’armonia artificiosa della Semiramide. Amico, voi mettete la bocca a certi cibi troppo sostanziosi senza misurare la forza del vostro stomaco avvezzo ad altro nutrimento. Resta adunque provato che la prima Tragedia del Virues è difettosa e assurda.

“Andiamo avanti (dice il Lampillas p. 115.). “Dove ha trovato il Signorelli che il Montiano confessa che il Virues nella Cruel Casandra non osservò regola veruna?” Subito vi contento. Ho ciò trovato nella confessione che fa l’ingenuo Signor Montiano, cioè che “in essa si accumulano tanti e tanti fatti che eccede per la complicazione e la moltitudine . . . i quali offuscano e confondono in certo modo l’Azione senza lasciarle quella brillante chiarezza che si esige”. E sebbene l’istesso Montiano dica che vi si osservano le tre unità, non si vede offesa la più importante di esse, cioè quella di Azione dalla moltitudine e complicazione di tanti e tanti fatti che ne offuscano la necessaria chiarezza? E tanti e tanti fatti rannicchiati nel tempo concesso al Dramma, non guastano colla poca verosimilitudine l’altra unità del tempo? In questa guisa si osservano le Unità? Ho trovato ancora che il Montiano il confessa allorchè riprende in questa favola la incredibilità che risulta dall’eccessivo orrore che cagiona tanto sangue sparso, che di nove Attori ne muojono otto, onde la Tragedia ne diviene dura e violenta, secondochè si esprime il Montiano, e poteva, aggiugnere, per conseguenza sregolata. Or questo è osservar le regole? Sappia in oltre il Signor Lampillas, che non tutte le regole Sceniche si racchiudono nelle sole tre unità. Altre molte e molto delicate ne prescrivono, non che Aristotile, Orazio, Gravina, Boileau, Luzán, il Verisimile e l’Interesse teatrale veri Maestri di Poetica. Udite un poco uno che sapeva qualche cosa di più delle regole di Unità, in cui voi ristringete la somma delle cose:

“Un vers heureux & d’un tour agréable
 “Ne suffit pas; il faut une action,
 “De l’interêt, du comique, une fable,
 “Des moeurs du temps un portrait véritable,
 “Pour consommer cette œuvre du Démon;”

dice ottimamente il Signor di Voltaire. Udite ancora come parla graziosamente e giudiziosamente della Poesia Giambattista Rousseau in una Epistola:

“Le jeu d’echecs ressemble au jeu des vers;
 “Sçavoir la marche est chose trés-unie,
 “Jouer le jeu, c’est le fruit du génie,
 “Je dis le fruit du génie achevè
 “Par longue etude & travail cultivè.”

Molto e molto manca adunque alla seconda Tragedia del Virues per chiamarsi regolata.

“E che (l’Apologista p. 116.)? Forse nell’Attila non vi si osserva veruna regola, come pretende il Signorelli asserirsi dal Montiano? Anzi questo Critico Spagnuolo ci assicura tutto l’opposto”. Questo Critico Spagnuolo dice che in grazia de’ vivi colori, con cui è dipinto in questa Tragedia il furore di Attila, può dissimularsi quel comun ricorso degl’ingegni (cioè l’amore unico ordigno della favola), e ammettersi fralle regolari. Quì dunque si dispensa grazia e indulgenza, anzi che si amministri giustizia. Vuol poi il Signor Lampillas ricavare il vero sentimento del Montiano circa l’irregolarità delle prime quattro Tragedie del Virues? Legga le seguenti parole del suo 1. Discorso: “No puede leerse sin admiration ni sin lastima de que se aparte tanto de las reglas en otras quien tan puntualmente las supo guardar en esta”, cioè nella quinta ch’è l’Elisa. Adunque questa sola è l’eccettuata dalla taccia dell’irregolarità; e l’Attila resta colle altre soggetta alla censura.

“Nemmeno asserisce il Montiano (dice seguitando a travedere l’Apologista p. 117.) “che nella Infelice Marcella non vi si osservi veruna regola, anzi confessa custodirvisi le prescritte unità”. Montiano, il quale, a differenza di altri, intendeva che le unità non sono le sole regole Drammatiche, che trasgredite deturpano un componimento, dice di tal Marcella, ch’egli la chiamerebbe, piuttosto una Novella compassionevole ridotta in buoni versi, che una ben regolata Tragedia. Adunque non solamente le niega la regolarità, ma fin anco il nome di Tragedia. Non so poi come il Signor Montiano intendesse se stesso, mentre dopo vere asserito esser questa una Tragedia mal regolata, dice appresso che vi sono osservate le unità. Osservar le regole, ed essere sregolata, non è una manifesta antinomia? Egli però soggiugne: “Vi ha notabile disuguaglianza nelle persone. Gli assassini di campagna, la Donna da partito che gli siegue, i Pastori, corrispondono alla bassezza Comica, non alla gravità Tragica, donde nascono simili plebee espressioni,”

O hideputa el hidalgo
Y que ligero es de pies,
Cierto gran lastima es
Que el señor no sea galgo.

Or non è regola inviolabile l’astenersi nella Tragedia delle mescolanze Comiche? E questa non è violata nella Marcella? E il Montiano non lo confessa? E il Signor Lampillas che il nega, non mostra di aver letto il Montiano alla sfuggita? Ma vuol meglio assicurarsi l’Apologista, che, a riserba dell’Elisa, le altre quattro Tragedie sono scritte alla moderna, cioè senza guardar le regole? Ascolti l’istesso Virues. Non è un testimonio maggiore di ogni eccezione? Egli nel Prologo premesso alle cinque sue Tragedie previene che “nelle prime quattro ha procurato unire il meglio dell’arte antica e del costume moderno” . . . e che l’ultima va escrita toda per el estilo de Griegos y Latinos. L’Elisa dunque è l’unica favola che il Virues tiene per veramente regolare; e se l’Attila, o la Marcella (come credeva il Signor Lampillas) avessero guardate nella stessa maniera le regole, l’avrebbe accoppiate coll’Elisa, e non colle altre. Ed ecco che a confermare il sentimento del Signorelli concorre ugualmente il Critico, e l’istesso Autore Spagnuolo.

Ben poteva inoltre notare il Signor Lampillas il carico che dà il Montiano al Virues, cioè di aver contribuito a cangiar metodo con mezclar los preceptos antiquos con la moderna costumbre, llevando asi los ingenios à que declinasen à la formacion de estos hormaphroditas (così chiama le favole Spagnuole), ò monstruos de la Poesia, como los llama Cascales. E conferma la sua opinione colla lode che Lope dà al Virues nel Laurel de Apolo; facendo osservare, che Lope, come parziale dell’alterazione del Teatro, encomia Virues come Autore delle migliori regole Comiche, e ciò dice appunto allorchè aggiugne che scrisse Tragedie; di maniera che se ne ricava, che “gradúa la mudanza que introduxo Virues por origen de los aciertos Comicos que se figurò en la mezcla de los preceptos antiquos y la costumbre moderna”. Vede adunque il Signor D. Saverio, che il Signorelli non si allontana da’ sentimenti de’ Critici Spagnuoli nel giudicare de’ supraccennati Drammatici, e non legge alla sfuggita, nè sopprime i fatti, nè abbisogna di far dire a’ Giraldi quello che non dissero mai.