TOMO II. LIBRO II
ADDIZIONE I*
Fabbriche Etrusche in
Pesto.
Debbonsi soprattutto mentovare tralle antiche fabbriche Etrusche in parte tuttavia esistenti quelle che ammiransi nelle ruine dell’antica Posidonia o Pesto nel regno di Napoli. Tali sono i rottami delle sue Mura formate di grandi pietre squadrate, levigate e connesse all’usanza de’ Toscani imitati poi da’ Romani. Tali i due Tempj, de’ quali il primo semplice, grave, e solido contiene sei colonne in facciata, ed altrettante dalla parte opposta, e si allontana dalla maniera dorica greca, e dall’ordine toscano de’ tempi posteriori, ed il secondo tempio più picciolo, che dinota di essere stato da’ Toscani eretto posteriormente, quando già essi sapevano congiungere colla solidità il gusto di ornare. Tali finalmente sono le reliquie de’ Portici, di un Atrio, e l’Anfiteatro 1.
ADDIZIONE II*
Plastica degli
Etruschi.
Si attribuisce eziandio agli Etruschi l’arte della plastica, o modellatrice. Clemente Alessandrino (Strom. lib. I.) dice φασὶ Τουσκανους την πλαςικήν επινοῆσαι. Vero è che in Plinio si vede che altri l’attribuisce a’ Greci, che da Corinto vennero in Italia con Demarato padre di Tarquinio Prisco. Ma, secondochè bene osserva il Maffei nel Ragionamento degl’Itali primitivi, a chi venne con Demarato si attribuisce altresì in parte la pittura, e pure, per osservazione dello stesso Plinio, era essa già perfezionata in Italia molto innanzi, come abbiam veduto.
ADDIZIONE III*
Puttini: Incisori di
gemme dell’Etruria.
Di questo Puttino Etrusco trovato nell’agro Tarquiniense ed illustrato da mons. Passeri, favella parimente l’ab. Gio: Cristofano Amaduzzi nella seconda sua edizione dell’Alfabeto Etrusco premesso al tomo III Pictur. Etrusc. in vasculis dello stesso Passeri.
Di un altro Putto Etrusco che vuolsi trovato fin dall’anno 1587 vicino al Lago Trasimene, e poi rubato dal museo del conte Graziani perugino, e ricuperato dopo molti anni, favellarono il p. Ciatti nella Perugia Etrusca, mons. Fontanini, il senator Filippo Buonarroti, ed il proposto Anton Francesco Gori.
Conviene quì parimente notare che non mancarono all’Etruria alcuni insigni incisori di gemme. Da piú periti antiquarj vengono con particolarità rammentati e tenuti per Etruschi Admone, cui si attribuisce l’Ercole hibace, una delle più preziose gemme Etrusche, ed Apollodoto, di cui si ammira una gemma colla testa di Minerva incisa a punta di diamante, ed un’ altra rappresentante Otriade del museo Cortonese. Se ne veggano i comentarj dell’ab. Bracci, de’ quali leggesi un buono estratto nel Nuovo Giornale Modanese de’ Letterati d’Italia.
ADDIZIONE IV*
Ciò che affermò l’ab. Denina di Gneo Nevio.
Strano sembrami che il sig. Carlo Denina nella Parte I del Discorso sulla Letteratura abbia senza appoggio asserito che Gneo Nevio venne dalla Magna Grecia come Andronico. Che Gneo appartenne alla Campania, è cosa troppo trita; nè questo paese in tempo veruno fece parte della Magna Grecia. Anzi Plauto, nella sua commedia Miles gloriosus at. 2, sc. 2, fa che Palestrione greco personaggio lo chiami poeta barbaro, cioè non greco, ma latino, la qual cosa non avrebbe potuto dire senza sconcio, se Nevio nato fosse nella Magna Grecia. Il comico stesso nella commedia Capteivei mostra più chiaramente che i Greci chiamavano barbari gl’Italiani. Il parasito Ergasilo giura per le città di Preneste, di Sora, di Segni e di Frusinone, ed Egione ripiglia,
Quid tu per barbaricas urbes juras?
Noto è pur troppo che barbaro di sua origine significò straniero, quale si considerava da’ Greci chi nasceva fuor della Grecia, e da’ Romani chi alla lor nazione non apparteneva. Così Diodoro nel libro XIV dicendo che i Cartaginesi trassero ajuti da’ barbari d’Italia, volle distinguerli da’ Greci Italiani. Così Dionigi Alicarnasseo nel libro I adoperò tal parola in senso di straniero nel voler dare a’ Romani origine greca, e non barbara. Adunque Nevio non ebbe la patria greca ma barbara, cioè straniera. Aulo Gellio nel rimproverare a Nevio il fastoso epitafio che egli compose per se stesso, dice che i suoi bei versi mostravano tutta la nativa alterigia Campana, cioè del proprio paese. E’ inutile accumulare argomenti ed autorità su ciò che finora niuno ha posto in dubbio. Pur ne piace rammemorare un tondo medaglione di marmo posseduto da Tommaso Manso nostro antiquario morto nel 1650, di cui favella il suo contemporaneo Niccolò Toppi nella Biblioteca Napoletana. Da una parte si vedea la figura di Nevio animata coll’iscrizione Nevius Poeta Cap.; eravi dall’altra un lupo che teneva sotto un agnello con un bastone nel mezzo. Il signor Denina par che abbia scritte le ultime sue cose in fretta, fermandosi sul primo pensiere senza esaminarlo, come può comprovarsi con varie osservazioni sull’indicato Discorso, e sul Proseguimento delle Rivoluzioni d’Italia.
ADDIZIONE V*
Citazione per L. Ambivio
Turpione.
Di questo valoroso attore vedi ciò che ne dice Cicerone, che visse a’ suoi tempi, nel dialogo de Senectute, e l’autore de Caussis corruptae eloquentiae.
ADDIZIONE VI**
Asserzione del sig. Denina su i
tragici Latini.
Da quanto dicesi de’ lodati tragici latini così di quest’epoca, come della precedente, sembra che la lingua latina, appunto come accennò Orazio, si prestasse felicemente al genio tragico,
Et spirat tragicum satis, & feliciter audet.
Ennio, la cui Medea esule fe dire a Cicerone (de Finibus) non potervi essere alcuno così nemico del nome Romano che ardisca sprezzar questa tragedia: Pacuvio che colle sue tragedie procacciossi rinomanza di dotto conservata anche a’ tempi di Augusto1: Accio tanto encomiato pel suo Atreo che meritò il nome di sublime per detto di Orazio, e di Quintiliano; che Acrone non esitò di anteporre ad Euripide; che fu in fine da Columella collocato accanto a Virgilio, riconoscendo in entrambi i poeti più grandi del Lazio: tali tragici, dico, esaltati da’ migliori scrittori di Roma, debbono convincerci che la maestà dell’idioma latino, l’eroismo proprio de’ Romani, lo spirito di sublimità che gli elevava sin da’ principii dell’arte, gli facesse assai più riescir nella tragedia che nella commedia. Di fatti, oltre alle nominate tragedie a noi non pervenute, ebbero i Romani eziandio in pregio la Medea di Ovidio, il Prometeo e l’Ottavia di Mecenate, il Tieste attribuito a Quinto Vario, a Virgilio, ed a Cassio Severo, tragedia da Quintiliano reputata degna di compararsi colle migliori de’ Greci, in oltre quelle di Curiazio Materno altamente comendate dall’autor del dialogo della corruzione dell’eloquenza, e di Pomponio Secondo stimate per l’erudizione e per l’eleganza, la Medea di Lucano, l’Agave di Stazio sì bene ascoltata in Roma ed encomiata dal satirico Giovenale, tutte queste buone tragedie danno a noi diritto di affermare che un genere di poesia maneggiato da’ migliori poeti latini, dovè trovare in quella nazione ordigni opportuni per elevarsi, ed in copia maggiore che non ne trovò la poesia comica.
Ora tutto ciò si oppone perfettamente all’idea che della latina tragedia aveasi formato il sig. Carlo Denina, il quale (parte I del Discorso della Letteratura, art. 26) asserì che in Roma si stava peggio ancora nella tragedia che nella commedia. Quintiliano però, il quale ingenuamente confessava che i Latini zoppicavano nella commedia, non mai affermò altrettanto della tragedia. Anzi sostenne esservene state alcune da mettersi degnamente in confronto delle migliori de’ Greci. Cicerone, Tacito, Plinie anche evidentemente discordano dall’avviso del piemontese Denina. Laonde siamo noi inclinati a prestar tutta la fede a que’ Latini che ebbero sotto gli occhi le tragedie romane da essi esaltate, e che sapevano quel che si dicessero, ed assai poco crederemo al sig. Denina che con tutta la posterità non ne ha veduta nè anche una. Nè debbe egli fondarsi punto nè poco nella mancanza di originalità desiderata nelle lodate tragedie latine; perchè nè Eschilo, nè Sofocle, nè Euripide potrebbero contarsi per originali secondo la regola del Denina, sapendosi che gli argomenti delle loro favole si trassero quasi tutti da Omero e da’ tragici più antichi. Molto meno dee egli appoggiarsi nell’abbondanza de’ difetti de’ tragici latini e nella scarsezza di sublimità; perchè dalle ultime favole moderne risalendo sino ai cori di Bacco in Icaria, non so quante tragedie potrebbero ostentarsi come perfette, grandiloquenti e prive di ogni taccia. L’uomo d’ingegno e di gusto purgato condona di buon grado i difetti, ove le bellezze di ogni tempo e di ogni clima sovrabbondino.
ADDIZIONE VII*
Rottami di
Rimini.
Veggonsi in Rimini alcuni rottami di mattoni, ne’ quali altri riconosce un teatro, altri un anfiteatro. Ma per avviso venutomene dal fu dotto amico ab. Gio: Cristofano Amaduzzi, m’indussi a credere che non fusse nè l’uno nè l’altro. Quel pregevole ufficioso letterato mi avvertì che le reliquie indicate sono opera de’ bassi tempi; e ciò si rileva dal lavoro troppo minuto nelle cornici di alcune basi di colonne colà rimaste. Quindi esse sono state piuttosto credute portici, ne’ quali introducevansi le mercanzie in città dall’antico porto, che ora è in secco, del cui molo sussistono le ruine ora chiamate Muraccio o il Terrazzo dell’Ausa fiume che bagna la città dalla parte di oriente.
ADDIZIONE VIII*
Sulla commedia
Querolus.
Presso Roberto Stefano si ha la commedia pubblicata in Parigi nel 1564 da Pietro Daniele con questo titolo: Querolus antiqua comoedia nunquam antehac edita, quae in vetusto codice ms Plauti Aulularia inscribitur, nunc primum a Petro Daniele Aurelio luce donata, & notis illustrata. L’orleanese Pietro Daniele approfittandosi del saccheggio dell’abadia di san Benedetto sulla Loira fatto dagli Ugonotti, s’impossessò di varj manoscritti che eranvi, molti comprandone a vil prezzo, e fra essi trovò tal commedia, che il Vossio chiama dramma prosaico 1. Fu poscia reimpressa da Cummelino colle note del primo autore, del Rittersusio e del Grutero. Ebbe pur luogo nella bella edizione di Plauto di Filippo Pareo uscita nel 1619. Se ne ignora l’autore. Il dottissimo Fabricio ci dice: Marci Accii minime est, quoniam author ipse in prologo hanc fabulam investigatam Plauti per vestigia profitetur 1. Ne sarebbe mai stato autore qualche Greco? Svegliano tal dubbio le parole del passo, che soggiugneremo, sic nostra loquitur Graecia.
Variamente congetturarono i letterati sull’epoca in cui si scrisse. Taluno la credette della fine del secolo VI, benchè lo stile sia di un gusto differente. Il padre Rivet 2 fa risalire il Querolus almeno al cominciamento del V secolo fondandosi sulla dedicatoria fatta a Rutilio. L’opinione di chi lo fissa all’imperio di Teodosio, è la più comune; ed il lodato Pietro Daniele l’avea abbracciata come semplice congettura, nè disconvennero Taubman, ed altri. Goujet nel suo primo supplimento al Moreri pone tal componimento sotto Teodosio II. Uno squarcio però di esso merita riflessione, e par che lo faccia ascendere sino alla fine del primo secolo, mentovandovisi i Gaulesi della Loira, i quali scrivevano su gli ossi le sentenze di morte pronunziate sotto le quercie: Habeo (vi si dice) quod exoptas; vade, ad Ligerim vivito. Quid tum? Illic jure gentium vivunt homines: ibi nullum est praestigium: ibi sententiae capitales de robore proferuntur, & scribuntur in ossibus: illic etiam rustici perorant, & privati judicant: ibi totum licet si dives fueris, patus appellaberis; sic nostra loquitur Graecia. Questo costume satireggiato nel dramma, ci mena al tempo, in cui i Gaudesi aveano il diritto di vita e di morte, e la giustizia si amministrava da’ paesani rustici senza appellazione. Non era adunque colà ancora introdotta la Romana Giurisprudenza, della quale non pertanto trovansi monumenti ne’ testamenti di san Remigio, di Chadoin di Bertramo, e di Ermentruda. Sappiamo poi che i Druidi furono proscritti da Tiberio e da Claudio; e m. Schoepflin 1 sostiene che sotto Claudio i Druidi rifugiaronsi al di là del Reno. Ora se nella commedia si motteggiano quelle sentenze rusticane capitali date sotto le quercie come tuttavia esistenti, pare che il Querolus dovè comporsi prima del discacciamento de’ Druidi, e non già sotto Teodosio II, quando i Romani aveano introdotta nella Francia settentrionale la loro giurisprudenza, ed erano già state abolite quelle sentenze di morte scritte su gli ossi.
[Errata]
Si aggiungono le seguenti correzioni degli errori corsi nel tomo II dell’edizione napoletana.
ERRORI | CORREZIONI | |
pag. 66, lin. 7 | ||
Tu fra que’ dieci |
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Te fra que’ dieci |
pag. 84, linea penultima ed ultima |
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con felicità la secondano, sono copiate al naturale da lo pre |
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con felicità la secondano, sono copiate al naturale dalle procedure |
pag. 113, lin. 19 |
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sempre io t’ami |
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sempre io ti amai |
pag. 190, lin. 1 |
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Tum verò pavidâ sonipes |
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Tum verò pavidâ sonipedes |
pag. 236, lin. 20 |
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a un cenno del popolo doveano snudarsi |
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a un cenno del popolo, nel tempo de’ Giuochi Florali, doveaao snudarsi |