Introduzione
1.
Quando, nella primavera del 1708, Martello giunse a Roma, aveva da poco compiuto i 45 anni; si lasciava alle spalle un’intensa stagione di sperimentazione melodrammatica nel circolo del marchese Giovan Gioseffo Orsi1, una discreta attività di poeta arcade e una vivace vita accademica tra le file degli Accesi e dei Gelati2. L’incontro con la Roma di Gravina e Crescimbeni, in un contesto culturale quanto mai teso che sfocerà nello scisma del 1711, proietta la propensione didascalica del periodo bolognese sullo schermo tiberino, inducendo Martello a esporsi pubblicamente in qualità di tragediografo3 e critico. Tra il 1709 e il 1710 escono infatti il Teatro (che comprende cinque tragedie premesse dal trattato Del verso tragico), Comentario e canzoniere, e Versi e prose che raccolgono il poemetto Degli occhi di Gesù (in ottave), il dialogo Del volo e la Poetica in terzine.
Timoroso dell’accoglienza che le sue tragedie in martelliani avrebbero avuto, Martello meditò a lungo sulla diffusione del Teatro; nel maggio del 1710, infatti, rispondeva a Muratori che ne aveva accusato la ricezione:
V’accorgerete dalla prosa il gran studio che mi costano queste apparenti negligenze delle tragedie. Io vi credo assai saggio per capire come debba parlare un attore; ma pochi sono in Italia atti in questo a dar buon giudicio; e però appena pubblicate, le tengo come suppresse, sì perché ne ho in prova altre due che voglio aggiungere a queste quando usciran dalla lima, sì ancora perché in queste voglio prima udire il giudizio de’ giornalisti franzesi, a’ quali procurerò di farle avere a suo tempo4.
La ‘pubblicazione’ del teatro, dunque, dovette sopravvenire qualche tempo dopo la sua impressione, probabilmente all’inizio del 1711, come avverte un’altra preziosa testimonianza di Eustachio Manfredi, che mostra di apprezzare le tragedie di Martello e in particolare l’Ifigenia in Tauri, riferendo altresì lo stupore dei Bolognesi di fronte a un versante della produzione martelliana di cui erano del tutto all’oscuro5. Lo stupore, tuttavia, dovette presto trasformarsi in sconcerto e poi in esplicita condanna, come avverte ancora Manfredi nel giugno di quell’anno: «So qualche cosa delle persecuzioni che voi mi accennate di avere in Bologna, ma so anche che sono appunto ridicole e che l’effetto universale sarà per noi
6.»
Certo il ‘martelliano’ non piacque al marchese Orsi7, ma le allusioni a un incalzante partito ‘marchigiano’ di austera imitazione classicista lasciano intendere che tra i detrattori delle tragedie di Martello ci fosse anche Domenico Lazzarini, che dopo un lungo soggiorno romano durante il quale era entrato in contatto con Gian Vincenzo Gravina, Giusto Fontanini e Domenico Passionei, si era trasferito a Bologna nel 1709 per ripartire solo nell’estate del 17118.
Né più sereno doveva essere il clima romano, dove proprio nel 1711 matura lo scisma arcadico di cui Martello informa l’ignaro Manfredi, che così commenta:
Ma si può sentire cosa più ridicola di quella dello scisma arcadico? Ho avuto a crepar dalle risa leggendo il Monitorio e le lettere crescimbeniane al march. Orsi. Veggo che il capo della divisione è Gravina e nel poetico ha fra gli altri l’abate Rolli di cui ho lette cose buone. Con tutto però che questi scismatici componessero meglio degli Arcadi Cattolici, non mi pare che dovessero far la commedia di separarsene, che è quella gli mette dal lato del torto. Oh che bella cosa9.
È verosimile che in questo contesto, fatto anche di letture private dei testi teatrali, maturi il consenso martelliano alla prova delle scene, alla ricerca del duplice verdetto dei ‘tecnici’, cioè degli attori, e del pubblico. Entrambi non mancarono di giungere benevoli — per quanto filtrati da resoconti di parte — nell’estate del 1711, quando su iniziativa di Scipione Maffei o di Gian Gioseffo Orsi i coniugi Riccoboni allestirono la prima veronese della Ifigenia in Tauri 10.
Il successo di pubblico, tuttavia, non dovette appagare Martello che, a leggere la struttura dell’Impostore (questo il titolo della prima redazione del Della tragedia antica e moderna, apparsa nel 1714), concepì il dialogo come una coerente difesa delle proprie scelte di tragediografo in esplicita risposta tanto a Gravina, di cui nel 1712 erano uscite le Tragedie cinque premesse da un Prologo storico-teorico (esplicitamente citato nell’Impostore)11, quanto agli sterili osservanti aristotelici.
Una prima traccia di questa ricerca erudita sono probabilmente le pressanti richieste di un Vitruvio (ripetutamente evocato in TrAM come fonte autorizzante la gestione più libera dell’unità di luogo)12, avanzate per lettera all’amico Manfredi già nell’ottobre del 171213, sei mesi prima della partenza per Parigi; contestualmente Martello avverte il corrispondente bolognese (non si dispone, allo stato attuale, delle missive martelliane) dell’edizione graviniana delle Tragedie cinque, verso le quali Manfredi non manca di manifestare una specifica curiosità: «Saprei volentieri in qual metro sieno le tragedie di Gravina. Io vorrei vedere cotesti greci metter in scena una tragedia di gusto loro. Mi par impossibile che persona l’ascoltasse; e l’Arcadia è ella riunita14?»
; la risposta martelliana dovette essere tale da smorzare gli entusiasmi di Manfredi: «Mi avete fatto passar la voglia di leggere le tragedie del Gravina colla descrizione che me ne fate. Io era persuaso che si darebbe nel secco, come ci danno sempre cotesti greci moderni, e fanno tanto mistero della loro erudizione e godo che così appunto sia accaduto15»
. La partita si sposta a questo punto dalla pratica scenica (sempre presente alla teoresi martelliana) alla ricerca erudita volta a controbattere con le stesse armi al partito dei’ Greci’16.
2. Il viaggio a Parigi e la stesura dell’‘Impostore’
Nel marzo del 1713, poco prima della partenza al seguito dell’ambasciatore pontificio a Luigi XIV Pompeo Aldrovandi17, Martello fu raggiunto da una stringata lettera di Manfredi: «Mi giunse nuova che vi sia chi scriva contro le vostre tragedie, le quali, per quanto sieno censurate, si difendono assai da se stesse. Tuttavia non lascerò mai di prendere le vostre parti in qualunque occasione possa nascerne, e se saprò qualche novità, ve ne scriverò in Francia
18.»
Incalzato dal fantasma di un anonimo polemista Martello partì da Roma nel marzo del 171319, portando con sé le tragedie già composte e qualcosa di più che il vago progetto di un’apologia20.
A dispetto dell’ottica comparatistica e delle ripetute allusioni al contesto parigino che hanno funzionato da validi depistaggi21, TrAM affonda le proprie radici proprio nell’ambiente romano animato dallo scontro tra Arcadi e Quirini. Non solo le questioni affrontate sono interne al dibattito italiano, anche nell’impellenza di confrontarsi con i risultati drammaturgici e scenici transalpini, ma quasi tutti italiani o latini sono gli autori citati a corredo. D’altro canto per allegare quelle poche fonti francesi, il sodale di Orsi non aveva certamente bisogno del soggiorno parigino: Ménestrier (Des représentations en musique anciennes et modernes, 1685), con cui dialoga sulla questione della musica antica, gli arrivava dalla disputa tra Fontanini e Muratori sulla natura della tragedia antica se cantata interamente o solo in parte22, i tragici francesi citati — tra cui anche Philippe Quinault — erano tutti noti in Italia, ripetutamente allestiti sui palcoscenici romani e bolognesi, se non addirittura tradotti da Martello. I teorici Rapin e Lamy erano già stati messi a frutto nel 170923; lo stesso Saint-Évremond era non solo poco noto in Francia ma anche piuttosto attardato24. L’impasse linguistica, candidamente confessata in una lettera a Ubertino Landi del giugno 1714 («Io vorrei essere a Parigi ora che mi riesce un po’ il ciangottare25»
), inoltre, proietta ombre lunghe sull’effettiva possibilità di interagire con i letterati francesi conosciuti al Café du Pont-Neuf26 o nella soffitta di Fontenelle27. Infine, bisogna tener conto dei tempi di composizione del trattato, scanditi dalla testimonianza inedita di Ubertino Landi, nel cui Diario dei miei viaggi, si legge in data quattro luglio 1714:
Dopo pranzo il sig. Martelli vi ha lette tre delle quattro sue giornate che sta componendo sopra varie parti della tragedia; egli l’intitola l’Impostore ed introduce a parlare Aristotile con cui finge essersi abboccato nella galera: la prima giornata è da Genova a Savona; la seconda in Savona appiè del colle dove abitava il Chiabrera. La terza alla Madonna della Guardia a Marsiglia, la quarta è qui in Parigi fra le belle verdure delle Tuillerie. In questo discorso immortala ancora il mio nome inserendolo più per comprova alla bella inclinazione ch’ha per me che per dare alcun risalto a questa sua opera piena d’una profonda erudizione e di una somma dottrina e vestuta d’un leggiadrissimo stile28.
È poco credibile che Martello, che era giunto a Parigi il 29 maggio29, nel primo mese del soggiorno sulla Senna avesse avuto il tempo di ideare e distendere le prime tre sessioni; tanto più inverosimile l’ipotesi che abbia potuto dialogare con la cultura francese e travasare gli stimoli di quelle conversazioni nelle prime tre ‘giornate’ dell’Impostore.
Ciò che Martello fece, certamente, è confrontarsi con la scena parigina, con la recitazione degli attori e la specificità della danza francese, per tradurre tutto ciò nella quarta ed ultima sessione del dialogo. È ancora il Diario di Landi del quattro luglio: «Dopo sì geniale lettura sono andato con esso [Martello] e col sig. abbate Conti all’Opera. Hanno rappresentata la Fedra e l’Ippolito di M.r Racine, la Demare famosa ha riportato il solito suo vanto30»
. Neanche dieci giorni dopo può aggiungere: «Il sig. Martelli al suo Ostello di Tavanne mi ha letta la sua quarta giornata con Aristotele nel teatro delle Tuillerie31.»
È l’esperienza diretta e originale che Martello vive al Théâtre de la rue des Fossés-Saint-Germain che lievita nella quarta giornata dell’Impostore (la sesta sessione di TrAM), in cui Martello confronta la prossemica francese con quella degli ‘Italiani’, analizza la declamazione e la recitazione di Marie-Hortense Racot de Grandval Botot (Dangeville), di Pierre Trochon (Beaubourg), di Christine-Antoinette-Charlotte Desmares (Lolotte) e di uno dei fratelli Quinault. La vivacità delle annotazioni e il dettaglio della descriptio, infatti, non lasciano dubbi sulla natura visiva e per nulla libresca dell’esperienza diretta.
Le impellenze maturate nell’occhio del ciclone romano-felsineo e la frequentazione della scena parigina si fondono così in un organismo coerente e coeso nella sua struttura, in cui le spinte polemiche sono ben calibrate dagli spunti odeporici e da un confronto — di parte ma sempre sereno — con il teatro francese. L’Impostore — edito in Francia dopo la partenza di Martello e grazie alle cure di Antonio Conti, che, come si è visto, entrò nel laboratorio del dialogo32 — è un dialogo in sole quattro sessioni, dedicate rispettivamente: alla discussione e all’invalidazione della porzione della Poetica aristotelica dedicata alla ‘favola’ tragica in esplicita polemica con il Gravina di Della ragion poetica; alle unità pseudo-aristoteliche e alla liceità della mutazione di scena; allo ‘sceneggiamento’ nella tragedia antica e in quella moderna, ai soliloqui, alla legittimità di accogliere l’amore come tema tragico, al fine politico della tragedia nelle moderne monarchie; alla declamazione, recitazione, ballo e costume dei Francesi e degli Italiani. Le quattro sessioni dialogiche (due rivolte agli oppositori italiani, due più aperte al confronto con la pratica scenica francese) si inseriscono in un itinerario odeporico perfettamente coerente con quello annotato da Ubertino Landi nel suo diario, che parte da Genova su una nave che ospita la prima sessione e che giunge a Savona, dove, in prossimità della villa di Chiabrera a Vado Ligure, si inserisce la seconda sessione; prosegue quindi verso Agay Saint-Raphaël, Saint-Tropez e Tolone, per giungere a Marsiglia, sulla cittadella della quale si incunea la terza sessione. Risalendo il Rodano Martello attraversa Lione, contemplata dall’alto di Notre-Dame de Fourvière, e prosegue lungo la Saona verso Trévoux e Chalon-sur-Saône, da cui riparte in diligenza verso Parigi: qui, dopo aver visitato l’acquedotto di Marly e Versailles incontra Aristotele al teatro de la rue des Fossés-Saint-Germain, che gli dà appuntamento al giardino delle Tuileries, dove si svolge, tre giorni dopo, la quarta sessione.
In questa prima redazione la tentazione di scrivere un ‘commento dialogato’ alla Poetica, in risposta alle letture del corrente classicismo, dovette essere forte, per quanto smontata dall’intelligenza martelliana in una serie di affondi mirati sulla ‘favola’ e le pseudo unità aristoteliche, cui segue una sezione più moderna e movimentata che sfrutta le disparità nazionali (Italia e Francia) e storiche (gli antichi e i moderni) per relativizzare il modello classico e avvalorare le scelte drammaturgiche degli Italiani (il soliloquio degli Italiani vs il confidente dei Francesi; la tragedia amorosa dei Francesi; la correzione del concetto aristotelico di ‘catarsi’; il necessario aggiornamento di modelli classici inattuali in una realtà politica profondamente diversa da quella dell’Atene del V secolo). L’ultima sessione, quella dedicata alla recitazione, strizza l’occhio ai coniugi Riccoboni (VI.[128]), protagonisti del collaudo scenico dell’Ifigenia in Tauri di Martello, e all’agonismo maffeiano (VI.[135]) misogallico, ravvivato nel bolognese dal confronto diretto con la tradizione d’eccellenza tragica di Corneille e Racine.
3. La revisione del 1714
Tornato a Roma nell’ottobre del 1713, Martello si rituffa nella torbida vita intellettuale capitolina: il ventidue ottobre del 1713 avverte Muratori dell’uscita delle Tragedie cinque di Gravina, accompagnando la notizia con un giudizio preciso sulla loro irrappresentabilità33. In quei mesi, infatti, frequenta tanto l’ala crescimbeniana dell’Accademia (cui resterà formalmente fedele), quanto i Quirini, facendosi latore di una loro richiesta poetica a Eustachio Manfredi34. Il confronto con le discussioni romane, e con Gravina in particolare35, dovette rendere impellente in Martello un ampliamento del testo originario, che rispondesse alle critiche del fronte bolognese, graviniano e francese (filtrato da Conti). La revisione era già avviata nel giugno del 1714, quando poteva avvertire Muratori:
Sono in Italia i Dialoghi stampati in Parigi dopo la mia partenza, e sono in viaggio verso costà dove io facilmente li darò al foco, non essendo stato mia mente che escano prima dell’averli io rivisti e accresciuti siccome ho fatto in Italia e vederassi a suo tempo36.
Della natura di questa seconda revisione non è possibile, allo stato attuale, dire molto se non ipotizzare che Martello avesse già integrato il passo di Bulinger (III.[90]-[97]) sulla presenza delle donne nel teatro latino in risposta alle critiche giuntegli dai ‘lettori’ parigini37. Conti, infatti, doveva aver trasmesso al Bolognese la tesi di un ‘erudito francese’ (così viene indicato in TrAM, III.[90]), secondo la quale le tragedie amorose si erano rese necessarie per compiacere il pubblico femminile, nell’antichità non ammesso in teatro. Ed ecco la piccata risposta di Martello:
Monsieur,
Vous havez, Monsieur, sacrifiè vostre credulitè a cettes François avec trop d’asseurance. Ils vous disent que Les fames n’intervenoint pas aux Theatres. Ils disent fort mal. Vous n’havez que a lire le Chap. 24 du premier Livre del Boulenger, et Vous etrez convaincus combien ils vous ont imposè. Voilà le principal fondement de vostre Amour dans la tragedie, qui est tombè. Aprenez donc, Monsieur, a ne vous fier a cettes Imposteurs, qui avec una franchesse surprenant vendant ses chymeres aux italiens pour rire de nostre bone foy dans le cabarets e dans les Cafeès38.
Il giorno dopo lo stesso Martello avrebbe prontamente riferito l’accaduto a Ubertino Landi:
Ma se quei Franzesi sono impostori! e con qual franchezza! Han dato ad intendere al povero abate Conti che le femmine greche non andavano alla comedia, ed egli se l’è creduto, e su ciò fonda che noi dobbiamo far capital degli amori, perché i nostri teatri son pieni di donne, dove, essendo rimosse dal teatro antico, questa effeminata passione venia trascurata dai loro tragici. E pure nel teatro latino vi era insin il luogo per le vestali e nel teatro greco vi era una legge a posta perché le donne sedessero nel teatro a vista de’ forestieri, secondo le greche autorità che porta il Bulingero. Io tutto ho scritto all’amico, insinuandogli il non darsi così per vinto ai Franzesi: facendoci dell’imposture, vanno poi a ridere ne’ loro caffè della buona fede di noi Italiani39.
Nella stessa lettera francese a Conti, Martello si diffonde anche sulle critiche che paventa dal fronte interno, ovvero da Gravina di cui annuncia al corrispondente la prossima uscita del Della tragedia:
L’abbè Gravina sortirà d’abord avec un traitè sur la tragedie, e peut estre il me peignera fort bien, mais il scait que Je le craigne moin que les françois, et il va a exciter ma plume a quelque plaisenterie qui le renderà autant ridicule q’il le merite. Il faut faire la guerre all’Imposteure, Monsieur; c’est une maxime generale, et que sied fort bien aux esprits qui aiment la verità depouillià de prejudices; et Vous qui etez Algebratique devez estre de la partie40.
4. Il Della tragedia antica e moderna
Sarà proprio per rispondere alle critiche implicite che leggerà nel Della tragedia di Gravina che Martello rivedrà una seconda volta il testo dell’Impostore aggiungendo due lunghe, specifiche sessioni. Se non si vuole accogliere l’eventualità che il Bolognese sia entrato in possesso di una copia manoscritta del trattato di Gravina, tale ‘aggiunta’ non potrà che essere successiva alla pubblicazione del trattato (il cui imprimatur è datato settembre 1715), ovvero assegnabile all’ottobre-dicembre del 1715, quando poteva non solo nominare espressamente il ‘giureconsulto’ nell’A chi legge, ma — come ha dimostrato Grazia Distaso e come il commento puntualmente conferma — citare e ironicamente rovesciare il dettato graviniano in diversi passaggi.
Capovolgendo la prospettiva, TrAM consente di precisare, dunque, almeno una parte (quella impugnata da Martello) degli attacchi rivolti al Bolognese e al suo teatro: rispetto all’edizione del 1714, infatti, i dialoghi italiani presentano, oltre minute e più ampie varianti, alcuni inserti di considerevole estensione41:
I.[39-88]: critica della ‘grecolatria’ e di una poetica dell’imitazione servile;
II.[25-44]: contro l’‘idealismo’ dei filosofi;
IV.[18-203]: sulla natura del verso italiano e sulla rima; il ritratto del ‘vero impostore’ (Gravina);
V.[24-246]: sul melodramma.
La breve sinossi indica chiaramente le linee correttorie che portano all’edizione del 1715: dei quattro inserti, il primo è indirizzato contro il classicismo oltranzista (dei vari Lazzarini e Dacier42), quello della seconda sessione impugna le pretese graviniane di desumere da un’idea astratta le regole della ‘perfetta tragedia43’, mentre il terzo e il quarto supportano le scelte drammaturgiche martelliane, espressamente accusate anche dal partito graviniano: l’adozione della rima e l’ideazione del ‘martelliano’, e la trattazione del ‘melodramma’, un monstruum fonte di indicibile e utile piacere44.
5. Un durevole successo
Ristampato nel 1735 senza varianti nella raccolta delle Opere 45, TrAM fu riproposto integralmente solo nel 1963, nella collana degli «Scrittori d’Italia» per le cure di Hannibal S. Noce46. Il lungo oblio editoriale non deve tuttavia trarre in inganno sulla vitalità della riflessione martelliana nel corso di tutto il Settecento. Durante gli anni Venti, TrAM è il sottotesto del riformismo tragico di Zaccaria Valaresso, che da Martello mutua anche l’inclinazione a vestire le proprie proposte drammaturgiche e critiche di panni ludico-parodici47. E fedele al magistero martelliano resta anche Luigi Riccoboni in nel poemetto Dell’arte rappresentativa 48. Scomparso l’autore, tuttavia, la riflessione martelliana sulla tragedia viene spesso ridotta alla sola proposta del ‘doppio settenario’ rigettata tanto dal Calepio del Paragone della poesia tragica d’Italia 49 quanto dal Bianchi del Dei vizi e dei difetti del moderno teatro 50, ma contemporaneamente accolta sulle scene veneziane comiche, grazie a Pietro Chiari e, malgré lui, Carlo Goldoni.
L’attenzione verso il Bolognese rimase viva, se si presta fede a Goldoni, anche attraverso la rappresentazione di testi minori come lo Sternuto d’Ercole 51, nella cui dedica a Ubertino Landi si leggono en raccourci le linee portanti della critica martelliana. Ed echi martelliani, d’altra parte, è lecito sentire anche nei Mémoires goldoniani, non solo nel piccolo ‘trattato’ sull’opera seria, ma ancor di più nell’indugio su alcuni luoghi topici di Parigi52.
Nota filologica
Testimoni
L’impostore
L’IMPOSTORE. | DIALOGO | DI | PIERIACOPO MARTELLO. | Sopra | LA TRAGEDIA | ANTICA ET MODERNA. | AL SERENISSIMO | DELFINO. | [freg.] | A PARIS, | De l’Imprimerie de SIMON LANGLOIS, | ruë S. Etienne d’egrès. || M. DCC. XIV. | Avec Approbation & Privilege du Roy.
[8], 93, [3] p.; 8°.
Es.: VE, Biblioteca Nazionale Marciana, C.101.C.117.
Provenienza: Apostolo Zeno.
Contiene: p. [2]: bianca; [3]-[8]: dedica; 1-20: sessione I; 21-39: sessione II; 39-62: sessione III; 63-93: sessione IV; [1]-[3]: Approbation e Privilege du Roy.
TrAM 1715
DELLA | TRAGEDIA | ANTICA E MODERNA | DIALOGO | DI | PIERJACOPO | MARTELLO | [ill.] | IN ROMA | PER FRANCESCO GONZAGA in Via lata || MDCCXV. | CON LICENZA DE’ SUPERIORI.
[2], 236, [4].
Es.: Ann Arbor (Mitchigan, USA), Library of the University of Mitchigan, 808.2 M376de (digitalizzato da Googlebooks).
Contiene: p. [1]: bianca; [2]: antiporta calcografica: allegoria della Tragedia; 1: frontesp.; 2: bianca; 3-4: A chi legge; 5-38: sessione prima; 39-65: sessione seconda; 65-98: sessione terza; 98-152: sessione quarta; 153-200: sessione quinta; 201-236: sessione sesta; [1]-[4]: Indice delle cose notabili.
La presente edizione mette a testo TrAM, apportando minime modifiche alla veste grafica e testuale.
Si è ritenuto di intervenire sulla paragrafatura per agevolare la lettura del testo, continuo in TrAM 1715.
Si è intervenuti sulla punteggiatura, spianando la virgola davanti al che dichiarativo e nel caso di relativa restrittiva. Ad analoghi principi di leggibilità è stato improntato l’adeguamento dell’uso delle maiuscole ai criteri correnti. Si è sempre segnalato il discorso diretto con i due punti e il trattino medio di apertura e chiusura.
Si è poi sostituita la -j- intervocalica con -i-, conservandola in jambo e jachetti, dove ha un valore semiconsonantico, e l’eccezionale nesso assibilato -ti- con -zi- (patienza → pazienza, ecc.).
Si sono sciolte le abbreviazioni convenzionali di M.e → madame, P. → padre, ma non quella di M.r che può dare esito a diverse grafie.
Si sono corretti i seguenti refusi:
I.[32] interpetri → interpreti; I.[63]: sue → tue; I.[99]: suoi → tuoi; II.[69]: quuali → quali; IV.[147]: Antologia → Antilogia; V.[11]: sia → sin; V.[44]: se → te; V.[236]: si → ci.
Della tragedia antica e moderna
A chi legge
[Intro.1] Non pretende l’autore di questo dialogo di trattare in esso interamente della tragedia. [Intro.2ED] Ciò, al creder suo, è un ricantare una crambe replicata più del bisogno; e, quando se ne richiedesse un trattato più universale e compiuto, invia i lettori ad un volume, che poco fa è uscito o sta per uscire alla luce, del signor dottore Vincenzo Gravina calabrese. Intende qui solamente di toccare alcune differenze fra l’antica e moderna tragedia; donde ei deriva curiosa occasione di altercar ragionando. [Intro.3ED] Al qual effetto introduce un impostore, in cui figura uno di quei ciarlatani che tutto dì udiamo spacciarsi per chimici e posseditori del decantato segreto dell’universale rimedio, chiamato per essi ‘elissire’; colla quale invenzione costui si finge Aristotile e reca in campo varie apparenti ragioni a cui non ben quietandosi il nostro autore, venera nondimeno gl’insegnamenti del vero Aristotile in bocca sua e così dileggia l’impostore, ma riverisce e rispetta il Filosofo.
[Intro.4] Nel trattare, poscia, particolarmente del dramma per musica, ha egli adoperate alcune parole che sono per avventura in commercio, ma che però non si leggono nel Vocabolario, e di queste dimanda perdono, che spera di conseguire dagli accademici trattandosi di termini comunemente accettati in lingua che tuttavia vive e cresce, e che per or non ha in pronto vocaboli equivalenti.
[Intro.5] Protesta finalmente l’autore che quantunque non sappia aver detto cosa di cui la nostra santa religione possa offendersi, pure, se qualche parola gli fosse sfuggita delle usate per chi compone, intende di conservare sino alla morte sentimenti indubitati di vero cattolico. [Intro.6ED] E vivi felice.
Sessione prima
[1.1] Sempre fu pieno il mondo e sempre lo sarà d’impostori, e questa è una certa razza di spiriti o torbidi o disperati, che quantunque sieno detestabili per la lor professione, non sono però affatto disprezzevoli per qualche ardir di talento che gli fa spiccare fra gli uomini e senza il quale mai non può regger l’impostura. [1.2ED] Quindi è che avvenutomi a’ giorni miei con un di costoro, mostrai di pendere interamente da’ suoi bizzarri ragionamenti, imperocché, se bene questi mi movevano a tali risa che io stentava molto a sopprimerle, nondimeno dalle materie poi delle quali meco trattò, lo conobbi per un ingegno da non deridersi e tale insomma da raccontarne i discorsi, siccome intraprendo con quelle curiose circostanze che dalla mia qualsiasi memoria mi saranno suggerite e dalla mia poca eloquenza permesse. [1.3ED] Navigava io lungo la frequentata e vaga riviera di Genova verso Savona, nella più allegra e nobile compagnia che mai potesse per viandante desiderarsi, godendo io la gloria di servire nell’importantissima sua pontificia spedizione per le due corti di Francia e di Spagna monsignor Pompeo Aldrovandi, cavaliere di cui la mia patria si pregia come di uno de’ suoi più insigni cittadini per chiarezza antica e non mai interrotta di sangue illustre e patrizio; uomo non men letterato che protettore de’ letterati; prelato insomma a cui, siccome la corte di Roma ha confidate le più gelose delle sue cariche, così comparte i primi luoghi ne’ primi gradi del merito e dell’onore. [1.4ED] Venivano pur sul medesimo legno monsignor Ovardi de’ duchi di Nortfolc e monsignor Aquaviva de’ duchi d’Atri, signori de’ quali bastano i cognomi per saperne la nascita e che alla nascita aveano conformi le doti dell’animo e dell’ingegno. [1.5ED] Lungo sarebbe il registrar qui tutto il numero de’ gentilissimi cavalieri che coronavano la poppa della galera, comandata e diretta dalla cautela del commendatore Piero Minucci per sua Altezza Reale di Toscana che a monsignor Aldrovandi l’avea generosamente conceduta.
[1.6ED] Io, che per uso talvolta mi sottraggo dalla conversazione per desiderio di solitudine, mi dilungava nella corsia quando sulla prua vidi un certo uomo di toga, assai contraffatto della persona, piccolo, gobbo e di un’età che pareami poco minore di settant’anni; ma accostatomi a lui per la curiosità di parlargli, scopersi in esso un difetto ancora di più ed era che ei balbutiva, perché, balbutendo appunto, mi disse:
[1.7ED] — Tu mi guardi con tale attenzione ch’io ben discerno la mia strana figura muoverti a riso che, quantunque dentro respinto dall’onestà tua, non è però che non ti appaia negli occhi ed ora ancor maggiormente che mi odi deforme nel mio pronunziare come mi vedi nella persona; ma qualunque io mi sia, sappi che io te conosco più che tu non credi e se tu pure conoscerai me, spero di separare nell’animo tuo la derisione dalla maraviglia e che questa prevalerà a quella, dimodoché non disprezzerai nel viaggio la mia finora sprezzata conversazione. —
[1.8ED] — Come — io risposi — potrò da qui avanti deridere chi ascolto sì ben ragionare? [1.9ED] Io confesso che cotest’abito del tuo corpo, che altri poteva muovere a scherno, moveva me a compassione per uomo di età sì avanzata e di struttura sì poco adatta a soffrir gl’incomodi del viaggio fra le nausee e gli scotimenti del mare; ma, poiché ti sei dato a spiare il mio interno, io te l’apro ben volentieri acciocché tu scopra senz’alcun velo l’avidità che ho di saper chi tu sia. —
[1.10ED] — Tu vedi — ei soggiunse — un vecchio, secondo l’apparenza, di settant’anni, ma in sostanza uom tu vedi che da giovanetto passato in Atene ivi fu ascoltator di Platone, finché qualche fama di sapere mi elevò (grazie a Filippo re de’ Macedoni) al grado di governatore e maestro del poi sì grande Alessandro. [1.11ED] Ma lode al cielo che ridi scopertamente del mio parlare. [1.12ED] Sfògati, figlio, ch’egli è di ragione, e benché forse non meriti d’esser deriso da un poeta italiano un greco filosofo che oltre all’avere scritti non infelici versi nel proprio idioma, lasciò ricco il mondo di sopra trecento volumi fra’ quali si contano delle Omeriche quistioni sei libri, due dell’Arte poetica, uno delle tragedie, uno della Locuzion de’ poeti e tre de’ Poeti medesimi, il ridere nondimeno ti sia permesso per l’amore di quella verità che tu cerchi e che un mio invincibil genio mi ha posto in animo di scoprirti. [1.13ED] Fa dunque conto che io sia un impostore, ma attendi alle mie ragioni. —
[1.14ED] — Intanto — io seguiva — mi vuoi tu sì credulo che io mi dia per vinto all’illusione di aver sugli occhi Aristotile, di cui sono secoli e secoli che io credo smarrite ancora le ceneri? [1.15ED] Certamente io dirò quello che io lessi aver detto, benché mal a proposito, in altra occasione lo stesso Aristotile: «Costui molto dice, ma niente prova.»
—
[1.16ED] — Io — replicò egli — ho voluto privilegiarti, preferendoti a tanti finora da me conosciuti, e, poiché ho rotto il silenzio, seguirò a dire qualche cosa atta a persuaderti alquanto, se non a convincerti, che io sono Aristotile. [1.17ED] Hai tu mai letto chi fu mio padre? [1.18ED] Fu questi Nicomaco, medico di professione, come saprai; ma sappi inoltre che ei fu ancora chimico sì sventurato che prima della sua morte non poté perfezionar quel rimedio che, sebbene non rende immortale, fa però vivere sì lungamente che uno sciocco arriverebbe a sperare di più non morire. [1.19ED] Io, seguendo in ciò l’arte sua, ne perfezionai un’ampolla della quale un solo sorso bevuto, dopo il sonno di pochi giorni, fa vivere un secolo, e già è per me voto il vetro preservatore e, per quanto io abbia poi faticato coll’arte a riempierlo, la fortuna o il cielo che mi vuol mortale, non mi han secondato, in guisa che io godo di questa luce per l’ultimo secolo. [1.20ED] Tu ridi ancora, né me ne offendo; così ancor io riderei se tu mi dicessi cose lontane dal creder mio. [1.21ED] Ma non hai tu contezza di tanti che han lungamente dormito e si son poscia svegliati a spaventare i posteri loro? [1.22ED] Questi ebbero fortuna non dissimigliante alla mia. [1.23ED] Dormirono alcuni più lungamente perché a misura che il farmaco è più o meno possente, lavora in più breve o in più lungo tempo di sonno una nuova tempra di umori che purgano le viscere infracidite e le ristoran mancanti, ed uom si desta appresso e vegeto e rinnovato. [1.24ED] Ti rammenterai pur anche di aver letto come io, sott’altro pretesto, pria di morire mi feci recare in Eubea due tazze, l’una del vino di Lesbo, l’altra di quello di Rodi, e che gustatone di ambidue, fu il primo per me preferito: lo preferii come più acconcio a custodire lo spirito che furtivamente v’infusi del mio possente preservativo; di modo che quel giorno fu ben fatale a Demostene in Puglia, ma non a me che, fattomi chiuder in una cassa di cedro di cui mi era ascosa nel manto la chiave, ne uscii nascosamente d’indi a pochi giorni, e coll’arte stessa cangiando in oro quanti metalli mi venivano alla mano, diedi nuovo cominciamento alla vita che va a finir pochi lustri dopo la tua. [1.25ED] Ed ecco quanto io posso addurti per render più verisimile quello che io ben m’accorgo te credere tuttavia ostinatamente impossibile. —
[1.26ED] Mentre così ragionava, il nostro Aristotile accompagnava le sue parole con tanta efficacia d’espressione e con tanta vivezza di spirito che malagevolmente io mi do a credere potersi formar un’impostura più animosa, ma tale insomma da compiacersene qualunque più accorto di me si fusse trovato ad udirlo.
[1.27ED] — Or via, in grazia del tuo ragionare — io replicai — mi vo’ far questo sforzo di non crederti per ora impostore. Ma che hai tu fatto in tanti secoli che sei vissuto? [1.28ED] Ti sei tu dato a comporre nuovi libri? [1.29ED] Che se trecento in settant’anni ne hai scritti, quante migliaia ne avrai prodotti in sì lungo agio di età da pubblicarsi, ora massimamente che
la facil troppo invenzion tedesca,
parlo della stampa, ha facilitato cotanto il commercio dell’opere e degl’ingegni? —
[1.30ED] — È che studiando — m’interruppe lo svelto gobbo — sul libro dell’universo co’ viaggi, colle osservazioni e colle varie lingue per me imparate ho consumati tutti i miei anni e ne consumerei altrettanti se il mio destino non mi trascinasse inevitabilmente alla fossa. [1.31ED] Io ti giuro che più d’una volta ho pianto amaramente il mio nome, vedendo l’opere mie più di me stroppiate da’ miei interpreti; e poscia dagli emoli miei e da’ persecutori de’ miei sofismi lacerate e dismesse; e se alcun obbligo mi lega a quelli che vengon creduti miei posteri, questi solamente sono i poeti, i quali non della mia vera Poetica, ma di un piccolo abbozzo della medesima si son fatto un idolo, un giogo, una legge che fra di essi mi rende ancor venerabile. [1.32ED] Questo mio resto di riputazione sia raccomandato anche a te che ne’ tuoi Sermoni hai ardito di pizzicarmi e di appianarmi le spalle che, con tutto il tuo battere, conservansi ancor rilevate. —
[1.33ED] — E come — io soggiunsi — i miei Sermoni sono elevati all’onore d’esser passati ancor sotto gli occhi d’un Aristotile? —
[1.34ED] — Se questo è onore — egli rispose — l’hanno i tuoi Sermoni, il tuo poema, i tuoi dialoghi e le tue tragedie ottenuto. [1.35ED] Ed eccoti già nella curiosità d’intendere quel che io ne giudichi, però ti prego a non curarti del mio giudicio, ma di quello dell’università de’ letterati, che difficilmente s’inganna; ed ora massimamente che nella vostra Italia si pesano assai saviamente gl’ingegni. —
[1.36ED] — Parliamo almeno — io aggiungeva — della tragedia; né già è mia intenzione d’esaminare tutte le parti della medesima, mentre la legge della tua o non tua Poetica, ma che sotto il nome d’Aristotile va per le bocche degli uomini, è in alcune parti le più essenziali accettata e da’ moderni e da me, e in ciò non vi è discrepanza fra le antiche tragedie e le nostre. [1.37ED] Intendo voler ragionare di alcune cose che non ritrovo io ne’ drammi su’ quali hai tu fondata la regola che prescrivi e che presentemente (e abbaino i critici) si frequentano e piacciono. [1.38ED] E se tu hai veduto rappresentare le favole d’Eschilo, di Sofocle e di Euripide a’ tuoi primi giorni, siccome a’ nostri quelle de’ due Corneli, del Racine, del Capistron, del Fosse, del padre Colonia, del Crebillon, del Grange e di tanti altri poeti franzesi, giudica un poco se è ragionevole il recedere dal metodo antico per oneste cagioni o se sia dicevole l’aggiungere angustie nuove a quelle in che ha ristretti gl’ingegni la tua Poetica. [1.39ED] Ma lascia in pria ch’io mi sfoghi contra cotesti adoratori della tua Grecia, la quale a me non è dio, ma è bene una parte di mondo da cui riconosco la venuta delle bell’arti in Italia. [1.40ED] Ci sono certi invidiosi della felicità del loro secolo che attribuiscono tutto a’ passati e massimamente a quelli ne’ quali fiorivano i Greci; non vogliono che si possa più conseguire altra gloria che quella del somigliarli come ombra corporea. [1.41ED] Io mantengo che costoro sono pazzamente invidiosi della moderna gloria e sono evidentemente ingiusti al nostro confronto, non invidiando noi agli antichi l’onore di primi inventori. [1.42ED] Vogliamo ancora liberalmente attribuire a’ tuoi Greci qualche parzialità della provvidenza divina che abbia meglio organizati e disposti que’ primi ingegni destinati per essa ad inventare, con simmetria che potesse accreditarsi fra gli uomini, quelle cose che dovean servir d’esemplare e procacciar de’ seguaci; laonde si sono propagate tutte le arti nella posterità. [1.43ED] Vogliono di più i vostri Greci? [1.44ED] Vengo sino ad inventarmi un miracolo per lodarli. [1.45ED] Ma perché ti sei posta tu la parrucca se cotesta, a’ tempi che dici tuoi, non usavasi? [1.46ED] Perché non vesti col pallio greco e perché non copri il tuo dorso con catenelle d’oro, siccome è fama che allora tu adoperassi? [1.47ED] Tu mi dirai d’aver mutate le vesti perché il mondo pur le ha mutate e così, per non parer singolare, ci comparisci figura antica in questo moderno equipaggio. [1.48ED] Ma, comunque siasi, non trovi tu niente di buono e di ragionevole nel vestir nostro e nelle nostre parrucche? [1.49ED] Coteste adornano pur la testa anche secondo il gusto di voi altri Greci, che l’amavate chiomata con ricci delicatamente pettinati ed unti. [1.50ED] Si può pur con essi alleggerir la state e maggiormente munirla l’inverno, dimodoche l’emicranie non sono più sì frequenti e si trovano più comode quelle teste che al lor bisogno e temperamento proporzionano l’artificiosa capellatura. [1.51ED] Ma perché voi altri Greci non imbandir di ghiande le tavole, giacché questo era il cibo della famosa età di Saturno? [1.52ED] E se per ghiande intendete tutte le frutte, ve la fo buona, non mangiate, dunque, che frutte; e non bevete che acqua. [1.53ED] Ma mi direte d’avere voi migliorato il sistema de’ vostri rozzi antenati colle carni e col vino, perché massimamente dopo il diluvio non si convince che coloro vivessero più di voi, se si ha la dovuta fede agli storici. [1.54ED] Ma io vi soggiungo che noi pure abbiamo migliorata la condizion vostra nel cibo, e le zuppe franzesi e i lusinghieri ragù e i teneri arrosti non ti spiaceranno, tanto più che vedo pochissima differenza fra l’età vostre e le nostre. [1.55ED] Io non voglio correre per gli esempli perché altro che poche sessioni si richiederebbono al nostro ragionamento, né ti credo lontano dal concedermi quanto in simil materia per avventura adducessi. [1.56ED] Nella poesia sì che sta tutto il guaio, perché questa fu, per così dire, inventata e certamente perfezionata nelle teste d’Eschilo, di Euripide e di Sofocle, per parlare (come abbiam proposto) della tragedia. [1.57ED] Ma, padre mio, io so che le tragedie franzesi piacciono più delle vostre e la ragione vi dee ben essere, perché senza valente ragione egli è poi difficile, sapete, il lungamente ingannar l’universo. [1.58ED] Piacciono forse per la corruttela del costume? [1.59ED] Ma le vostre son pur piene di assassinamenti, d’incesti ed appariscono assai più scostumate di quelle che oggi sui palchi rappresentiamo. [1.60ED] Anzi, se il mondo è più scellerato, per questa stessa ragione gli dovrebbero piacer più le vostre. [1.61ED] Vi sono alcune cose mirabili nei tre citati poeti, ma ve ne sono delle insoffribili, e chi queste imita se meriti fortuna nol so, so ben che non l’ha. [1.62ED] Si sfogano i secchi poeti contra i moderni, trovando nell’Aminta, nel Torrismondo, nel Pastor fido gravi difetti e vi sono. [1.63ED] Ma la maggior parte de’ loro difetti e sopra de’ quali si strepita maggiormente è il non aver osservate le regole tue, che tutte sono ragioni nate dall’esempio e dall’applauso comune, e ciò vuol dire che non han seguitati in ogni lor parte gli esempi lasciatici, come in retaggio e in fidecommisso, da’ Greci. [1.64ED] Ma costoro hanno un bello sfiatarsi pubblicando volumi pieni di allegazioni colle quali ostentano di aver rivolta una biblioteca di uomini, l’uno de’ quali ha copiato l’altro siccome certi li copiano tutti. [1.65ED] Schiamazzino pure, si facciano de’ seguaci, moriranno di voglia che i criticati drammi perdano appresso de’ letterati la stima, vedendoli sempre più rinomati moltiplicar per le stampe. [1.66ED] Scoppieranno mirando li loro abbandonati, e nelle loro agonie non faranno ch’esaggerare il pazzo gusto del secolo, appellando al giudicio di una più saggia posterità. [1.67ED] Io pretendo che il mio esemplare infallibile siano non già i Greci soli, ma la natura, e che siano il mio fondamento non già i soli tuoi scritti né quelli de’ tuoi comentatori, ma la ragione. [1.68ED] Essendo, a mio credere, ne’ tragici Greci molte sconvenevolezze di cose che patiscono una necessaria mutazione dal tempo, queste si debbono compatire e, s’uom lo voglia, lodare, ma non giammai imitare; e giova il sostituir ad esse le nostre che si conformano all’uso. [1.69ED] Ve ne sono ben poi delle altre che non patiscono mutazione da’ tempi, ed in queste si vogliono condannare e, per chi lo può, riformare. [1.70ED] Ecco la massima con cui si debbono leggere ed osservare le antiche tragedie ed ecco quanto io posso dire di quelli che leggono i tragici greci in ginocchioni; e son certo che Sofocle ed Euripide ne direbbero forse lo stesso ed amerebbero più me che imito le loro virtù, di cotesti che i loro vizi esaltano e propagano, e non per carità verso i poeti greci, ma per amore che hanno disordinatamente a sé stessi, col pretesto di renderli venerabili, li rendono ingiuriosamente spregevoli. Aristotile, questo è un episodio che ha che fare con la materia non meno di quel delle navi che tu tanto lodi per la connessione sì necessaria che ha con la favola dell’Iliade. —
[1.71ED] — Ma tu non avverti — soggiunse il vecchio — che i Greci sono stati perfetti in quell’arti che han molta somiglianza alla poesia? [1.72ED] La pittura, la scoltura e l’architettura sono riuscite appresso di noi perfettissime; e da’ nostri artefici i vostri han ritratto quanto è di buono nelle opere loro senza giammai arrivarci. [1.73ED] Tu vedi che l’Ercole de’ Farnesi e la Venere de’ Medici sono i prototipi delle corporature umane imitate; e felice quello che sa più degli altri accostarsi a questi perfetti, buoni e delicati modelli dell’arte. [1.74ED] Gli ordini poi greci nell’architettura sono stati la regola e l’ornamento della superba Roma, di cui ammiriamo ancora gli avanzi. [1.75ED] Della pittura che non si vede, il lungo tratto de’ secoli è in colpa. —
[1.76ED] — Ma — ripigliai io — ti si conceda quanto tu dici sopra il valore de’ tuoi scultori, de’ tuoi dipintori e de’ tuoi architetti. [1.77ED] Io, quanto alla pittura, so che avrei molto che dire; e so che se tu hai veduto Apelle, non ti rammaricherai più che tanto che le sue pitture non vivano a fronte di quelle di Rafaele, di Tiziano, del Buonaruoti, del Parmigiano, del Correggio, di Paolo, de’ Caracci, del Primaticcio, del Tibaldo, di Guido, del Zampieri, dell’Albano, del Barbieri, del Maratta e del Cignano e de’ loro più valenti scolari, perché mi lusingo che la gloria greca in ciò non supererebbe la nostra. [1.78ED] Nella scoltura che si conserva io vedo un’immagine che àltera e migliora il vero senza scostarsene; te lo accordo: ma vorrei che un Greco avesse scolpito il Mosè del gran Michelagnolo o il deposito di Leon X, opera di quel dalla Porta, o l’Attila dell’Algardi; l’antichità ce li renderebbe allora più venerabili e forse sarebbero egualmente la norma dell’arte, come per preminenza di tempo sono adesso le statue più rinomate de’ Greci; pure questo non toglie che le vostre non siano perfette. [1.79ED] Solamente aggiungo che, se al secolo del tuo sì grande Alessandro e, se il vogliamo, anche a quello delle maggiori repubbliche, coteste cose erano così perfette, tu hai a provarmi colla tua loica che tali fossero a’ tempi di Omero, di Eschilo, di Euripide e di Sofocle per dedurne che, siccome eran perfette la scoltura, la pittura e l’architettura, così ancor lo fosse la poesia. [1.80ED] Io ti proverò bene l’imperfezion delle prime colle imperfezioni delle seconde, quando sia vero (qual tu mi supponi) che abbiano insieme una necessaria ed infallibile connessione. [1.81ED] Noi imitiamo le vostre statue perché le troviamo perfette; ma non trovando in tutto perfette le vostre poesie per qual ragion dobbiamo in tutto imitarle? [1.82ED] Non troviamo in tutto perfetto il tuo Omero; e se ciò ti parrà nostra colpa, rispondi al Tassoni e mi quieto; ma stenterai. [1.83ED] Io non voglio dilungarmi ora sui tragici, ma so che sei persuaso come non la cederei al Tassoni. [1.84ED] Vi sono virtù insuperabili e queste imitiamo non perché noi non le avessimo sapute inventare, ma perché i vostri, nati prim di noi, sono stati in necessità d’inventarle. [1.85ED] Certo i primi hanno imitata la natura e noi, imitandola, sembra che quelli imitiamo; perché come vorresti dipingere un uom senza testa, se senza testa uom non fu mai generato? [1.86ED] E però, se quanti se ne genereranno saranno sempre sul modello del primo che fu generato, saranno perciò meno uomini di quel primo? [1.87ED] Non certamente. [1.88ED] Ma passisi ad altro. [1.89ED] Confronteremo adunque in alcune parti la vostra con la nostra tragedia ed esamineremo a suo luogo la lor differenza come anche le altercazioni moderne fra’ troppo attaccati di venerazione all’antichità e fra alcuni altri che non vogliono attorno altra legge che quella del loro capriccio.
[1.90ED] — Può essere — replicò l’Impostore — che gli uni e gli altri di questi fallino strada. [1.91ED] Per altro tu non t’inganni nel credere che io abbia veduto rappresentare le tragedie de’ nostri autori e de’ vostri, siccome ancora ho gustati fra’ vostri coloro che venerano affatto l’antichità e quelli ancora che la disprezzano. [1.92ED] Ti dei ricordare averti io poco fa detto che ti conosceva: questa almeno non è un’impostura. [1.93ED] Dal ritratto che sta intagliato in fronte dell’opere tue ti ravvisai, ti conobbi nell’alma città di Roma e in una certa conversazione di giovani derisori che, oh lor fortunati se tanto di moderazione avessero quanto hanno d’ingegno! —
[1.94ED] — E qual fu questa conversazione — io diceva — in cui la prima volta mi ravvisasti? —
[1.95ED] — Quella — ei seguiva — in cui leggevasi il Papiniano, una di quelle tragedie moderne in cui s’affetta l’antichità. [1.96ED] Colà tu ridevi della caricatura d’un gobbo canuto che gridava: «Oh bello!» ad ogni parola e quello era io: guardami bene ed esamina se sotto questa parrucca, che mi ha non so se abbigliato o più deformato, ti sovviene di questa figura che pur dovrebbe esserti rimasta fitta nella memoria. [1.97ED] Tu pure, benché non tanto, applaudevi; e come astenersene? [1.98ED] Già vi era la metà a ciò destinata e così era meglio correr dovunque correvasi acciocché il silenzio non fosse parso in te invidia là dove non l’era, né poteva esserlo mai. —
[1.99ED] — A dirti il vero, oh maestro — io soggiunsi — non posso negarti che mi mortificasse il veder dopo un mio lavoro di più di vent’anni venirmene un altro addosso di cinque tragedie corteggiate, non dirò dagli applausi de’ tuoi scolari solamente, ma da quelli del loro medesimo maestro giureconsulto, che nel suo bizzarro prologo generale pronunzia assai francamente di aver per esse restituita la greca tragedia al teatro, della quale appena un’ombra, dic’egli, apparisce in tutte le altre tragedie o estere o italiane, tanto più che questo ristoratore della tragedia, questo distruttore della riputazione di tutti noi altri tragici italiani od esteri ha perfezionata la sua gran fabbrica in pochi mesi, com’egli scrive:
e senza pregiudicio della cattedra.
[1.100] Io nondimeno, benché non mi nomini espressamente, gli sono ben’obbligato che mi cacci ancor senza nome nel gregge del Trissino e del Tasso e di altri celebri autori. —
[1.101ED] — Impara — riprese a dir l’Impostore — di trattar co’ filosofi che da nessun altro rispetto si lasciano indurre 0se non da quello del vero o di ciò che essi apprendon per vero. [1.102ED] Quel tale giureconsulto filosofante ha scritto quel che ha sentito e sente quello che ha scritto. [1.103ED] Tu aspetti intanto che io giudichi fra voi due, ma vi giuro per Aristotile che invano attenderete ambi la mia sentenza. [1.104ED] Se sentenziassi contro di lui, parrebbe fatto in vendetta dello strapazzo continuo che ei fa del mio nome in ogni occasione di scrivere o di parlare. [1.105ED] Se pronunciassi contro di te, parrebbe fatto in vendetta di quanto hai contra me scritto nella Poetica. [1.106ED] Io passo dunque sotto silenzio il giudicio, rimettendovi l’uno e l’altro a quello del popolo. [1.107ED] Sin ad ora le tue sono uscite in teatro felicemente e molto popolo di più città dell’Italia ha pagato per ascoltarle. [1.108ED] A questo cimento si attendono le tragedie de’ pochi mesi. —
[1.109ED] — Questo popolo, signor Aristotile — allora io risposi — che voi mi date per giudice non sarà accettato per tale dal nostro giureconsulto. —
[1.110ED] — Ed egli averà il torto — qui ripigliò l’Impostore — perché, se bene il popolo non sempre delle composizioni poetiche è giudice competente, egli è però delle azioni che si rappresentano in scena. [1.111ED] Se tu vorrai che il popolo (e quando dico popolo intendo un’adunanza di dotti, d’indotti e di misti) giudichi saviamente della bellezza di un sonetto, di una canzone, perché si ricerca un intelletto purificato dalla notizia ed esperienza del buono, per esser la minor parte del popolo i dotti, la parte maggior può ingannarsi e seppellire ne’ suoi applausi la disapprovazion de’ pochi, e così il maggior numero strascinerà seco il migliore. [1.112ED] Ma quanto alle azioni sceniche, la maggior parte e la più degna del popolo ha cuore che fisicamente si lascia muover gli affetti, e quando lo spettatore già mosso entra nell’interesse degli attori, non vi è chi meglio giudichi dell’economia dell’azione e della proprietà de’ caratteri, e tanto vede addentro la condotta del fatto rappresentato quanto vi vedrebbero i veri personaggi che in scena sono imitati se, non finta, ma realmente operassero. —
[1.113ED] — Poiché dunque — io dissi — dobbiam parlare della tragedia e insensibilmente siam penetrati nella materia, né tu vuoi dare la decisione fra le tragedie de’ pochi mesi e le altrui, attendiam l’opinione del popolo che ha udite le prime recitate per chi le leggeva sonoramente in quella tal quale conversazione. [1.114ED] Questo popolo adunque non crede che rappresentate possano ricevere quell’applauso che vari passi bellissimi e forti meriterebbero e, se ben peso questa popolare sentenza, nell’una parte la trovo giusta, ma nell’altra merita appello. [1.115ED] Dicon costoro che invece d’elevare il proprio spirito a ritrarci il carattere degli eroi per esso imitati, ha fatto descendere gli eroi medesimi a ritrarci il di lui solo carattere, dimodoché invece di veder quelli della tragedia ci vedi unicamente l’autore, ed in ciò forse il popolo non travede. In altra cosa sbaglia, al creder mio, giudicando che la condotta di quelle tragedie sia troppo etica e liscia, senza veruno intrecciamento che metta in curiosità l’auditore di ciò che avverrà, in guisa che, quanto dee poi avvenire, riesca nuovo ed inaspettato. [1.116ED] Per vero dire arde anche in qualche angolo dell’Italia quest’avidità di avvenimenti intrecciati nella tragedia, de’ quali è nauseata la Lombardia dopo che ha gustato sui propri teatri le tragedie franzesi di una condotta facile, piana e naturale, siccome appunto son quelle de’ vostri poeti che son nostra scorta. [1.117ED] Or vatti a fidare del buon giudicio del popolo. —
[1.118ED] — Tu sì travedi — replicava il supposto Aristotile — ad accettar per popolo un uditorio composto di pochi letterati, la maggior parte parziali e la minor parte emoli dell’autore, i quali giudicando secondo le loro opposte passioni, agevolmente sbilanciano. [1.119ED] Io perciò tornoti a dire: bisogna rappresentarle a’ dotti, a’ gentiluomini, a dame, ad artigiani, a’ vecchi, a’ giovani e sino a’ fanciulli, e questo mescolamento insieme d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni nascita e professione sarà il vero popolo che non errerà in sentenziare, e quando dissi rappresentarle intesi cosa assai differente dal leggerle in una stanza ove non appariscono che per metà.
[1.120ED] Quanto poi alla decisione pronunziata da quel congresso, se si ha riguardo all’intenzion dell’autore, è affatto erronea ed ingiusta. [1.121ED] L’intenzione di esso è stata di esporre dalle scene italiane la greca tragedia e vi è riuscito; siccome il suo diletto Trissino riuscì nell’esporre all’Italia una vera idea dell’epopeia greca ed omerica; e l’invilire i caratteri degli eroi e massime de’ tiranni, con fare il ritratto delle proprie piccole animette private è stata non so se malizia o povertà di quegli spiriti sì limitati ed angusti; e voi siete ben obbligati al vostro giureconsulto dell’avervi esso dipinto in colori italiani un’immagine così giusta delle tragedie de’ nostri greci antenati, ma siete ben poco tenuti a’ nostri greci antenati dell’avere essi a lui lasciato un modello di caratteri eroici sì povero e sì privato; mercé della sua buona intenzione, auguriamogli miglior fortuna di quella del padre Scamacca siciliano che con più di quaranta tragedie di questo peso ed idea stava sepolto senza nome nella Sicilia di dove l’hai risuscitato nell’altrui memorie co’ tuoi elogi.
[1.122ED] Rispetto poi agl’intrecciamenti ed all’inviluppata condotta, egli è certo che i Greci non l’hanno amata, non l’amano punto i Franzesi, né mai l’amarono i buoni Italiani, e in questa parte merita tutto l’applauso il nostro greco giureconsulto. [1.123ED] La nazione spagnuola, a cui la tragedia moderna dee molto per l’invenzione di quei caratteri che voi chiamate sforzati e che tanto hanno elevati i sentimenti de’ vostri attori ed avviliti col paragone quelli de’ nostri, è stata ancor l’inventrice di questo ingegnoso viluppo di avvenimenti che ha fatto per lungo tempo sì gran figura in Italia. [1.124ED] E siam d’accordo che un tal viluppo ha il suo pregio intero nelle commedie, o siano di plebei o siano di gentiluomini, purché privati, ancorché nobili cittadini; ma non l’ha né può mai averlo nelle tragedie, il cui viluppo dee esser semplice e naturale, acciocché lo sviluppo sia pur agevole e verisimile. [1.125ED] E così lodo quel genio tragico che a tutta possa si astiene da simili annodamenti gordiani che non si possono sciogliere senza tagliarli, e lodo in questo fra gli altri l’autore del tuo Papiniano. [1.126ED] La ragione si è che a ciascheduno di noi privati, come di quelli che per poco prendiamo degli sbagli e che piccoli affari abbiam per le mani e siamo meno osservatori e meno osservati, avvengono cose che quando ci avvengono sogliam dire parer così inverisimili che raccontate in un romanzo o rappresentate in una commedia sarebbero derise come impossibili; e pur le abbiam provate noi vere e non v’è uomo privato che nel corso della sua vita non ne possa numerar qualcheduna di questa tempra bizzarra ed apparentemente incredibile. [1.127ED] E perciò noi altri, assisi ad una rappresentazione di non regie persone, specchiamo gli strani gruppi de’ casi rappresentanti in qualche nostro avvenimento di ciascheduno, ed assuefacendoci a tollerarli per verisimili arriviamo poi anche a compiacercene. [1.128ED] Meglio che nelle regie, nelle private persone accader puote l’esser tolto in iscambio per somiglianza di vestimento; il confidare ad un servo una lettera che passi disgraziatamente alla mano di chi non doveva vederla; l’uscire a tutte l’ore di casa ed il trovarsi furtivamente in tutti i luoghi ad ascoltare, o non veduto o non conosciuto, gli altrui segreti discorsi, i travestimenti felici e massime nella nazione spagnuola ove le donne coperte da’ lor zendadi vanno come mascherate e nascoste, e si dan solo a conoscere con segni che posson produrre degli equivoci, fonti ordinari di tutti gli avvenimenti e viluppi delle lor rinomate commedie. [1.129ED] Nella tragedia non è così, massime nella tragedia in cui non dassi il primo luogo all’amore, perché, dove l’amore occupa principalmente l’azione, sempre il personaggio pubblico opera da privato e tal volta il principe da plebeo. [1.130ED] Ma perché non si può avere un popolo spettatore tutto di prìncipi che, esaminando le proprie coscienze, trovino vero in sé stessi quello che vedono rappresentato in altrui, e il popolo che interviene allo spettacolo generalmente ha troppo alto concetto della grandezza de’ prìncipi, egli è forza nell’imitazione de’ gran personaggi in teatro astenersene. [1.131ED] In fatto, ben rare volte i gravi interessi da un principe si confidano alla sciocchezza d’un servo; rare volte un principe esce di casa solo e sconosciuto a suo arbitrio; non è facile che soprarrivi all’improvviso in una stanza ove altri discorra di cose che gli appartengano, essendo i personaggi reali in troppa soggezione di sé medesimi e troppo accompagnati e lor mal grado osservati, e i loro visi son troppo impressi nella memoria del pubblico per esser presi in iscambio e per travestirsi senza esser ravvisati; e però torno a dire: questa sorta d’avvenimenti, come universalmente creduta inverisimile ne’ gran signori, si sfugge nelle tragedie. [1.132ED] Lodiamo dunque il genio spagnuolo negl’intrecciamenti meravigliosi delle commedie, purché, come è ingegnoso il viluppo, lo scioglimento sia naturale; e questa è la spina che per lo più guasta la fioritura delle loro vaghe invenzioni. [1.133ED] Ma tu mi opporrai: sarà dunque la commedia assai più ingegnosa della tragedia, mentre che in questa non contenendosi stranezza di avvenimenti, come nell’altra, non farà punto meravigliar chi l’ascolta, e così semplice e naturale non potrà dilettar altrettanto. [1.134ED] Io non voglio paragonar qui la tragedia con la commedia, né vo’ decidere se in mio concetto prevaglia Sofocle ad Aristofane, il Cornelio a Molière, il Tasso all’Ariosto, ma posso ben dirti che chiunque di questi eseguisce felicemente il suo dramma merita una gran lode, e torno unicamente alla tragedia di cui dobbiamo ragionare.
[1.135ED] Non è già vero che la tragedia manchi di avvenimenti che rechino meraviglia, ma voglion essere così ben tessuti che la riuscita sia verisimile ed in conseguenza la meraviglia che ne deriva sia ragionevole. [1.136ED] Due cose fanno altamente meravigliar ne’ grandi: l’una è che, per la loro ricchezza e possanza abbagliandoci, ne fan credere di possedere una somma felicità, ma lo scoprirli più miseri d’un cencioso plebeo ci fa stupir con ragione, e ciò naturalmente succede quando di gran fortuna in gran sventura li vediamo, parte per colpa loro e parte per colpa di un malvagio destino, precipitati; e, perché la ragione degli opposti è la stessa, che un personaggio grande ridotto in miseria ascenda ad impensata felicità ci fa il medesimo effetto; e questa è la peripezia tanto per me rinomata, senza di cui languirebbe qualunque tragedia di mesto o di lieto fine ch’ella sia. [1.137ED] Ma suole ancora, benché più di rado avvenire e ne abbiamo dalle storie non pochi racconti, che tal volta un principe erri sconosciuto fuor de’ suoi stati per qualche tempo e che poi nel grand’uopo si scopra con incontrovertibili contrassegni, lo che produce meraviglia insieme e diletto negli ascoltanti. [1.138ED] Anche questa sorta d’avvenimento viene verisimilmente ammessa nella tragedia, non sì frequente e naturale come la prima e perciò più perigliosa; di maniera che difficilmente consiglio i tragici a frequentarla, perché pochissime di queste agnizioni si trovano che siano felicemente condotte e che non lascino che ridire. [1.139ED] Vi è la famosa dell’Edipo, in cui concorrono tutte quelle che da’ vostri famosi drammatici italiani sono state esposte al teatro, come averai già osservato nel Torrismondo e nel Pastor fido. [1.140ED] Vi è l’altra dell’Ifigenia in Tauris che almeno per metà è bellissima, e che tu ti sei ingegnato d’imitare e di compiere nella tua tragedia di questo nome; e vi è quella di Agrippa nel Finto Tiberino del Franzese Quinault, che non ha invidia alle due, che che siasi del credito che ha questo sventurato tragico fra’ suoi nazionali. [1.141ED] Quindi è che senza quest’agnizione può ben sussistere la tragedia, ma felice quella che avrà la peripezia e l’agnizione così intrecciate che vicendevolmente influiscansi ad esser cagione ed effetto di sé medesime.
[1.142ED] Dissi che senza questa agnizione può sussistere la tragedia, ma ti confido due sorte di agnizioni, senza una almen delle quali il tuo dramma non riporterà mai applauso; l’una è fisica, e quella te la perdono; l’altra è morale, e questa non è da trascurarsi per verun conto; nasce questa dallo scoprimento d’una passione in un animo opposta a quella che dianzi appariva. [1.143ED] Stupiremo se, là dove credevasi indifferenza, ritrovisi amore; più saremo attoniti se, là dove amore speravasi, odio improvisamente s’incontri; e così sempre avverrà, qualora un affetto opposto a quello che noi aspettavamo inaspettatamente si sveli. [1.144ED] Questa sorta non perigliosa, ma sempre mirabile, ma sempre verisimile di agnizione spicca particolarmente ne’ soliloqui, ove il cuor dell’attore non ha alcuna tema di venir tutto al di fuori e di abbandonarsi ad una intera sincerità. [1.145ED] Son anche compensati i viluppi esterni spagnuoli dai viluppi interni delle passioni, impegnate in maniera che impegnino gli affetti degli ascoltanti, quando ad amare chi odiavano e quando ad odiare chi amavano, con movimento sì vero e sì penetrante che poi nel fine della rappresentazione ricrea, mentre si conosce originato da false aeree cagioni; e ne lascia con quella meraviglia e con quel diletto con cui lascia un orrido sogno chi, ne’ maggiori perigli sognati, destatosi alla fine s’accorge di giacer sicuro e felice nelle sue piume. —
[1.146ED] Qui faceva pausa il buon vecchio, perch’io conchiusi, vedendo venirci incontro la darsena di Savona: [1.147ED] — Non so se veramente mi lasci sedurre a crederti quello che tu mi racconti dell’esser tuo, ma non posso già ingannarmi nel crederti qual ti conosco, uomo di molta erudizione e dottrina, e però nel viaggio che far ci resta ti prego a continuarmi la conversazione e la confidenza. [1.148ED] Seguiremo, quando a te piaccia, a discorrere d’alcune altre circostanze della tragedia, secondo che caderacci ordinatamente in acconcio, e moveremo alcune quistioni non meno importanti che nuove, per non essere state da te insegnate o non pensate o leggermente toccate per altri, e che nondimeno giudico importantissime a questo fastidioso e grave poema. —
[1.149ED] — M’inviti a nozze — dicea il contraffatto — invitandomi a simil discorso, e ti prometto di parlare con quella chiarezza colla quale io parlava a’ discepoli miei insegnando, ma non con quella brevità oscura con cui ho lasciate le memorie de’ miei insegnamenti a’ posteri ingrati. [1.150ED] Troppo ho stemprata questa mia secca testa nella meditazione del vero, onde non ho voluto così masticarlo co’ miei denti alla posterità che, infingarda, pascendosi de’ miei troppo ammolliti sistemi, abbandonasse all’ozio gl’ingegni. [1.151ED] Le ho dati lumi per metterla in traccia del mio cammino, ma ho voluto che si avvezzi per le tenebre de’ miei termini a speculare. [1.152ED] Ben è poi vero che la cosa è ita più lontana di quel che io credeva; si sono avvezzati i filosofi a pensar tanto da sé che nulla più pensano a me, se non per deridermi e disprezzarmi. [1.153ED] Ma già tu vedi che alla buona cena di poppa ti aspettano i cavalieri; e chi son que’ due che ti accennaro? —
[1.154ED] Così egli; ed io:
[1.155ED] — L’uno è il marchese Ubertino Landi, nobilissimo cavalier piacentino che meriterebbe venir per terzo a’ nostri ragionamenti tanto è gentile ne’ suoi soavi costumi e tanto è il suo gusto esquisito nel giudicio di queste materie; l’altro più giovinetto è il conte Marcantonio Ranuzzi, patrizio bolognese che cammina a gran passo per arrivare all’età ed alle cognizioni dell’altro. —
[1.156ED] — Godo — replicò l’Impostore — che tu abbia amici e compagni sì qualificati di costume, d’ingegno e di nascimento, ma o non udirai più Aristotile o fa’ di tacere per ora ad essi il mio nome e di contentarti che a quattr’occhi fra noi due soli segua, con reciproco nostro diletto, questa che chiami impostura. —
[1.157ED] Così, all’imbrunir della sera, approdammo felicemente a Savona.
Sessione seconda
[2.1] All’apparire della mattina sbarcammo il Filosofo ed io ad una parte di molo che signoreggia non solamente la darsena, ma tutta la lunga spiaggia di Vado e tutto il largo della marina, mentre il luogo è poi signoreggiato alle spalle da una catena deliziosa di colli, non meno lieti per gli ameni giardini che per le vaghe perspettive di bei palazzi che qua e là, secondo il genio degli abitanti, fra le negre e copiose verzure biancheggiano. [2.2ED] Ivi osservammo la casa del famoso Gabriele Chiabrera che condusse alla gloria di Anacreonte e di Pindaro il nome suo per le liriche poesie, servando egli solo a’ suoi tempi le muse italiane dalla contagion marinaresca. [2.3ED] A piè dunque di queste piccole mura, in venerazione del gran poeta, sedemmo a favellare di poesia, perché io cominciai :
[2.4ED] — L’unità del tempo e del luogo fa gran figura fra’ zelanti tragici d’oggidì, perché là si crede maggior perfezione ove è maggior semplicità e a questa ragione aggiungon l’esempio delle greche tragedie e ancora delle franzesi. [2.5ED] Io nondimeno sempre sono stato di sentimento che l’uditore perdoni agevolmente alla favola o azione tragica l’allungarsi a spazio maggiore di un giorno. [2.6ED] In fatto sono state in grandissima riputazione le commedie spagnuole, nelle quali si vedono neglette queste prescrizioni di tempo in tal guisa che alcuna volta esce in principio della commedia un fanciullo che poi nella fine vecchio vi comparisce. [2.7ED] Altre volte fra un atto e l’altro, ove il poeta dimanda in grazia all’immaginazione dell’uditore tanto intervallo di tempo che preso insieme con quello che si consuma rappresentando non ecceda le ventiquattr’ore, si sente che tale ha fatto un viaggio a cui più mesi richiederebbonsi —
[2.8ED] — Non innoltrarti più avanti — interruppe il nostro Aristotile — ché spero di soddisfare alla tua curiosità e, se non m’inganno, incontrerò ancora il tuo genio. [2.9ED] L’unità dell’azione, del tempo e del luogo sono necessarie alla perfezione della tragedia perché appunto ivi è maggior perfezione ove è maggiore semplicità; ma, perché, secondo il sentimento del vostro Orazio
In vitium ducit culpae fuga, si caret arte,
egli è uopo spiegare in qual guisa si debba intendere questa triplicata unità; e anticipatamente ho da dirti che prima di concepire il mio libro della tragedia, del quale avete appena un abbozzo in quel frammento di nostra Poetica, io frequentava il teatro ed, osservate attentamente quelle tragedie che riportavano maggior applauso dal popolo, conobbi ancora che lo stesso faceva loro giustizia e che a mio credere ancora quelle eran le più perfette. [2.10ED] Ciò eseguito, ridussi per ammaestramento de’ posteri a regola quello che più eccellente veniva riputato nelle medesime, acciocché l’arte potesse condurre in avvenire la gioventù volonterosa di lode a quell’applauso al quale avea condotti i nostri poeti la ben disposta natura e il giudicioso discernimento; trattai però dell’unità dell’azione, imperciocché aveva io osservato che una e non più azioni rappresentavansi in quelle; e poi se la tragedia fu instituita per muover gli affetti al compatimento delle disgrazie avvenute a chi non tante ne meritava e per infonder negli animi terrore di que’ delitti che anche commessi con qualche umana, se non divina ragione, si vedon severamente puniti, egli è uopo eccitar l’uno e l’altro movimento circa ad un solo obbietto; perché, se più azioni si rappresentassero in scena, il senso, che tanto è minore quanto è intento a più cose, divagherebbe o con poca o senza alcuna movizione. [2.11ED] Su questo dunque si patisce e sì gli antichi come i moderni e tu stesso convenite col mio sentimento.
[2.12ED] L’unità del tempo, che io così chiamo in grazia del rinomato Pietro Cornelio, non è per me stata rigorosamente ristretta nel solo spazio d’un giorno, e ciò non ho fatto perché, se bene io crederei di maggiormente dilettar gli ascoltanti col rappresentar loro cose che in un breve giro di Sole rare volte si è udito avvenire, come mutazioni grandissime di fortuna e riconoscimenti di personaggi che sotto altro nome ed in abiti diversi viveano nascosti, nondimeno, perché il mirabile facilmente si scosta dal verisimile, che, a mio credere, è l’anima di tutti gli avvenimenti, non ho avuto gran scrupolo nel dilatar questo tempo in tal modo che non si abbandoni il mirabile, come per avventura fan gli Spagnuoli, non essendo meraviglioso che gran cose in lungo tempo succedano; né si esca del verisimile, non essendo verisimile che gran cose in breve tempo succedano, e però leggerai scritto nel mio frammento della Poetica al cap. II: «Poiché la tragedia è un’azione dentro il periodo di un giorno, poco più, poco meno»
. [2.13ED] In fatto i miei Greci in questa parte possono essere imitati dagli Spagnuoli, e se hai tu in mente le Trachinie, per parlar di una delle nostre tragedie che or mi sovviene, avrai osservato che Deianira, ingelosita per Ercole innamorato d’altra donna, ricama una veste, coprendovi col ricamo il velenoso sangue di Nesso. [2.14ED] Tu puoi dimandare una femmina del tempo che si ricerca a perfezionare un ricamo, ancor grossolano, vuol ben esser tale a non consumarci attorno due settimane. Manda poi Deianira la veste perfezionata al marito sul promontorio di Eubea. [2.15ED] Mostrisi un poco al nostro piloto della galea la distanza dal luogo della rappresentazione ad Eubea, ed egli ti dirà quanti giorni egli è uopo spendere in tal viaggio, supponendo ancora che i venti non siano contrari al messo, siccome a noi lo sono stati. [2.16ED] Di più, Ercole fa un sacrificio in Eubea a cui meno d’un giorno non si può dare. [2.17ED] Aggiungi che Ercole avvelenato viene a morire sul monte Eta, e pur ciò tutto avviene in men di due ore di rappresentazione, le quali ancora allungate dall’immaginazione a ventiquattr’ore sono troppo scarse all’azione.
[2.18ED] Dell’unità del luogo ho io parlato nel mio libro della tragedia, ma nel frammento che voi ne avete non ne ritrovo pur orma. [2.19ED] Pure per farti intendere come io concepisca questa unità, è necessario che io ti parli ancora della perfezione che io stimai conveniente all’unità tragica, sia d’azione sia di tempo o alfin sia di luogo; e ripeto che per comporre una tragedia veramente perfetta un’azione, una di un giorno, non si dee rappresentar che in un luogo; ma questa unità non è così semplice come altri se la figura; perché siccome l’azione è un corpo composto di più membra, così il luogo è composto ancor di più parti; ma siccome le membra non si vogliono penetrate col corpo né disgiunte da lui, così le parti del luogo non si vogliono separate dal tutto né tampoco con esso penetrate. [2.20ED] Il luogo insomma sia tale che i personaggi della favola possano andarsene e ritornarsene dall’una all’altra parte del luogo rappresentato in tempo che l’azione possa terminarsi in poco più o in poco meno di un giorno. —
[2.21ED] — Ah, se tu non sei Aristotile — allora esclamai — meriti d’esserlo per la saviezza del tuo discorso; ma mi permetti che, lasciando in un canto le due unità nelle quali tutto il mondo letterato conviene, io dica qualche cosa di questa terza in cui non convengono alcuni dei più scrupolosi, e di quelli in sostanza che attendono a giudicare dell’opere altrui, senza lasciarne uscir delle proprie. [2.22ED] Non pretendono già costoro che l’azione segua in un luogo rigoroso, mentre tutto quello che si racconta dai nunci certamente succede fuori del luogo della rappresentazione che è la scena, ma per lo più succede appunto in tale distanza che chi racconta possa essersi trovato presente al successo e possa agevolmente essersi di là trasferito al luogo dove lo narra in poco o in ragionevole spazio di tempo. [2.23ED] Ma il punto sta se si possa prender per luogo della rappresentazione una città con le sue adiacenze; se queste si possano porre sotto gli occhi con la mutazion delle scene, lo che nell’opinion d’alcuni moderni è un errore. [2.24ED] E la ragione si è che, abbisognando la tragedia di questo esterno aiuto della scena per essere rappresentata, quanto più se le moltiplica questo bisogno, tanto più si rende imperfetta e meno meravigliosa, lo che non avverrebbe, se in quel luogo, che attualmente si vede, senza maggior fatica dell’immaginazione, o dell’occhio, tutto potessesi agevolmente rappresentare; dovendosi confessare, che quanto più la tragedia ha bisogno d’esterni aiuti, per esser rappresentata, tanto meno sussisterà per sé stessa, tanto più recederà da quella semplicità, che è un attributo della maggior perfezione. —
[2.25ED] — Chi vuol troppo — rispose Aristotile — men conseguisce. [2.26ED] Ed io voglio questa volta dir qualche cosa contra i filosofi, perché tu conosca almeno da questo la mia ingenuità, parlando io contra una setta di uomini nel numero de’ quali o sono o almeno presumo che tu mi creda. [2.27ED] Ma tanti anni di esperienza e di vita mi hanno insegnato a non ostinarmi nelle opinioni. [2.28ED] Nulla è più perfetto della perfetta idea delle cose, perché certo ogni cosa creata è sempre inferiore all’idea, che si può dir creatrice. [2.29ED] Ma niente è più difettuoso che il voler ridurre le cose istesse alla perfezion dell’idea, perché ciò è sovra le nostre forze, e sovra le leggi della natura. [2.30ED] L’idea del corpo umano si può concepir perfettissima e, perché sia perfettissima, sarà ancor una e sarà una proporzione di membra e di colori, quale appunto conviene al costituire una esquisita bellezza. [2.31ED] Ma immagina un poco di esser tu il Creatore e di aver lena di creare a tutta norma di questa idea i corpi umani. [2.32ED] Tu creerai milioni di corpi tutti bellissimi, tutti corrispondenti all’idea e però sembreranno un sol corpo, trattone il numero, tanto saranno uniformi; non più distinguerai Aristotile da Cartesio, non Omero da Virgilio o dal Tasso; siccome in nulla distinguonsi, fuor che nel numero, i getti che dalla forma medesima sono improntati e moltiplicati. [2.33ED] Or qual disordine non nascerebbe da questa ideal perfezione? [2.34ED] Ma contraponi ora all’onnipotenza tua immaginaria del conformare i corpi umani precisamente all’idea, l’onnipotenza del crearli tutti con le medesime leggi di membra e di sentimenti, ma di lineamenti e colori così diversi che appena se ne trovino due fra di loro tanto uniformi che l’uno dall’altro non si distingua. [2.35ED] Certo è che cotesta possanza meno nell’uniformità che nella diversità comparirebbe meravigliosa, e pure questi diversi moltiplicati individui non corrisponderebbero alla perfezion dell’idea. [2.36ED] Il mio maestro volle ridur la repubblica all’idea, temperandola con certe leggi ch’egli prescrive. [2.37ED] Ma queste dall’idea sua si partirono e nell’idea sua ritornarono, non essendo accolte dalle nazioni che, se le avessero accettate, non vi sarebbe più diversità di leggi né di governi né di nazioni e tutti i popoli diverrebbero una famiglia e il mondo politico perderebbe il suo maggior ornamento che nasce da tanta varietà di governi adattati a’ geni ed a’ climi degli abitanti di questa Terra. [2.38ED] Cicerone nella sua opera a Bruto volle ridurre all’idea l’oratore; ma né Bruto né i posteri suoi sonosi approfittati di un così inutil precetto; e guai a Cicerone medesimo se si fosse voluto prendere un tal pensiero, perché né egli sarebbe il primo degli oratori né i suoi successori si distinguerebbero da Cicerone che nell’idioma, e tutti perorerebbero a una maniera e nausearebbero, come un ottimo cibo che, venendo poi sempre in tavola con un sapore che fosse immortalmente lo stesso, stuccherebbe e svoglierebbe affatto gli stomachi ed i palati. [2.39ED] Io, avvegnaché filosofo, ho dato molto all’esempio, conoscendo che tutto alla sola ragione dar non dovevasi ne’ miei precetti della tragedia. [2.40ED] Nondimeno, come filosofo, ti confesso che non ho affatto da me sradicato il vizio ingenito de’ miei colleghi e mi pento dell’aver conformata forse un po’ troppo la tragedia all’idea che n’ebb’io, valendomi bensì degli esempli ch’io vedea più accostarsi all’idea, benché non mai arrivassero all’adeguarla. [2.41ED] Ma se ottenessi il fine prescrittomi o non occorrerebbe più espor tragedie o quante se n’esponessero sarebbero tutte una sola e sarebbero per avventura l’Edipo tiranno di Sofocle. [2.42ED] Ma chi lo vorria più soffrir nelle scene dopo tanti e tanti secoli sempre udito e sempre rappresentato? [2.43ED] E qual utile verrebbe per ciò alla repubblica ed a’ costumi dalla tragedia, abborrendo allora il popolo da’ teatri come gli schiavi dalla galea? [2.44ED] Ed eccoti ormai persuaso che non bisogna desiderare alla cosa tal perfezione, che la distrugga in vece di mantenerla. [2.45ED] Ogni linea di cose ha la sua perfezion limitata, oltre la quale chi cerca nulla truova se non chimere. [2.46ED] Il lione potrebbe vantarsi di maggior perfezione se avesse l’uso della ragione, come si finge da Esopo; ma questo passar il lione la natura del bruto animale si rende quanto mostruoso altrettanto incredibile, e pure in linea ancor d’animale la ragionevolezza è perfezione. [2.47ED] Più perfetta saria la tragedia, se un’azione sola di un solo in un istante solo in un solo luogo seguisse: così sarebbe più meravigliosa senza alcun dubbio; ma quello che trapassa i termini del possibile è mostruoso e chimerico. [2.48ED] Questa tanto decantata unità rigorosa di luogo è una di quelle perfezioni che eccedono l’essere di una verisimile rappresentazione, e però chi cerca questa perfezione cerca mostruosità, cerca chimere. [2.49ED] Già non è azione rappresentata da tragico che si figuri seguita in un solo luogo, ma quanto di essa si vede in scena e quanto di essa non si vede e che compie con le sue parti l’azione, non segue mai che in più luoghi. [2.50ED] Quello che si vede è la scena, ma questa è sempre stata composta di più parti corrispondenti a varie sorte di edifici, da’ quali possono uscire secondo i vari lor fini e secondo la varia lor condizione gli attori, sicché la scena tragica presa in se stessa non è un solo portico reale, una sola casa privata, ma è una strada o piazza composta di vari edifici ne’ quali può credersi abitare i personaggi da’ quali è maneggiata l’azione, e questa sorta di scena anche oggi fra’ vostri dipintori conserva la denominazione di tragica. [2.51ED] Ed ecco dunque sparir l’unità rigorosa di luogo in ciò che si vede. [2.52ED] Tanto meno la ritroverai in quello che non si vede, perché le cose seguite fuor della scena e che si narrano in essa sono parte essenzialissima dell’azione e sono seguite altrove. [2.53ED] Sicché dunque l’azione tragica si fa in un ristretto luogo di più luoghi composto, non più distanti l’uno dall’altro di quello che l’andare e il ritornare richiede nel tempo che sta prescritto all’azione. [2.54ED] Resta or da cercare se queste parti di luogo per sollievo dell’immaginazione si possano mettere sotto gli occhi con la mutazion della scena. [2.55ED] Tu mi dici che tanto meno la tragedia è perfetta quanto più d’aiuti esterni abbisogna. [2.56ED] Ed io ti replico che questa è una di quelle perfezioni chimeriche. [2.57ED] Non sarebbe più perfetta l’arte oratoria se non le abbisognasse la voce ed il gesto, cose esterne ad un concetto mentale che, quando per le strade degli occhi e degli orecchi non s’introduca negli animi altrui, muore in se stesso? [2.58ED] Può comunicarsi, egli è vero, alla mente de’ leggitori per la scrittura, ma questa non dà tutto il nerbo dell’eloquenza, se chi legge la scritta orazione non la recita e non la gestisce a sé stesso. [2.59ED] Maledetta quella perfezione che non conviene alla cosa se nella cosa si cerca, e benedetto quell’aiuto esteriore che fa perfetta la cosa nella sua sfera e che, moltiplicandosi, le moltiplica ancor la bellezza. [2.60ED] L’immaginazione fatica meno e la vista resta più ricreata da quella varia apparenza. [2.61ED] Onde io non so come non sia più diletto il vedere che il supporre l’obbietto, quando per ciò che riflette nell’azione, il vederlo e il supporlo è lo stesso. [2.62ED] Tu mi dirai che la mutazion della scena, che è mutazione fisica di luogo, non è verisimile, mentre non si vede nel vero che un palazzo instantaneamente divenga un giardino. [2.63ED] Ma paragoniamo questo inverisimile ad inverisimili maggiori assai che accadono nelle tragedie di alcuni de’ nostri Greci, per voler rappresentar tutto in piazza, e di alcuni de’ vostri Franzesi per voler rappresentare tutto in casa. —
[2.64ED] — Mi vien supposto — soggiunsi — che i tragici greci non abbiano mutato mai scena e di questa costante opinione è il padre Scamacca in un suo discorso stampato in fronte di uno de’ volumi di sue tragedie italiane; e per ciò molti Franzesi appunto fanno del lor teatro una sala, nella quale sfogano per diverse porte più appartamenti, dimodoché quella sala diventa come un’anticamera degli appartamenti che in essa riescono ed ivi ciascun personaggio discorre i propri interessi, come in una sala di sua ragione. —
[2.65ED] — E cotesto è bene lo scandalo — ripigliò l’Impostore — che in una sala, dove rare volte si parla di cose gelose, esca un personaggio a tramare una secreta congiura contro di un principe, che di lì a poco vi s’oda l’istesso principe in discorsi d’affari del suo governo o de’ suoi amori; ch’ivi una vergine figlia esca a sfogare un affetto di cui ella sola è consapevole verso il suo stesso inimico, cose tutte le quali sono inverisimili ed inconvenienti, se l’immaginazione non fa uno sforzo a sé medesima di considerare quell’anticamera come altrettante anticamere quanti sono gl’interessi de’ principali interlocutori e quanti sono essi medesimi; quando tutto il verisimile veracemente s’ottiene senza alcuna violenza di mente e con diletto maggiore dell’occhio cangiando scena e collocando i discorsi degli occulti affari ne’ gabinetti o negli interni giardini, ed i palesi nelle sale, nelle logge o nelle strade d’una città. [2.66ED] Ma i Greci non hanno amata la mutazione delle scene; e questo pure non è sempre vero e con gli esempi alla mano ti farò vedere il contrario, non volend’io che tu stia alla mia sola relazione, mentre nel tuo concetto so d’esser tuttavia un impostore. [2.67ED] Tuttavolta egli è certo che cotesta prodigiosa facilità di mutare scena, della quale ha la gloria maggior la tua patria, è nata, per così dire, con te. [2.68ED] Il vostro Rivani, il Manzini ed ultimamente i due famosi Bibieni hanno perfezionata quest’arte, cangiando da un capo all’altro l’aspetto de’ loro teatri in un battere di palpebra, con bellissime scene introdotte a forza di ordigni mobili sotto e sovra del palco novellamente inventati; del che diasi ancora la dovuta lode a un fanese cognominato Da Rossi, che ha congegnato un teatro in Ancona da capo a fondo versatile in un istante, con una macchina assai agevole e movibile da poco numero d’uomini, e tu vedresti ad un solo fischio e bande e soffitta cangiarsi così che il guardo non può raggiungere la volubile rapidità della scena, e si scorge il tutto mutato prima che lo spettatore s’accorga dell’intenzion di mutare. [2.69ED] Tu ti sei trovato a quei rozzi tempi ne’ quali la scena consisteva in una lunga e diritta via di logge o di giardini o di boschi, e che per porre l’un telaro dipinto sovra dell’altro richiedevasi una folla intricatissima di operai che tumultuavan di dentro, mentre gli attori sfiatavansi nello spiccare dall’interno sussurro la voce per farsi udire al di fuori. [2.70ED] Più rozza avresti veduta la scena se tu fossi nato un secolo avanti e rozzissima se fossi tu stato coetaneo d’Aristotile fra il lusso ancor d’una corte signora di tanta parte dell’Universo. [2.71ED] Quindi deduci che quella che voi altri dite virtù de’ tragici greci era piuttosto necessità, mentre, essendo eglino scarsi di bravi meccanici e dipintori, era uopo che accomodassero al luogo la rappresentazione e che, per cosi dire, facessero tutto in strada. [2.72ED] I nostri re ricevono in strada gli ambasciadori; tramano i nostri principi in strada le occulte congiure; discorrono in strada le vergogne de’ loro incesti e commettono mille disordini nel verisimile, tormentando l’immaginazione e poco dilettando la vista. [2.73ED] Egli è vero che i nostri re, parlo di quelli che vivevano avanti Alessandro, erano men pomposi di un gentiluom bolognese. [2.74ED] Nella nostra antica Grecia albergava la disciplina e avevan vigore le leggi e tutto il fasto si spaziava nell’Asia, sinché poi, sparso fra’ nostri, si dilatò all’Italia e finalmente alla Francia che l’ha tramesso in Germania e sino nell’Inghilterra. [2.75ED] Contuttociò non è mica vero che ne’ nostri teatri non si pensasse alla mutazion della scena. [2.76ED] Ricorri al tuo Vitruvio e vi troverai che tre cangiamenti di scena si congegnavano sui nostri palchi: tragica, comica e satirica. [2.77ED] La tragica era composta di colonne, di palazzi e di altri segni d’abitazioni reali. [2.78ED] La comica conteneva privati edifici. [2.79ED] La satirica selve, spelonche, fontane ed altre apparenze villerecce e selvagge, e benché paia che a tre sorte diverse di rappresentazioni ciascuna fussero destinate, come la tragica alla tragedia, la comica alla commedia e la satirica alla boschereccia, certa cosa è che favole boscherecce non furono mai poste in scena né da’ Greci né da’ Latini, benché gli uni e gli altri materie bucoliche largamente cantassero, e tu sai tutta la gloria di questa sorta di dramma comunemente esser data al vostro Torquato Tasso, mercé del suo leggiadrissimo Aminta. [2.80ED] Ma diasi ancora che cantassero satire per cantori mascherati da semicapri, non vi ha dubbio che vi erano ordigni per cangiare l’una nell’altra scena congegnati a foggia di trigono che, raggirandosi in perno, scoprivan una delle tre facce, ascondendo quella di prima, della qual macchina non vi saria stata necessità se si fusse avuto a preparar il palco agiatamente per ogni rappresentazione; e senza recar vari autori che ciò asseriscono e nominatamente Cesare Scaligero in quel libro di sua Poetica che per lui s’intitola Istorico, a cui ti riporto per ciò che riguarda le macchine dell’antico teatro, vo’ che tu creda almeno a Virgilio che nel terzo della Georgica, disponendosi a cangiare l’argomento pastorale in eroico ed a far spettacoli scenici in onore del suo Cesare, cantò:
Vel scena ut versis discedit frontibus.
[2.81] Lo che, comentato da Servio appresso Filandro, s’interpreta: «Ea autem versatilis fuit, cum subito tota machinis quibusdam verteretur, ut aliam picturae faciem ostenderet; aut ductilis, cum tractis tabulatis hac, atque illac species picturae nudaretur interior»
. [2.82ED] Del qual luogo, quei che voglion difendere la mutazion delle scene in una medesima opera, con ogni ragione si vagliono; imperciocché Virgilio ripone la pompa di quello spettacolo nella mutazion della scena, cosa la quale per chi partisse da un’opera e all’altra tornasse o non ancor seguita o già seguita vedrebbesi, succedendo separatamente dallo spettacolo; dove contemporanea al medesimo la spiega Virgilio, che che ne dicano i semidotti. [2.83ED] Io so che al tempo del mio gran re53 presedeva io alle rappresentazioni di alcune tragedie greche con mutazioni di scena non paragonabili certamente alle vostre, ma, col dovuto riguardo a’ tempi, bastevolmente vistose. Io dunque ho veduto rappresentare l’Aiace, l’Edipo coloneo, il Filotete di Sofocle, l’Oreste, e l’Ippolito di Euripide. [2.84ED] Parliamo primieramente del primo. [2.85ED] Egli cominciava con scena tragica. Avresti veduto una reggia in un padiglione: Tecmessa apriva la porta ed introduceva il Coro ad osservare come si diportava Aiace fra gli armenti da lui uccisi. [2.86ED] E come rappresentarlo altrimenti, se ciò sicuramente fu in casa! [2.87ED] E lo significa l’istesso Aiace, dicendo:
Non vai tu via di qua! perché non esci!
[2.88] E susseguentemente, ragionando del tenero figlio, conferma lo stesso:
Ma quanto prima prendi questo fanciullo, e conducilo fuori; né pianger nel padiglione.
[2.89] Lo replica più a basso, soggiungendo:
Serra prestamente le porte.
[2.90] Cioè le porte che erano state aperte. [2.91ED] Di più arrivando il Nuncio a dimandar di Aiace, sente rispondersi:
Non è dentro, ma se n’è gito fuori.
[2.92] Eccolo uscito fuori del padiglione ed ecco mutarsi la tragica scena in satirica, morendo Aiace al cospetto degli uditori in un bosco. [2.93ED] E lascia dire il padre Scamacca intestato di questa unità rigorosa di scena, che non contento d’aver in grazia di essa ammesse mille sconvenevolezze nelle proprie tragedie, spende tre ore di un suo discorso a provare, che nell’Aiace non si cangiò scena, cosa affatto inutile, per non dirla affatto ridevole, mentre vuoi tutto rappresentato parte avanti del padiglione e parte in una boscaglia dipinta ver l’orizonte. [2.94ED] Primieramente, dato e non concesso che ciò potesse essere, ciò sempre saria mutare scena di tragica in satirica, se non sul palco almeno nella testa degli uditori; e poi gli accennati passi convincono che non avanti, ma dentro il padiglione di Aiace si rappresenta parte di detta favola, il cui fine essendo la morte di Aiace, ben saria strano il farla seguire in scena, per rappresentarla nell’orizonte. [2.95ED] I pittori accostano agli occhi con maggior forza di colorito le figure più importanti e le meno accennano e digradano e sfumano in lontananza. [2.96ED] Sofocle averebbe fatto il contrario; avrebbe messo in distanza il più rilevato della tragedia, che è la morte di Aiace. [2.97ED] Passiamo all’Edipo Coloneo, che tanto piacque al grande Alessandro e a tutta la corte. Io feci aprirne la rappresentazione in una satirica, e in ciò pure credei seguire la mente di Sofocle, e lo toccherai tu con mano, se me ne ricorderò alcuni passi. [2.98ED] Eccone uno appunto sul bel fronte della tragedia ove è dipinta la scena di Antigone.
Il luogo è sacro, siccome congetturo, imperocché è piantato di lauro, di olivo e sparso di viti, e ne’ luoghi interni molti rosignuoli si odon cantare.
[2.99] Tu ben conosci che la prima comparsa di Edipo è nelle vicinanze di Atene, il rimanente è poi in Atene, perché Teseo rimprovera Creonte:
Imperocché non hai fatta cosa degna di me, né de’ tuoi maggiori, né della tua patria, tu che entrato in una città che, constituita secondo le leggi senza legge nulla fa, non considerata la giuridizione del luogo, porti via quel che vuoi, ed operi violentemente, e pensasti, che io possedessi una città serva, e vuota d’uomini, e me credesti uomo da niente.
[2.100] Cosi lo rimprovera del ratto di Antigone pure seguito in iscena, seguito nella città di Atene. [2.101ED] Anzi l’interroga che avrebbe egli fatto, se Teseo avesse tentato in Tebe quel ch’egli ha osato in Atene. [2.102ED] E pure con questo così palpabile esempio non hai tu ardito di fingere nella tua tragedia dell’Edipo l’azione parte dentro e parte fuori di Atene, siccome nel Sisara hai fatto, senza che possa tu esserne ragionevolmente tacciato.
[2.103ED] Non ci arrestiamo per ora sul Filotete, ma saltiamo nell’Oreste di Euripide. [2.104ED] Ecco Elettra sedente nella corte del re Agamemnone alla cura di Oreste, agitato ed infermo nel letto. [2.105ED] Mentre egli dorme, la sorella parla con Elena, che paventa di uscire da quella stanza per timore di sentirsi da’ vecchi padri esecrata. [2.106ED] Ma Elettra la stimola a quinci partirsi col dire:
Non parti da noi, né partirai nuovamente da questa casa senza strepito?
[2.107] Vorrei sapere se ho errato a far ciò rappresentare dentro la reggia. [2.108ED] Ma per lo contrario là dove Pilade ed Oreste fanno un colloquio insieme per uccider Elena, ho creduto doverlo fingere in strada mosso dalle parole di Pilade, che invita l’amico a entrare nella sua casa, dove Elena si tratteneva:
Entriamo in casa come già preparati a morire.
[2.109] Nel principio Oreste era in casa ed in letto, e qui dee entrare in casa, dunque era in strada. [2.110ED] E che sia vero che questa tragedia è composta di due mutazioni di scena, Elettra, quella Elettra che prima sedeva al letto del fratello infuriato, dice più a basso, parlando al Coro:
State altre di voi in questa via pubblica, altre in quest’altra via a custodia della casa.
[2.111] Veniamo all’Ippolito del medesimo Euripide. [2.112ED] Questo principe, tornando dalla caccia, porta ghirlande a Diana, e canta inni e disprezza il simulacro di Venere, che si vedea collocato sulle sue porte. [2.113ED] Invita i compagni ad entrarvi ed a preparar ivi i cibi:
Andate, oh compagni, ed entrando in casa preparate i cibi; imperocché è cosa gioconda dopo la caccia una mensa piena.
[2.114] Ecco dunque Ippolito in strada; ma d’altra parte appiattandosi Fedra in casa, ecco una scena fra la di lei ancella, il coro ed il semicoro, per tagliare il laccio alla padrona e per istenderne in terra il cadavero. [2.115ED] Ecco dunque l’ancella ed i suoi compagni dentro la casa. [2.116ED] Arriva Teseo, ed è certo che arriva in istrada, mentre maravigliandosi di non avere l’usato festivo incontro della consorte, fa aprir le porte della sua reggia e vede la moglie morta con una lettera in mano; entra e sovra vi piange; e ciò è fuor di dubbio che avviene dentro alle stanze. [2.117ED] Ippolito, poi che è morto vicino al mare, vien portato in scena e Teseo esce a farvi sopra le smanie e ciò segue in istrada, e così appunto ho io voluto che ad Alessandro si rappresenti. [2.118ED] Quattro esempli ti ho recati: due sono del tuo Sofocle e due del tuo Euripide; dove per altro il buon Sofocle alle volte per rappresentar tutto in una tragica è uscito affatto, ma affatto, del verisimile. [2.119ED] Lo puoi vedere nella Elettra. [2.120ED] Pare a te che una vergine mal contenta della sua madre e di Egisto, debba uscir fuori di casa per lamentarsene in istrada? [2.121ED] Ciò pure era con più decoro e con più profitto nelle sue stanze, tanto più che né la madre né il padrigno erano nella reggia. [2.122ED] Vi è ben di peggio. [2.123ED] La madre sente che la figliuola dice male di lei, che la mette in disgrazia de’ popoli; e questa vedova ed erede del grande Agamemnone, a cui cento re vivevano tributari, non è da tanto di farla chiudere in casa e ben custodire? [2.124ED] Ma vuoi tu sapere chi sta di guardia alla porta della reggia? [2.125ED] Il Pedagogo che confessa come si sarebbero uditi i consigli tutti di Oreste e di Elettra al di dentro se egli non avesse ben custodita la porta; ed ecco un forestiero non conosciuto che si crea svizzero d’una reggia, senza che alcuno glielo impedisca. [2.126ED] Del Filotete di Sofocle non ho io fatto menzione per esemplificarti la mutazion della scena, che ivi veracemente non è, ma per dirti che la scena satirica fu alle volte costantemente usata da’ nostri tragici, ma non mai la comica, come da te puoi osservare in leggendo questa tragedia tutta eseguita in un bosco, in un antro, alla vista de’ promontori e de’ lidi. [2.127ED] Una sola scusa, che è la necessità, si può addurre in discolpa di questi tragici, ed è che nati poveri, in repubbliche limitate ed econome, ove lo spendere licenziosamente non era permesso dalle pragmatiche, adattavano l’opera o dentro o fuori del verisimile a quella vecchia scenaccia che avean trovata in teatro. [2.128ED] Càcciati dunque di capo lo scrupolo di cangiar scena e lascia gracchiare a questi affettati adoratori delle anticaglie. [2.129ED] Ma è tempo di terminare una sì lunga conversazione e di restituirci tu alla doviziosa poppa io alla miserabil prua della galera. —
[2.130ED] Io volea replicar qualche cosa, ma postosi il dito alla bocca, mi accennò di tacere e si ritirò.
Sessione terza
[3.1] Non ebbi più campo di parlare genialmente col nostro Impostore né al miserabile porto di Agai, ove rimanendo egli nel legno, discesi in terra a ristorarmi de’ patimenti del mare, né al poco migliore ricovero di Saint Orpè, non venendomi bene in acconcio il cercar tanto di lui che insospettissi chi ne osservava e che averebbe forse potuto richiedermi o, curioso, spiare qual grand’affare mi stringesse a così lunghi ragionamenti col gobbo da tutti gli altri fuggito ed omai troppo palesemente deriso; né pur lo vidi in Tolone e, se lo avessi ancora veduto, non avrei né meno avuto agio d’intrattenerlo, essendo io troppo allora distratto nella vista di quello smisurato arsenale ove e negli edifici architettati secondo il bisogno di quanto può ridurre a stato di correre armati il mare sessanta grossi vascelli, e nella prodigiosa quantità di cannoni di bronzo e di ferro, e nelle innumerabili bombe co’ loro mortari, ammirava io la profusion de’ tesori e la magnificenza di Luigi XIV, che oltre l’aver quivi ammassato ne’ gran ridotti di quel terribil ricinto gli attrazzi più riguardevoli e più copiosi della marina, gli ha, quasi libro di pratico insegnamento, esposti allo studio ed all’esercizio di giovani nobili che a spese regie in un maestoso collegio apprendon le guise di andar sicuri a traverso delle tempeste e de’ venti, ad affrontare, a combattere coraggiosamente le flotte che o l’interesse o l’impegno o l’invidia, renda nemiche alla Francia. [3.2ED] Parvemi in fine toccar il ciel con le dita quando, sbarcati a Marsiglia, mi venne fatto d’incontrarlo nel delizioso e magnifico passeggio del corso, ove que’ grand’alberi che fan ala ed ombra ad un lieto numero di giovani e di donzelle che quivi si spazia interrompono senza nascondere le adorne facce de’ bei palagi che, sì dall’una che dall’altra parte, per lungo tratto quasi egualmente s’innalzano. [3.3ED] Qui, toccatami quasi di furto la mano, mi disse all’orecchio di ritrovarci alla cittadella che domina il porto e la città tutta, come anche parte della campagna, luogo non men delizioso che solitario e quasi fatto per parlare da quella cima di materie affatto geniali con piacere e con libertà. [3.4ED] Mi sembrò lunga un secolo quella notte per trovarmi colà sul nascer del Sole ed il mio gobbo fu non meno ratto di me ad arrampicarsi per lo scosceso della montagna e sul più eminente parapetto della cortina, da cui mi vidi soggetta agli occhi quanta bellezza può mai consolare una vista. [3.5ED] Mi ricordai delle amene colline della mia patria, nel rimirarne la simiglianza su quelle che quivi attorniano la popolata città, tutte vestite di fronzuti parchi, framezzati da vaghe e folte abitazioni di villa, e di là, balzando le occhiate sul porto, non sapea saziarmi della quantità e diversità delle galere, delle navi e di tante altre sorte di bastimenti che rendean pieno di bizzarre figure e guernito di più colori il lungo specchio di quel pacifico molo; e tanto maggiormente mi piacque quanto, vedendovi per entro cullarsi la bella galea su cui aveva io scorso non piccol tratto di mare con non poco patimento della persona, mi ricreai col pensiero del dover fare il restante del gran cammino per terra. [3.6ED] Divisatosi fra noi brevemente su la vaghezza del nostro soggiorno, io fei crudamente (tanto il desio mi spingea) mano bassa su questi oziosi ragionamenti per ritornare su la tralasciata materia; onde io presi a dire:
[3.7ED] — Quel dito che tu mettesti alla bocca mi strozzò più richieste ch’io volea farti, appunto, come se tu fossi Aristotile, e sono circa lo sceneggiamento. [3.8ED] Questo tra i Franzesi e fra gl’Italiani con gran riguardo si esamina, ma non so se tanto si considerasse fra’ Greci. —
[3.9ED] — I nostri Greci — rispose il vecchio — nel loro sceneggiamento altro non considerarono che il loro bisogno, piantando talvolta in scena per un atto intero, per due ed anche quasi per tutto il tempo della rappresentazione un attore. [3.10ED] Lo fanno ancora talora sortire, perché venga a dire i suoi versi che dan progresso alla favola; lo fanno rientrare quando gli ha terminati e quando conviene far parlare altra persona di cose che il primo non dee ascoltare, ed in ciò son bene inferiori ai Franzesi e ad alcun di voi Italiani. [3.11ED] Voi moderni regolate lo sceneggiamento di modo che un attore non si sfiati recitando la maggior parte della tragedia, ma gli alternate e risparmiate a vicenda, e nell’economia sì del sortire che dell’entrare usate bensì di qualche libertà nel principio di ciaschedun atto, ma per altro tutte le vostre scene dipendono da qualche palese occasione, e in ciò (torno a dire) l’avete ficcata a’ tragici nostri. [3.12ED] Non perderò il tempo in esempli, bastando il leggere qualunque buona tragedia moderna e tutte le antiche per confrontarli e per venire in tutta chiarezza di tal verità. —
[3.13ED] — Sono persuasissimo, — io replicai — ma una differenza ci è circa lo sceneggiamento fra’ tragici franzesi e fra noi, ed è che i Franzesi hanno per li soliloqui un cert’odio che noi non abbiamo. [3.14ED] Pochi e per lo più brevi se ne leggono nelle loro più rinomate tragedie, ma nelle nostre e (se a me lice parlar di quello di che doverei forse tacere) nelle mie se ne trovano di non brevi, ma che però molto mi servono ad una buona e chiara condotta delle mie favole. [3.15ED] Pretendono i Franzesi che sia da pazzo lungamente dialoghizzar con se stesso ed inventano attori che chiamano ‘confidenti’, con cui interamente possa aprir l’animo suo un traditore, un amante, una vergine, da che (dicon essi) nasce più verisimiglianza in chi rappresenta e più diletto in chi ascolta. [3.16ED] Io (poiché ho cominciato a parlar di me) seguendo in ciò l’esempio del Tasso, del Guarino e di altri nostri Italiani, ho creduto dover regolarmi diversamente ed eccone le ragioni. [3.17ED] In tanto piace il ragionamento rappresentato in scena in quanto imita il vero parlare de’ gran personaggi ne’ gravi interessi ne’ quai li finge la favola; ed essendo la voce quell’instrumento che ci fa scorgere, come in uno specchio, l’immagine di que’ sentimenti che in altra guisa non si vedrebbero, ciò ottenuto, nulla più ci rimarrebbe a bramare se veramente credessimo che si pensasse come si parla e se non ci costasse per esperienza ed esempli che altro alle volte si dice ed altro si pensa. [3.18ED] Quindi è che, imitando col finto il vero in questi ragionamenti rappresentato, l’uditore può sospettare che quanto uomo esprime anche ad un suo confidente non l’esprima ben pienamente sincero, dimodoché ci rimane una curiosità di spiare, quasi per fenestrella, nel cuor di chi parla se l’interno corrisponda all’esterno; vorremmo insomma sapere come uom seco stesso favelli, ma questo rare volte avviene nel vero, perché rare volte uom seco stesso favella in guisa che altri lo possa ascoltare. [3.19ED] Nondimeno se una fiata ci riesce di ascoltar qualcheduno che (siccome nelle gran passioni o nelle gran macchine qualche volta accade) seco stesso altercando mette fuori quanto ha nel cuore non credendo che altri l’ascolti, grandissimo diletto ne concepiamo e non si può a bastanza esprimere quanto validamente un parlare di questa sorta ci muova ad amore o ad odio verso o contro chi lo pronuncia. [3.20ED] E quante volte, vedendosi per noi un personaggio cupamente pensoso, a qual si sia costo diletterebbeci il saper quello che sta ruminando? [3.21ED] Ora un tal piacere, che ci vien cagionato da’ veri soliloqui sol per metà, ci vien dato interamente anzi doppiamente da’ finti: interamente perché non solo imitiamo i soliloqui che in luoghi solitari talora i più passionati a se medesimi proferiscono, ma riduciamo anche in voce l’altra metà che essi pensano e non pronunziano. [3.22ED] Accordano i Franzesi che qualcheduno si possa introdurre da sé parlante, ma brevemente, essendovi di ciò esempli nelle loro famose tragedie; e son’io d’accordo con essi che, quando si dovesse imitare chi ad alta voce seco stesso favelli, sia bene il non allungarsi; ma quando si riduce a voce il sol pensamento, allora son di parere che il soliloquio possa allungarsi perché sarà sempre breve rispetto al tempo in cui taluno si fissa ad un pensiero. [3.23ED] Penserà, ruminerà per un’ora un personaggio quel tanto che noi in voce e dentro lo spazio di otto o di dieci minuti rappresentiamo, seguendo in ciò la regola generale di tutti i discorsi di scena che, per non annoiar gli uditori, s’imitan sempre con più brevità di quella che verisimilmente soffrono i veri ragionamenti; e quindi avviene che in tre ore al più si discorrono in scena materie che non si digerirebbero in otto, anzi in più ore di tempo, se star volessimo ad una ben rigorosa imitazione del vero. [3.24ED] Rimane ora il dubbio se sia in facoltà del poeta il cangiare in voce il pensamento di un personaggio, allora che l’introduce solo a discorrere; e per me credo che questa sia una di quelle libertà che dal teatro vengano liberalmente permesse. [3.25ED] Permette dunque il teatro che un attore, il qual dovria parlar da se stesso, in maniera che l’altro attore non l’udisse, perché così vogliono i suoi interessi, parli con voce più bassa, ma non però così piano che il popolo non l’ascolti; se il popolo, che è più lontano, dee udirlo, tanto l’udirà maggiormente l’attore che è più vicino; ma perché in altra guisa non si potrebbe per noi uditori sapere quanto o dice o pensa in disparte colui, di buona voglia ci siamo avvezzi ad immaginarci che l’attore non debba ascoltare quello che noi ascoltiamo ed, in grazia della necessità, assolviamo l’interlocutore da questo inevitabile inconveniente. [3.26ED] Ben è vero che allora il discorso in disparte dee esser brevissimo, perché o fosse borbottare o fosse mero pensare quello del personaggio che col personaggio compagno sta poi per altro parlando, facilmente darebbe sospetto di poca sincerità se frammezzasse al ragionamento palese o lunghi pensieri o lunghi borbottamenti. [3.27ED] Ma quando un personaggio non ha chi lo ascolti in scena ed ivi è o credesi solo, allora, essendo in tutta libertà o di discorrere o di pensare, può discorrere e pensar lungamente a tutt’agio. [3.28ED] Per queste ragioni non è facile che io m’arrenda a coloro che han per costume di ridersi di tutto quello ch’essi non fanno se tu non ti metti dal loro partito, che allora comincerò a credere essere il partito della verità quando per Aristotile venga abbracciato. —
[3.29ED] — Io ti ricordo — replicò il vecchio — che nacqui greco e che ho qualche superbia della mia patria, e che non ho men vanità de’ Franzesi nel vantar tragici che sono i vostri esemplari. [3.30ED] E però nelle vostre tragedie ritrovando io soliloqui, già per questo conto comincio a piegare al tuo partito, purché ciò sia a condizioni il più che si può ragionevoli. [3.31ED] Io rammento che nell’Aiace di Sofocle questo sfortunato eroe parla da se medesimo, e vengo ora dall’aver letto l’Oreste e l’Elena di Euripide, e ho osservato nella prima tragedia un soliloquio di Elettra di versi 69 e più sotto un altro di Tindaro, siccome nell’altra, due soliloqui di Elena, l’uno de’ quali è pur di versi 69 e ve n’ha un altro di Menelao di versi 54, due ve ne sono non brevi negli Orazi del Cornelio, ed uno ancor nel suo Cid, per quello che su due piè mi sovviene, sicché di esempli a tuo favore non si scarseggia. [3.32ED] Ma certa cosa è che la scena appresso di noi compariva sempre guernita di personaggi, benché un solo parlasse. [3.33ED] Noi piantavamo in scena una certa razza di popolo che alle volte s’instatuiva alle bande, ed allora poteva ben cicalare l’attore che l’uditorio dovea immaginarsi che quello parlasse da sé e che parlasse in maniera che coloro non lo potessero mai ascoltare; quando poi tornava bene alla favola che coloro ascoltassero e che non vi era altro attore, allora questi con una creanza da Greci entravano in mezzo ed interrogavano e rispondevano, cosa che, mentre si viveva alla buona, non offendea, ma che ora riporterebbe da voi puntigliosi una sdegnosa ceffata. [3.34ED] Alle volte poi queste perpetue figure cantavano, accordando al canto la danza, e sempre chiamavansi Coro, veramente tale in questa ultima funzione e abusivamente detto ancor tale o semitale nelle altre, essendo che nella seconda non è che un supplemento d’interlocutori e nella prima non è che un numero di genti mute che voi popolarmente denominate ‘comparse’. [3.35ED] Questo popolo adunque, che sempre trovavasi in scena, non impediva con la sua presenza i soliloqui perché, se color che parlavano fisicamente non erano soli, moralmente erano e fisicamente parlavano da sé soli. [3.36ED] Ben è vero che l’empiere di questi soliloqui le tragedie è poi vizioso, viziosissimo il farli senza importante occasione; ed è affatto insoffribile l’introdurli freddi e senza quel diletto che appunto o dall’imitazione di ciò che in quel caso veracemente avverrebbe o dallo scoprimento dell’occulto animo altrui ci risulta; e, se mal non giudico o qualche genio che ho per te non mi accieca, per quanto ho letto le tue tragedie, non hai da pentirti né de’ tuoi soliloqui né di quel che chiami sceneggiamento. —
[3.37ED] — Siasi questa — io soggiunsi — o parzialità tua o ben fondato giudizio, o per l’uno o per l’altro titolo la tua approvazione mi è sempre cara ed accetta, e, giacché di ciò abbiam parlato a bastanza, passerò a nuova interrogazione. [3.38ED] Tu vedi le nostre tragedie tutte ripiene di affetti amorosi, ove le vostre ne sono scarsissime, e pure ne’ vostri argomenti se ne conoscono i fonti, in guisa che noi, imitando le tragedie sì di Sofocle che di Euripide v’introduciamo agevolmente gli amori, senza punto allontanarci dal verisimile. [3.39ED] L’amore è una passione così viva e così gentile ed antica, che non poté esser incognita a’ vostri bravi poeti; e perché dunque non la rappresentarono in scena con tutto il suo fuoco e nel suo maggior lume, siccome fassi oggidì? [3.40ED] Tu che hai lette le belle opere del Cornelio e del Racine, ti sarai sentito muovere a tenerezza dall’espressioni non meno grandi che amorose de’ loro attori: sono iti questi due famosi Franzesi, e più cupamente il secondo, a pescar ne’ fondi dell’anime la natura di quest’affetto e si son serviti di essa per muoverlo con tal forza che nelle loro tragedie piangono gli attori, che pur sanno di fingere; piangono gli uditori, che pur sanno di udir cosa finta; ma gli uni e gli altri si scordano di se stessi e la imitazione del vero ad essi par così vero che in lor produce il medesimo effetto, siccome in un passionato amante succede che ei parli al ritratto della sua donna freneticando e, quasi che abbia avanti degli occhi l’originale, vi piange sopra, lo bacia e scorre in mille follie di piacere, di dolore, di smania. —
[3.41ED] — Gran corda è cotesta — ripigliò l’Impostore — che tu mi tocchi; e tu puoi ben esser certo che la passione amorosa non era incognita a’ nostri poeti, perché i nostri poeti erano uomini. [3.42ED] Se leggerai tu Anacreonte, Saffo ed altri lirici (trattone il severissimo Pindaro) conoscerai che questo affetto pizzicava ben vivamente l’animo de’ nostri maggiori, tanto più che il nostro clima è assai più adatto che il vostro agl’incentivi amorosi. Contuttociò i1 grand’Omero nell’epopeia, Sofocle ed Euripide nella tragedia, se ne sono, il più che han saputo, astenuti. [3.43ED] Tu vedi Achille sdegnato per la rapita Briseida, Ulisse sedotto da Circe, trattenuto da Calipso in Omero, fonti inesiccabili di tenerezze amorose, ma parrà che ti si mostrino i fonti per farti crescer la sete, non per ammorzarla. [3.44ED] Così pure i tragici fanno, e benché per lo più guidino donne giovani e verginelle nelle lor favole, queste, trattando e parlando con chi potrebbe ad esse amorosamente piacere, rimangono fredde in quest’ardente passione. [3.45ED] Ora per nostra difesa tu dei sapere che l’amore di noi altri Greci non era già una passione inferiore alla vostra, ma che l’espressioni amorose erano molto diverse e tali da potersi cantar per giuoco sovra una cetera; ma da fuggirsi nella seria condotta di un’epopeia e nella torva rappresentazione di una tragedia. [3.46ED] Le nostre espressioni tendevano senza rigiri al fine della natura o per la strada sempre onesta del maritaggio o per l’incestuosa ed adultera d’altri oscenissimi accoppiamenti. [3.47ED] Se vuoi vederne la differenza non hai che a confrontare l’Ippolito d’Euripide e la Fedra del tuo Racine, e mettendo una Fedra dirimpetto all’altra, vedrai quanto più sincera e lascivamente la nostra, quanto più scaltra e con pretesti apparentemente onesti la vostra, si diano in preda al desio dell’incestuoso adulterio. [3.48ED] Quindi è che, non avendo noi mai avuti cotesti vostri princìpi di parlar d’amore in modo che la pubblica onestà ne potesse esser contenta, ce ne siamo nelle epopeie e nelle tragedie a tutto potere guardati. [3.49ED] Né ci ha punto cangiati di proposito quel Platone che in oggi col di lui nome coonesta le vostre corrispondenze amorose. [3.50ED] Il mio maestro ebbe in mente che la propagazione di se stesso fusse il vero fine dell’amore e che l’unione ne fusse il mezzo; ma siccome due maniere di propagarsi egli intese, così due sorte d’unioni furono per esso contrasegnate e distinte. [3.51ED] L’una fu l’unione de’ corpi e degli animi, l’altra fu l’unione degli animi e degli intelletti. [3.52ED] L’unione dell’animo negli oggetti amanti ed amati produce sempre l’amore o sia l’amicizia, e questa è unione per sé sterile, che nulla propaga se non trae seco per l’una parte quella de’ corpi, per l’altra quella degl’intelletti. [3.53ED] Quella de’ corpi propaga gl’individui, e questa è comune anche a’ bruti siccome all’uomo e alla donna, se non che ne’ bruti supplisce all’unione degli animi ragionevoli quella degli spiriti loro animali. [3.54ED] Questa riceve il suo compimento dal corporalmente accoppiarsi nella generazione e questa è il fine dell’amor sensuale. [3.55ED] L’unione degli intelletti anch’essa propaga le cognizioni dell’un intelletto nell’altro, senza che cosa alcuna esca visibilmente da tale accoppiamento intellettuale. [3.56ED] E non è già che questa union d’intelletti non possa avvenir fra l’uomo e la donna, ma perché può essere frastornata dalla natura che aspira all’unione principalmente de’ corpi, crede il maestro di renderla più sicura, più felice e ancor più feconda, quando succeda fra quei del medesimo sesso, a cui non ispirandosi da natura altra union sensuale, rimangono più liberi gl’intelletti a propagare le lor cognizioni. [3.57ED] Questa generazion di notizie tanto è più nobile e tanto è più profittevole quanto è reciproca. [3.58ED] L’uomo corporalmente genera nella donna un altro individuo, ma non la donna reciprocamente nell’uomo; là dove negli accoppiamenti intellettuali la generazione è reciproca e l’un intelletto propaga nell’altro le proprie cognizioni, di modo che la propagazione si va raddoppiando a vicenda sì nell’uno che nell’altro oggetto amante ed amato egualmente. [3.59ED] Ma perché questo amore veramente platonico non è popolare, non essendo o inteso o amato dal popolo inclinato alla libidine, non si è voluto per noi rappresentar nelle tragedie che aspettano il ‘viva’ dal popolo, incapace d’applaudere a ciò che per esser raro e maraviglioso esce al suo credere affatto fuori del verisimile. [3.60ED] Ma voi altri avete ne’ vostri amori rappresentati fra uomo e donna una fortuna che noi non avemmo, e questa è la religione. [3.61ED] La religione vi vieta gli accoppiamenti illegittimi, lo che vi fa molto cauti ne’ vostri amoreggiamenti; ma perché il senso d’altra parte è lo stesso ne’ moderni che fu negli antichi, avete pensati modi di parlare dell’amor sensuale fra uomo e donna con onestà, attraendo i sentimenti che proferite dalla bassezza e dalla lascivia, di modo che le vostre eroine favellan d’amore senza cagion d’arrossire e rendon sì bella e sì pura questa per sé fecciosa e vile passione, che dove prima era macchia ora diventa ornamento. [3.62ED] Questa maniera d’amare quanto era incognita ai Greci tanto è conosciuta e famigliare fra voi, onde vien anche accolta dal popolo con applauso: né solamente i vostri lirici la cantano nella cetera dietro il profondo Dante, il leggiadro Petrarca, il grave Casa e i lor megliori seguaci, ma il vostro epico Torquato Tasso (poiché l’Ariosto per lo più tratta l’amore alla greca) e i moderni franzesi nelle tragedie hanno un linguaggio d’amore che in nulla si scosta dall’onestà, o se talor se ne scosta, ciò si tollera rappresentato in que’ personaggi che il poeta vuol far comparir gastigati in pena del lor malvagio costume. [3.63ED] Ma questa fuga dell’antica colpa degenera in vizio ogni volta che l’epico e il tragico o troppo raffinino i loro pensieri nelle meditazioni amorose, condescendendo eccessivamente all’ingegno e recedendo dal verisimile, ovvero ne’ caratteri de’ loro personaggi fan troppo vivamente spiccare questa passione amorosa. [3.64ED] Tanto l’amore quanto lo sdegno son fuoco: questi due fuochi però son d’un’indole differente. [3.65ED] Quello dello sdegno è d’un zolfo la cui fiamma cerulea s’attacca al cuore e violentemente l’abbrucia. [3.66ED] Quello dell’amore è un fuoco di maggior lume, che non è sì violento ne’ suoi principi, onde più abbaglia e meno tormenta, anzi pare che diletti; quindi è che ne’ personaggi tragici la passione dell’ira che gli trasporta non ispicca tanto che copra sotto di sé il carattere principale, a cui dal poeta son destinati e creati. [3.67ED] Ma la passion dell’amore, se non è maneggiata con senno dal tragico, mortifica col troppo raggiare il lume più fievole del carattere principale e così, dove io aspettava un eroe, mi rappresentate un amante. [3.68ED] Aggiungi ancora che tutte le altre passioni servono a formare il carattere d’un personaggio, ma l’amore non serve che a rovinarlo; imperocché lo sdegno (per parlar di una delle più forti) che nasce dall’irascibile, essendo più nobile dell’opposta passione che, con tutte le vostre meditazioni magnifiche, nasce dalla concupiscibile ed è più vile, si unisce meglio al carattere di un superbo o d’un crudele o d’un ambizioso o d’un politico, e, per così dire, gli dà non so che di spirito che più lo rileva, ma non così l’altro affetto, che troppo si oppone alle massime costitutive degli accennati caratteri. Io paragono l’ira a colui che, non avendo fortune corrispondenti alla chiarezza del sangue illustre, va così altiero del suo nascimento che non manca perciò di rispetto verso di chi lo lascia impunemente gir vano di sua nobiltà; ma paragono l’amore de’ vostri tragici a quel plebeo follemente arricchito che, nato dalla feccia del volgo, con tutte le distinzioni ed i titoli che a lui dona o gran fortuna o gran principe, non può però scordarsi della nativa bassezza, e, perché pure vorrebbe sopprimere il rimorso di sua viltà, se gli altrui eccessivi e generosi favori gli dan baldanza e gli accrescano lena, si fa così temerario che non solo sprezza e soverchia i suoi pari, ma perde ancora il rispetto a’ maggiori. [3.69ED] Bisogna dunque illustrar quest’amore, ma non tanto che perda affatto la conoscenza della sua nascita e che mentisca la concupiscibile d’esser sua madre, altrimente tutto soverchia e rovina, e la principal figura delle tragedie sarà occupata da questa indegna passione. [3.70ED] Così non fusse. [3.71ED] Eccoti quel gran Mitridate che, dopo aver tenuto fronte a’ Romani, battuto dalla fortuna collegata col valore latino, mentre la fama decanta la sua sconfitta, improvisamente risorge e, niente smarrito della disgrazia, si fa vedere nella reggia di Ponto più che mai tremendo a’ Romani. [3.72ED] Io l’ammiro, ma se il tuo diletto Racine, nell’atto che quegli sta agitando così terribil vendetta, me lo fa nello stesso momento, come amante di Monima, impiegare quella gran mente a scoprir con gelose malizie gli amori fra essa e Xifare di lui figlio, questa viltà di passione me lo disfà più di quello che l’han disfatto i Romani, e d’un terribile vecchio e di un grandissimo capitano e di un magnanimo vendicator de’ monarchi, me lo cangia in un folle, in un astuto, in un rimbambito, e di venerabile me lo fa comparir in scena ridevole. [3.73ED] Tu ti torci, ma abbi pazienza; io dico male de’ miei Greci dove lo vuole la verità, onde posso anche dir male in qualche cosa de’ tuoi Franzesi, che per altro venero e stimo e al par di te e più di te. [3.74ED] Tu pure mi hai morsicato e per questo ti son meno amico? Non ti costringo già ad odiare la verità per amar troppo Aristotile. [3.75ED] Con questa piccola protestuccia ti dirò ancor qualche cosa sopra la Fedra dello stesso tuo dilettissimo autore. [3.76ED] Per dar ben campo all’amore di spaziarsi in quella tragedia, non si contenta che Fedra ami Ippolito, ma vuol di più: che Ippolito ami anche Ariccia. [3.77ED] Ecco dunque il cuore d’Ippolito attaccato dalla matrigna, a cui vigorosamente resiste, ma questa sua resistenza non tanto si dee rifondere nella virtù del giovane casto, quanto nella preoccupazione del genio innocente e amoroso, che aveva per Ariccia; ed eccovi con questo amore diminuito Ippolito almen per metà, mentre la sua resistenza nulla contien di mirabile né si dà merito di virtù all’astinenza che è cagionata dalla sazietà di cibo migliore. [3.78ED] Se il gran Pietro Cornelio avesse voluto moltiplicar gli amori, avrebbe forse creato Ippolito inclinato a Fedra per invincibil violenza di genio, ed averebbe accresciuta la di lui virtù col farlo disprezzatore di ciò che amava, giacché non poteva amare con onestà. [3.79ED] Se tali quali ha fatto Racine questi due eroi, li facesse la storia, o avria dovuto abbandonarne il soggetto o assolutamente emendarlo, perché il poeta non è tenuto a rappresentar gli avvenimenti quai furono, ma quali esser dovettero. In questo difetto cadono gran parte de’ tragici vostri, perché in quegli argomenti ne’ quali l’amore ha luogo naturalmente, troppo lo esaltano, ed in quelli dove naturalmente non lo ha, ve lo vogliono in ogni maniera ficcare e ve lo ficcano e lo dilatano in guisa che distruggono il grande ed il generoso de’ loro caratteri. —
[3.80ED] — Ma pure — io interrompeva — non può negarsi che aride come (perdona al vero) le vostre sarebbero le nostre tragedie senza che questa bella passione le rinverdisse. —
[3.81ED] — E non hai tu — l’altro allora — condotta a fine una tragedia senza donne e senz’amori, quando non voglia tu contar per uno di questi amori l’amor della patria, che nel tuo Procolo più tosto nasce dall’irascibile che dalla concupiscibile? [3.82ED] E poi chi condanna gli amori? Condanno il dar troppo ad un affetto che da se stesso se ne usurpa dipoi altrettanto. [3.83ED] Nell’Ifigenia hai posta in scena una vergine innamorata, ma che però preferisce il pregio della verginità alla sua passione lusinghiera. [3.84ED] Nell’Alceste la fé maritale precede nella donna all’amor della vita, nell’uom all’amore di un’altra bellezza eguale a quella ch’ei già credeva defunta. [3.85ED] Nel Gesù perduto gli amori sono affatto celesti fra madre, figlio e parenti: per questa tua condotta ne’ quattro drammi accennati hai tu sentito che ti si facciano le fischiate? [3.86ED] Ma nella Perselìde e nella Rachele (perdona al vero) hai tu seguita la moda del donar troppo all’amore. [3.87ED] Compiasi dunque con la prima massima il tuo teatro e non caderai nel difetto che sin ad ora ho perseguitato io ne’ moderni, né in quello che tu perseguiti negli antichi. —
[3.88ED] — Io non vorrei invanire — soggiunsi — di qualche studio impiegato perché l’amore non mi guadagni la briglia nelle tragedie; ma egli è però vero che di quest’affetto ho avuto in animo di servirmi come di un pulito ed abil valletto, di cui nulla è più insoffribile quando, da troppo favor de’ padroni a qualche impiego men vile degli altri suoi pari venga elevato; il restante della famiglia, che lo vede far da signore sul suo signore, questo disprezza e quello quasi venera ed ubbidisce. [3.89ED] Egli è uopo che il valletto sia sempre valletto e che sempre per tale e dal padrone e da’ famigli si riconosca. [3.90ED] Solo permettimi l’aggiunger anche un periodo in difesa degli amori, sì abbondevolmente introdotti nelle moderne tragedie, e questo è un sentimento di qualche erudito franzese che, in udire opporsi da me questi soverchi infocamenti amorosi alle tragedie della sua patria, rispose cosa che mi arrestò e che arrestar te potrebbe quand’ella sia vera. [3.91ED] Diceva dunque il buon monsieur che presentemente il nostro teatro è assai diverso dal greco perché a que’ tempi pudici le donne tanto si astenevano dal teatro quant’or lo riempiono. [3.92ED] Quindi è che la donna, come violentemente a quest’affetto inclinata e come quella che rare volte da passioni più rilevanti preoccupata si truova, odierebbe quella rappresentazione ove non avesse gran parte la sua passione favorita; e giacché questa difficilmente può dal cuor suo sradicarsi, è almen necessario col rappresentare in scena gli amori, insegnarle a nodrirli con sobrietà, dimodoché non facciano di quelle dell’ellera, che tanto d’umore sugge dall’albero il quale la nudre che arriva ingrata a seccarlo. [3.93ED] Così viensi ad ottener l’utile del moderar la passione, trattandola nelle guise che van d’accordo con l’onestà, e si conseguisce l’applauso e il compiacimento dell’uditorio, che per la maggior parte è di femmine. —
[3.94ED] — Franchezza ci vuole — ripigliò l’Impostore — nell’impostura: almeno con questa il tuo avversario ha fatta tacere la disputa; ma non avrebbe già convinto Aristotile, che ha visto il teatro greco ed il teatro latino folti di donne non meno di quello che sien oggi il franzese, l’italiano, lo spagnuolo, il tedesco e l’inglese. [3.95ED] Nel teatro latino intervenivano infin le vestali e v’era il luogo per esse medesime destinato. [3.96ED] Ma, perché si parla del greco, non vo’ che tu creda alla mia parola, perché ritorceresti contro di me che ti parlo la mia sentenza; diresti almen fra te stesso che all’impostura ci vuoi franchezza nell’asserire, e che io già sono impostore. [3.97ED] Credilo per lo meno al Bulingero, che scrive: «Athenis mulieres, et hospites spectabant e loco, qui dicitur Kερxίδες seu arbores stipite oblongo instar radii»
e, per confermarsi in questa credenza, riporta una legge di Sfiromaco, dalla quale veniva prescritto «ut mulieres, et hospites ad Cercidas sederent»
. —
[3.98ED] — Tant’è — io soggiunsi — ammiro l’altrui disinvoltura nel pronunziare; e vedo svanire in fumo le pronte risposte degli eruditi immaginari. [3.99ED] Ma per non parlar sempre d’amore, passiamo un poco a cotesto terrore ed a cotesta compassione, co’ quali per te si purgan gli affetti degli ascoltatori della tragedia. [3.100ED] Io non intendo quella frase del purgare il mal col malanno, cioè del purgar gli affetti col terrore e con la compassione. —
[3.101ED] — Né men io — seguia l’Impostore —, e quante cose ho io pronunciate con termini che non significano nulla? [3.102ED] Noi altri filosofi (io parlo almeno de’ non stoici) dobbiamo mantenerci venerabili a’ sapienti non solo, ma agl’ignoranti; a’ primi per dottrina e per merito, a’ secondi per politica e per ambizione; ma quella venerazione degl’ignoranti che ci pubblicava quasi uomini che avessero che far con gli dii, ci metteva in una stravagantissima soggezione ed era di rispondere a tutto quello di che interrogavano, e molte volte interrogavan di cose alle quali barba di filosofo non potea per verun conto rispondere. [3.103ED] Allora, che doveva farsi per un mio pari ch’era filosofo e cortigiano? [3.104ED] Mi son più volte, presente Alessandro ed alle sue tavole fra ’l vino e la crapula, udite muover quistioni ridicole da certi asini clamidati e lucenti d’oro e di porpora a’ quali, se non avessi prontamente risposto, dicresceva il credito d’Aristotile. [3.105ED] Il mezzo termine per uscirne era appunto l’invenzione di un termine che nulla significasse, ma che nell’oscurità mostrasse involvere arcani, ed io fra me stesso rideva dello stralunamento degli occhi loro e de’ folli applausi delle lor lingue a ciò che né essi né io intendevamo. [3.106ED] Ma il mio purgar gli affetti col terrore e con la compassione non è in questa sfera, e son obbligato all’interpretazione che in ciò ha data al mio testo l’eruditissimo abate Fraguier. [3.107ED] La tragedia per mezzo del terrore e della pietà solleva lo spettatore da queste stesse passioni, facendo ch’ei si scarichi sovra oggetti finti della tristezza che lo divora. [3.108ED] Nella maniera che una musica malinconica solleva e toglie la nostra malinconia: questo è il vero senso del testo, ma io senza dipendere da quanto ho scritto, posso ora interpretare quella espressione diversamente da ciò che allora sentii. [3.109ED] Gli affetti nostri ci portano all’ambizione, alla prepotenza, alla crudeltà: col terrore si purgano i primi due affetti e con la compassione si purga il terzo, ma non si purgan veracemente gli affetti, si purga l’animo dagli affetti disordinati; il rappresentare un principe scellerato parte per malizia e parte per sua disgrazia, punito con la miseria, purga gli animi degli ascoltanti dall’ambizione e dalla prepotenza; ma il vederlo poi punito forse troppo severamente, muove la nostra umanità a compatirlo e caccia da’ nostri cuori la crudeltà. [3.110ED] Questo ho io fondato sull’idea la più generale delle nostre antiche tragedie, che è di esporre sul palco prìncipi sventuratamente colpevoli ed orribilmente puniti; e ciò faceano i poeti per adular le nostre repubbliche, le quali volevano mantenere ne’ liberi popoli l’odio alla monarchia, mettendo loro negli occhi la scelleraggine e l’infelicità de’ monarchi. [3.111ED] Ma, per dirla, in oggi questo fine della politica è ben cangiato nella maggior parte dell’universo e per questo conto può essere che i nostri vecchi argomenti potesser piacer tuttavia a Venezia, a Genova e all’Italia; ma dove la monarchia si è fatta domestica con la giustizia, clemenza e maestà del governo, bisogna regolar altrimenti il fine politico della tragedia. [3.112ED] Noi siamo in Francia, ove tu vai a vedere un monarca nulla inferiore ad Augusto. [3.113ED] Tu ascolterai certe leggi che han renduto questo regno indomabile alle maggiori potenze d’Europa e ammirabile all’Universo; la maggior parte di esse nasce dalla mente di questo Luigi XIV, detto il Grande, ma che potria dirsi il massimo di tutti i re della terra. [3.114ED] È lungo tempo che io vedo monarchi; ho veduto Alessandro, Cesare, Ottaviano e Traiano, ma non so che di più ancora osservo nel gran Luigi. [3.115ED] Gli altri suoi pari custodiscono la maestà col mostrarsi solamente in circostanze di tutto fasto, poco a’ lor sudditi e meno agli stranieri, ma tu mirerai il re di Francia dalla mattina alla sera nel letto, al vestirsi, alla mensa, a’ passeggi, alla caccia intorniato da’ popoli suoi e non suoi, d’ogni condizion, d’ogni sesso, quanto più famigliare, tanto più re; ed i suoi Franzesi, avvezzi per secoli alla monarchia, vie più accreditata dalle maniere adorabili di Luigi, hanno in dispregio la libertà delle paurose repubbliche. [3.116ED] E benché possa dirsi lo stesso di molte nazioni, io che ho già camminati tutti i paesi sin ora scoperti dagli uomini, mi ho eletto questa per lasciar le mie ossa in un regno che fra tutti quanti mi è parso il più florido, il più magnifico e il più adattato a chi desidera separarsi da tutte le cure ed attendere a vivere il rimanente de’ giorni suoi spensierato. —
[3.117ED] — Approvo quanto tu dici in questa parte — io risposi — e tanto maggiormente io l’approvo quanto che son bolognese. Io vanto un monarca che nel maneggio delle cose celesti appar così grande come Luigi in quello delle terrene. [3.118ED] Han qualche proporzione fra loro nella statura, nel portamento e nell’affabile maestà Clemente XI e Luigi XIV: come diverso è il lor impero, così le cure ne son differenti, perché il mio principe ha quelle che convengono ad un viceddio, il quale presiede in terra alle divine ragioni e che parla il linguaggio dello Spirito Santo ne’ suoi oracoli. [3.119ED] E quelle del re di Francia convengono ad un regnante che presiede alle umane ragioni e mantiene col peso delle sue forze nel proporzionato equilibrio le amiche e le nemiche potenze. [3.120ED] Ma meno terribile è il giogo del sacerdozio e però ancora più leggiero, per lo più accompagnato dall’età grave e sempre dalla pietà; poco si mescola ne’ secolareschi affari de’ sudditi. [3.121ED] La mia patria si truova ancor così libera che appena s’accorge aver principe, massime sotto il presente generoso governo. [3.122ED] Il nostro eccelso Senato, ubbidendo al suo principe, comanda a’ propri cittadini, dimodoché sotto il manto venerabile pontificio custodisce la libertà, senza la gelosa tema delle repubbliche e gode nello stesso tempo i vantaggi senza soffrire gli aggravi del principato. [3.123ED] Questa felicità fa a noi pure odiare le altrui libertà paurose e amare, al dispetto de’ tragici greci, la monarchia. —
[3.124ED] — Tanto meglio — replicò il vecchio — egli è dunque opportuno regolare diversamente il fine politico della tragedia e giovare al pubblico per altre strade che per quelle del rendere odiosa la monarchia. [3.125ED] Converrà perciò che dalle tragedie si cavi qualche profitto morale che riguardi la buona educazion de’ figliuoli, la fede intera de’ maritati, l’amor della patria, la giusta difesa del vero onor proprio, la costanza dell’amicizia, l’ingiustizia della persecuzione del merito, il culto verso le divine cose e ciò col rappresentar premiata sotto queste ed altre divise un’esemplare virtude e col mostrar gastigato il vizio che se le oppone. [3.126ED] E perché tanto più spiccano la virtù e il vizio, il premio e la punizione quanto più in personaggi illustri e reali si veggono, egli è uopo continuar nella massima d’imitar solamente i migliori, ch’è uno di quei tali termini di cui si discorreva poco fa, col quale uscii brevemente dall’imbarazzo di dover distinguer tutte le sorte de’ personaggi che compongono l’azione di un tragedia. [3.127ED] Ma è omai scorso più avanti dell’ordinario il nostro ragionamento. [3.128ED] Tu non rivedrai questo Impostor che a Parigi. [3.129ED] Già siamo fuori della galera e benché ognuno cammini alla stessa meta, voi altri ve ne anderete col brio signoril delle poste, io, povero vecchio, me ne anderò con più agio e con minore spesa. [3.130ED] Colà vi sono passeggi pubblici di amene e maestose verdure, fra le quali occupa il posto più riguardevole quello delle Tuillerie. [3.131ED] Là riconoscerai facilmente questa contraffatta caricatura e là potrò finire di soddisfarti. —
[3.132ED] Così diceva scendendo meco dalla fortezza, finché, giunti al molo, una barchetta, sui cui si lanciò come rana l’agile gobbo, me lo rapì.
Sessione quarta
[4.1] Da Marsiglia dunque a Parigi mi convenne rimaner digiuno del mio erudito Impostore e, quantunque passassi per luoghi ameni sino a Lione, né pure la vista di quella popolata, ricca e mercantile città valse a ricrearmi. [4.2ED] Altro sollievo non ebbi che il soggiornare sovra una lieta collina presso a una chiesa divota dedicata alla Vergine detta delle Forviere, eminenza che signoreggia tutta quanta la terra e le ville, e mi pareva appunto di starmi sul nostro colle di San Michele in Bosco, se non che dal nostro non si veggono come nel piano di Lione due fiumi reali la Sonna ed il Rodano, l’uno costeggiare e l’altro dividere la città, e poi incontrarsi, abbracciandosi per correre dentro un sol letto nel mare. [4.3ED] In sì ameno luogo mi diedi a scrivere quanto mi era rimasto nella memoria de’ discorsi avuti col nostro Aristotile, e mi sembrava appunto di conversarlo nel riandarne i saporiti ragionamenti; di lì a pochi giorni imbarcatomi per Scialone passai d’avanti a Trevoux. [4.4ED] Le scosse della carrozza della diligenza ne fecero per quattro giorni e mezzo, ne’ quali sempre si mangia e mai non si dorme, desiderare Parigi. [4.5ED] Ed ecco Parigi sorprendermi finalmente con immense e larghe contrade, tutte bollenti di popolo e di carrozze che volano ritto e a traverso, dando la fuga a’ pedoni. [4.6ED] Quivi, o alberghi o non alberghi la povertà, certo è che non s’incontra se non in apparenza di ricchezza e di fasto. [4.7ED] Le botteghe, che sono in numero quattro volte maggior delle case, fanno di sé medesime una scena assai vaga, che ad ogni passo si cangia e nella quale gli attori sono donne e donzelle leggiadramente abbigliate; e qui conobbi la sterminata possanza di questo gran regno, che se altra città non avesse come ne ha tante potrebbe da questa sola cavare a suo talento gli eserciti e, dopo trenta sconfitte, sostituirne de’ nuovi non meno formidabili e numerosi. [4.8ED] Confesso che questa aspettata, ma sempre maggiore grandezza di cose mi oppresse in modo che mi riempiè di se stessa e per qualche giorno poco mi ricordai d’Aristotile e meno della tragedia, e, come un assetato che vorrebbe, allorché arriva ad un fonte, tutto in un sorso assorbirlo, così, di qua e di là per l’ampio Parigi agitandomi, passai di volo alla rinomata macchina di Marlì, ove cominciai a vedere più da vicino un’immagine del gran coraggio reale.
[4.9ED] Ivi monsignor Bentivoglio nunzio apostolico e che, eguagliando l’altezza del suo nascimento con quella de’ suoi talenti e del suo gran ministero, reca non poca gloria alle due sue patrie Ferrara e Bologna, unito d’animo, di sangue e di presenza con monsignor Aldrovandi, mostravami il fiume da quattordici smisurate rote in sé ritenuto; ma col pinger dell’onda arrestata, aggirandole, vien poi da esse per successive trombe assorbito e con meraviglia della natura astretto ad ascendere sino alla cima di un colle di dove, come da fonte, seguitando il corso declive sugli archi di un maestoso acquidotto, discende contra sua voglia ad ubbidire alla regia magnificenza nel favorito Marlì. [4.10ED] Nessun fiume al mondo è più tormentato di questo, perché anche quivi fra verdure costrette a far di sé logge, portici, teatri e tutto ciò che di grande e di vago può inventare la prospettiva e l’architettura, è violentato a salire in altissimi getti, a discender per gradi da lunga altezza ed a comporre particolarmente una scala di spuma, come di latte, ordinatamente dirotta in cima, in mezzo ed a’ fianchi da’ successivi risalti dello stesso colore e beltà. [4.11ED] Questo è un ritiro reale ne’ cui edifici ha questo monarca voluto restringere la sua mente in un’idea di riposo ed impiccolir la medesima, dissimulando la famigliare sua vastità ma imitando appunto la Mente eterna, che non men grande apparisce nel lavoro terribile dell’elefante che in quello della breve, leggera e dipinta farfalla, anche nel piccolo e vago palagio di sua residenza e negli altri minori che gli fanno ala fa comparir chi è Luigi. [4.12ED] Ritornato quindi a Parigi con l’anima piena delle vedute delizie, non sapea saziarmi d’esaggerarle co’ pochi amici italiani di mia conoscenza e ne parlerei anche, per così dire, se non mi fosse stato per essi risposto che aspettassi sino all’aver veduto Versaglie per finire di trasecolarmi; e se, essendo io alloggiato nel borgo di San Germano, non mi fossi a caso incontrato in un cartello affisso ad una colonna che m’indicava rappresentarsi nel vicino teatro l’Ifigenia del Racine. [4.13ED] Allora mi soprafece l’antica passione eccitata dalla curiosità di trovarmi ad una tragedia franzese e massime a questa che è delle più rinomate del mentovato poeta. [4.14ED] Fui perciò de’ primi a trasferirmi al teatro, occupando un luogo vicino all’orchestra per meglio aiutar l’occhio e l’orecchio con la vicinanza della rappresentazione a goderne; e mentre stavansi per un servo accendendo le dodici lampane di cristallo che illuminavan la scena, sento tirarmi il mantello e mi volgo e mi vedo al fianco Aristotile; dimodoché volendo io alzar la voce per l’allegrezza, l’astuto vecchio mi raffrenò col dirmi all’orecchio:
[4.15ED] — Figliuolo, sta ben composto perché questa per altro allegra nazione che tu hai veduto per le vostre contrade d’Italia cantare e ballar camminando, qui vive altrimenti; e scorgerai i Franzesi con tutta serietà ed attenzione assidersi alla commedia e alla mensa. [4.16ED] Oggi si rappresenta l’Ifigenia del Racine; dimani l’Anfitrione dello spiritoso Molière. [4.17ED] Goditi questa tragedia e quella commedia, e assaggiate che avrai queste due, nel seguente giorno ti porterai al Palagio reale, abitazione di monsieur, principe in ogni sorta di studio, e di lingue a maraviglia versato, dove potrai godere della Medea, dramma per musica, ivi cantato e rappresentato. —
[4.18ED] — Domattina — io risposi — vo’ che l’alba mi truovi in Versaglie per dare un’occhiata a quella reale villeggiatura, non sì però che non sia per avermi il teatro all’Anfitrione. [4.19ED] Ma dopo della Medea ove ci vedrem noi? —
[4.20ED] — In nessun luogo — ei rispose — ma, la mattina seguente, se vuoi trovarti agl’Invalidi, là parleremo con libertà dell’opera in musica, che ha qualche rassomiglianza con la tragedia e che, secondo l’opinion di coloro che pensano tutto essersi cantato nelle greche tragedie, viene considerata come un’idea dell’antica tragedia; e però non è fuor di proposito il favellarne, poiché nulla tu vuoi trascurare di ciò che differenzia l’antica dalla moderna tragedia. [4.21ED] Intanto oggi, dopo l’Ifigenia, mi vedrai nel caffè di Ponte nuovo, che per tua notizia è il caffè de’ poeti: ivi conoscerai M.r Fontenelle, M.r de la Motte, M.r di Crebillon, e M.r Capistron; il primo famoso per lo suo trattato De’ mondi e dell’egloga, e per l’egloghe stesse; il secondo per le poesie liriche, e per l’Iliade d’Omero da certo in quindici libri leggiadramente ristretta, di cui mi sarei servito io per esempio assai più volentieri che dell’originale greco nella Poetica, se come Omero era già stato più secoli avanti di me, così almeno fosse vissuto al tempo che io scrissi M.r de la Motte. [4.22ED] Capistron poi è a te noto per le tragedie, come lo è Crebillon. [4.23ED] Ivi discorreremo unicamente del verso franzese e fra qualche giorno, dopo che avrai gustata la rappresentazione della commedia e dell’opera in musica, appunto della rappresentazione ragioneremo. [4.24ED] Statti intanto attentissimo a questa tragedia, giacché il concerto delle viole ci fa sperare quanto prima in scena gli attori. —
[4.25ED] Così avendomi parlato quel gobbo, mi sparì fra le alte stature degli affollati Franzesi ed io rimasi col gomito su l’orchestra a veder uscire Agamennone. [4.26ED] Le due ore che si consumarono in quello spettacolo mi parvero due momenti, tanta era la contentezza che io aveva di trovarmi ad esso presente, e mi riscossi come da un’estasi quando la rappresentazione fu terminata. [4.27ED] Risovvenendomi allora la posta datami da Aristotile, mi feci condurre al caffè su gli archi maestosi del Ponte Nuovo, abbellito nel mezzo da una superba statua a cavallo rappresentante Enrico il Grande, che fa dall’elevato suo piedestallo di sé prospettiva a due strade che sul bel mezzo del medesimo ponte diramansi, a piè del quale trovai quel rinomato caffè contrassegnatomi dalla presenza del vecchio che da’ cristalli della facciata vidi con occhio caprigno star osservando la mia venuta. [4.28ED] Entrato io però con essolui in una stanza assai civilmente addobbata, per non essere frastornati dallo strepito dello sbaraglino a cui si giuocava e de’ discorsi poetici in cui riscaldavansi i nominati poeti che ad uno ad uno mi furono brevemente fatti conoscere, ci adagiammo in due comode sedie l’uno a fronte dell’altro, e immediatamente Aristotile addimandommi del verso e dell’effetto che udito in bocca di quegli attori avea prodotto nelle mie orecchie con quella frequenza di rime contigue, con la qual dal principio alla fine del dramma costantemente vien regolato. [4.29ED] Alla qual richiesta risposi:
[4.30ED] — Io veramente all’udirlo non ho trovata cosa che me l’abbia fatto apparire molto diverso da quello che io me l’era già figurato in leggendolo e in discorrendone a lungo nella mia dissertazione del verso tragico; né già mi pento dell’avere in simil guisa rimate le mie tragedie, con tutto che questa nuova sorta di verso italiano abbia eccitato sì gran rumore ne’ letterati della mia patria. [4.31ED] Io temeva bensì di qualche fracasso, ma non di quello che ormai comincia ad assordarmi, perché io credeva in questa parte i miei giudici men passionati che ragionevoli. [4.32ED] Io già prefisso mi era che avrebbero riso di mia presunzione in voler vender loro per nuovo verso un accozzamento materiale di due versi eptasillabi; e però, quasi prevedendo le loro obbiezioni, m’ingegnai con qualche similitudine di ficcare loro in capo come anche una tale combinazione dava non so quale apparenza di maggior gravità e d’onorevolezza al mio verso; e perché so quanto vaglia appresso di noi il seguir più tosto l’esempi altrui che il farsi esemplare, se non per altro almen per sottrarmi all’invidia, nel prefazio della tragedia intitolata l’Alceste confessai di averne derivata la moda da certo Ciullo del Camo, che fu uno de’ nostri antichi poeti, appunto celebre per esser fra’ primi di età se non di valore. [4.33ED] Ma (il crederesti?) appena uscito il Teatro, invece di deridere l’impostura di un verso vecchio per me rinnovato, si sono dati a strepitare su quella qualunque siasi novità, approvando con tanta generosità i sentimenti, i caratteri e la semplicità di que’ drammi, con quanta ostinazione la maggior parte han disapprovato la nuova (e vedete che nuova!) invenzione del verso senz’armonia e con troppa frequenza di rime: avresti riso in udendo certi torcersi affatto nel leggerlo e dire: «Tutto va bene, ma quel verso franzese non può piacermi.» [4.34ED] Si può udire, caro Aristotile, maggior sciocchezza di questa? [4.35ED] Quasi che fra il verso franzese ed il mio non sia notabile differenza, sì nella disposizione che nella misura. [4.36ED] Ma o costoro non hanno letto la dissertazione proemiale o pure non l’hanno (lo che non vorrei credere) intesa. [4.37ED] Alcuni altri han soggiunto che quel mio verso così rimato non può recitarsi senza stuccar le orecchie degli ascoltanti. [4.38ED] Né ha giovato il rispondere che in varie città dell’Italia sia stato udito con plauso, né che il famoso Luigi Riccobuoni (dovendosi molto in questa parte credere a’ comici) mi abbia scritto più volte riuscire agli attori suoi comodissimo il verso mio; ché, ciononostante, duri di cervice più degli Ebrei, continuano ancora nel farsi conoscere o sciocchi affatto o invidiosi o maligni, mentre non cessan di borbottarne; e perché pur vorrebbero, mordendo il verso delle tragedie, sopprimerne la lettura, certi di loro che han fatto il viaggio di Francia, conchiudono che le rime franzesi nella maniera del recitare di questa nazione non si distinguono, ove ne’ recitamenti italiani vengono a ferire sfacciatamente nel timpano dell’udito: circostanza che io non potea dicifrare per non averne avuto esperienza, ma in oggi che, la Dio mercé, mi son trovato con le orecchie tese a questa tragedia, ti assicuro che ho benissimo distinto le rime e che invece di stancarmi di questa lor consonanza me ne sono, oltre ogni credere, compiaciuto. [4.39ED] Ora da te che non sei né italiano (cred’io) né franzese, vorrei sapere se per ragione o per passione io me ne sia compiaciuto; e se maggior maestà e gravità conterrebbe sì il verso franzese che il mio se o con rime frequenti o senza veruna sorta di esse si congegnassero, perché finalmente son anche in tempo di cedere alla corrente nelle tragedie ch’io sto tessendo, nulla essendomi per avventura più agevole dello srimarle, quantunque rimate elle sieno. —
[4.40ED] A questo discorso, mostrommi i denti, che conservava anche interi, ridendo il buon vecchierello, e rispose:
[4.41ED] — Il verso vien costituito da una sustanziale armonia (parlo del verso greco e latino) e, restringendomi per ragion d’esemplo all’essametro, è misurato da sei piedi, parte dattili e parte spondei, con questa legge che da uno dattilo con uno spondeo che a quello succeda sia terminato. [4.42ED] Ma di una parlando, avrò parlato di tutte le sorte de’ versi, che tutte sotto una stessa ragione convengono. [4.43ED] Questi sei piedi pronunciati da noi e dagli antichi Latini, componevano una misura la quale non poteva non esser armoniosa all’orecchio, perché chiunque pronunciava i nostri dattili e i nostri spondei facea conoscere quella tal quantità che voi adesso non conoscete se non coll’indizio e colla guida di quelle regole che su l’esempio de’ poeti vi siete formati con quella che chiamate voi prosodia. [4.44ED] Al vostro orecchio suona lo stesso umida che liquida (meglio mi par teco usare gli esempi latini, giacché della greca favella non hai sufficiente contezza) ma alle nostre sonava diversamente e ben capivano dal sol recitarle che l’uno era dattilo e l’altro tribraco, siccome voi Italiani pronunciate diversamente pèrfido e infìdo; e pure, se si perdesse la lingua italiana ora viva, quei che venissero non potrebbero giudicare della diversa quantità di queste parole, se non per via di una regola che lor bisognerebbe inventare per discernere dove la sillaba breve e dove lunga dovesse pronunciarsi. [4.45ED] Ma nella lingua latina e così pur nella greca, per abuso de’ professori, non si adatta presentemente la regola alla pronuncia; per lo ché voi sdrucciolate in errori di quantità, componendo versi o greci o latini; lo che a’ nostri poeti era, per così dire, impossibile; e dove l’alzare o l’abbassare il suono non potea contrassegnarci la brevità e la lunghezza, a bastanza il meno o più dimorare sovra la sillaba pronunciata ce ne additava la lunghezza e la brevità. [4.46ED] Odi un poco in qual guisa pronunciavansi i versi del nostro Virgilio — ; e recitommi la proposizione di quel poema che io malagevolmente in bocca sua intesi, tanto era diverso il suo pronunciare dal nostro; ma ben compresi un’armonia più compita e che appunto mi facea sentire e distinguere la quantità delle sillabe.
[4.47ED] Finiti que’ versi: [4.48ED] — Ecco — disse — come sarebbesi a far morire nelle botteghe de’ nostri librai tutti i volumi di regolette inventate per rimediare al male della pronuncia perduta. [4.49ED] Il verso, dunque, essametro, non con altra legge composto che con quella che ho detto di sopra, scorreva con una necessaria armonia e bastava essere o Greco o Latino senz’esser poeta o facitor di versi per recitarlo in un tuono che non poteva non esser musico e dolce. [4.50ED] Passiamo ora a’ vostri versi italiani e prendiam quelli dell’Italia liberata del Trissino, che son senza rima, e diamoli un po’ a recitare ad una zitella, o fiorentina o romana, che per altro pronunciando giustamente i vocaboli, non abbia contezza alcuna del verseggiare. [4.51ED] Stenterai a frenar tu le risa e voi giovincelli ve ne siete presi sollazzo, al mio credere, più di una volta, mentre non posando la giovine o nella quarta o nella sesta sillaba o altrove, dove i periti si fermano recitando, rompe affatto il tuono del verso che voi endecasillabo nominate. [4.52ED] Tu rideresti adunque, ma non riderebbe già un cortigiano che mai letti versi non avesse, ma d’esquisita prosa espertissimo fosse, purché la donzella leggesse col punteggiamento dovuto alla distinzione de’ sentimenti; e solamente giudicheria delle frasi un po’ baldanzose e rilevate che quella prosa (e pur saria verso) non fosse candida e moderata di stile. [4.53ED] Così è sempre stato giudicato prosa vera il componimento di S. Francesco di Assisi, se il Crescimbeni con malizia poetica non l’avesse scoperto per verso e pubblicato ne’ suoi Comentari. [4.54ED] Sai perché? [4.55ED] Perché il verso vostro non ha un’essenziale armonia, ma solamente un’accidentale datagli non dalla natura ma dall’usanza; e voi poeti sapete benissimo, per dare ritondità al vostro verso, dove bisogna ripigliar fiato e posarsi; perciò lo fate anche a costo di spezzar la parola impropriamente, come in quello:
Nemica naturalmente di pace.
[4.56] Fatta questa prova che vi riuscirà quale io dico, fatene un’altra. [4.57ED] Pigliate una stanza del Tasso e datela in mano alla nostra imperita leggitrice. [4.58ED] Può essere ch’ella, non cogliendo nelle posate, vi storpi il verso, non però potrà tanto in lei l’imperizia che il cortigiano prosaico non s’accorga alla corrispondenza delle desinenze quello esser verso, perché la vostra essenziale armonia consiste principalmente nella consonanza di quelle rime, non nella misura de’ piedi, mentre il numero egual delle sillabe fa bensì eguaglianza di periodo, non uniformità sonora di metro; e tal eguaglianza ancor di periodo viene interrotta parecchie volte dal sentimento che conduce l’un verso ad entrare in parte dell’altro susseguente; formiamo dunque così l’argomento: quello è verso che ha una sostanziale armonia inseparabile dal medesimo. [4.59ED] Ma il verso italiano senza rima non ha quest’armonia inseparabile dal medesimo. [4.60ED] Dunque il verso italiano senza rima non è verso. [4.61ED] Di questo sillogismo negherai tu la minore e io te la provo. [4.62ED] Il verso italiano senza rima si può recitar punteggiato in maniera che altri non vi conosca il numero armonioso. [4.63ED] Dunque il verso italiano senza rima non ha l’armonia sostanziale inseparabile dal medesimo. [4.64ED] E se mai tu mi negassi da accorto loico l’antecedente, ti convincerò con l’esempio sopraccennato, a cui non so quale cosa vorrai tu replicare in contrario. [4.65ED] Fondiamo ora su la stessa proposizion generale un altro argomento e diciamo: quello è verso che ha una sostanziale armonia inseparabile dal medesimo. Il verso italiano rimato ha l’armonia essenziale delle consonanze inseparabile dallo stesso. [4.66ED] Dunque il verso italiano rimato è verso. [4.67ED] Io crederei che tu mi dovessi tutto concedere quando tanto nell’uno come nell’altro argomento non mi negassi il primo principio ch’io suppongo per fondamento della mia prima proposizione, nel qual caso non disputerò più con teco come con uomo fuor di ragione e negante i primi principi. [4.68ED] Posti questi due argomenti, insorgerò nella seguente maniera: per quello che mi è concesso, quello è verso che ha una essenziale armonia inseparabile dallo stesso. [4.69ED] Ma quest’armonia essenziale non ha il verso non rimato italiano e il verso italiano rimato l’ha. [4.70ED] Dunque il verso italiano non rimato non è verso e il verso italiano rimato lo è. [4.71ED] Subsumo. [4.72ED] La tragedia italiana dee comporsi in versi italiani, dunque dee comporsi in versi rimati. [4.73ED] Questa seccagine di Aristotile tanto impugnata dal genio tuo l’incontrerà questa volta; dalla qual cosa ricaverai che il verso greco e latino hanno per anima dell’armonia loro il metro, ma l’anima del verso italiano è la rima. [4.74ED] Né il solo ritmo opera che il verso sia verso, essendo il ritmo ancor comune alla prosa. [4.75ED] Né intende già di prescrivere Cicerone nell’Oratore una legge al discepolo per cui la prosa delle orazioni verso divegna. [4.76ED] Imperocché ciò sarebbe non un perfezionarla, ma un deformarla; e Marco Tullio intende tanto perfezionarla che anzi vorria ridurla all’idea, e vorria costituire un oratore conforme all’idea, cioè più perfetto di qualunque sia stato o sia per declamare le cause de’ suoi clientoli nella curia; e ciò ha egli derivato da un mio sentimento, essendo uopo, secondo l’opinion mia, che la prosa abbia il ritmo, ma non già il metro, per lo ché di me lasciò scritto: «Versum in oratione vetat esse, numerum jubet.»
[4.77ED] Il ritmo dunque, che rende armoniosa l’orazione disciolta, non basta a separar da essa l’orazion legata italiana, quando non vi si aggiunga la rima, che sostanzialmente dalla prosa il verso italiano distingue. [4.78ED]
«Anzi la dolcezza
, al giudicio di uno de’ vostri gravissimi autori, ch’ella porge agli orecchi ben purgati è tale che i versi sciolti a lato ai rimati se ben sono non paiono versi. »
[4.79ED] Ma per dir meglio dovea conchiudere: se ben paiono versi, nol sono, siccome io credo averti assai persuaso; e mostrò il vostro Bembo di concepir anch’ei che la rima fosse la sostanziale forma dell’armonia nel verso italiano, pronunciando: «le rime graziosissimo ritrovamento si vede che fu per dare al verso volgare armonia e leggiadria»
. [4.80ED] Dunque al suo credere, senza questo grazioso ritrovamento il verso volgare né leggiadria né tampoco armonia conterrebbe, e così verso impropriamente e di solo nome sarebbe. —
[4.81ED] Poco mancò, che io non baciassi il mio gobbo, tanto solleticavami il mio ragionare, perché soggiunsi:
[4.82ED] — Io ti prometto, Aristotile, di affatto disdirmi in tutti i miei scritti di quanto ho temerariamente asserito contro alle tue sentenze, poiché tu sostieni con tanta costanza la mia; né certamente credo che a tue ragioni possan resistere le contrarie quantunque ostinate opinioni. [4.83ED] Ma dato ancor che debba ammettersi nella tragedia la rima, pretenderassi che questa più naturalmente risuoni alternata e che non entri con sì soverchia e nauseante dolcezza all’orecchio, quando non sia sì contigua come nel verso mio e nel verso franzese costantemente si osserva. [4.84ED] Condanneranno altresì questa uniformità di verso, non mantenuta né da’ Greci né da’ Latini nelle loro tragedie. [4.85ED] Ben è però vero che il mio verso non è così pertinace come è il verso alessandrino franzese, perché il mio non è sempre della stessa misura, benché per una certa conformità di ritmo lo paia. [4.86ED] Ve n’ha di quattordici sillabe, ve n’ha di tredici, di quindici, di dodici e sino di sedici, se si voglia, come ho diffusamente spiegato nella mia prima dissertazione e ciò perché io considero questa misura di versi non regolata dal metro, ma ben piuttosto dal ritmo, supponendo io, secondo la sentenza di Mario Vittorino, che: «metrum sit quaedam compositio, rythmus autem temporum inter se ordo quidam; eo quod metrum certo numero syllabarum, vel pedum finitum sit; rythmus autem numquam numero circumscribitur»
; e così sente ancor Diomede trascritto da Beda. [4.87ED] Con questa ragion mi lusingo che a’ miei versi, che in verità sensibilmente l’uno dall’altro son differenti, sia bensì necessaria la rima per compiere con essa quell’armonia che non è perfezionata da ritmo. [4.88ED] Mi conferma in questa opinione il dotto discorso di Sforza Pallavicino in difesa del suo Ermenegildo, ove e con l’autorità e con le ragioni e con la riuscita, prova conveniente alla tragedia la rima e v’inserisce l’autorità di Lodovico Castelvetro, mentr’ebbe a dire il prode modonese che il nostro idioma non avea verso privo di rima; nel che concorda anche il Vossio: «ne quidem intelligas versus esse quos legas, si similiter finientem auferas clausulam»
. [4.89ED] Ma non posso poi già dedurne che il rimar contiguo piuttosto che l’alternato si debba scegliere, quando altra ragione non ti sovvenga per sostenere il mio impegno; e però in questa parte usa pure della tua abituale sincerità e senza più che tanto adulare la mia opinione, palesami pur francamente la tua. —
[4.90ED] Sorrise nuovamente Aristotile, e replicò:
[4.91ED] — Se ben tu mi chiami a palesar con franchezza il mio sentimento, ti dorrebbe però (lo conosco) che fosse contrario a cotesto tuo; ma fatti pur animo, oh figlio, e sta di buon cuore che non è; e non è non per adulazione, ma per ragione. [4.92ED] Tu dei sapere che la tragedia è fatta per esser udita, io parlo de’ versi, perché rispetto allo spettacol, egli è fatto per esser veduto. [4.93ED] L’epopeia ha conseguito il suo fine letta che sia; non l’ha conseguito già la tragedia quando non venga rappresentata, cioè, rispetto a’ versi ascoltata, e rispetto all’apparato veduta. [4.94ED] Perché dunque si comprenda da’ leggitori che l’epopeia italiana è composta in verso, è necessario che sia rimata, ma si possono alternare le rime a piacere de’ poeti, o in terzetti alla maniera di Dante o in ottave alla moda dell’Ariosto e de’ Tassi, o in stanze siciliane, ma in modo che l’ultima rima dell’una leghi con quella del primo verso della seguente, alla guisa del tuo poema giocoso, che intitoli il Radicone; imperciocché il lettore ha tutto l’agio di fermarsi su ciò che vede e di aspettare con attenzione la consonanza delle cadenze a lui differita. [4.95ED] Con tutto ciò è stato creduto necessarissimo a ben perfezionar l’armonia che ad ogni otto versi vi sieno due rime contigue, mentre il sempre alternarle in tutta la stanza all’uso de’ Siciliani, senza legarle insieme, come hai tu fatto, intrecciandole alla maniera delle corone, rendeva meno armonioso e raccolto il componimento; lo che per avventura ne’ terzetti non fu necessario, perché i loro periodi son brevi e, se le desinenze non sono contigue, son così poco distanti che non annoia l’attenderle e non sospende soverchiamente l’aspettazione. [4.96ED] Ma perché al parere del vostro Orazio:
Segnius irritant animos demissa per aures,Quam quae sunt oculis subiecta fidelibus,
nella tragedia, acciocché ne venga negli uditori il diletto che risulta dall’armonia del verseggiare nel passeggero momento dell’ascoltarla, egli è d’uopo che le rime si faccian meno aspettare, e in conseguenza mi piace di udirle contigue, perché subito mi fan giudicare della misura e del verso e mi fan gustare anche in udendo il diletto dell’armonia. [4.97ED] Né ti dia che pensare la nausea che dal troppo dolce suol provenire, perché tu sai che io nel mio fragmento della Poetica sto predicando che i parlari della tragedia sian dolci; non basta anche, secondo il sentimento di Orazio, che sieno belli i poemi che «dulcia sunto»
(ei soggiunge), supponendo che questo sia un gran segreto per la mozione delle passioni, mentre, posta questa condizione, promette:
Et quocumque volent animum auditoris agunto.
[4.98] Ben è vero lodar io quella sorta, sia di misura sia di periodo, che più al parlar grave e naturale si accosta, e però avrai letto nel mio divulgato fragmento lodare io nella tragedia
«i versi ambi, perché essi imitano il parlare ordinario e vi stan bene tutti que’ nomi che nella prosa si parlano»
; e il verso franzese e diciamo anche il tuo alla gravità del jambo assai si avvicinano; ma perché ho scritto che «vi stan bene tutti que’ nomi che nella prosa si parlano»
, rifletti che appunto nella tragedia richiedendosi una locuzione chiara, non umile ed impetrandosi la chiarezza dall’usare de’ nomi propri, ella si può far bassa, usandone soverchiamente; quindi aggiungo: «E tali sono i nomi propri, le metafore e i nomi ornati.»
[4.99ED] Non è però che nella locuzione tragica non sia più periglioso il parlare ornato che il naturale, mentre nella prosa l’oratore si mostra, ma nel verso jambo tragico non si palesa il poeta nascosto sotto l’attore; e però non essendo tanto propri di questa sorta d’imitazione tutti quegli ornamenti poetici che convengono alla poesia lirica ed epica, tu vedi bene che la tragedia abbisogna di una dolcezza forse maggiore di quella che si ricerca negli accennati poemi, la qual dolcezza due effetti produce: l’uno è che aiuta notabilmente a condur le passioni dell’uditore in quella dell’attore; imperocché non si può esprimer quanto possa l’armonia variamente usata o a commuovere o a tranquillare gli affetti; e questa è una forza fisica, di cui più si vede l’effetto di quel che se ne possa immaginar la cagione; lo che ha fatto fare tante speciose meditazioni a’ platonici e a’ pitagorici, per mostrare di asserir qualche cosa, ove per verità poco o nulla dicono che vaglia a convincere. [4.100ED] L’altro è che questo ornamento della dolcezza ricompensa quegli altri ornamenti, che la locuzione della tragedia non ha; e però han creduto gl’inventori della medesima di doverla aiutare con l’apparato, col suono degl’instrumenti e col canto de’ cori e con la dolcezza del ragionare; recedendo anche alle volte dal jambo ordinario non solamente ne’ cori, che di lor natura ciò portano, ma nelle scene degli atti. [4.101ED] I Franzesi costantissimi nel loro alessandrino e tu nel tuo verso accozzato, vi aiutate con la vicinanza e con la varietà delle rime a conseguir la dolcezza che non averete dal metro, da cui i Greci ed i Latini iambi l’avevano; e però anziché biasimar coteste rime, le lodo e le credo io necessarie, perché queste unicamente mi contrasegnano il verso che il solo ritmo non basterebbe a contrasegnarmi, e conseguentemente mi allettano e mi rendono dolce il ragionare della tragedia franzese e italiana; e tanto è vero che le rime unicamente ci contrasegnano il verso che quanti han letto il tuo verso, benché tocchino evidentemente esser esso una composizion materiale di due ettasillabi, pure lo han preso, lo prendono e sempre lo prenderanno per un verso di nuova invenzione, perché solamente nell’ultimo del suo periodo risonando la rima, questa lo fa conoscere per verso; dove, se tu invece di rimarlo solo nel fine, l’avessi rimato ancora nel mezzo, allora tutti non per uno, ma per due versi, scritti l’uno dirimpetto all’altro, preso l’avrebbero e allora ti saresti sentito opporre esserti tu servito di un verso troppo conciso e leggero per la gravità innata della tragedia. [4.102ED] Così, suo malgrado, i tuoi Italiani vengono a giudicare che il verso senza rima verso non sia, mentre dell’ettasillabo non rimato non giudicano che sia verso, ove il quattordicisillabo credono tale perché ha la rima. [4.103ED] E nella guisa che, quando veggiamo gli obbietti i quali son dipinti nella retina al rovescio, benché l’anima li senta co’ piè all’insù, nondimeno li giudica ritti, e tanto li giudica che ce li fa apprendere e traveder come tali, perché il raziocinio abbaglia e vince la forza contraria del senso; i letterati, che vedono il tuo verso esser due, lo giudicano come un solo, perché l’ingenito raziocini vince in ciò il senso; e la ragione, su cui non riflettono, ma alla quale inevitabilmente consentono, si è che quello solamente sia verso in vostra lingua che ha rima. —
[4.104ED] — Oh qui sì — io ripigliava — che vi vogliono delle comparazioni per dar ad intendere tanto a me, quanto agli altri Italiani che molto schiamazzo abbiano fatto e facciano sul mio verso, perché solo apprendean per verso quel misurato ragionamento che vien terminato e legato con l’altro dalla cadenza. [4.105ED] Son anzi impegnati nel giudicare che i versi sciolti da rima ma regolati da un numero certo di sillabe sieno versi, perché si son posti in opera da vari de’ nostri poeti, particolarmente ne’ drammi, come anche perché credono che la rima repugni all’imitazione del parlar naturale, potendo ben accadere che noi parliamo in verso senz’avvedercene, come il Casa nel principio della sua famosa Orazione a Carlo V; ma, non potendo giammai avvenire che parliamo in rima, e, se la tragedia è un’imitazione del ragionare de’ prìncipi e più l’imitazione è perfetta accostandosi al vero, imiteremo dunque con maggior perfezione il vero parlare quando ci asterremo dall’artificio palese di questa rima. —
[4.106ED] — Io — replicava l’Impostore — ti ho detto altre volte che l’imitazione perché diletti dee contentarsi di una perfezione la quale non esca fuori della sua sfera, e però in alcune cose dee convenire col vero e in alcune disconvenire. [4.107ED] Egli è per questo che le comparazioni son belle, imperocché fra due cose dissomiglianti si viene a conoscere qualche convenienza che per l’avanti non appariva; ma la similitudine del leone con Ettore non sarebbe lodata, se in tutte le cose il leone con Ettore convenisse, perché allora Ettore ed il leone sarebbero una cosa medesima e sarebbe un comparare lo stesso a se stesso, lo che non dilettevole, ma viziosa renderebbe la comparazione. [4.108ED] Tale si è l’imitazione: in alcune cose dee convenire, in alcune disconvenire, altrimenti non sarebbe più imitazione del vero, ma il vero medesimo; né si avrebbe il gran merito del produr gli effetti ne’ cuori umani col finto, che si producon col vero. [4.109ED] Che se pensassero mai i tragici di sedur tanto le immaginazioni de’ loro uditori da far lor credere di trovarsi in coloro a veder la vera trasformazione di Edipo o in Aulide al sacrificio d’Ifigenia, di gran lunga s’ingannano. [4.110ED] Imperocché gran parte di loro conosce quell’istrione fuori di scena che in scena rappresenta Edipo; conosce che quell’Oreste è un tale che si sopranomina Lelio, che l’Ifigenia è la Flaminia, che quella è una scena dipinta, che quegli abiti gioiellati son oro falso e cristallo; sa che quelle parole sono premeditate; e sente che dalla scena vi è con la candeletta sul libro chi le suggerisce; sa che il recitamento dee essere in versi; sa che un’azione di un giorno non può eseguirsi materialmente in tre ore, benché in tale spazio si rappresenti. [4.111ED] E queste non son bagatelle (Martello mio) da lusingarsi che si possa condur l’impostura tant’oltre quanto per avventura tu lo vorresti. [4.112ED] Ma tutti questi disinganni operano poi che l’imitazion del costume, delle passioni, de’ riti di quella nazione di cui si parla, e la condotta naturale e fervida dell’azione appunto piacciano, perché nel finto cotanto lontano dal vero si ravvisa un non so che più perfetto e più pulito de’ veri medesimi, e il vero anzi ridotto ad un’idea del vero; ché tale è il rappresentarlo nelle sue perfezioni qual è e, fuori delle sue imperfezioni, qual esser dovrebbe. [4.113ED] E questo è per isvegliare la meraviglia e il diletto convenientissimo. [4.114ED] Ma, mi dirai che per muover gli affetti è inefficace un’imitazione la qual si lasci conoscere; perché l’applauso vien dall’ingegno e la compassione dal cuore che fisicamente si muove, né si può muovere quando non venga perfettamente ingannato e sedotto a creder per vero quel che non è. [4.115ED] In quella guisa che di due, l’uno de’ quali veda piangere per la sua dipartita una donna, mentre l’altro sa di sicuro che colei nulla più brama che la di lui lontananza e che quel pianto è spremuto non dalla passione, ma dalla finzione: il primo piange ancor egli amaramente, ma il secondo piuttosto deride l’altrui corriva credulità e si adira col conosciuto artificio. [4.116ED] Nelle azioni tragiche adunque vi vuol un’imitazione così perfetta che l’uditore non vi creda arte o finzione; e però bisogna star lontanissimi da ciò che olezza artificio, valendosi di un verso sciolto, lo qual somigli alla prosa, ed astenendosi dalle rime che troppo mettono in vista l’affettazione. [4.117ED] A ciò ti rispondo che sbagli se credi che l’ascoltante con tutto questo possa tanto ingannarsi che creda veri i pianti della famosa Flaminia rappresentante la vergine Ifigenia; e pure all’udirla il popolo piange; ma sai perché? [4.118ED] Perché con l’imaginazione facendosi presente quel caso, si astrae nel medesimo e si figura che la vera Ifigenia parlasse con que’ sentimenti e si smaniasse in quella maniera in cui appunto si esprime e smaniasi la Flaminia, e che il poeta non abbia fatt’altro che mettere in versi il discorso della principessa d’Argo; e così la vera Ifigenia rammemorata, i di lei sentimenti vivamente al popolo ricordàti ed espressi nel loro maggior lume, gli atti della vera Ifigenia ad esso sì spiritosamente rappresentati, muovono il popolo ad ira, a misericordia, ad amore; e fin qui può arrivar l’impostura; imperocché, se altrimenti avvenisse e che non la vera, ma la finta Ifigenia lo movesse, ne avverrebbe infallibilmente che l’ira, la misericordia e l’amore ancora dopo l’azione durerebbero negli ascoltanti verso l’attrice; siccome quando noi per qualche azion fatta di nostro piacere o scontento, amando o pur odiando un obbietto, ancora fuori di quell’azione seguiamo ad odiarlo o ad amarlo; così, finita la rappresentazione, avremmo gli stesse movimenti verso la finta Ifigenia; e pure (quand’altro fine non muovaci) non gli abbiamo, là dove verso la vera Ifigenia, anche fuori della rappresentazione, li conserviamo. [4.119ED] Ed eccoti il vero arcano della mozione del popolo assiso allo spettacolo della tragedia. [4.120ED] Questa meditazione ti arriverà forse nuova, ma mi glorio che quanto più vi rifletterai, tanto più la ritroverai vera, spogliato che tu sia del pregiudicio della tua prima e folle credenza. [4.121ED] Quindi è che né i versi né tampoco le rime impediscono il movimento della passione, e tu hai pianto, se vuoi dire il vero, o almen veduto piangere il popolo all’Ifigenia di Racine con tutti i versi e le rime; sicché questi legami non impediscono la movizione e non l’impediscono per le ragioni accennate. [4.122ED] Certa cosa è poi che non bisogna spingere l’artificio tropp’oltre valendosi del verso saffico o di metri affatto lirici e che dal parlar naturale troppo sfacciatamente si scostano; ma quei metri o ritmi che modestamente da’ ragionamenti degli uomini si allontanano, sono gli ottimi; e così noi perlopiù usammo il jambo, i Franzesi l’alessandrino e tu il verso tuo, che ha qualche rassomiglianza con questi. [4.123ED] Per altro poi è sciocchezza il dire che il jambo cada sovente negli ordinari parlari. [4.124ED] L’esperienza fa conoscere ciò rare volte avvenire, siccome pure rarissime volte succedere, che il vostro verso endecasillabo sia casualmente inserito ne’ vostri discorsi. [4.125ED] Nell’idioma italiano, le cui parole terminano tutte in vocali, è più facile che il caso porti la rima che la misura, alla qual la natura di cotesta lingua, anzi quella di tutte le lingue, è meno inclinata; e però la rima è a voi più naturale della misura. [4.126ED] Noi altri Greci nel preferire il jambo a qualunque altro verso per la tragedia, non altro in animo avemmo che il valerci di un verso la cui giacitura è delle più somiglianti alla prosa, e così sono parimente le giaciture del verso alessandrino e del tuo. [4.127ED] Ma noi avevamo il metro e conseguentemente anche il ritmo che contrasegnava e rendea musico il nostro verso, e voi avete il ritmo e la rima che indica e rende armonico il vostro. [4.128ED] Ciascuno si vaglia de’ mezzi alla propria lingua proporzionati per lo conseguimento della dolcezza. —
[4.129ED] — Ma che domine son eglino, adunque, — io seguiva — que’ ragionari che di undici in undici sillabe o di sette in sette non punto rimati van riposando? [4.130ED] Di questi pure hanno usato con lode universale nel Torismondo Torquato Tasso, nell’Arsinda il Testi, nel Corradino il Caracci, e nella Merope il Torelli e il Maffei, per non fare un catalogo di tanti altri. —
[4.131ED] — Io non intendo di scemar la gloria a costoro — ripigliò quegli —. [4.132ED] Ciascuno suo piacer segue e cotesti han seguito il lor genio, o per meglio dire sonosi uniformati in questa piccola parte al genio corrotto del popolo. [4.133ED] Ma perché nelle altre gravissime parti della tragedia chi più, chi meno, si son segnalati, a misura del merito loro han conseguiti proporzionalmente gli applausi. [4.134ED] In ciò che spetta al verso, quando anche tu avessi operato con più ragione, essi si son diportati con più prudenza, essendo le cose introdotte men perigliose da praticarsi di quelle ch’uom vuole, quantunque ragionevolmente, introdurre. [4.135ED] Se tu volessi agli Arabi, ai turchi persuadere con l’esempio de’ violini e de’ flauti la dissonanza de’ loro sciaurati instrumenti, ardua e perigliosa provincia tu imprenderesti, difficil cosa essendo il cattivare con una ragionevole novità orecchi avvezzi ad intender lo sconcerto e lo strepito in qualità d’armonia. [4.136ED] E in tal caso ti consiglierei per bene delle tue spalle a prenderti ancor tu un corno o un paio di bacini, e a strepitare con essi secondo la moda, ancorché contro della ragione. [4.137ED] Cosi han fatto i poeti italiani per assicurarsi le spalle che tu ti vedi già minacciate per aver voluto quel che sin ora non si è voluto per altri. [4.138ED] Ma per tornare a que’ ragionari (siccome dicesti) che di undici in undici sillabe o di sette in sette non punto rimati van riposando, chi dice a te che riposino e quale indizio ne hai? [4.139ED] Tanto più che cotesti vostri poeti han per legge che il sentimento col verso sciolto frequentemente non termini, ma che anzi variamente esteso nasconda col suo periodo la cantilena uniforme che la costumanza suol dare a cotesti periodi misurati. [4.140ED] Che si deformi il verso con la diversa estensione del sentimento, per esprimere il quale non si può esprimere senza perturbazione il giro dell’armonia, quando almen vi resti la rima, che poi al dispetto di quello studiato interrompimento ci faccia conoscere il verso, non so biasimar l’artificio; perché così dassi pure non so che di men ordinato e di più naturale alla disposizione non uniforme della punteggiatura e de’ sensi. [4.141ED] Ma dato che il verso italiano sciolto non sia nemmen pronunziato o recitato secondo la costumanza, ma che si rompa o si diversifichi a misura de’ sentimenti, sosterrò sempre che nulla ha di verso. [4.142ED] Al più, al più i versi italiani sdruccioli sciolti potrebbero dirsi in qualche maniera pur versi, essendo che quelle tre ultime sillabe recano almen con se stesse una sostanziale armonia e una specie di metro nella costante determinazione del dattilo. [4.143ED] Ne’ versi tronchi pur anche ti vo’ accordare non so che di armonico innato; ma questi poi non si diran senza rima, se si rifletterà che terminando ciascheduno di essi in una delle cinque vocali, agevolmente l’orecchio vi truova le desinenze, quantunque casuali e lontane, calcarsegli sul timpano dall’accento sempre uniforme, dimodoché svegliano l’anima a considerarne la consonanza. [4.144ED] Ma ne’ versi piani che troverai tu di verso? [4.145ED] Vi troverai ben il ritmo, perché finalmente vi è l’eguaglianza della misura; ma questo fa il periodo sonoro, non il verso, e fa una prosa ritmica e numerosa, secondo l’accennata mia sentenza in bocca di Cicerone: «Versum in oratione vetat esse, numerum jubet.»
[4.146ED] Il verso greco e latino sono creati dal metro. Il verso ebraico consta di ritmo e di rima, e benché più antico del nostro non è stato da’ nostri maggiori imitato perché, come alla lingua latina e alla greca conviene la quantità, così non ben conviene la rima. [4.147ED] Io ho ultimamente letto le dotte Considerazioni intorno alla poesia degli Ebrei fatte dal vostro Biagio Garofalo ed un sua erudita e forte difesa contra l’Antilogia di un tal Fabio Carselini, ne’ quali due libri vedrai chiaramente la verità di quanto ti espongo. [4.148ED] Di questa natura per lo più sono tutti i linguaggi orientali, tutti capaci di rima ed incapaci di quantità, secondo l’opinione dello Scaligero, che pronuncia: «Hebraismus, Syriasmus, et Arabismus nullo modo ad metrorum Graecorum, et Latinorum regulam revocari possunt, etiam si coelum mari misceatur, quia id natura sermonis non patitur.»
[4.149ED] Ma l’equilibrio della divisione vuole che, siccome per render musiche la lingua latina e la greca è stata assegnata la quantità tassata de’ piedi, così a render musiche le altre lingue di essa quantità non capaci fosse assegnato il ritmo e la consonanza. [4.150ED] Lo spagnuolo dunque nel suo verso drammatico usa le rime, le usa il tedesco, l’inglese e il franzese. [4.151ED] Ciascuna di queste nazioni ha misura e rima nel verso, e la sola lingua italiana, che nel verso tragico sciolto non ha che misura, vorrà essere la più povera d’armonia di tutte le altre lingue morte o viventi e dentro e fuori d’Europa? [4.152ED] Non hai dunque a pentirti del tuo rimare nelle tragedie e dovrebbonsi dagl’Italiani imitare i nostri Greci, che quando inventavano una sorta di verso non prima udita, non erano invidiati, ma accolti ed onorati col nominare da loro il verso per essi inventato. [4.153ED] Così la sua invenzione immortalò Saffo, la sua Alceo, e fra voi non già il verso, ma la materia giocosa ha solamente al Berni accordata simil fortuna. —
[4.154ED] — Ma che dirà — io interruppi — di cotesta tua opinione un certo giureconsulto che scrive con tanto disprezzo e nausea della rima italiana. [4.155ED] Queste sono, se ben mi ricorda, le sue parole: «essendosi perduta la distinzion delicata e gentile del verso dalla prosa, s’introdusse quella grossolana, violenta e stomachevole delle desinenze simili»
. —
[4.156ED] — Eh parli costui — disse il gobbo quasi saltellandomi agli occhi — giacché è giureconsulto, parli della sua Ragion civile, lasci in pace a’ poeti la Ragione poetica. [4.157ED] Io lo conosco più che non credi, né vo’ trovargli il pelo nelle opere sue legali, che forse ancor lo potrei, se non nell’erudizione per lo più ben fondata, almeno nella presunzione del farsi a noi credere per compilator di notizie da altri precedentemente ammassate e pubblicate, se non con miglior ordine, almeno forse con non minore eleganza di stile. [4.158ED] Pure non voglio incorrere io nell’errore del metter piede in una professione non mia, perché imiterei il vostro giureconsulto che vuol comparirci legislatore di poesia. [4.159ED] Non so se avrai letto nella Poetica del Boelò un racconto assai grazioso. [4.160ED] Vi era un certo che volea far il medico ed avea talento per far l’architetto. Invogliato della prima arte, ch’egli credeva più gloriosa, colla mediocre pratica che ne aveva incominciò a medicare, ma con tanta felicità che uno ne guariva per accidente e dieci ne ammazzava per imperizia; dimodoche non vi era famiglia per lui medicata che non portasse gramaglia. [4.161ED] Chi si lamentava avergli lui tolto il padre, chi la madre, chi la sorella, chi la consorte, chi il figlio. [4.162ED] Ma perché nessuno a questo mondo manca di amici, lo portò il caso sovra una fabbrica che da un suo amico innalzavasi e tali errori corresse e sì belle proprie direzioni gli diede che per suo consiglio la fabbrica fu perfetta, ond’ei trasse fama di assai valente architetto; dalla qual cosa illuminato, risolse di lasciar da parte la folle impostura della già sua medicina e abbandonossi con lode, per sin che visse, all’architettura. [4.163ED] Se il nostro giureconsulto non lascerà la poetica, gli avverrà quello che sarebbe avvenuto all’architetto franzese, se non lasciava la medicina, e così avverrebbe a noi se, abbandonando l’arte poetica, volessimo entrare a giudicar della legge, osando di censurare gli scritti di questo autore in materia della quale o è o debbe essere peritissimo. [4.164ED] A me, che son filosofo e loico, spetterebbe l’esaminare il suo raziocinio nell’arte poetica, nel cui studio mi son mescolato della maniera ch’è nota a tutti gl’ingegni, perché nulla meno ha costui che il vantato buon raziocinio, come nulla meno che la sostanza dell’onore, han coloro che la parola ne han sempre in bocca. [4.165ED] Scrive egli dunque:
che quando una favella di sua natura nobile e copiosa s’incontra ad avere in qualche tempo tal numero di eccellenti scrittori che abbondi più che mai per tutte le materie e tanto in prosa, quanto in versi risplenda, allora come ascesa al colmo del suo universale accrescimento, se non ferma il corso nel punto della perfezione e non munisce gli acquisti suoi con regole, osservazioni e precetti, ma si lascia andar disciolta ovunque dalla volubilità delle cose umane e particolarmente dalle nostre lingue è portata, partendo dal perfetto, incontrerà necessariamente stato sempre peggiore e con la mutazione andrà tuttavia insensibilmente mancando.
[4.166ED] La proposizion generale non può essere più verisimile, né con periodo più sonoro e ritondo potrebbe esser espressa dal mio Demostene oppur dal tuo Cicerone. [4.167ED] Passa quindi saviamente a considerare gli stati delle tre lingue greca, latina e volgare italiana, prendendone appunto gl’indizi dagli scrittori, e della volgare conchiude:
che l’italiana, la quale alla foggia della greca e della latina da’ greci e latini professori più che ogni altra presente lingua fu coltivata, al giudicio de’ più savi si riflette e si ritenne nel secolo del Dante, Petrarca e Boccaccio, i quali alla maturità la condussero; conciossiaché il secolo di Leon Decimo fusse solo una ristorazion di quello il di cui elegantissimo stile fu dagli scrittori del decimosesto secolo a comune uso rivocato.
[4.168ED] E qui comincia a vacillare il nostro raziocinante, perché se le lingue per lunga esperienza avessero il periodo delle febbri acute, potremmo giudicare del loro stato avanti che terminassero; ma, come fu sempre incerto ed ineguale il periodo delle lingue, così finché una lingua non è morta non si può giudicar del suo stato, quando chi ne giudica non sia dotato del dono della profezia, indovinando che più eccellenti scrittori di quelli che ha finora avuti non sia per aver quella lingua che tuttavia vive e fiorisce; e quanto a me, non so se bilanciandosi il decimosesto secolo col secolo antecedente de’ tre toscani scrittori, il più moderno avesse in materia di autori e di regole che invidiarne all’antico. [4.169ED] Aggiungi ancora che nello stesso periodo il Loico si contradice, asserendo: «che la lingua greca e latina da’ greci e latini professori più che ogni altra presente lingua fu coltivata»
. [4.170ED] Imperocché, se la lingua italiana e vivente non è arrivata alla coltivazione della greca e della latina, come vuol giudicar della perfezione a cui può ella arrivare se non è giunta ad essere coltivata come le due precedenti e se la coltura la può far crescere di copia, di maturità e di bellezza? [4.171ED] In due cose, al mio credere, consiste la legge di una lingua: la prima sono i vocaboli, la seconda si è l’uso loro. [4.172ED] Certo è che quanto ai vocaboli una lingua viva sempre dee crescere e la stessa Accademia della Crusca col suo moderno Vocabolario e maggiormente con un altro che più copioso sta preparando, dà a divedere che questa lingua non ha finito di crescere e di arricchire. [4.173ED] Rispetto poi all’uso de’ vocaboli, soggiace ad una legge che in due si divide ed è che un uso debbano aver nella prosa, un altro nel verso, ed una collocazione o giacitura nella prosa, un’altra nel verso, donde poi viene come il periodo debbasi tessere e il verso assestare: dimodoché se a’ tempi di Dante, del Boccaccio e del Petrarca dovette la lingua italiana ricevere le sue regole stabili per l’avvenire, dovette ancora limitare i propri vocaboli agli usati da quegli autori, lo che è contro l’esperienza; e dovette limitare altresì l’uso de’ vocaboli stessi alle regole prescritte da quelli sì nel verso che nella prosa, usando in quella la misura e la rima, in questa il numero del periodo raggirato, lo che contradice al nostro giureconsulto quando asserisce che lo stato della lingua italiana è quello de’ rimatori e poi condanna la rima. [4.174ED] Per usare di un miglior raziocinio doveva egli dire piuttosto della lingua italiana vivente non potersi assegnare ancora lo stato: alcuni credere che l’abbia avuto quattrocento anni fa, quasi che nel suo nascere, mercé di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, che allora vissero e l’illustrarono; ma costoro di gran lunga ingannarsi, sì perché le voci ne crescono giornalmente, sì perché tanto la prosa che il verso con l’uso delle voci stesse si perfezionano; allora essere stato accetto il periodo ritondo latino, che in oggi genera oscurità nella spiegazione de’ sentimenti, la quale dalla nostra lingua si vuole più disinvolta e spedita o meno lontana dalla costruzion naturale, come pur sin da que’ tempi osservò e praticò nel volgarizzare i Morali del pontefice San Gregorio, Zanobi da Strata, illustrato dall’eruditissima penna di monsignor Fontanini; essersi allora sofferto il verso rimato perché: «essendosi perduta la distinzion delicata e gentile del verso dalla prosa per mezzo de’ piedi, s’introdusse quella grossolana, violenta e stomachevole delle desinenze simili»
; ma in oggi questa impostura esser cessata e volersi da’ giovani il verso senza vincolo di strofe, di punteggiatura e di rime. [4.175ED] Vantassero pure i secoli passati i tre famosi Toscani e i più moderni il Casa, il Tansillo, il Costanzo e tutti i lirici cinquecentisti; vantassero l’Ariosto, i Tassi, il Guarino, tutti infetti di questo stomachevole vizio, aver egli più fondamento di sperare pervenuta allo stato di perfezione la lingua vostra, ora che sono uscite le sue tragedie senza rime e l’egloghe sue senza limite e la sua Ragion poetica, seguita da tutti gl’ingegni volonterosi di libertà. [4.176ED] Questo era raziocinare in maniera da poter concludere a proprio favore. [4.177ED] Ma senti un poco se con la forma loica raggirandosi l’uno e l’altro raziocinio arriva a convincerti:
Ogni lingua si dice giunta allo stato di perfezione, quando abbonda tanto nella prosa quanto nel verso di valenti scrittori, per cui prenda a se stessa e dia una stabile regola all’avvenire. Ma i valenti scrittori furono nel secolo del Trecento. Dunque gli scrittori tanto nella prosa quanto nel verso che vissero nel secolo del Trecento, diedero lo stato della perfezione alla lingua. Nessuno degli scrittori del Trecento né de’ loro coetanei e seguaci nel verso si astennero dall’usare la rima. Ma quelle son regole buone nel verso che dagli scrittori del Trecento la lingua ricevé e lasciò all’avvenire. Dunque nessuno degli scrittori avvenire nel verso dovrà astenersi dall’usare nel verso la rima.
[4.178ED] Imperocché
per ciò ch’è concesso, ogni regola si dee prender in avvenire tanto nella prosa quanto nel verso dagli scrittori che fecero lo stato di perfezione alla lingua. Ma Dante e il Petrarca nel verso diedero lo stato di perfezione alla lingua. Dunque, se tu vuoi far verso, dovrai prender le regole date pel verso da Dante, dal Petrarca e da’ lor coetanei. Nessun scrittore de’ rinomati nello stato della perfezion della lingua nel verso compose verso senza rima. Ma tu vuoi compor versi. Dunque non li dei compor senza rima.
[4.179ED] Voltiamo ora scena e raziociniamo a pro dell’intenzion del tuo autore sovra la stessa sua proposizion generale.
Ogni lingua si dice giunta allo stato di perfezione quando abbonda tanto nella prosa, quanto nel verso di valenti scrittori, per cui prenda in se stessa e dia una stabile regola all’avvenire. I valenti scrittori abbondano in questo secolo. Dunque dagli scrittori in verso di questo secolo si dee ricever la regola in avvenire. Nessuno scrittore de’ passati secoli in verso si può dir eguale al nostro giureconsulto scrittore in verso del presente secolo. Ma il nostro giureconsulto poetizza senza le rime. Dunque se tu vuoi far versi dei verseggiar senza rime.
[4.180ED] Ebbi a scoppiar dalle risa in vedere il mio soprossuto volermi pur dar ad intendere ch’egli era Aristotile col ficcare a dritto e a rovescio nell’aristotelica forma quelle qualunque proposizioni, della qual cosa egli avvistosi e quasi adiratosi:
[4.181ED] — Io non pretendo — mi disse — che tu distingua se io sia veracemente Aristotile o un impostore, un argomentante o un sofista. [4.182ED] Ti farò bene un modello dell’Impostore in cui potrai tu raffigurare qualche originale che lo somiglia; ma io non lo somiglierò forse tanto quanto per avventura tu speri. [4.183ED] Primieramente, per ingannar bene altrui, egli è forza l’ingannar prima se stesso. [4.184ED] Questo inganno ha l’origine da una falsa opinion dell’onore. [4.185ED] L’onore consiste nelle azioni intrinseche buone, cioè nella professione delle morali virtudi, potendosi essere onestissimo uomo, ancorché pessimo letterato. [4.186ED] Ma dato ancora che in linea di letteratura vi sia qualche specie di onore, consisterà questo nella sostanzial virtù di ben pensare, di ben ragionare, di ben esprimersi, non già nell’essere riputato da un partito di uomini inetti a giudicar rettamente un uomo di lettere, essendosi notabile differenza fra la riputazione e l’onore; perché l’onore intrinsecamente da noi medesimi, la riputazione dall’altrui giudicio estrinsecamente dipende. [4.187ED] Quindi è che l’impostore, apprendendo per vero onore la sola riputazione e credendo che l’essere riputato valente letterato non sia disgiunto dall’esserlo, mette in tutta la luce il suo qualunque talento per abbagliar i corrivi, facendo altrui credere di essere quel che non è. [4.188ED] Per conseguire il suo fine, parla co’ meri poeti di matematica, co’ matematici meri di poesia; co’ periti della lingua volgare italiana discorrerà della greca e così parlerà sempre di ciò che appena sa con quelli che o nulla o meno ne sanno; e cosi pianta in altri un concetto di perito, di esimio e di dotto, quando per verità intrinsecamente non lo è. [4.189ED] Tu vedrai l’impostore di vasto ingegno, ma di altrettanta imprudenza. [4.190ED] Vi vuole un vasto ingegno perché sia capace di risoluti e temerari pensieri, ricercandosi nulla meno in chi pretende mascherare di verità la menzogna. [4.191ED] Vi vuole ancora una corrispondente imprudenza nell’operare mentre si sa di operare contro della giustizia, come anche per un caritatevol contrassegno che la provvidenza dà agli occhi nostri dell’impostura. [4.192ED] L’imprudente ardir di costoro fa dunque che affettino la novità perigliosa nelle opinioni, cosa che fa stralunar gli occhi alla gioventù inesperta non men che animosa e però amante in qualunque cosa di novità; e le fondano su certi apoftegmi vistosi, avvalorati da qualche verisimile coniettura, dando non so qual colore di spirito all’erroneità e all’imprudenza, lo che dalla gioventù di sua natura imprudente riporta le acclamazioni, e cosi fansi de’ partigiani avvenenti, audacissimi e cicalieri, che mettono in soggezione i dotti e i prudenti di tacere, schivi di cercar brighe con gente dal contraddire alla quale si può ricevere ingiuria e non gloria. [4.193ED] Quinci l’impostore, postosi alla testa di questa truppa sedotta, insulta impunemente la vera saviezza e più che mai va fastoso della sua sicura baldanza. [4.194ED] Anzi acciocché duri l’incominciata impostura, ricambia con prodigalità a’ suoi lodatori la lode, sottile nel trovare scusa all’errore e sofista nel dar sempre merito del più esquisito artificio alla negligenza dell’arte, perché, torno a dire, costoro senza malizia e senza talento non sono. [4.195ED] Quinci nelle loro conversazioni reciprocamente impegnati gli uni dall’omai sfacciato conoscimento degli altri a sostenersi a vicenda e a propagar l’impostura, mettono a’ voti la riputazione de’ letterati, deprimendo i loro avversari ed inalzandone alcuni alle stelle che o sono oppur vorrebbero lor partigiani; dalla qual cosa, massime nelle corti, deriva che anche molti uomini savi cerchino di tenerseli amici contro coscienza e pe’ loro fini particolari, perché la politica insegna il far conto di chi, biasimando molti, poi loda alcuni, mentre allor l’impostura opera che in un quasi universal detrattore la particolar loda possa aver credito di sincera, e così sempre più cresce il partito dell’impostore e si rovinano gl’ingegni e le lettere. —
[4.196ED] Allora (abbracciando il Filosofo) io proseguiva:
[4.197ED] — So chi rassomigliare al modello; puo essere, se io scriverò quanto fra noi si è discorso, che taluno vedendosi nelle tue parole allo specchio, si picchi; ma se l’immagine non lo somiglia, perché se n’offende? [4.198ED] Se lo somiglia, perché non emendasi? [4.199ED] Ma lasciando in un canto il ritratto dell’impostore e tornando al nostro giureconsulto, approvo quel tanto che della sua Ragion poetica hai divisato, purché tu mi approvi esser egli, come ne corre il concetto comunemente, il Solone, il Pitagora ed il Cicerone del secolo. —
[4.200ED] Ma a questo il Filosofo:
[4.201ED] — Io mi credea che per ragione di cerimonia tu dovessi a Pitagora sostituire Aristotile e che tu avessi in corte apparato il mestiero de’ lusinghieri; ma tu non hai voluto così scopertamente piaggiarmi, sapendosi troppo che il giureconsulto sopracitato non è meno alieno dalle mie sentenze nella filosofia di quello ch’io sia dalle sue nella poetica. [4.202ED] Abbilo dunque tu in quella stima in cui non t’ha egli, ch’io non m’oppongo all’animo tuo non so se timido o generoso. —
[4.203ED] Così parlava il vecchierello, quando il famiglio, con gran galanteria, ci presentò due tazze di caldo e fumante caffè, che a sorsi a sorsi per noi bevuto ci dié congedo da quella conversazione, dalla quale io partiva ripieno delle cose udite, in maniera che, recatomi in un fiaccaro a casa, neppur volli mettermi a cena, per istendere prima che mi fuggissero dalla mente gli a me saporiti discorsi, e in quella notte non altro sognai che Aristotile e rime.
Sessione quinta
[5.1] Non cercai più del Filosofo, se non la mattina destinatami da lui stesso, dopo il mio ritorno dalla villa real di Versaglie, per ragionare dell’opera in musica. [5.2ED] Alzatomi dunque col giorno, mi posi fra le gambe il lungo tratto dal borgo di San Germano agl’Invalidi, perché mi piacque godermi a piedi con maggior libertà nel cammino, rinfrescato da un venticello leggero nato allora allora col Sole, le belle viste della popolosa città. [5.3ED] Ma appena mi vidi a fronte della pianura a cui fa prospettiva la maestosa macchina degl’Invalidi, che sento chiamarmi da un rauca voce per nome. [5.4ED] Mi volgo ed ecco Aristotile che più più si affrettava per l’avidità di raggiugnermi. [5.5ED] Accennandogli però con la mano acciocché tanto non si avacciasse, mi fermai su due piè ritto ad attenderlo e n’ebbi al primo arrivo il ben tornato dalla mia momentanea villeggiatura:
[5.6ED] — Ma crederesti — cominciò egli — io non ho veduta Versaglie, perché quando io partii ultimamente di Francia non venia nominato quel luogo che per un parco selvaggio, unicamente destinato alle caccie. Riserbo dunque alla mia curiosità il saziarsi con lunga dimora in una quasi città ch’è nata tanti secoli dopo di me e in sì pochi lustri è cresciuta, e di cui ho letto e sento dir meraviglie. [5.7ED] Ma a te che vieni dalla bella Italia e da’ pomposi giardini di Roma, in qual aspetto si è presentata Versaglie? —
[5.8ED] — Versaglie — io soggiunsi nell’accostarci che noi facevamo a passi lenti al castello — è una copia de’ nostri giardini che di gran lunga si lascia addietro gli originali. [5.9ED] L’Italia ha il maggior merito nell’invenzione; l’ha nell’esecuzione la Francia. [5.10ED] Ti posso dire che son rimaso assorto dall’incanto e dalla maestà di quel luogo, che per me descritto in versi altre volte, ma in lontananza, mi fece allora conoscere che poco giova un immaginar grande e felice per concepir tutto intero lo smisurato fasto, il gusto esquisito e il magnanimo genio della reale soprabbondanza. [5.11ED] Il marmo, il bronzo e sin l’oro è vile in questa reggia, mentre persino i tetti della medesima sprezzano, coll’esporlo all’ingiuria delle stagioni, quel prezioso metallo che l’altrui avarizia con tanta gelosia suol nascondere negli scrigni. [5.12ED] In questo giardino le belle statue di marmo sono così famigliari e frequenti come le piante ne’ boschi. [5.13ED] Le fontane, innumerabili e tutte di varie invenzioni, di marmo ed istoriate di bronzi prodigamente dorati, gittano fiumi, io non esagero, fiumi per aria, configurati a girandole, ad archi, a teatri. [5.14ED] Selve trapiantate quai sono nell’altezza lor naturale, labirinti favoleggiati con gli animali di Esopo ed ogni altra novità stancherebbero con leghe di cammino gli occhi e le menti, se la real provvidenza non avesse, come suol sempre, ordinate comodissime sedie guernite ed ombrate di porpora e d’oro che, sulle rote girevoli spinte liberalmente da due livree della corte, conducono di mano in mano a godersi con agio questo continuato incanto di pellegrine e deliziose magnificenze, sin che dan luogo alle gondole, che per un canale artefatto e che sostiene vari sorte di legni, cioè vascelli, galere, jachetti armati e adobbati ad uso di mera delizia, trasportano al Trianon e alla Menageria, luoghi, l’uno di soggiorno magnifico e l’altro di famigliare diporto, ove le Indie e il più remoto Settentrione hanno inviati uccelli ed altri animali di bellezza e di stranezza atta a fare meravigliare chi non gli ha veduti che sui volumi talvolta dell’accurato Junston. [5.15ED] Sbrigato alfin da’ giardini, non credeva io di veder più cosa che mi allettasse; quand’ecco nella gran galleria per me felicemente incontrarsi un leggiadro altiero fanciullo, ne’ cui begli occhi girati con maestà ravvisavasi uno spirito veracemente reale. [5.16ED] Egli era il tenero Delfino, amor e speranza di questi popoli, che con la mano destinata allo scettro accennava d’inviar baci a chiunque disposto in due bande lo facea passar fra gli ossequi. [5.17ED] Entrato poscia nella stanza del re, compii tutti li voti del mio viaggio nella sua vista. [5.18ED] L’aria, il portamento ancora nel rizzarsi dal letto, lo contrassegnano per quel gran monarca che delle sue imprese ha pieno già l’universo. [5.19ED] La stanza addobbata di preziosi tappeti e di pitture, opera di artefici esimii e di grandissime luci di specchi, potrebbe abbagliare con la ricchezza e disposizione della suppellettile i riguardanti; ma quando il re vi si trova, presente lui tutte le cose si avviliscono. [5.20ED] Egli sublime sorge in mezzo a’ grandi che lo circondano; ma l’eccelse stature si abbassano, i maestosi volti si umiliano. [5.21ED] Sta intorniato da molti de’ suoi guerrieri da lungo tempo già sì famosi per le battaglie nelle gazette, ma a fronte sua così minori diventano che rimanendo in certi l’uom solo, sparisce l’eroe. [5.22ED] Luigi solo è il vero carattere dell’eroe, comparendo egli solo maggiore de’ suoi gran nomi; e stimerò raro vanto di questi miei occhi l’aver osato una volta d’incontrarsi furtivamente ne’ suoi maestosi, gravi e terribili. [5.23ED] Allora mi parvero quasi nulla a tal confronto Marlì, Versaglie e Parigi, né potei saziarmi di quella vista sinché per tutto il giorno di ieri mi fu dato di veder uno cui non è uom lontano che o non si faccia gloria d’averlo veduto o non desideri di vederlo. —
[5.24ED] Così dicendo, ci accostammo al primo cancello custodito da una guardia di soldati vestiti con la divisa delle truppe di Sua Maestà; ma alcuni di loro si reggevano sovra una gamba di legno; sostenean altri col braccio sinistro lo schioppo, imperocché il destro ad essi mancava. [5.25ED] Chi aveva il mento, chi ’l naso e chi una guancia d’argento, tutti in sostanza mostri di fedeltà e di valore, e venerabili avanzi di sanguinose battaglie. [5.26ED] Tai furono i primi, e non dissimili conobbi essere tutti gli altri che in numero di sei mila popolano di se stessi quel maestoso e vasto ricinto. [5.27ED] Nulla dirò dello smisurato quadro cortile serrato da doppie logge; nulla della chiesa bellissima ottangolare; nulla dell’altissima cupola di dorati piombi coperta; nulla de’ puliti e sempre odorosi ospedali; nulla de’ gran refettori destinati quale alla mensa degli officiali servita con fasto, quale a quella de’ semplici soldati provista con abbondanza. [5.28ED] Dirò solamente che osservata questa vasta opera, del cui materiale potrebbe Augusto pregiarsi, non mi meraviglio più, che i Franzesi vadano, per così dir, folli del loro amato monarca. [5.29ED] E chi non anderebbe in mezzo del fuoco ad espor la sua vita in pro della patria, sotto il comando di un principe che da ogni altra miseria che non sia morte sollieva i cari suoi combattenti, accogliendoli in quell’onesto ritiro dove conducono gloriosa e comoda vita con agio e con libertà, diportandosi in quegli esercizi, ancor militari, che si sono fatti abituali al loro genio e senza de’ quali saria lor noiosa la vita? [5.30ED] Questo presidio d’Invalidi è ben composto di corpi imperfetti, ma di cuori che si son mostrati alla prova noncuranti di qualsivoglia periglio e superiori al per altro invincibile umano terror della morte; dimodoché queste metà di uomini contrafatti terrebbe fronte a qualunque più sano esercito che in numero eguale e ancor raddoppiato ardisse assalirli, avendo più parte ne’ vittoriosi successi l’intrepidezza dell’animo che la robustezza della persona. [5.31ED] Passàti dunque ad assiderci nel bel giardino del comandante del luogo:
[5.32ED] — Tu hai — cominciò l’Impostore — gustata già la Medea, che perciò accorderai potersi denominare tragedia, perché è un’imitazione drammatica de’ migliori, e differisce, come le vostre opere in musica, dall’antica tragedia, perché in esse parte solamente cantavasi, in questa tutto si canta, e però a questo proposito si può applaudere al sentimento di Saint Evremond: «I Greci facevano belle tragedie, ove qualche cosa cantavano; i Franzesi ne fanno delle cattive, nelle quali cantano tutto.»
[5.33ED] Ma quello ch’ei pronunzia de’ suoi nazionali puoi tu distenderlo a’ tuoi, perché, a dir vero, la maggior parte di quelle che ho in Vinegia, in Genova, in Milano, in Reggio ed in Bologna, benché tua patria, ascoltate, sono di questo carattere. —
[5.34ED] — Hai divisato prudentemente — io rispondeva — dicendo ‘la maggior parte’, nella qual cosa teco io convengo. [5.35ED] Ma però in questo numero non dovrai certamente por quelle del severo Moniglia, quelle del leggiadro Lemene, il Tolomeo, l’Achille, e le due Ifigenie di Carlo Capece, la S. Cecilia, il Costantino, ed il Ciro di un eminentissimo autore, quelle tutte del letteratissimo Apostolo Zeno, il vezzoso Dafni di Eustachio Manfredi, la Caduta de’ Decemviri di Silvio Stampiglia, l’Onestà negli amori di monsignor Bernini, e la maggior parte di quelle di monsignore de Totis, per dare la dovuta lode anche a’ defonti. —
[5.36ED] — Io lo voglio accordare — replicò quegli — ma ben mi spiace che cotesti per altro insigni e spiritosi poeti abbiano sì male impiegati i loro talenti in componimento che mai non vivrà, né farà vivere i loro nomi; perché o i drammi loro saran novellamente cantati sovra le scene, e sempre vi compariran deformati dalla sfrenata libidine di novità che nelle ariette si vuole, o non saran ricantati, ed eccoli già in un letargo profondo e mortale sepolti. —
[5.37ED] Ed io allora:
[5.38ED] — Hai ragione di deplorare la sorte di quegl’ingegni che s’imbarazzano in questa razza di dramma ed io, che vari ne ho posti in scena, non ho maladetti di cuore i momenti impiegati a comporre come allora vedendo le cose più brillanti e che più sono vezzose e delle quali più si compiace il poeta riuscire per lo più insipide per la musica e detestabili a’ nostri smaschiati cantori e alle nostre che per vergogna del secolo osiam chiamar ‘virtuose’. [5.39ED] Quando per lo contrario li tratti più sciaurati della poesia e ciò che letto nauserebbe, ho veduto gustarsi, gradirsi, acclamarsi non meno dall’uditorio che da’ cantori e spiccar di maniera sui palchi che io stesso, assidendomi ascoltatore, mi son sentito stuzzicare a compiacermene e me ne son compiaciuto; e molte volte quello che letto mi piacque, al dispetto della ragione e della passione, cantato poscia spiacevami. —
[5.40ED] E qui, sorridendo, il compagno mi soggiungeva:
[5.41ED] — Ciò appunto doveati avvenire, perciocché la poesia mediocre, che dilata agevoli sentimenti ed affetti, in recitativi andanti ed intelligibili ed in saltellanti e naturali ariette lascia in maggior libertà il compositor della musica di spaziarvisi a suo talento e di sfogar la sua idea che quanto meno è storpiata dall’angustia de’ sentimenti tanto esce più agile, svelta a solleticare per via dell’orecchio lo spirito di chi ascolta, e perciò con la soavità del concento lo muove al compiacimento e all’applauso. [5.42ED] Questo spettacolo adunque è tale che solleva gli animi da tutte le cure, gli assorbe in una spensierata quiete che di sé contenti li rende, di maniera che ritornano dagli uditi concenti e dalle vedute apparenze così ristorati di lena che poi si trovano più forti, più vegeti a tutte le operazioni umane, e così tanto fisica quanto moralmente è utile alla repubblica non meno della satirica, della commedia e della tragedia. [5.43ED] Ma bisogna supporre per fondamento che in questo vago spettacolo non dee negarsi la preminenza alla musica: ella è l’anima di un tale recitamento e ad essa debbesi il principale riguardo di chi è chiamato a parte o per poesia o per apparato, di simil componimento. [5.44ED] Né voglio qui farti una lezione di musica, imperocché forse vi riuscirei malamente o ancor riuscendovi, mi converrebbe usar termini a te incogniti e tali anche a quelli per avventura che gl’inventarono. [5.45ED] Dirò solamente che, se hai tu udito deplorare la perdita della musica antica, di’ a nome mio a cotesti adoratori dell’antichità, che sono impostori. [5.46ED] Giudica della musica degli Ebrei e degli altri Orientali da’ loro strumenti che erano corni, timpani e trombe. [5.47ED] La cetera poi, l’arpa, la lira e la tibia erano la delizia de’ loro orecchi, come il furon di quelli di tutta la Grecia. [5.48ED] Ma chi meglio non ode, si assuefa ad ascoltar come ottimo ciò che riuscirebbe pessimo in confronto dell’odierna perfezion della musica accompagnata da certe sottili finezze di tanti ben temperati strumenti, quanti ne arricchiscono ed empiono modernamente le orchestre. [5.49ED] Voglio pure, almen per rispetto al nostro presente soggiorno, che sfuggiamo di paragonare in questa parte la musica franzese all’italiana. [5.50ED] Ciascheduna ha le proprie ragioni, ciascheduna ha i suoi parziali. [5.51ED] Dirò solo, ma in confidenza, di aver veduto rallegrarsi molto questi Franzesi al sentire nel mezzo de’ loro recitamenti cantare un’arietta di poesia e moda italiana; lo che poco prova, avendo io osservato esultar altresì gl’Italiani qual volta nelle loro opere s’inserisce una canzonetta franzese. [5.52ED] Ma questo è certo che tanto le orecchie tedesche quanto le Inglesi preferiscono l’italiana, e queste nazioni a grave prezzo ne stipendiano i professori più rinomati; ed io, che son Greco, difficilmente mi separo da questa opinione. [5.53ED] Ma il peggio si è che l’autor franzese di quel prefazio che è posto avanti alla raccolta stampata delle più scelte ariette franzesi dà anch’gli il pregio di questa rappresentazion musicale a voi Italiani. [5.54ED] Per lo men la vostra lingua, come più dolce e più copiosa di vocali distesamente pronunciate, è più adattata alla bizzarria de’ passeggi e alle ricercate soavi del gorgheggiare. [5.55ED] Già siamo imbarcati; or vediamo se mai si scoprisse a noi porto in questo a me nuovo golfo. [5.56ED] Ricercherò dunque se al melodramma sia necessario per dilettare l’aiuto delle parole e della poesia, e sostengo sinceramente che no. [5.57ED] Io provo che, mentre di nottetempo ascolto uno e più rusignuoli cantare e quasi dialoghizzare cantando, quel dramma de’ non veduti augelletti mi diletta e mi astrae da ogni noioso pensiero, sicché mi assido ben lungamente ad udirli, e pure il lor gorgheggiare è limitato dalla natura a certe arie che sono fra di loro uniformi, per non dir sempre le stesse. [5.58ED] Una serenata pur di strumenti fa ch’uom s’affacci al balcone e vi si perda insensibilmente più ore, se più ne dura, con diletto tanto maggiore quanto che i sonatori fanno co’ vari loro strumenti sinfonie non meno fra sé diverse di quello siano uniformi le poc’anzi rammentate de’ rusignuoli. [5.59ED] E siccome poi maggiormente ci piace in verde selva o a vista di bel giardino ascoltare le gare degli augelletti e l’intrecciamento degli strumenti, così maggiormente ci ricreeranno le voci canore per noi ascoltate in luogo vago e adorno, laonde non può non accrescerci il diletto la meravigliosa varietà delle scene fra le quali si alternino i canti. [5.60ED] E perché tanto più alletta quell’augelletto che canta, quanto è più leggiadro nella sua corporal dispostezza, e, oh noi felici, se ancora di varie e colorate piume è vestito; e parimenti più ci sodisfa quel leuto e quel flauto che suona, se alla bontà aggiunge ancor la bellezza della costruttura ed intarsiato di madreperla e di avorio rende splendida con la ricchezza la perfezione; così ci lusingherà maggiormente la voce canora, se uscirà da una bocca proporzionevolmente tagliata e sarà secondata da un viso di bei colori e di misure leggiadre, sostenuto da un collo vezzosamente torcentesi; e ci verrà poi accettissima da una donna il cui petto risaltando a tenor del respiro, che viene su per le fauci a ricevere la forma del canto, lo fa per così dir prevedere nel tremolare delle mammelle. [5.61ED] Tanto più poi goderemo che cotesto bel corpo sorga di vesti ricche, vaghe, bizzarre in scena abbigliato; e queste saran le sue penne e le sue intarsiature per me lodate negli augelletti e negli strumenti. [5.62ED] Eccoti dunque il nostro spettacolo già dilettevole per se stesso, esser molto più per gli aiuti della scena, dell’avvenenza e de’ vestimenti. [5.63ED] Ma incontentabili che noi siamo, massime quando ci diamo a nuotar nel piacere! [5.64ED] Sapendo noi come gli uccelli fischiano e come suonano gli strumenti e come gli uomini soli ragionano, desideriamo altresì che alla dolcezza del canto umano si aggiunga quella delle parole atte ad esprimerci i sentimenti dell’animo; ed ecco un’altra delizia che vien di fianco in aiuto di questo spettacolo, ed ecco finalmente la poesia. [5.65ED] Ma la povera poesia viene in figura molto diversa da quella che sostiene sì nella tragedia che nella commedia. [5.66ED] In quelle tiene il posto principale, nel melodramma tien l’infimo; là comanda come padrona, qui serve come ministra. [5.67ED] Ma non avviliamo a segno la poesia d’onorar col suo nome il verso servile con molta maggiore ragione di quella per cui la liberai de’ verseggiamenti di Empedocle. [5.68ED] Non poeti dunque, ma piuttosto verseggiatori, ma nemmeno verseggiatori, perché poi vi ha ad esser la favola che fa essere non so che di più che verseggiatore; non dunque meri verseggiatori, non veri poeti, ma non saprei come dirli certi che, siano più degli uni e meno degli altri, s’invitino a servire al bisogno del melodramma, come al bisogno della tragedia servivano materialmente i coraghi.
[5.69ED] Le scene si vogliono varie e pompose. [5.70ED] Poche selve, perciocché i noderosi tronchi e le frasche non son da pittore da scena e per lo più gli alberi al lume delle candele riescono crudi e disaggradevoli. [5.71ED] Molta architettura di vari punti che ostenti larghezza e lunghezza di siti molto maggiore del vero; giardini con vere fontane, derivate in scena con arte; una vista di mare con l’onda spumosa che si volteggi; e ricordiamoci ancora o di un tempio di figura gotica o di una prigione di ordine rustico, versando più volentieri in questi che in altri suggetti la mutazione della scena.
[5.72ED] I castrati, oltre l’essere di voce agile e bella, si scelgano ancora di graziosa e non disgraziata presenza. [5.73ED] Le donne di gentile aspetto e sopra tutto ben atteggiate e leggiadre ne movimenti. [5.74ED] Gli abiti sian gioiellati e con ricami che fingan oro ed argento, e tagliati per lo più alla reale. [5.75ED] Le voci siano tali e in tal quantità che il compositor della musica possa intrecciarle così che l’una faccia risaltare l’altra invece di opprimerla, mercé delle quali avvertenze già sarem noi in sicuro del profitto degl’impresari o siano appaltatori dell’opere in musica.
[5.76ED] Ma quanto a’ versi, che farem noi sicché non riescan discari al componitor musicale, ai musici, all’uditorio e (se a Dio piace) al verseggiatore medesimo? [5.77ED] Questo testor de’ versi vorrebbesi lo stesso compositor delle note e siane esempio il vostro famoso contralto cognominato Pistocco, non meno celebre per aver raffinato l’esercizio del canto che per aver congegnata la combinazion delle note in maniera la quale si è poi propagata con tanto onor dell’Italia e particolarmente della tua patria. [5.78ED] Compose in Germania musica e parole di un melodramma che fu la delizia e la maraviglia della corte di Prussia e la mia. [5.79ED] Che mi parean divini que’ versi così incorporati alle note! [5.80ED] E pur, in leggendoli sul libriccino stampato, quanto insipidi e fievoli dipoi li conobbi! [5.81ED] Ma a buon conto que’ sentimenti erano facili, lisci e distesi quel solo e non più che richiedevan le note, che forse in quel tal sito egli credé necessarie alla musical simetria; né mai la musica al verso, ma questo a quella serviva, e serviva piuttosto come volontario che come schiavo; e però vorrei mediocremente poeta il componitore, e questo sarebbe il meglio per l’opera, imperocché potrebbe egli ordirsi in mente e tesser poi sulle carte tutta la tela musicale dal principio alla fine del dramma; e visto primieramente dove la forza, dove la tenerezza, dove i recitativi, dove l’arie più convenissero: dove il soprano, dove il basso, dove il contralto o il tenore per la legatura ed intrecciamento di una perfetta armonia dovessero fare maggior figura, vi adatterebbe appresso gli avvenimenti o tolti dalle favole greche o affatto affatto dal suo capriccio inventati qualunque si fossero, e le parole ed i versi facili, andanti e sonori, e caverebbe dalle bocche e dalle borse degli uditori non meno i ‘viva’ che la moneta.
[5.82ED] Ma perché purtroppo avviene che pochi mastri di cappella sappiano intendere i versi, non che formarli, non sarà difficile almeno che il poetastro verseggiatore s’intenda alquanto di note e di musica, per conformare il più che potrà la sua invenzione e i suoi versi all’idea del compositore, nel modo che nelle macchine architettate dall’ingegnero aggiunge il pittore i colori adattati alla figura e rappresentazione delle medesime, e quella dipintura sempre sarà sofferta quando, senza defraudare l’intenzione dell’architetto, non imbarazzi per altro l’effetto né delle corde, né delle girelle che sovra ogni altra cosa son necessarie per lo poggiare o per lo scendere della macchina. [5.83ED] Io ne ho conosciuti di questi caricatori (così voi li chiamate) di note, uomini i più versatili dell’universo che trovano sovra di un cembalo parole facili e abbondanti delle vocali che appunto occorrono alla beltà de’ passeggi ed alle volte poco, alle volte eziandio quasi che nulla significanti. [5.84ED] Ma nondimeno annicchiate ne’ luoghi loro possono piacere cantate per fino ad una schiera di letterati e sian pur di quelli che pasconsi del criticare le poesie più accreditate e severe.
[5.85ED] Questi drammatici felici desumeranno dall’istorie no, ma bensì dalle favole i loro argomenti, avvisandosi essere, come infatti si è, troppa crudeltà il deformare sfacciatamente la verità de’ successi scritti da Livio, da Giustino, da Salustio e da qualunque più antico e venerato scrittore, lo che saria inevitabile per introdurvi le cose che vuole il compositore, che vogliono i cantori, le cantatrici, che vuole l’architetto, il macchinista, il pittore e sin l’impresario. [5.86ED] Ciò pure sarà difficile, ma non impossibile nell’argomento favoloso, perché in ogni caso il verseggiatore ha tutta la facoltà che avevano i nostri antenati di dar ad intendere delle frottole e di aggiungere bugie italiane alle greche e può, lasciando le antiche, inventarne delle moderne, essendo ancora la favola più capace di macchina e d’apparenza, e così fanno fortunatamente i Franzesi, e così farà l’Italiano; e come che il nome suo non sia per vivere più oltre delle rappresentazioni, avrà ad ogni modo il piacer di sentirsi chiamato nelle gran corti col titolo di ‘poeta’, titolo così per lui meritato come per gli castrati e per le cantanti quello di virtuosi. [5.87ED] E, quel che più importa, potrà sputare fra la mandra di costoro le sue sentenze con sovraciglio autorevole sull’opere de’ gran poeti di ogni lingua, di ogni nazione, ed averne sonori applausi dalle musiche bocche delle putte e degl’istrioni, assidendosi a laute cene e riempiendo l’arca di collane, di gioielli e di contante, per darsi bel tempo, lo che non è poco premio, anzi è un sovrabbondante compenso allo sprezzo che nella lettura de’ suoi melodrammi avrà dagli Arcadi e dalla Crusca. [5.88ED] Costui dunque, voglia o non voglia, comporrà cattive tragedie per musica; ma pur tragedie saranno, perché altrimenti non servirebbe alla pompa degli abiti regii che splendono nella guardaroba degl’impresari, che voi chiamate vestiario, se meno che personaggi di regi o di semidei imitasse, vedendosi per prova che le azioni pastorali poco compariscono in musica, come incapaci di poca ricchezza di vestimenti e di comparse, e come schive di certe scene forti e di certe rilevate apparenze che allenano questo spettacolo musicale.
[5.89ED] Tu dunque vedi con quali vincoli sia d’uopo lo star legato a chiunque voglia servire di versi accetti i melodrammi venali. [5.90ED] Qualcheduno di meno ne avrà chi compone in servigio di qualche principe che, non per guadagno, ma per gala e per liberalità vuol dare alla nobiltà più che al popolo, un’illustre e graziosa rappresentazione con musica; e allora anche il verseggiatore può esser poeta, ma guai a lui se non recede dalle massime regolari e severe della tragedia. [5.91ED] Allora i suoi drammi si potran leggere e lodare ancora fuor del teatro. [5.92ED] Così è avvenuto in Roma a quelle di un eminentissimo autore, che ha voluto per proprio nobil divertimento e per ricreazione de’ principi e cavalieri nel suo privato teatro più di una rappresentarne. [5.93ED] Così è riuscito al principe real di Polonia Alessandro, che ha fatto servir la poesia del Capece alla musica delle scene di Sua Maestà la regina sua madre, liberalmente aperte al piacere de’ più conspicui personaggi della gran corte romana. [5.94ED] Questo amabilissimo principe ha saputo così temperare il genio del poeta con quello de’ compositori e dei musici (come quegli che dell’una e dell’altra facoltà è intelligentissimo) che gli è sortito espor melodrammi i quali poi senza nausea han potuto passar sotto gli occhi di questo istesso Aristotile. —
[5.95ED] — Ma se — io proseguiva — sotto il patrocinio di un principe si possono pur da un poeta compor melodrammi non affatto spiacevoli al gusto de’ letterati, almen di questi vorrei da te qualche norma, non essendo forse impossibile che me pure la convenienza e la forza impegnasse a simil componimento. [5.96ED] Aggiungo ancora: nella mia patria alle volte reggersi l’opere, benché venali, da’ cavalieri, i quali frenano l’avidità dell’impresario a quel segno che non assorbisca affatto quel tutto che è di soddisfazione all’onesta gente ed a’ letterati, de’ quali è patria Bologna; e però da te aspetto un, sia qualsivoglia, sistema sul quale potesse un abil poeta regolare anche un dramma da leggersi non che da ascoltarsi. —
[5.97ED] Allora Aristotile:
[5.98ED] — Giacché tu vuoi ch’io ti dia qualche regola per un componimento che per piacere vuol essere sregolato, te ne dirò qualcheduna, piuttosto fondata sull’osservazione e sulla sperienza che sulla ragione, e mescolerò quanto posso per appagarti le incumbenze del corago, del compositore di musica, del musico e del poeta, scordandomi quasi di essere filosofo. [5.99ED] Ed eccomi a soddisfarti.
[5.100ED] Se dunque mai ti si attraversasse nel capo la ridevol follia di acconsentire al compimento di un melodramma, tu dei, prima di elegger l’azione, disaminare la capacità del teatro, la fama del compositor della musica, quanti e quali sieno i cantanti condotti dall’impresario. [5.101ED] E perché alla spesa ancora è d’uopo che abbia riguardo il poeta, esplori sopra di essa l’intenzione dell’impresario medesimo, cioè quante mutazioni di scena egli voglia ordinare al pittore, se commette macchine all’ingegnero e quali abiti contenga la sua guardaroba; se il teatro è troppo piccolo, se l’appaltatore dell’opera è avaro e vuol lisciamente esporre al popolo un’opera di poco splendore, di poco accompagnamento, di poche mutazioni di scene; se scarseggia di buon pittore; se non vuol sentir parlare d’architetto e di macchinista, se non ha condotto al suo soldo voci per la maggior parte famose ed abile orchestra; se ha in orrore la pompa de’ vestimenti reali e vistosi, non t’impacciare dell’opera, altrimenti perderai tu affatto la riputazione poetica e sarai più suo nemico dopo l’averlo servito che negando d’infelicemente servirlo. [5.102ED] Anche un’altra circostanza o sia condizione rilevantissima ho riservata nell’ultimo, acciocché ti resti più impressa nella memoria. [5.103ED] Siati ben a cuore la fama e la discretezza del compositor della musica. [5.104ED] Per altro, se l’impresario non è sì economo che pur non sia generoso; se il teatro è sufficientemente capace; se il mastro di cappella è de’ più accreditati e arrendevoli come il vostro chiarissimo Bononcino; se alcuni de’ fermati cantanti son rinomati; se l’orchestra si vuol copiosa e perfetta; se si vuol ordinare ad abil pittore una dicevole mutazione di scene; se il vestiario è, quanto almen basta, ben conservato e pomposo, ancorché non si voglia tra’ piè macchinista, imprendi pur con coraggio la tessitura del melodramma, purché, tralasciandosi l’uso delle macchine, pensi, la tua mercè, l’impresario a framezzare i tuo atti con qualche leggiadro balletto, e voi fortunati se qualche danzatore franzese vi dà per le mani, benché fosse de’ men pellegrini di questa ballerina nazione.
[5.105ED] Con tai condizioni tu avrai l’avvertenza di scegliere una storia favolosa mista di numi, di eroi, o una storia vera di eroi per fondamento all’azione, capace di tali avvenimenti che possano agevolmente nel dato teatro rappresentarsi; capace di tai personaggi che adattar si possano a quelle voci che son destinate, e conferitala con l’impresario e col compositor della musica, ricevine prima l’approvazione e poi, conseguitala, datti immediatamente a disporla.
[5.106ED] L’uso comanda che il tuo melodramma sia diviso in tre atti perché, se in cinque lo partirai, potresti far credere di voler esporre al popolo una tragedia e ti faresti debitor follemente di quelle regole che in nessuna maniera potresti poi osservare. [5.107ED] Nell’atto primo sarà tua cura il preparar gli ascoltanti all’intreccio, dando loro la necessaria notizia degli eroi che battono il palco, degli antefatti opportuni alla cognizione sia della favola sia della storia, e facendo la prima mostra de’ caratteri, almeno de’ principali, che dovranno intervenire all’azione. [5.108ED] Nell’ingresso della tua favola avverti che il teatro si vegga guernito di personaggi con qualche apparenza, che ecciti l’aspettazione e la maraviglia. [5.109ED] Scòrdati i modesti princìpi della tragedia e dell’epopeia; e piàntati ben in mente che quando si alza il sipario, il popolo si raffredda se vede due personaggi parlar seriamente de’ lor interessi. [5.110ED] Vi vuole copia, se non di recitanti, almen di comparse. [5.111ED] Uno sbarco, una moresca, uno spettacolo di lottatori o di altri simil cosa, fanno inarcar le ciglia a’ tuoi spettatori e benedicono quell’argento che hanno speso alla porta per sollazzarsi.
[5.112ED] Nel secondo atto tu dei pensare al viluppo tanto delle azioni quanto delle passioni. [5.113ED] I leggeri equivoci, i cangiamenti di abiti, i biglietti, i ritratti, così sospetti a voi tragici, sieno a voi melodrammatici in maggior pregio, e messo da parte il severo verisimile della greca, franzese e, diciam anche, italiana tragedia, appìgliati pur con franchezza all’intrecciamento ingegnoso degli Spagnuoli. [5.114ED] Io non dico che tu debba ommettere affatto il verisimile negli accidenti, ma questo diletto tuo verisimile non ti sia tanto caro che più non sialo il mirabile. [5.115ED] Inverisimili ancora, se vuoi, sieno i mezzi dell’avvenimento, ma posti que’ mezzi, l’avvenimento poi sia verisimile, e così conseguirai la meraviglia e l’applauso degli ascoltanti. [5.116ED] Le passioni sian varie ed opposte. [5.117ED] Se puoi, l’odio si contraponga all’amore, l’amore all’odio. [5.118ED] L’ira vi abbia ancor la sua parte; ma l’amorosa passione di tutti le altre trionfi e le altre non servano che a far spiccar questa, la quale, essendo la più comune a tutti gli uomini, si vede rappresentata più volentieri. [5.119ED] Ben è però vero che per amore della repubblica ti dee piacer l’onestà: con questa l’affetto amoroso è utilissimo a’ cittadini, invitandogli a’ legittimi accoppiamenti da’ quali nasce il bene del crescer popolo, che è l’anima delle cittadi.
[5.120ED] Nel terzo atto pensisi allo sviluppo o sia scioglimento, e sia pur anche per macchina, se lo permetterà l’impresario; che certamente sarà più accetto per la meraviglia dell’apparenza, ancorché il nodo per avventura non meritasse più che tanto d’incomodar un nume a scender dal cielo per scioglierlo. [5.121ED] Vi siano agnizioni e peripezie. [5.122ED] Nelle agnizioni o riconoscimenti, si creda facilmente ad un abito improvvisamente cangiato; ad una combinazione di circostanze che prima era occulta; a certi arredi trovati nella cuna del personaggio quand’era bambino, e che poi all’uopo del riconoscerlo vengono in scena o son raccontati. [5.123ED] Ma quanto alle peripezie per te si può far piuttosto veder le cose che immaginarle, perché ciò che percuote i sensi più piace al popolo, assiso più per vedere che per pensare. [5.124ED] Le peripezie sieno sempre di mesta in lieta fortuna, nella quale termini il melodramma per lo mezzo degl’imenei, ed in questo scioglimento per utile della repubblica il poeta prefiggasi che i personaggi virtuosi restin premiati con meritata felicità, e i viziosi rimangan puniti con severità che mai non arrivi alla morte, non volendosi le morti in questi spettacoli, creati per rallegrare, non per contristar gli ascoltanti.
[5.125ED] Sbrigato dall’economia dell’azione compartita alla misura degli atti, dei già pensare a dividere ciaschedun atto in scene; e qui non avrai già a sudar poco. [5.126ED] Primieramente dovrai avvertire quanti sieno i principali cantanti per farli operare egualmente, altrimenti quai liti invincibili fra quelle balde fanciulle e que’ rigogliosi castrati! [5.127ED] Dei ancora aver riguardo alle voci, intrecciandole in modo che aiutino e non distruggano l’intenzione del compositor della musica; però ti esorto, avanti di tagliar in scene il panno degli atti, a mostrarlo al compositore ed interrogarlo qual voce secondo il suo gusto tu debba accoppiare a principio, a mezzo e sulla fine di ogni atto. [5.128ED] Dei però convenire col compositore ed egli consentirà facilmente, che ciaschedun atto contenga una di quelle che si chiamano ‘scene di forza’ o per qualche violento ed insolito impegno di passioni contrarie o per qualche incontro ed avvenimento non aspettato dagli uditori. [5.129ED] Con questa distribuzione ti fo sicurtà per la felice riuscita dell’opera e più non ti rimarrà che il mettere in versi il tuo dramma.
[5.130ED] Egli si vuole tutto diviso in recitativo ed in ariette o le diciam canzonette. [5.131ED] Ogni scena dee contenere o solo recitativo o sola arietta o per lo più l’uno e l’altra. [5.132ED] Tutto ciò ch’è racconto o espressione non concitata dovrebbe esprimersi in verso recitativo; ma ciò che ha la mossa della passione o contrassegna non so che di più violento inclina più volentieri alla canzonetta. [5.133ED] Il recitativo si ama tanto breve che non addormenti col tedio e tanto lungo che non generi oscurità. [5.134ED] I periodi e le costruzioni del nostro recitativo si vogliono agevoli e piuttosto raccolte che stese, così saran comode al compositor della musica, al musico e all’uditore: al compositore, che potrà dar maggiore spirito al per sé morto recitativo con la mutazione delle cadenze; al musico, che potrà ripigliar fiato nel pronunciarli e rinnovar la lena alla voce con le posate; all’uditore che, non avezzo a la musica, la quale àltera all’orecchio il tuono ordinario delle parole, non avrà a faticar tanto per raccoglierne da una trasportata giacitura di raggirati vocaboli il sentimento. [5.135ED] Questo dovrà chiudersi in versi di sette e di undici sillabe, alternati e misti secondoché caderà più in acconcio; e dove almeno nelle cadenze si potrà avere corrispondenza di consonanze e di rime, si verrà più a secondare il genio lubrico della musica.
[5.136ED] Quello che ho detto della brevità de’ recitativi patisca qualche limitazione in quelle scene che ho denominate ‘scene di forza’, dovendo in esse il recitativo prevalere alle ariette, come quello che dà più polso e più evidenza all’azione; ed allora il poeta può alquanto sfogarsi nel dare un moderato saggio del suo talento e lo dovrà soffrire il prudente compositor della musica, né lo ricuseranno i cantanti, anch’essi periti nello sceneggiamento, e l’impresario dovrà compiacersene.
[5.137ED] Le canzonette sono o semplici o composte. [5.138ED] Semplici direm quelle che a voce sola; composte quelle che a due o che a più voci si cantano. [5.139ED] Quelle a due voci nomineremo duetti; quelle a più voci si chiamino cori. [5.140ED] Le arie semplici, alcune diremo escite, altre ingressi ed altre medie. [5.141ED] Dalla denominazione medesima si dedurrà l’uso loro. [5.142ED] Le escite si adopreranno quando un personaggio esce in scena e queste ne’ soliloqui sogliono esser accette, e per lo più la figura apostrofe è l’anima loro. [5.143ED] Ma di queste ti varrai parcamente. [5.144ED] Con la medesima cautela è d’uopo valersi delle medie, perché riescono fredde ogni volta che a mezzo una scena gli attori muti sono obbligati a star così ritti ad udire l’attore che canta a tutt’agio, e però in queste vi vuole un necessario accompagnamento di azione che almeno costringa gli altri attori a qualche atto che non li lasci interamente oziosi, e allora producono un ottimo effetto. [5.145ED] In queste sole è soffribile alle volte l’interrogazione, che in altre tutte è odiosa, siccome quella che non dà luogo a varietà di note in esprimerla. [5.146ED] Gl’ingressi debbono chiudere ogni scena e un musico non dee mai partire senza un gorgheggiamento di canzonetta. [5.147ED] Siasi o non siasi verisimile, poco importa. [5.148ED] Troppo solletica quel sentire la scena terminata con spirito e con vivezza. [5.149ED] Ma avverti bene che terminando una scena con aria d’ingresso, non cominci l’altra con canzonetta di escita. [5.150ED] Lo chiaroscuro allora non è nella musica. [5.151ED] Le ricercate degli strumenti intoppano l’una nell’altra ed invece di spalleggiarsi, si opprimono. [5.152ED] Quindi è che per lo più ne’ soli cominciamenti degli atti comparisce bene l’escita. [5.153ED] I duetti nel mezzo di una scena si ascoltano volentieri, perché danno un’azione reciproca a più di un attore, e ne amerei ancor uno nel fine del secondo atto. [5.154ED] I cori nel fine dell’ultimo atto sono inevitabili, godendo il popolo di ascoltare insieme unite tutte quelle voci, a ciascheduna delle quali separatamente nel corso del melodramma ha applaudito, e lo strepito de’ cantanti e degli strumenti fa che tutti si levino in piedi e partano ripieni ed allegri degli ascoltati concenti con desiderio di ritornare. [5.155ED] Queste ariette o sien canzonette si debbono compartir di maniera che i cantanti di maggior credito ne abbiano numero eguale, essendo invincibili e puntigliose le competenze de’ musici, ed essendo ancor utile al recitamento del dramma che le miglior voci facciano pompa eguale di sé medesime all’orecchio dell’uditorio.
[5.156ED] Queste ariette si compongono di più metri, per parlare secondo l’usanza italiana. [5.157ED] Quello delle otto sillabe, che è il più sonoro, trionfi di tutti gli altri, come sarebbe:
Innamora amor le belle.
[5.158] Questo si varia col diversamente alternarlo, col troncarlo, facendo assai bell’udire il verso medesimo tronco massimamente dove si vuoi la cadenza, come:
Per chi gode il tempo vola;per chi pena ha tardo il piè.
[5.159] Overo:
Augellin lascia in obblioAntri opachi, argenteo rio,Bosco, volo e libertà.
[5.160] Si spezza ancor questo verso in due di quattro sillabe; e il verso quadrisillabo è grazioso, alternato eziandio con l’ottosillabo rimato a mezzo col quadrisillabo:
Già la trombaLà dal lidoNe rimbomba: al mare, al mare.
[5.161] Ma ti sia ben a cuore che in ciaschedun’aria vi sia l’intercalare. [5.162ED] Intercalare chiamano i professori la prima parte dell’aria, che poi ripetesi dal cantore, essendo che in questa facendo il compositore brillar l’artificio delle sue note ha piacere ch’ella si replichi. [5.163ED] Ne gode altresì il musico e ne gode egualmente il popolo; e perciò debbesi aver riguardo che la prima parte, quando ella sia di ottosillabi, non ecceda i tre versi e si contenti di quattro quando saran quadrisillabi; e questa regola si osservi inviolabilmente nelle altre canzonette, secondo la lunghezza e brevità de’ versi che le compongono. [5.164ED] Succede all’ottosillabo l’ettasillabo, e questo pure nel fine della cadenza si ama più tronco che piano, venga poi il troncarlo dalla vocale accentata o dal lasciare l’ultima consonante senza la vocale susseguente, mentre in tal guisa meglio dal verso recitativo distinguesi:
Cangiano moto gli astriVaria d’aspetto il ciel.
[5.165] Di sei sillabe ancor ve n’ha per lo più sdruccioli e qualche fiata ancor tronchi. [5.166ED] Esempio del primo può essere:
Ma già più languideLe stelle girano.Già fosco e pallidoSi asconde il Sol.
[5.167] Esempio del secondo sarà:
Chi non sa amar beltà,Non ha nel petto il cor.
[5.168] Ne vuoi uno di cinque sillabe? [5.169ED] Eccolo:
Voglio un amoretutto di core;che vi sia natosol per pietà.
[5.170] Ne vuoi finalmente uno di dieci? [5.171ED] Tienlo:
La speranza mi va consolando,ma sanarmi bastante non è.
[5.172] Ma quanti e quanto poi i vostri verseggiatori se ne sono ideati di misure sì sconcertate e sì incapaci di buona armonia, che non ti consiglio adoperare! [5.173ED] Questi metri saranno più grati se li adatterai alle passioni che meglio in essi risuonano. [5.174ED] Il furore meglio, anzi quasi unicamente, in quello di dieci sillabe si fa sentire nella sua maggiore terribilità, massime se lo farai sdrucciolare sino alla cadenza che sempre ti esorto ad appianare o a troncare, come sarebbe:
Sibillanti dell’orride EumenidiVeggio in campo rizzarsi le vipere,Minacciando di mordermi il sen.
[5.175] Quello di sei sillabe sdrucciolo nelle languidezze amorose dipinge assai bene lo stato fievole di un’anima abbandonantesi:
Le luci tenereDella mia VenereMi fan languir.
[5.176] Gli altri sono indifferenti e in ogni sorta di passione men forte del furore sono usuali. [5.177ED] Negli sdruccioli non t’impegnare alle rime senza assicurarti di averle felici e basterà rimar le cadenze. [5.178ED] Ma nell’altre, lascia pur gracchiare a’ liberi poetastri: vorrei una corrispondenza ben regolata di rime, perché questa non può che piacere al compositore, a’ musici, al popolo, mentre dove si tratta di rilevare la musica, tutto quello che è consonanza e armonia, vi contribuisce notevolmente.
[5.179ED] Ora rimane il trattar dello stile, che riesce più confacevole al melodramma. [5.180ED] Io credo che a questo qualunque componimento convenga più il moderato e venusto, che il grave e magnifico; perché la musica, essendo arte inventata per delizia e alleviamento degli animi, dee pure rimaner secondata da parole e da sentimenti, che vestano la piacevol natura delle delizie. [5.181ED] Non è però che a tempo a tempo il magnifico non debba usarsi, se non per altro per far maggiormente spiccare il venusto, nella guisa che l’acido misto al dolce diletta sommamente con un po’ di piccante il palato; ma se l’acido sovrabbonda, allora il diletto si converte in ribrezzo, onde schifa, e delicata donzella lo sputa. [5.182ED] Però ti replico, che le costruzioni si vogliono agevoli; i periodi chiari e non lunghi, le parole piane e vezzose; le rime non ispide; i versi correnti e teneramente sonori.
[5.183ED] Ti raccomando nelle arie qualche comparazione di farfalletta, di navicella, di augelletto o di ruscelletto: queste son tutte cose che guidano l’idea in non so che di ridente che la ricrea; e siccome sono venusti questi obbietti, così il son le parole che li rammentano e li dipingono alla fantasia; ed il compositor della musica sempre vi si spazia con avvenenza di note; ed avrai osservato anche ne’ pessimi melodrammi che il musico riporta distinto applauso cantandone una di queste nelle quali i diminutivi tanto odiosi alla lingua e genio franzese, aggiungono leggiadria. [5.184ED] Mettiti ancora in capo che nelle arie, quanto più le proposizioni son generali, tanto più piacciono al popolo, perché trovandole o verisimili o vere, se ne fa un capitale per valersene onestamente con la sua donna, cantandoli nelle occasioni che di giorno in giorno avvengono agli amanti di gelosie, di sdegni, di promesse reciproche, di lontananza e simili: e ciò è pure per riuscirti assai comodo, mentre più agevolmente il poeta sul generale riportasi, e potrà passeggiando talvolta riempirne la sua poetica guardaroba per poi mobigliarne i recitativi de’ melodrammi. [5.185ED] Ma nelle arie di azioni guàrdati pure da’ generali e commettiti a’ soli particolari, perché, se l’azione non si vuol fredda, si ricerca che le parole l’animino di tal guisa che siano uno spirito adattatissimo a quella e non ad altra azione.
[5.186ED] Quando poi tu, che finalmente non sei nel gregge de’ verseggiatori servili, vorrai che chi legge il tuo melodramma ti riconosca ancor per poeta, fatti onore nel recitativo ed al più al più in un’aria per ciaschedun atto, inginocchiandoti avanti al compositore, alle cantatrici, a’ cantori ed allo stesso impresario, perché le lascino vivere per riputazion tua e per onore delle sacre Muse nel tuo melodramma: forse a’ tuoi pianti si ammolliranno quei per altro durissimi cuori; ma se di più ne vorrai, non sperarle senza contrasto, inimicizia e ripulsa; e ti basti che le altre si possano non abborrire per la purità e per lo spirito, né qui dee finire la tua disinvoltura. [5.187ED] La professione del compor melodrammi (Martello mio) è un scuola per voi di morale, che più di ogni altra insegna a’ poeti il vincer se stessi, rinunciando al proprio desiderio. [5.188ED] Fatti ben animo a cangiar l’arie non cattive in cattive se un musico o se una musica vorranno al piè di un tuo recitativo conficcarne una che abbia guadagnato loro l’applauso in Milano, in Vinegia, in Genova o altrove: e sia pur lontana dal sentimento lo quale dovrebbe ivi esprimersi, che t’importa? [5.189ED] Lasciala lor metter dentro, altrimenti te li vedrai tutti addosso trafiggerti le tempie con soprani e contralti rimproveri. [5.190ED] Il meglio che ti possa accadere sarà il ridurli a capitolare che ti si permetta lo stirare su quelle note parole men discordanti dal tuo sentimento, nel qual caso t’intralcerai in un impegno spinoso. [5.191ED] Non conto per niente l’eguaglianza de’ versi e delle sillabe: conto il conservare nelle parole quelle vocali, su cui dee passeggiare la voce del musico. [5.192ED] L’a potrà cangiarsi nella e, non nella i perché nitrirebbe, e abbaierebbe nella u. [5.193ED] Dei conservare ancora gli accenti, altrimenti le brevi sillabe ti pronunzieran lunghe e lunghe le brevi. [5.194ED] Ma dimmi: e qual ripiego troverai tu se in luogo di un’aria di sdegno, che vi era già collocata, un’altra vi si dee porre che era d’amore e che di sdegnose parole vuol rivestirsi? [5.195ED] Se non è stato un gaglioffo il compositore di quella musica avrà adattate le note a quella prima espression, talché non riusciran poi adattabili alla seconda. [5.196ED] Io dunque stimerei sempre meglio il permettere che i musici a loro talento cacciassero l’arie ove vogliono, che il farmi complice del lor mancamento col caricarle; e basta bene che non discordino nella tessitura musicale, della qual cosa lascia tutto il pensiero al mastro di cappella. [5.197ED] Che se poi l’impresario, il quale dee pagarti la tua fatica (non arrossire, che questa è l’unica sorta di poesia destinata a servir per mercede), vorrà che tu le carichi e tu le carica, e dona al cielo l’esercizio della tua eroica pazienza in isconto o dell’aver violato qualche tempio o di altro errore per te commesso. [5.198ED] Volesti la Poetica di Aristotile sul melodramma e già l’hai avuta; ne sei tu contento? —
[5.199ED] — A quel che ascolto — io tutto smarrito risposi — egli è più faticoso il far male che bene. [5.200ED] Si suda meno a comporre una buona che una cattiva tragedia, giacché deduco da’ tuoi discorsi che il melodramma è un’imperfetta imitazion de’ migliori e in conseguenza un’imperfetta tragedia che non può vivere con applauso fuor delle note e del canto. —
[5.201ED] — Veramente — ripigliò il vecchio — egli è più difficile il deformar la natura che l’imitarla. [5.202ED] Tu nondimeno, se vuoi vivere, non ti lasciar uscir di bocca che sia più difficile il compor una cattiva che una buona tragedia, e massime in presenza di certi che essendo di corto ingegno ed avendone con molta, ma non infinita difficoltà, posta una in scena con grido, vogliono dar ad intendere aver assai più faticato intorno ad essa che Omero intorno all’Iliade, e all’Odissea, ed essere la tragedia più perfetta dell’epopeia a misura del trovarsi più difficoltà in condurre alla sua fine un’azione angustiata da un giro di Sole, che un’altra che in una o in più stagioni può dilatarsi. [5.203ED] Ma mi fan rider costoro. [5.204ED] Perché dunque non tessono un’epopeia? [5.205ED] Le corte abilità s’ingegnano di comparir vaste a forza di magnificare quel poco che dalle loro operazioni si può esiggere. [5.206ED] Io pure era di questa opinione allora che abbozzai la mia Poetica o fosse perché credei troppo al mio diletto Agatone, che tutto ciò ch’ei voleva mi dava a intendere; o fosse che, siccome esaltai tanto il suo dramma, volessi celebrare lui non epico ma solamente drammatico, coll’antepor la tragedia alla epopeia, malizia alla quale non sono arrivati i vostri interpreti, benché consapevoli, mercé del Fior d’Agatone lodato, di quell’affetto che a lui mi legava. [5.207ED] Ma se il mio libro compiuto Della tragedia, ch’io scrissi, fosse all’età vostra arrivato, avreste veduto mutata affatto una sì ingiusta sentenza. Io concedo che la tragedia sia soggetta a molte difficoltà, massimamente se vogliamo ridurla all’idea; ma l’esperienza fa conoscere che molte plausibili se ne possono tesser da un uomo, benché non tutte si conformino a quell’idea che io ne ho data nelle mie regole e dalla quale io stesso recederei se ne dovessi comporre. [5.208ED] L’azione tragica si vuol minore nella sua materiale grandezza dell’epica, e in conseguenza può contenersi dentro una minor lunghezza di tempo; e quanto a me, credo che Omero avrebbe poco più penato a metter insieme quarantotto tragedie di quello che abbia faticato a legar due azioni in quarantotto libri de’ suoi poemi. [5.209ED] Io vedo che Sofocle molte ne ha fatte, molte Euripide ed Omero il Tragico molte; e la ragione si è perché, dovendo il poeta tragico ire in traccia di caratteri, ne’ quali possa dipingere i vari costumi degli uomini pubblici e principali, se gli ne presentano tanti per avventura che tutti non li può chiudere in un sol dramma, e però come prudente economo li tiene in serbo per altre tragedie; e ne va sempre formando, fin che ritrova caratteri da animarle; e son di opinion che non solo Eschilo, Omero, Sofocle, Euripide, ma Cornelio, Racine siano morti con molte tragedie in corpo che per difetto di vita non han partorite e che, se avessero avuto il mio segreto, avrebbero poste alla luce con plauso. [5.210ED] Ma tu dirai: quante noi ne leggiamo non confrontano perfettamente con l’idea che ne dai. [5.211ED] Io ti replico che nessun’arte arriverà mai all’idea, essendo l’arrivarvi oltre le forze umane, ed oltre il bisogno; siccome ho detto altre volte. [5.212ED] Tu lo vedi nell’idea che io ti ho suggerita del melodramma. [5.213ED] Pare a te che con tutte le cautele che io ti ho prescritte e che secondo la ragione melodrammatica paiono necessarie, sia mai stato fatto o possa farsi mai melodramma? [5.214ED] E pure si dovran per questo chiudere tutti i teatri che a simili rappresentazioni son destinati? —
[5.215ED] — Volesse il cielo — io seguiva — che si chiudessero; imperciocché non arrossirei tanto vedendo come la bella Italia, mia patria, così folleggi che si abbandoni al piacere dell’ascoltar l’opere in musica; né mi vergognerei tanto di me medesimo che bramo dal capo al piè dell’anno ascoltarne. [5.216ED] Tanto egli è vero che il gusto di noi Italiani e di ciascun’altra nazione che giura nell’opinion della nostra sia depravato e corrotto. —
[5.217ED] — Bel bello, oh figlio — replicava Aristotile — nel condannar le nazioni. [5.218ED] Io teco mi accordo, siccome ho detto di sopra, che molto più di pensiero in ciò si richieda a far male che bene; e che non sia così agevole il contrariar la natura che il secondarla, e per questa ragione pochi sono i mostri e gli animali son molti; ma pochissimi poi fra li mostri son quelli che con piacere congiunto alla meraviglia si mirino. [5.219ED] Quindi anche avviene che pochissime fra tante di queste mostruose tragedie, si possan leggere con diletto disgiunte che sian dalle note e dalla modulazion delle voci.
[5.220ED] Ma quest’arte poetica ne ha ben dell’altre sul teatro musicale, che alla stessa disgrazia soggiacciono. [5.221ED] La pittura è pur degna di vivere avanti agli occhi degli uomini, ma quando si fa teatrale, eccola languire senza i lumiccini e le lampane notturne del palco, vergognandosi di comparir sì deforme a’ sinceri raggi del Sole. [5.222ED] Quegli abiti tanto pomposi che spirano lusso e magnificenza, recati giù dal teatro e spiegati in faccia del giorno, non si fan schernire come falseggiati e ridicoli? [5.223ED] Ma il canto, che pure t’imparadisa animato da quelle note, fuori di quelle non ti sconcerta se scoppia? [5.224ED] E non muore affatto se tace? [5.225ED] Queste son tutte cose che si fan vedere e sentir in teatro come al corteggio di un personaggio maggior di loro, mentre senza di esso riescono a guisa di sbandate comparse; e quando per la poesia qui servile vuoi condannare l’affascinato gusto delle nazioni, temerariamente favelli. [5.226ED] Una cosa è da condannarsi ed è il tuo giudicio e di tutti quelli che intervengono al melodramma con l’erronea presunzione che la poesia faccia in esso la prima figura. [5.227ED] Ella è una comparsa di maggior grado della pittura e di minor delle voci, che è destinata al corteggio di un personaggio maggior di lei ch’è la musica. [5.228ED] La composizion musicale è la sostanza de’ melodrammi, tutte le altre parti ne son gli accidenti; e fra questi conta pur anche la poesia; o s’ella è sostanza è come il colore, il quale non è che una sostanza di lume (per parlare con sentenza non mia) accomodata alla superficie, a cui serve dimodoché, variamente riflessa, variamente appar colorita. [5.229ED] Il lume nella sua vera forma non ha colore; ma quando si avvilisce all’ubbidienza de’ corpi solidi, secondo la loro maggiore o minore ispidezza superficiale, veste apparenza di una natura diversa e deformato ancor piace; ma piace, perché il colore là non si crede sostanza, dove non opera a talento del suo naturale, ma dell’altrui. [5.230ED] Ed ecco il modo che non ti spiaccia più che tanto la poesia melodrammatica, considerandola di principale, avvilita già in accessorio; allora questo qualunque accessorio può riuscirti sin grato. [5.231ED] Ma la poesia è uno di quei signori caduti in bassezza e costretti dalla necessità del guadagno a servire. [5.232ED] Non si è scordato ancora l’orgoglio del comandare e mal si adatta alla presente fortuna. [5.233ED] Ma quando si serve, si è servidore; e in questa linea opera onoratamente la poesia, niente comandando e solo ubbidendo alla musica che in teatro n’è la padrona. [5.234ED] E questa musica poi è una delle arti più meravigliose e perfette dell’universo, che non perisce alla posterità né con gli autori né con le voci né con gli strumenti. [5.235ED] I suoi caratteri la rendono perpetua agli occhi ed alle menti degli uomini, e non meno de’ più insigni poeti e filosofi meritan fama questi venerabili, non men che amabili artefici. [5.236ED] Il Pasquini, il Colonna, li due Scarlatti, il Perti, il Bononcini, l’Albergati, l’Ariosti, il Zanettini, il Benati, il Pollaroli, il Pistocco e tanti altri che lungo saria raccontare viveranno ne’ loro scritti a paro de’ secoli. [5.237ED] Essi nella notomia delle note sono arrivati là dove sottigliezza di gusto non è giammai penetrata, e li paragono a’ nostri antichi greci scultori, che si distinguono da’ lor moderni seguaci non tanto nel corretto dintorno e negli atteggiamenti sicuri e commossi della figura, quanto ne’ sottili andamenti de’ capelli, delle barbe e de’ cigli, e nelle ricercate diramazioni delle vene e de’ nervi sì nelle braccia che nelle gambe e nelle loro estremità delicate e finite, siccome pure nella propagazione de’ muscoli e nel rilievo delle ossature in tutte le parti nelle quali la natura dalla vera cute de’ torsi ignudi li fa trasparere. [5.238ED] Né già li ho adulati cotesti maestri di musica, confrontando il lor merito con quello de’ filosofi e de’ poeti, de’ quali non sono meno utili alla repubblica. [5.239ED] I primi insegnano i moti della natura con metodi assai incerti e con sistemi poscia più certi il regolamento degli animi umani. [5.240ED] I secondi l’uno e l’altro di questi obbietti della filosofia traggono fuori dagli odiosi ed oscuri termini delle cattedre e li rendono accetti ed accessibili insino al vulgo e alle femmine col colorirli e dipingerli nelle loro invenzioni, insinuandoli negl’intelletti per via dell’orecchio con metri lusinghevoli, armoniosi. [5.241ED] Ma nessuna delle predette due facoltà, o cerchi la beatitudine intellettuale o pur la morale, può mai condur l’uomo alla fortuna di possederle. [5.242ED] La sola musica ridotta all’atto contiene il segreto importantissimo del separar l’anima da ogni umana cura per quello spazio almeno di tempo in cui le note possono trattenerla, maneggiando artificiosamente la consonanza sia delle voci o degli strumenti. [5.243ED] Che se tanto si loda il sonno perché i sensi della miserabile umanità legando li astrae e li rende per poche ore immuni dalle sventure, quanto sarà mai più pregevole un’arte che senza sospenderci l’uso del vivere come fa il sonno, detto per ciò fratel della morte, ci fa viver estatici in una quiete deliziosa e contenta, co’ sensi veglianti, ma lieti e veramente felici? [5.244ED] Quest’arte dunque, ridotta ad una perfezione così esquisita in Italia, merita che l’Italia ne faccia il suo più caro e pomposo spettacolo, a cui si affidano anche i sovracigli più austeri con lodevole giovialità; e merita altresì che le forestiere nazioni consentano al dilettarsi di ciò che diletta sì giustamente l’Italia; merita che le voci, gli strumenti, la poesia, la pittura, l’architettura, la meccanica, la mimica e qualunque altr’arte, la corteggino e la ubbidiscano. [5.245ED] Merita finalmente, che tu non faccia comparire nell’impressione del tuo teatro la poesia melodrammatica, perché faresti un’ingiustizia alla musica di cui è mera ausiliaria, con lo scompagnarla da lei, e riporteresti il gastigo dell’ingiustizia nell’esser deriso da’ leggitori. —
[5.246ED] Dopo così lungo ragionamento si levò il vecchio e io, giurando per la tripode d’Apollo, anzi, come Arcade, per la stigia palude, di non impacciarmi di simil componimento, mi alzai.
Sessione sesta
[6.1] Partìti dunque dagl’Invalidi, accolsi il Filosofo dentro ad un fiaccaro, che ivi a caso trovai per servirlo al suo alloggiamento, ma ben mi avvidi che all’uso appunto degl’impostori non volea colui che per me s’imparasse il suo albergo, mentre, internati che fummo nella città, si ostinò in ogni maniera a smontare, consolandomi con l’impegno di trovarsi il dopo pranzo nel passeggio delle Tuillerie all’ultima scena del nostro ragionamento. [6.2ED] Io mi assisi intanto alla mensa co’ due degnissimi prelati, monsignor Bentivoglio, e monsignor Aldrovandi, i quali vedendomi astratto e non sapendo aver io in corpo Aristotile, gentilmente scherzavano intorno al soprapensiero in cui mi vedevano. [6.3ED] I cavalieri commensali andavano vanamente interpretando le cagioni della mia allegra taciturnità, sinché, sbrigatomi dalla tavola, notai in un gabinetto ove finsi di ritirarmi per riposare i capi tutti de’ discorsi avuti col vecchio; quando sentii bussare alla stanza per l’abate Lampugnano, letterato fiorentino e segretario di monsignor Aldrovandi, che m’invitò per parte de’ due prelati a vedere nella galleria del Loure le piazze che o furono o sono sotto la giurisdizione reale e con le quali ha questa potenza avuto contesa, modellate in piccolo da un ingegner fiorentino. [6.4ED] Oh bella Firenze, in che non sei tu felice? [6.5ED] In qual ragione di cose non hai tu vantàti e non vanti ingegni maravigliosi, artefici esimi? [6.6ED] Arrivato al Loure vedova, nobile e ricca e lunghissimamente estesa residenza de’ re, mi vidi in seno alla galleria la quale, se non d’ornamento, supera almen di lunghezza la Vaticana, io dico quella che Gregorio XIII Pontefice Massimo e cittadino della mia patria dilungò istoriata di tutte le piazze e provincie dello Stato Ecclesiastico e di altre potenze vicine, con maestria sinora da pennello umano non imitata. [6.7ED] Ma in questa del Loure altro vi è che pittura. [6.8ED] Le piccole piazze non solamente son rilevate ne’ loro bastioni e nelle loro fortificazioni esteriori, ma vi si vedon per entro le strade, le case, i palazzi, i templi, le piazze, i giardini, i passeggi e sin le fontane; né solamente vagheggi l’esterno di quelle mura o de’ maggiori edifici, ma scommettendosi que’ modelli, tu miri le case matte sotto de’ terrapieni e qualunque altra sotterranea necessità della guerra. [6.9ED] Vedi ne’ palazzi gli appartamenti, le scale; vedi ne’ templi i colonnati, le navi, le cappelle, i cori, gli altari. [6.10ED] Conosci se in ripa ad un fiume oppur sul labbro di un lago, se fra paludi o sul mare è situata la piazza. [6.11ED] Distingui gli alberi ov’è coltivato il terreno; ove egli è incolto, i dirupi o l’arena. [6.12ED] Discerni ne’ fiumi le barche, ne’ porti i vascelli, le galee, le feluche, con forse maggior delizia che se ti trovassi presente a que’ luoghi, perché così impiccoliti, l’occhio li gode con brevità di tempo e senza incomodo di persona. [6.13ED] Si assediava allora Landau e l’ingegnero con seta cremesina indicava intorno alla modellata piazza gli approcci, secondo le relazioni, che ne venian dall’armata; dimodoché dal suo gabinetto potesse il re giudicare o della bravura o della negligenza de’ suoi capitani; e questi modelli così disposti incoraggiscono alle imprese i lontani ingegneri, sapendo che il loro monarca non solo ascolta, ma vede come si coprano dalle offese e come agevolino co’ lavori l’espugnazion delle piazze: queste sono cento e, credo, altre quaranta di numero, fra le quali unicamente mi spiacque e come ad italiano e come ad uomo che mille grazie ne avea ricevute nel mio passeggero soggiorno per quella metropoli, la bella e sempre libera Genova nel suo modello abbronzata.
[6.14ED] Giunta però l’ora destinatami da Aristotile per l’ultima nostra sessione, sparii soletto da quella gran galleria e scendendo giù dalle scale mi vennero incontro le Tuillerie. [6.15ED] Mi fu detto che in questo luogo altre volte si fabbricavan le tegole per le case e ritener quindi ancora l’antico nome, benché ridotto all’odierna magnificenza e delizia. [6.16ED] Traversato però il gran giardino, tutto intorniato di fioritura non pellegrina, ma vaga che in sé rinserra verdi ricami d’erba e di busso sovra il battuto e secco terreno, mi abbandonai al gran viale di mezzo fra gli altissimi alberi che quinci e quindi grandeggiano in replicate file e ripartiti in diverse belle ordinanze, alla folta ombra de’ quali chi si asside, chi passeggia, uomini e donne che se non son tutti di egual nobiltà, son però tutti nobilmente abbigliati, in guisa che mi parea di veder un gran popolo di cavalieri e di dame con inaspettata serietà divertirsi e vagare in sommessi ragionamenti che somigliavano ad un discreto sussurro di vento che soavemente respiri fra le commosse verdure. [6.17ED] Rideva in un canto il mio Impostore, fattosi ad osservarmi estatico e immerso in così lieto e nobile oggetto, ed accennatomi con mano di seguitarlo, uscii per un certo viale, cui dicono de’ Sospiri, da’ luoghi più frequentati e mi trovai in una deliziosa solitudine, ridotta in anfiteatro di verdi gradini a fronte de’ quali s’alzavano scene d’abete selvaggio costretto dalla forbice del giardiniero a quella figura e foltezza a cui fra noi altri il nero busso riducesi, con questa differenza che là dove il busso esala un odor disgustoso che fende le teste, questo ricrea la vista senza disgustar l’odorato e nuocere alla salute. [6.18ED] Montammo dunque su quel terreno, che forma il palco.
[6.19ED] — Ed eccoci in scena — cominciò il vecchio — a rappresentar un filosofo ed un poeta che della rappresentazione quistionano. [6.20ED] Questa nostra commedia che finiam oggi di recitare, goderà del privilegio delle Spagnuole ed ancora (te lo attesti Saint Evremond) delle Inglesi, che non si vogliono confinate né a misura di tempo né a limitazione di luogo. [6.21ED] Tu mi troverai pronto a sodisfarti su quanto ti verrà talento di chiedermi; e poiché ti sei trovato alla tragedia e alla commedia franzese, aspetto da te il tuo giudizio circa il lor modo di recitare. —
[6.22ED] — Veracemente — io risposi — ho trovato negli attori franzesi rispetto a’ nostri attori italiani non poco di novità. [6.23ED] Differente è il lor recitare della tragedia da quello della commedia, ed in questo non tanto si scostano dal recitar dell’Italia; massime quando le rappresentazioni son prosa. [6.24ED] Io qui non intendo di paragonare i recitamenti delle due nazioni, almeno per ora, ma solamente dirò con eguale sincerità quanto mi piace e quanto mi spiace in questi istrioni, se pur v’ha cosa che o possa o debba spiacermi. [6.25ED] Essi dunque nelle tragedie hanno una certa che chiaman declamazione, mercé della quale danno tutta l’enfasi al verso che gli dà lo stesso poeta quando ad altro poeta lo legga, sempre sonoramente romoreggiando e calcando la voce su quelle finezze, siano di sentimenti, siano di stile, che vogliono rilevare, acciocché si osservino e lodino da chi le ascolta. [6.26ED] Né già confermo quel che si sparge in Italia, cioè che sopprimano in guisa co’ rompimenti del verso le rime che queste difficilmente si rendan sensibili all’uditore; imperocché (siccome ho detto altre volte) danno tutto il suono al verso e alla rima, che anzi diletta cadendo non stentata ma naturale, nel che veracemente sono eccellenti i bravi poeti di questa nazione. [6.27ED] Cantano insomma allor che declamano e mi han fatto immaginare che tale per avventura poco diverso fusse il canto delle greche tragedie, nella qual opinione ho sentito convenire il nostro eruditissimo bibliotecaio di Modena, Muratori; e però su questo, prima che io passi avanti, ti prego a sinceramente instruirmi. —
[6.28ED] — Di buona voglia — soggiungea l’altro — m’appiglio a convincerti che la tragedia greca si cantava e non si cantava. [6.29ED] Se per canto tu intendi quella sorta di musica che voi usate nelle vostr’opere, dico che non si cantava, perché tu ben conosci quanto è ridevole che un personaggio agitato dalla passione rompa a mezzo del recitativo in una perlopiù saltellante arietta. [6.30ED] Ma dei pertanto sapere esservi un’altra sorta di canto, che conviene a’ versi nel recitarli ed alle passioni nell’esprimerle vivamente, e questo è quello che si ascoltava nelle tragedie. [6.31ED] Del nostro canto voi non avete un’esatta idea negli antichi scrittori e ne godo per nostra riputazione. [6.32ED] Vedresti allora a forza di quale armonia fussero edificate le mura di Tebe e smossi i monti e guidate le selve ed ammansate le fere. [6.33ED] Ma le ghiande parvero un cibo di soavissimo nutrimento, sinché non arrivossi a macinare il grano e a gustare l’esquisitezza del pane. [6.34ED] Della nostra musica noi parleremo più a basso soltanto che io possa darti ad intendere la cantilena, qualunque ella fusse, delle nostre vecchie tragedie. [6.35ED] Già queste si tessevano in versi, prima perché essendo poesia di sua natura involgono la misura de’ metri. [6.36ED] La favola senza de’ versi è per me un’anima senza del corpo, la quale, quantunque per sé medesima possa sussistere, non rende a noi sensibili le sue operazioni che per lo mezzo degli organi corporei; e di natura dell’uomo è l’essere composto di anima e di corpo, come della tragedia di favola insieme e di verso; e l’invenzione per sé languirebbe se non colasse negli animi altrui per l’organo dolce de’ versi. [6.37ED] Ma tu replicherai che imitandosi nel dramma i veri ragionamenti, questi solamente seguono in prosa, avvenendo casualmente che qualche verso cada fra mezzo al discorso; alla qual cosa rispondo: esser altro il vero, altro l’imitazione del vero; il vero ha per sé un’efficacia a persuadere che non ha il finto, né l’imitazione pareggia mai l’imitato. [6.38ED] Questa differenza che sempre è notabile, viene ricompensata altamente dalla dolcezza prestata dal metro a’ discorsi; imperocché, affascinando questo con la soavità la mente degli ascoltanti, vi discende con tanto lor piacimento che poi, animato dalle ragioni, le quali da esso vengono contenute, muove non altrimenti che se vero fusse ed anche alle volte assai più del vero. [6.39ED] Questo fascino dunque dell’armonia, che tanto vale a condurre a suo talento gli affetti, facilita il conseguire alla tragica imitazione il glorioso fine di muovere all’odio del vizio ed all’amore della virtù gli uditori e di giovare, dilettando, alla repubblica. [6.40ED] Premo io però nella mia Poetica, ove tratto della tragedia, che i «parlari sian dolci»
; e ne esorta anche a ciò il vostro Orazio parlando di ogni poema, ne’ quali raccomanda la dolcezza e il movimento a qualsivoglia affetto dell’animo di chi ascolta: «dulcia sunto»
. [6.41ED] Con questo sistema confrontando il verso greco ed il latino co’ versi franzesi e con gl’italiani, già ti ho mostrato che i nostri metri son più colanti e ritondi, ed in conseguenza più numerosi de’ vostri che dalle lor posature sempre risaltano se non con uniformità almeno con poco notabile differenza, dimodo ché paragono i nostri al mormorio di que’ fonti che cadono naturalmente all’ingiù ed i vostri allo strepito di quegli altri che sono fatti spiccar in alto dall’arte. [6.42ED] Il primo sempre sarà mormorio, il secondo sarà sempre strepito. [6.43ED] Voi dunque che non avete un verso paragonabile al nostro nella dolcezza, avete (come abbiam detto) prudentemente aggiunta alla misura la rima che con la sua consonanza compensi quella soavità che per altro non ha il vostro metro: di tanto peso è alla tragedia il numero e la dolcezza; ma questa dolcezza così importante all’imitazione per muovere gli affetti, si accresce notabilmente con quella musica di cui ti ho parlato a principio. [6.44ED] E per spiegarmi più chiaramente, ti sia noto numerar noi tre sorte di musica, l’una naturale o diatonica per le poesie recitative; una figurata e cromatica per le poesie liriche, le quali si accompagnano co’ loro strumenti; un’altra enarmonica propria ad eccitare le passioni e i movimenti dell’animo. [6.45ED] Ora, queste tre specie di musica tutte si radunano nella tragedia per renderla affatto dolce, e principalmente le due diatonica ed enarmonica, imperocché quando in essa parlano gli attori senza passione, allora la voce dee uscir sostenuta ed eguale, senza arrestarsi ne’ tuoni alti e bassi, così convenendo alla diatonica; ma, quando passionatamente si esagera, allora la voce non è così eguale, ma si accosta più al cantare che al parlare, come è dicevole all’enarmonica. [6.46ED] Nella prima basta che vi si conosca tanta armonia quanta vale a non asconder affatto il giro misurato del verso; nella seconda si ricerca di più una tal quale cantilena simile a quella che ne’ discorsi affettuosi naturalmente si pratica, alterandosi sempre in essi la voce con una certa sonorità che contrasegna l’infermità dell’animo querulo e gemebondo per l’insolito irritamento della passione. [6.47ED] Di queste due musiche, adunque, è composta quella che i vostri Franzesi chiamano declamazione, la qual da qui avanti non ti parrà più così strana come forse ti è parsa a principio. [6.48ED] L’altra sorta di musica, detta cromatica, pur era nella nostra tragedia, e questa era quella che framezzava gli atti secondati dalle tibie e da vari altri strumenti, ma, da che voi altri moderni avete con tanto fasto introdotte sul palco l’opere in musica che noi non avemmo, vi dispensate da questa terza specie di musica nella tragedia, contentandovi de’ concerti soli degl’instrumenti. [6.49ED] Io veramente non so in questo approvar quello che vedo omai approvato dall’uso. [6.50ED] Bensì compatisco gli autori italiani se si sono assuefatti alla moda, mentre per quanto essi abbiano faticato ne’ cori che si leggono o nelle pastorali o nelle loro principali tragedie rappresentate, non han potuto mai aver grazia che sieno cantati, saltandoli come inutili ciarle i coraghi. Infatti il popolo, avezzo a divertirsi con musicali spettacoli altrove, non ha gran passione per questi cori; e noi potremmo, parlando delle tragedie, e di cotest’opere in musica, ripetere quello che Saint Evremond lasciò scritto, cioè che «i Greci facevano belle tragedie ove qualche cosa cantavano; gl’Italiani e Franzesi ne fanno delle cattive nelle quali cantano tutto.»
[6.51ED] Ma per tornare nel nostro cammino, tu omai conosci quanto s’ingannin coloro che credono essersi per noi tutto cantato nelle tragedie, quando nella maggior parte de’ tragici recitamenti si declamava più dolcemente di quel che fanno i Franzesi, non per altro se non perch’è più sonora la nostra lingua, come più copiosa di jambi de’ quali è affatto sterile la franzese, e quando voi altri Italiani, che di sillabe brevi abbondate, recederete dal mal costume del recitar tragedie in prosa (parlo delle tragedi originali, perché le tradotte, anche dalla dottissima penna del marchese Orsi, non si possono trasportare e non si denno recitare altrimenti) lodevolmente declamerete. [6.52ED] Io crederei poterti bastare la mia testimonianza per creder che la tragedia antica non si cantasse. [6.53ED] Tu lo vedi sin accennato nel capitolo X del mio frammento della Poetica, ove, divisando le parti della tragedia e dividendola in prologo, episodio, esodo e corico; dopo aver detto che questo alle volte è stabile e mobile ancor alle volte; aggiungo che il prologo è quella parte della tragedia che è avanti l’ingresso del coro; che l’episodio è la parte giusta della tragedia fra i perpetui canti del coro; e che l’esodo è la giusta parte della tragedia non susseguita da verun canto del coro; ma perché vi ha una parte di coro la qual si mescola con gli attori, accenno che questa che io chiamo coro, non canta, essendo un accompagnamento di pianto e di gemito con quelli che son in scena. [6.54ED] Da ciò dedurrai che il vero coro sempre canta e che le altre parti della tragedia non si cantano, anzi, quando l’istesso coro accompagna i personaggi in scena, non canta, ma geme con quelli, essendo troppo ridevole che il coro cantasse con chi ragiona e solendosi per lo più introdurre il coro con gli attori a colloquio nelle occasioni che ha maggior mossa l’affetto e che si abbandona ad un’alterata declamazione. [6.55ED] E se tu avessi più sopra nel medesimo frammento osservato là dove definisco io la tragedia vi avresti letto queste parole:
Chiamo parlar soave quello nel quale il numero, l’armonia, e melodia si ritrova. Ma ciò separatamente è distinto, essendo che alcune parti sono del solo metro contente; alcune vogliono inoltre la melodia.
[6.56ED] Ma ciò dovria chiarire abbastanza che basta al recitativo la dolcezza che seconda il tuono composto di diatonica e di enarmonica, ed a’ cori richiedersi di più la cromatica. [6.57ED] Ma per recarti altre testimonianze non men convincenti de’ tempi latini che han derivato il tragico costume dai Greci e che tu non crederesti sì inferiori a’ nostri, se, come vedi le tragedie del secolo di Nerone avessi vedute quelle degli anni d’Augusto e sovra tutto quelle di Ovidio Nasone, fortuna che a me per avventura non è mancata, non ho che a farti sentire secondo la tradizione ancor d’Aristoxeno una particella del capitolo IV del vostro Vitruvio, che parla dell’armonia della voce (trattando del teatro) e la paragona in qualche circostanza alle cantilene e, se non m’inganna la mia memoria, le sue parole son queste:
Nam cum flectitur in mutatione vox, statuit se in alicujus sonitus finitionem, deinde in alterius, et id ultro, citroque crebro faciendo, inconstans apparet sensibus, ut in cantionibus, cum flectentes voces varietatem facimus modulatiionis.
[6.58ED] E quinci comincerai a persuaderti che le voci erano armoniche, ma non canore, e quella de’ recitanti era declamazione, non musica, perché, se canore fossero state, non le avrebbe Vitruvio paragonate alle cantilene; imperocché nulla ben si paragona a sé stesso. [6.59ED] Se ciò per anche non ti bastasse, passa al capitolo susseguente e troverai che il medesimo autore discorre di alcuni vasi di rame situati così nel teatro e disposti che raccoglievano in sé medesimi e rendean più chiare e più dolci le voci de’ recitanti, lo che pur anche giovava a quei che cantavano (intendendo de’ cori):
Hoc vero licet animadvertere etiam in citharoedis, qui superiore tono eum volunt canere, advertunt se ad scaenae valvas, et ita recipiunt ab earum auxilio consonantiam vocis.
[6.60ED] Dice etiam in citharoedis, perché questi servivano non men a chi recitava che a chi cantava, cantando i cori e declamando gli attori con l’aiuto de’ concavi rami, che riflettevano sonoramente le voci. —
[6.61ED] — Io rimango pago — qui ripigliai — delle ragioni e delle testimonianze che tu mi adduci, per condurmi nel sentimento che l’armonia della voce dee in qualche maniera secondare il numero ancora del verso, e che nelle gran passioni sta bene un po’ di gemito e di querela; ma in questi Franzesi osservo piuttosto un poeta il quale recita le sue poesie che un attore il quale esagera le sue passioni, mentre non solamente essi alzano in armonioso tuono le voci ne’ grandi affari, ma ne’ bei passi e nelle enfasi de’ gran sentimenti; di modo ché par che non solo essi vogliano rilevare la verità dell’affetto naturalmente imitato, ma anche l’artificio e l’ingegno del tragico. [6.62ED] Le loro commedie più celebri son pur verso ed io, che mi son trovato all’Anfitrione, son rimasto contento del lor recitare assai più moderato nelle declamazioni, e armonioso quanto bastava a non guastare il giro e posatura del metro.
[6.63ED] — Convengo con te — ricominciò l’Impostore —. [6.64ED] Più caricano la tragedia che la commedia, tanto nella lunghezza del ragionare quanto nella declamazione, e così per l’appunto hanno a fare per conformarsi alla natura ed a’ Greci. [6.65ED] Quanto a me, credo che i discorsi lunghi sian del carattere vero della tragedia, perché di cose gravi da gravi e gran personaggi gravemente si parla. [6.66ED] La materia grave esigge lunghezza: il parlar de’ gravi personaggi con gravità, porta che senza interruzione procedano i ragionamenti sino alla fine, anche per la creanza, da non obbliarsi mai fra i signori, i quali né debbono mai interrompere, né essere mai interrotti, se non per importantissimi e violenti riguardi; che sebbene i discorsi tragici appaiono lunghi, non lo saranno paragonati a quel vero che si vorrebbe dalla materia, e che in grazia dell’uditorio si abbrevia, ma si abbrevia in modo che l’imitazione moderi il vero, non lo distrugga. [6.67ED] Per l’opposta ragione giudico dicevole alla commedia, ove gente privata o popolare interviene, il ragionare tumultuoso ed interrotto e per avventura più scarso, perché gli affari che si maneggiano da’ privati, essendo di minor peso e di minor conseguenza che quelli che si maneggian da’ prìncipi, richiedono ancora minor gravità e maggior famigliarità nel rappresentarli; dove i rigiri e gli affetti de’ gran personaggi, diportandosi intorno a’ vasti disegni, siccome vogliono un vestimento più riguardevole d’espressioni così esiggono un tuono di voce più gravemente commossa.
[6.68ED] La commedia si contenta dunque di un famigliare recitamento; la tragedia comanda un’alterata declamazione, né solamente ciò vuole nell’agitazione delle passioni, ma nell’enfasi maggiore de’ sentimenti, di maniera che nella maggior parte di ciò in cui spicca l’ingegno del poeta, dee spiccare la voce ancor dell’attore, e recitano esattamente coloro che così fanno nella tragedia; né mi replicare che troppo con l’imitazione passano il vero: torno a dire che nella rappresentazione tutto dee esser caricato, sì perché lo spazio fra gli attori ed il popolo sminuisce la caricatura con la distanza, sì perché l’impostura vuol qualcosa di violento per far l’effetto del vero negli animi di chi ascolta. [6.69ED] Un perito artefice che dipinga Apolline fra le Muse in un sito che, per altezza o per lontananza affatichi lo sguardo degli spettatori, àltera e rileva il dintorno sì dello dio giovinetto che delle vergini sue compagne, e queste figure che a chi di lontano le guarda rassembrano sì delicate e gentili di vita, mirate poi da vicino sembrerebbero grossolane, gigantesche e troppo alterate; così avverria de’ colori che con tanta soavità paiono entrare l’un nell’altro con esquisitissimo accordo di finimento: osservàti più da vicino si troverebbero separati, crudi e sfacciati; ma se l’artificiosa alterazion non vi fosse, languirebbe la dipintura e languirebbe nella rappresentazione della tragedia un troppo naturale regolamento di voce.
[6.70ED] Io non credo di aver teco a contrastar dell’azione, perché di questa nel teatro franzese veduto avrai maraviglie e maraviglie non meno nella parlante che nella muta. [6.71ED] Voi Italiani particolarmente mancate in questa seconda, non si prendendo i vostri attori veruna soggezione di sé medesimi quando non parlano, e quando ascoltano per lo più non danno il dovuto segno del movimento che in essi l’altrui parlare cagiona; e se taluno si dibatte alquanto tacendo, riporta, invece di un giusto applauso, l’ingiusta taccia di affettazione; né arriva punto a piacermi quel continuo passeggiare che per voi fassi in scena attraverso, l’un dietro all’altro; come nemmen loderei lo star ritti e piantati sempre in un canto. [6.72ED] Diasi che certi discorsi ricerchino questo movimento bizzarro in chi vuole in ogni maniera parlare a chi in nessun modo vorrebbe ascoltare, certa cosa è che in un ragionamento degno di molta attenzione e di gran premura de’ personaggi interlocutori, questo passeggio non sembra a proposito; e se gravissime materie talvolta si divisano passeggiando, ciò non è mai nella guisa che nelle scene italiane si rappresenta. [6.73ED] Si possono bensì dar movimenti alla persona dell’attore, senza che si scosti sempre o s’accosti con questo regolato e laterale passeggio, e i movimenti saranno plausibili se si troveranno uniformi all’affare che si propone o alla passione che si eccita, sien poi d’occhi, di braccia, di passi e di tutta ancor la persona leggiadramente contorta. —
[6.74ED] — Confesso — io risposi — che l’azion de’ Franzesi ha non so che di più attento quando non parla e, quando parla, di più commosso; e se questa è perfezione (siccome in parte concedo) avanza la nostra italiana. [6.75ED] Trovo però alcuni errori nel recitamento franzese che non sono nell’italiano. [6.76ED] Primieramente passano i loro attori dall’un estremo nell’altro, cominciando sempre i colloqui dal fondo della scena in voce sì bassa che dall’orchestra stessa non è uomo che si vanti di poter distinguere i sensi del lor borbottare. [6.77ED] Questo è un gravissimo error nell’attore, che dee in grazia degli uditori parlar sempre intelligibilmente, ancora quando la natura della cosa vorrebbe che in voce sommessissima favellasse; quando poi s’accosta al proscenio, allora fa rimbombare più del bisogno la sua sonora declamazione. [6.78ED] Deesi al comodo del popolo un altro riguardo, ed è che il viso e la bocca di chi favella sien sempre volti al teatro allorché pronunzia, potendo rivoltarsi, s’ei pur lo vuole, a’ compagni co’ quai dialoghizza negl’intervalli del suo ragionare; là dove l’interlocutore che finge ascoltare, può collocarsi in profilo verso di chi discorre, contrassegnando in simil guisa attenzione. [6.79ED] Ma ne’ Franzesi chi parla fa spesse volte lunghi ragionamenti in profilo, di modo ché chiunque si truova nel corno opposto all’attore può intender le sue parole; ma gli uditori a’ quali ei volge le spalle nulla ne intendono e quei di mezzo pochissimo. [6.80ED] Ne fanno ben una peggiore: volgon talora le spalle all’uditorio, quasi vagheggiando i colonnati dell’orizzonte; fanno anche peggio, le volgono spesso a chi seco parla, ed ho veduto far l’uno e l’altro frequentemente al gran Baubour. [6.81ED] Egli è vero che questo famoso attore lo pratica in occasione di mostrare d’udire mal volentieri o una correzione o un rimprovero; ma, o l’oda da’ maggiori o da eguali, sempre quella positura di corpo è incivile e plebea, e vi sono ben altri modi di palesare il dispetto. [6.82ED] Appena lo ammetterei in una donna che udisse tentarsi impropriamente d’amore in circostanze dove il suo onore la volesse crucciosa di così fatta dichiarazione. [6.83ED] La verginità, la modestia ha talvolta un non so che d’incivile, che ben s’accorda con la custodia della virtù. [6.84ED] E per terminare quel tanto che ho impreso impensatamente a dir dell’azione, ella è veramente smaniosa nelle passioni più della nostra, ma lo è ancora fuori delle passioni. [6.85ED] Lodo bene quel vezzoso decoro con cui madame Dangeville fa giocar gli occhi e il sorriso nelle espressioni amorose, e quel ben tenero smarrimento col quale nell’imitazion degli affanni, affanna i creduli spettatori; lodo quel parlar frettoloso di un animo violentemente commosso, quelle avvertite rivolte d’occhi girati a tempo, que’ pianti che, a differenza de’ finti pianti d’Italia, non fanno ridere, ma lagrimar gli uditori, e sino quel quasi singhiozzo ne’ vivi affetti della scaltrita madame Demarre. [6.86ED] Ma quello spesso vibrar di braccia del per altro incomparabil Baubour e molto più del suo imitatore Quinault, che alcuna fiata è più da fanatico che da passionato e che tanto s’ama fuor di proposito da questi comici volatori che aleggiano ritti su’ piè come sul tetto della lor colombaia i piccioni, non arriverà mai a piacermi; siccome per altra parte mi piace nell’esaggerazioni di madame Demarre quel mostrare di mettere alla scoperta tutto il suo cuor sulla lingua, e perciò lanciarsi dietro alle spalle una ciocca di capelli che le scherzava sul petto, quasi le fosse ancor questa d’inopportuno imbarazzo a cacciar fuori del seno l’animo fervido e passionato. [6.87ED] Ben mi dispiace negli uomini, quando vogliono far campeggiare o l’ironia o la minaccia, quel deformarsi le facce col troppo increspar della fronte, col sovrappor labbro a labbro e col parlare crollando la testa a guisa di pendolo, ma non mi spiace nelle disperazioni quello stropicciar del cappello, per altro innocente della lor declamata disgrazia. [6.88ED] Ma il povero cappello poi non dovrebbe essere in giro dalla testa alla mano ed essere con le piume su e giù strascinate a tanta parte di azione a quanta i comici vostri lo chiamano. E poiché abbiam toccato il cappello, diremo ancor del vestire.
[6.89ED] Egli è ricco e nelle donne poi è affatto leggiadro; né mi disgusta il vederle dipinte ne’ volti, perché così facevano ancora i primi comici che a’ tempi antichi assai più de’ tuoi si tingevano, e conosco che la notte, i lumi, la lontananza, le gioie e la soverchia finta ricchezza de’ vestimenti fanno languire i sembianti, ancorché dotati d’un bel colore della natura. [6.90ED] Ma quell’Agamemnone vestito da ballerino con un cappello in testa piramidato di piume è una di quelle figure che noi Italiani esporremmo per muovere a riso coll’impropria stranezza dell’abito; io perdono a’ Franzesi l’amar cotanto il lor diletto cappello che lo pongano ancora su quelle teste sulle quali dovrebbe risplendere o l’elmo o il diadema. [6.91ED] Ma, Dio buono!, facciamo almen questa corte alla loro stimata nazione: vestano i Greci del tutto in maschera e li vestano alla franzese. [6.92ED] Ciò sarà improprio, rispetto a’ tempi ne’ quai si finge l’azione, pure non iscomoderà punto gli occhi del popolo che gli ascolta. [6.93ED] Ma ecco Agamemnone col cappello e con la parucca, franzese persino al collare; dal collo poscia in giù in giubbone e in brache dintornate da gioielli, ricamate d’oro, snello, ridevole, né franzese né greco né di nazion che si sappia sinora scoperta nell’universo. [6.94ED] Quando arriviamo alle gambe, eccolo divenir greco in un tratto, ecco applicati alla calzetta di seta i tragici maestosi coturni, di modo ché parmi appunto quella figura di Orazio:
Humano capiti cervicem pictor equinamJungere si velit, varias inducere formas,Spectatum admissi risum teneatis amici?
[6.95] Tu vedi bene che il giudizioso Racine mi suppone Agamemnone più tosto in paludamento reale che quasi in farsetto ed in fatto Ifigenia si rallegra di ritrovarlo in abito sì solenne, ché non sapeva la misera essersi esso così vestito per assistere al suo sacrificio, cosa che muove l’uditorio, consapevole della imminente sventura, ad una giusta pietà verso di quella vergine che crede d’esser la sposa di Achille ed è la vittima di Calcante. [6.96ED] Molta avvertenza hanno i Franzesi nel non lasciar vuota la scena, volendo la maggior parte de’ tragici loro che resti sempre un attore della scena la qual finisce a colloquio con uno di quelli che va a cominciare, ad effetto (dicono) che non si dia il vuoto nella tragedia, come tu sei d’opinione che non si debba dar nella natura; ma io aderisco al partito di que’ filosofi più mansueti e moderni che ammettono qualche parte di vuoto per facilitare il movimento de’ corpi, tanto più che questo vuoto di scena è difetto del corago, non del poeta, conseguendosi agevolmente questo material riempimento coll’avvertire che nel mentre l’uno esce l’altro entri; e così il popolo veda sempre piuttosto due che nessuno. [6.97ED] Son ben altresì in tua sentenza a non ammetter vuoto nell’azione perché, se ciò è difetto, egli saria non del corago, ma del poeta; e giacché si parla di avvertenze meccaniche, nessuna avvertenza hanno poscia nel sortire in iscena e nel rientrare, nel che noi siamo religiosissimi. [6.98ED] Noi altri facciamo sortir l’attore dal canto ove fingiamo il suo soggiorno e sempre colà rientrare, quando l’azione non chieda che ei debba in altra parte portarsi; e allora, se questa parte è determinata, avvertiamo che a quella volta ei s’incammini; se è indeterminata, può indirizzarsi ove vuole, purché a nessuna delle già destinate parti si avanzi. [6.99ED] Succedon poi, credo per difetto particolare de’ comici, non per costume o abuso del teatro franzese, spessi incontri nell’entrare e nell’uscire di due personaggi che deono l’un l’altro sfuggirsi o almen si suppone che non si debban reciprocamente vedere, lo che pure si nota di errore fra noi, e vi ha casi ne’ quali le sopradette avvertenze tolgono o danno notabilmente alla rappresentazione.
[6.100ED] A questo proposito mi fu detto che nel Brittannico di Racine, dopo rappresentatasi a maraviglia da madame Demairre, che ivi era Giunia, e di Quinault, che era Brittannico, la scena in cui questa povera principessa è astretta da Nerone, che sta d’ascoso ad ascoltare, a non accogliere l’espressioni amorose del disperato Brittannico, per non rovinarlo; esce poi Nerone, dal quale licenziandosi la meschina, parte di scena, entrando là dove era un momento avanti entrato Brittannico, lo che potea produrre un effetto di maggior gelosia nel sospettoso tiranno, e però la cauta donzella dovea bene stare avvertita di fuggire ogni apparenza dannosa all’amante e dovea portarsi verso altra parte e dentro il proprio appartamento; mi fu detto ancora che questa poca avvertenza fu notata da tutto il popolo interessato nella salvezza dell’infelice Brittannico. —
[6.101ED] Mentre io così diceva tutto in un fiato, m’interruppe l’accorto Impostore col ridere in guisa che ne ballavano le rilevate sue spalle e, postami sul braccio, quasi per sostenersi negli eccessi del riso, la destra:
[6.102ED] — Lasciami — disse — un po’ respirare e poi discorriamola seriamente. [6.103ED] Per Dio che i Franzesi non possono tacciarti di adulatore!, ma né meno ameresti che ti tacciassero di satirico, e però esaminiamo la cosa a dovere. [6.104ED] Primieramente tu non hai veduto i migliori attori di Francia che a’ nostri giorni sieno stati monsieur Baron e madame Duclos nel tragico, e giudichi solamente di quelli che sono i migliori fra i men perfetti. [6.105ED] Questa bell’arte del rappresentar recitando dee senza dubbio aver le sue leggi, ma come che alcune ve ne siano universali ed inevitabili, che qualsivoglia nazione dee, quando è savia, accettare, ve n’ha però alcune particolari che bene stanno ad una nazione e non ad un’altra, e tutte intanto hanno il lor pregio per sé medesime, ma molto più rispetto al luogo a cui si uniformano. [6.106ED] Vedine l’esempio nel ballo. [6.107ED] Il francese balla di modo che sembra quasi nuotare. [6.108ED] Le braccia sempre elevate e pieghevoli rompono l’onde leggiadramente, e guizza in mille rivolgimenti con la vita, quasi che ceda con le sue dolcissime piegature al moto della corrente, e di tempo in tempo saltella appunto come quel nuotatore che, secondando gl’innalzamenti dell’onda, si lascia sospingere all’alto per avanzare di viaggio. [6.109ED] Lo vedi girarsi e rigirarsi senza un cert’ordine di figura che almeno sensibilmente si faccia distinguere per quadrata, ovata o ritonda. [6.110ED] Ecco abbandonamenti, risalti là dove non gli aspettavi, ma il tutto eseguito con tanta grazia a seconda degl’instrumenti che t’innamora, e tu avrai certamente nella Medea lasciati gli occhi dietro il leggiadro danzare della piccola e più che vezzosa madame Prevoste. [6.111ED] Questa maniera di ballo piace estremamente ai Franzesi, inclinati agli atteggiamenti amorosi, e piace ancora generalmente all’altre provincie, perché l’amore è una passione che è comune a tutto il genere umano. [6.112ED] Con tutto ciò lo spagnuolo ha una maniera di ballo in sé raccolta e che, nello stesso svincolamento leggero di vita, custodisce un non so qual decoro di maestà che è indivisibile dal genio grave della nazione, dimodoché questa danza sembra più tosto un passeggio adorno di bizzarrie spiritose, di movimenti che mettono in vista la dispostezza e l’agilità della vita, alta, minuta e disciolta: doti tutte che si tengono in giusto pregio da un popolo che mai non piega a viltà. [6.113ED] L’italiano in mezzo ed a’ lati dispone ordinatamente la spiritosa sua danza: si vibra nell’aria e, trinciate in essa agilissime capriole, si restituisce in punta di piè leggerissimamente sul piano e, appena toccatolo, risale come pernice che tutta ritta si spicca nel breve suo volo di terra, a cui, agilmente rendutasi, delude il cane che se le accosta col rialzarsi. [6.114ED] Questa terza sorta di ballo che fa la maggior comparsa nell’aria, somigliasi al volo. [6.115ED] Abbonda del brio franzese, ma poscia manca di que’ soavi abbandonamenti di madame Prevoste. [6.116ED] Abbonda dell’ordine e della dispostezza spagnuola, ma poscia manca di quella altrui gravità. [6.117ED] Ora tu vedi che questi tre balli, quando siano esequisitamente eseguiti, egualmente son grati e son belli; ma gratissimi sono e bellissimi ciascheduno al genio prevenuto delle tre differenti nazioni. [6.118ED] Il vestire del ballerino italiano s’uniforma a quello del ballerino franzese, benché questo vesta più ricco e più bizzarro, ma quei più liscio e leggero. [6.119ED] Il ballo spagnuolo vuol l’abito nazionale che scopra con la sua ben adatta lindura i fini e sottili dintorni della minuta vita, dell’affuselata coscia, della lunga agile gamba e del piè breve o abbreviato dalla scarpetta. [6.120ED] L’aria degl’instrumenti franzesi è per lo più un dolce mescolamento di fievolezza e di spirito. [6.121ED] Quella degli Spagnuoli ha più tosto un non so che di dignità e di querela. [6.122ED] Ma è tutta quella degl’Italiani salterellante e briosa.
[6.123ED] Veniamo a noi e, per giudicar senza passione, giudichiamo egualmente del recitare. [6.124ED] Appresso della nazione franzese è in pregio ed in costume il declamar su’ teatri in voce caricatamente sonora. [6.125ED] Gli Spagnuoli niente declamano, ma tutto dicono con sussiego e con gravità, e ben di rado adiviene che variino i tuoni del loro parlare in scena, sempre sostenuto in tuon famigliare, ma nobile, né mai per gran passione o per grandi affari escono dalla lor natia compostezza; ed imitando i loro civili discorsi, recano a grandezza d’animo il non alterarsi esternamente per tutto ciò che potrebbe alterare ogni anima men che spagnuola. [6.126ED] Voi altri Italiani ora vi componete ora vi scomponete, secondo che vi pare portar il bisogno, ora gravi ora famigliari, ma più pendete al famigliare che al grave, più all’espressione civile che alla tragica e passionata declamazione. [6.127ED] I gesti di tutte tre le nazioni corrispondono parte al loro costume o più ardente o più sostenuto o misto sì dell’uno come dell’altro, e ciascheduna di essa si stima ne’ suoi teatri e sprezza le altre, perché ciascuno preferisce con troppo amore il proprio genio all’altrui; io, che vengo per terzo ad eriggermi in giudice di queste tre maniere sì d’atteggiare, come di parlare, trovo in tutte tre i loro vizi e le loro virtù, e ti vo’ dar gusto con sentenziare che l’italiano va a piacere con più ragione degli altri, se più commozione dagli Franzesi e più gravità dagli Spagnuoli prenderà in prestito nelle scene. [6.128ED] Di questo mescolamento mi dà grande speranza Luigi Riccobuoni detto Lelio comico, che con la sua brava Flaminia si è dato non solo ad ingentilire il costume pur troppo villano de’ vostri istrioni, col rendere l’antico decoro alla comica professione, ma recitando insieme co’ suoi compagni regolate e sode tragedie, le rappresenta con vivacità e con fermezza conveniente a’ soggetti che tratta, di modo ché potete voi dargli il giusto titolo di vero riformatore de’ recitamenti italiani.
[6.129ED] Quanto al vestiario (perdoni la Crusca questo ed altri termini del teatro), egli è certo che né si dee vestir Agamemnone alla franzese né tampoco in farsetto; ma vi dee essere un certo modo di mezzo che senza disgustar l’occhio avvezzo alle mode presenti, abbigli riccamente il personaggio, facendo concepire al credulo vulgo che sia vestito all’antica. [6.130ED] Questo vestire ideale è quello che voi altri chiamate eroico, e che sì nelle tragedie che ne’ vostri drammi per musica usate, e che i Franzesi in quella che chiaman ‘opera’ adoprano. [6.131ED] Ma certa cosa è che i Franzesi in questa parte dan bene che imitare a voi Italiani, e siete ancor lontani di molto ad arrivare alla lor perfezione, benché negli ultimi anni vi siate posti in carriera di raggiungerla e forse di sorpassarla; noi altri Greci, trattando i nostri argomenti, abbigliavamo alla moda delle nostre corti gli attori, ma il nostro vestiario era assai più parco del vostro, perché noi finivamo nel finger porpora ed oro, ove voi avete inventato tutta la fioritura delle gemme più gaie e più rare, talché l’imitazione, favorita dalla distanza e da’ lumi, par sin che superi il vero; e benché più di noi Greci, meno certo di voi moderni Italiani han saputo in questa parte inventare i vostri antecessori latini, benché le loro rappresentazioni, se si riguarda il vero valore intrinseco de’ loro fastosi e ricchi apparati, superassero di molto le vostre. [6.132ED] Ma tu mi fai essere non più filosofo, non più poeta, ma comico in muovermi sì fatte questioni.
[6.133ED] Abbiam qui parlato degli accidenti del teatro. [6.134ED] La materia l’avete copiosa, perché avete più fatti di noi da lavorarvi sopra tragedie, e molte ancor delle buone ne son lavorate, essendo ne’ soggetti disposti introdotta una forma proporzionale. [6.135ED] Egli è uopo avvezzare il gusto del popolo a divertirsi di ciò che giova al costume, e prega il cielo che lungamente conservi il marchese Scipione Maffei, di cui non fu intelletto più amante della verità e che si prendesse men soggezione delle pur anche accreditate imposture. [6.136ED] Tu l’hai veduto nel suo trattato Della scienza cavalleresca, su cui fremono invano i corucciati pretesi giudici del mal condotto puntiglio e del falso onore, e lo vedrai nella raccolta che ei sta facendo di alcune antiche tragedie, parte delle quali egli ha già fatte felicemente rappresentare; e guai alle tue, s’ei ne compone una sola. [6.137ED] Ma l’aria colante di queste tilie comincia ad aggravarmi la testa e omai la sera va spopolando questo fronzuto passeggio a cui va levando il bel verde che sì ne allettava. [6.138ED] Amico, a rivederci. —
[6.139ED] Così mi disse ed, entrato fra quelle scene che formano quivi il teatro, mi lasciò solo; né mai o nelle Tuillerie o altrove ho potuto più rivedere il nostro Aristotile o sia il nostro Impostore.
Commento
A chi legge
[commento_Intro.2ED] crambe: la ‘crambe’ è una specie di cavolo marittimo, ma qui il termine è usato nella locuzione terenziana (Terenzio, Phorm., III.2.10: crambe repetita) con il significato di ‘cantilena’: ‘cantilena già cantata’;
volume: G. V. Gravina, Della tragedia libro uno era uscito a Napoli, per Nicolò Naso, nel 1715, con dedica ad Eugenio di Savoia (si legge ora in Id., Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 503-589), uno dei principali obiettivi polemici di TrAM.
[commento_Intro.4] Vocabolario: il Vocabolario della Crusca di cui nel 1691 era stata pubblicata la terza edizione.
Sessione prima
[commento_1.3ED] Pompeo Aldrovandi: bolognese (1668-1752), nel 1713 quando ricopriva la carica di prosegretario della Congregazione delle Immunità, fu inviato a Parigi da Clemente XI, per chiedere la mediazione di Luigi XIV nella controversia sorta tra la Santa Sede e Filippo V di Spagna che aveva decretato la chiusura del tribunale della Nunziatura di Spagna (1709). Al seguito di Aldrovandi partì anche M., che risiedette a Parigi da giugno a dicembre 1713.
[commento_1.4ED] Ovardi… Nortfolc: con ogni probabilità un discendente degli Howard duchi di Norfolk, che, come si legge nel diario di U. Landi, portava il cappello cardinalizio al cardinale Melchior de Polignac;
Aquaviva… Atri: Francesco Acquaviva d’Aragona (1665-1725), napoletano, vescovo di Sabina e uomo di fiducia di Filippo V, dal quale fu nominato rappresentate diplomatico della corte spagnola presso la Santa Sede e cardinal protettore delle Spagne.
[commento_1.6ED] balbutiva: ‘balbuzziava’, così Diogene Laerzio, V.1.1, la cui fonte è Timoteo Ateniese;
uomo… balbutiva: il ritratto esteriore gioca sul contrasto, tipico della figura del Sileno socratico, tra un’apparenza deforme e un animo colto e raffinato.
[commento_1.12ED] sopra… medesimi: dell’opera aristotelica M. ricorda solo quella retorico-poetica, ignorando sia quella politica sia quella fisico-filosofica.
[commento_1.15ED]
Costui… prova: «Rusticus iste multa dicit, sed nihil probat»
, detto attribuito ad Aristotele riguardo Mosè.
[commento_1.24ED] Ti … preferito: cfr. Gellio, Noct. Att., XIII.5.1-12;
preservativo: farmaco;
quel… me: ‘il farmaco che fu fatale a Demostene, quel giorno non lo fu a me’. Riferisce Plutarco (Vit. Dem., xxix) che Demostene avrebbe assunto del veleno per sottrarsi all’oltraggio di Archia.
[commento_1.29ED] la facil… tedesca: Marino, Adone, X.165, 3.
[commento_1.32ED]
ne’… spalle: cfr. Martello, Sermoni, proemio, p. 5; I, 4-12. Inizia qui una moderata critica degli istituti cardini dell’aristotelismo tragico (le tre unità, il personaggio mezzano, ecc.), che trova un puntuale riscontro anche in Gravina, Prologo, in Id., Tragedie cinque, Napoli, F. Mosca, 1712, p. 8av: «benché la prisca libertate e spirito / le regole mi tolser d’Aristotile / date per legge da’ servili interpreti, / ch’alla ragion l’autorità prepongono, / e con più studio sempre più s’intricano»
.
[commento_1.38ED] Eschilo… Grange: oltre i tre tragici greci, il canone tragico è formato, nell’ordine, da Pierre (1606-1684) e Thomas Corneille (1625-1709), da Jean Racine (1639-1699), da Jean Galbert de Campistron (1656-1723) il cui Arminio M. aveva potuto vedere rappresentato al collegio Clementino di Roma nel carnevale del 1712 (cfr. J. Galbert de Campistron, Arminio…, Roma, F. Chracas, 1712), Antoine de La Fosse (1653-1708), Dominique de Colonia (1660-1741), Prosper Jolyot de Crébillon (1674-1762), François-Joseph de Lagrange-Chancel (1676-1758).
[commento_1.39ED] Cfr. Sermoni, proemio, p. 5; III, 1-72; e cfr. Magnani Campanacci, Un Bolognese nella repubblica delle lettere, p. 102.
[commento_1.40ED] certi: prima di una serie di allusioni a G. V. Gravina il cui classicismo greco è uno dei bersagli polemici di M.
[commento_1.61ED] ma… insoffribili: M. applica al genere tragico la medesima critica mossa all’epica omerica (è il tòpos del ‘sonno di Omero’) nei Sermoni, II, 34-73 e IX, 39.
[commento_1.62ED] secchi poeti: altra allusione a Gravina e alla sua condanna della ‘favola pastorale’, cfr. Gravina, Della tragedia, pp. 512, 515, 524-526, 530, 532, 534;
contra i moderni: ancora una citazione allusiva a Gravina, Della tragedia, capp. xviii-xx, dal titolo Contro i moderni tragici.
[commento_1.67ED] Natura… ragione: la coppia natura-ragione fonda la nuova estetica e poetica arcadico-razionalistica, di contro a quella di stampo aristotelico fondata sull’imitazione.
[commento_1.70ED] Cfr. Magnani Campanacci, Un Bolognese nella repubblica delle lettere, pp. 110-112, per analoghi procedimenti retorico-argomentativi in Galilei e Malpighi riguardo agli scritti aristotelici;
quelli… gionocchioni: probabile allusione ad André Dacier, così ricordato nel Proemio all’Edipo Tiranno: «che è uno di que’ Franzesi che leggono, al dir di colui, i Greci inginocchioni, [e] si è cimentato a tradurre nella sua lingua franzese (dic’ei) fedelmente l’Edipo liscio di Sofocle, ed avendolo tagliato in scene ed in atti, l’ha pubblicato, acciocché venga talento a’ suoi divoti di udirselo recitare»
(P. J. Martello, Edipo tiranno, in Id., Teatro, I, p. 562);
quel… Iliade: Aristotele, Poet., XXIII, 1459a35-37.
[commento_1.74ED] Un discorso organico sull’architettura M. svolgerà nel Vero Parigino italiano, p. 324.
[commento_1.82ED] Cfr. Sermoni, III, 34-72 e A. Tassoni, Dieci libri di pensieri diversi, Carpi, appresso Girolamo Vaschieri, 1620, p. 514.
[commento_1.93ED] certa… derisori: il successivo cenno alla lettura di una delle tragedie di Gravina, il Papiniano (I.[95]), consente di identificare la ‘conversazione’ in quella stretta intorno al giureconsulto calabrese, in cui venivano lette le sue tragedie (cfr. Gravina, Della divisione d’Arcadia, in Id., Scritti critici e teorici, p. 483, e B. Alfonzetti, Voci del tragico nel viceregno austriaco, p. 216).
[commento_1.98ED] metà… destinata: ‘una parte del pubblico prevenuta in favore dell’autore’.
[commento_1.99ED] cinque tragedie: quelle di Gravina: Palamede, Andromeda, Appio Claudio, Papiniano, Servio Tullio, tutte edite come G. V. Gravina, Tragedie cinque, cit.; si confronti però questo giudizio con quello, più sfumato, del Segretario Cliternate, III, 55-78;
scolari: allusione a Gravina, Tragedie cinque, p. b1v (Prologo);
senza… cattedra: ivi, p. b4v; e cfr. lo stesso prelievo in Martello, La rima vendicata e Il Femia sentenziato (in Id., Teatro, a cura di H. S. Noce, Roma-Bari, Laterza, I, 1980, rispettivamente p. 569, II.2, 435-440 e p.632-633, II.2, 217-225).
bizzarro: dal punto di vista metrico, essendo composto quasi esclusivamente di endecasillabi sdruccioli; strutturale, in quanto appunto generale e non introduttivo a una tragedia specifica; nonché, sembra di capire, anche argomentativo.
[commento_1.101ED] o… vero: correctio ironica che nel proclamare l’‘infallibilità’ dei ‘filosofi’ di fatto la smentisce.
[commento_1.104ED] strapazzo… parlare: cfr. supra Commento, I.[32].
[commento_1.105ED] Poetica: i Sermoni dell’arte poetica.
[commento_1.107ED] popolo: ‘pubblico’, sempre, cfr. infra I.[111].
[commento_1.110ED] egli… scena: il pubblico è il solo giudice delle opere teatrali, cioè colui che con il successo ne decreta la bontà o no.
[commento_1.111ED]
e… misti: Non si tratta di una mera ripresa del magistero di Camillo Ettorri (Il buon gusto ne’ componimenti rettorici, Bologna, Eredi del Sarti alla Rosa, 1696, p. 3: «[popolo] è un aggregato di tutte le classi delle quali è composta la comunità in cui si vive»
), ma di una puntuale divaricazione tra generi letterari: la poesia, destinata ai dotti e dunque sottoposta al loro giudizio, e il teatro, destinato al popolo, unico foro competente;
intelletto: giudicatrice della poesia è infatti la facoltà razionale, mentre nell’opera teatrale è il cuore, cioè la sfera passionale (cfr. infra I.[112]).
[commento_1.115ED] ha fatto: soggetto ‘Gravina’;
intrecciamento: viluppo drammaturgico che trova la propria conclusione nella ‘peripezia’, ovvero il rovesciamento appaia «nuovo ed inaspettato»
.
[commento_1.116ED] in… d’Italia: allusione alla fortuna che la drammaturgia tragicomica di derivazione iberica riscuoteva nel Regno di Napoli, ma anche a Venezia;
Lombardia: entità geografica dai confini sfumati: nel Settecento indica genericamente l’Italia settentrionale.
[commento_1.118ED] travedi: t’inganni.
[commento_1.121ED] Trissino… omerica: G. G. Trissino, gentiluomo vicentino, che con l’Italia liberata dai Goti (1547) tentò la restaurazione dell’epica classica di matrice omerica;
Scamacca: Ortensio Scamacca, gesuita siciliano di Lentini, autore, con lo pseudonimo di Martino Lafarina, di dieci tomi di tragedie sacre stampate a Palermo tra il 1632 e il 1648, anno della sua morte. M. vi aveva accennato in Del verso tragico, in Id., Scritti critici e satirici, a cura di H. S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 163-164.
[commento_1.123ED] sforzati: ‘innaturali, affettati’.
[commento_1.125ED] nodi gordiani: altro prestito graviniano: Gravina, Della ragion poetica, p. 205.
[commento_1.127ED] specchiamo: ‘confrontiamo e riscontriamo’.
[commento_1.128ED] zendadi: ‘scialli di seta nera ornati da una garza’.
[commento_1.136ED] peripezia: il passaggio dalla buona alla cattiva sorte o viceversa di cui parla Aristotele nella Poetica (XI, 1452a22-29).
[commento_1.137ED] grand’uopo: ‘necessità estrema’;
si scopre: altra parte della favola secondo Aristotele (Poet., XI, 1452a32-33): riconoscimento o agnizione (così infra, I.[142], dal greco anagnorisis).
[commento_1.139ED] la famosa dell’Edipo: cfr. Aristotele, Poet., XI, 1452a29-33.
[commento_1.140ED] l’altra… bellissima: nell’Ifigenia in Tauride di Euripide l’agnizione è doppia, in quanto comporta dapprima il riconoscimento di Ifigenia da parte di Oreste, avvenuto grazie alla lettera che Ifigenia consegna al fratello; poi quello di Oreste da parte di Ifigenia, e cfr. Aristotele, Poet., XI, 1452b5-8;
Agrippa… Quinault: Philippe Quinault, Agrippa ou le Faux Tibérinus (1663), ripetutamente tradotta e rappresentata, sia a Bologna (1695) sia a Roma (Agrippa…, recitata… Collegio Clementino nelle vacanze del Carnovale nell’anno MDCCXI, Roma, F. Chracas, 1711) con dedica a Ippolito Bentivoglio d’Aragona, e cfr. Ferrari, Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVIIº e XVIIIº. Saggio bibliografico, Paris, Champion, 1925, pp. 8-9, e S. Franchi, Drammaturgia romana. II. (1701-1750), … in collaborazione con O. Sartori, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1997, p. 84.
[commento_1.141ED] senza… medesime: cfr. Aristotele, Poet., XI, 1452a32-33.
[commento_1.143ED] Cfr. Aristotele, Poet., XI, 1452a30-32.
[commento_1.145ED] ricrea: ‘ristora’;
sogno… piume: l’agnizione ha lo stesso benefico effetto del risveglio da un brutto sogno.
[commento_1.149ED] brevità oscura: cfr. Sermoni, IX, 55-57.
[commento_1.155ED] Ubertino Landi: piacentino (1687-1760), accompagnò Martello nel viaggio a Parigi da cui poi ripartì per un tour europeo; il diario del viaggio parigino è manoscritto a Piacenza, Biblioteca civica Passerini-Landi, Fondo Lanti, ms. 80);
Marcantonio Ranuzzi: cfr. F. Chiodini, Il viaggio a Parigi di un giovane aristocratico bolognese di primo Settecento: Marc’Antonio Ranuzzi, cit.
Sessione seconda
[commento_2.1] Vado: Vado ligure a nord di Savona.
[commento_2.2ED] la casa… Chiabrera: Gabriello Chiabrera (1552-1638), savonese, godette nel primo Settecento arcadico una considerevole fortuna, sia per l’interpretazione di una linea poetica seicentesca di matrice ‘classicistica’ sia per la sua poesia pindarica, cui si ispirò tra gli Arcadi Alessandro Guidi. Chiabrera trascorse gli ultimi anni della sua villa appena fuori Savona, a villa ‘Siracusa”, con ogni probabilità la casa cui allude M.
[commento_2.9ED] In … arte: Orazio, Ars poet., 31.
[commento_2.12ED] così… Cornelio: P. Corneille, Discours des trois unités: d’action, de jour, et de lieu, in Id., Œuvres complètes, III, textes établis, présentés et annotés par G. Couton, Paris, Gallimard, 1987, pp. 174-190;
Poiché… meno: Aristotele, Poet., V, 1449b12-13.
[commento_2.19ED] Pure: dall’unità di luogo, l’Impostore deduce quella di tempo in base a un principio di verosimiglianza.
[commento_2.21ED] terza unità: tutta la discussione sull’unità di luogo risponde all’interpretazione ristretta datane da Gravina in Della tragedia, pp. 568-573.
[commento_2.23ED]
d’alcuni moderni: si erano espressi in favore di un’unità di luogo rigorosa, tra gli altri, Sforza Pallavicino e Giusto Fontanini, L’Aminta di Torquato Tasso difeso e illustrato…, introduzione e aggiunte all’indice del Fontanini di A. Gareffi, Manziana, Vecchiarelli, 2000, p. 15, che sostiene che la mutazione di scena renderebbe «imperfetta la favola, facendosi bisognosa d’aiuto esterno»
.
[commento_2.28ED]-[commento_2.29ED]: con effetto simile a quello riscontrato in I.[101], M. si pronuncia in una proposizione assiomatica, subito smentita dalla successiva, con evidente allusione a Gravina, Della tragedia, p. 508: «Sicché ridotta la tragedia nella sua vera idea, si viene a rendere al popolo il frutto della filosofia e dell’eloquenza»
, e passim.
[commento_2.36ED] maestro: Platone.
[commento_2.38ED] Cicerone… Bruto: Cicerone, Orator ad M. Brutum.
[commento_2.41ED] una… Sofocle: in quanto tragedia perfetta. Ma questo giudizio sull’Edipo tiranno va confrontato con quello ben più severo affidato al proemio dell’Edipo tiranno di Martello (in Id., Teatro, II, pp. 562-564).
[commento_2.60ED] varia apparenza: ‘mutevole apparato scenico’.
[commento_2.64ED] padre… italiane: O. Scamacca [pseud. Maritno Lafarina], Delle tragedie sacre e morali col discorso della tragedia, II, Palermo, per Giovanni Battista, Meringo, 1633, pp. 1-61.
[commento_2.65ED] cfr. Corneille, Discours des trois unités, p. 189.
[commento_2.68ED] Rivani… Bibieni: Ercole Rivani, macchinista e scenografo bolognese; Prospero Manzini, pittore e scenografo bolognese (cfr. M. Pigozzi, Prospero Manzini, quadraturista, scenografo, apparatore bolognese (attivo 1641-1674), in «Musei ferraresi», XII, 1982, pp. 171-182); Ferdinando (1657-1753) e Francesco (1669-1756) Galli da Bibiena;
fanese… Rossi: probabilmente Domenico Egidio Rossi (1659-1715); cfr. F. Battistelli, Documenti inediti sull’architetto fanese Domenico Egidio Rossi (1659-1715), Fano, 1984;
versatile: mutevole.
[commento_2.69ED] rozzi: l’aggettivo avverte della prospettiva storico-progressista cui aderisce M. che pone l’antichità classica non sotto il segno, graviniano e di derivazione platonica, di una maggiore prossimità all’ideale, ma sotto quello del ‘primitivo’;
spiccare… voce: far distinguere la loro voce sul frastuono prodotto nel retroscena.
[commento_2.72ED] I… ambasciadori: Corneille, Discours des trois unités, p. 188.
[commento_2.76ED] Vitruvio: Vitruvio, De arch., V.6.9.
[commento_2.80ED] ordigni: i ‘periatti’ di cui parla Vitruvio, De arch., V.6.8;
Cesare… Istorico: J. C. Scaligero, Poetices libri septem, apud Petrum Santandream, 1594, p. 88;
Virgilio… fontibus: Virgilio, Georg., III, 24.
[commento_2.81] Servio… interior: Servio, Comm. ad Georg., III, 24, già citato in Gravina, Della tragedia, p. 570.
[commento_2.82ED]
Del… vagliono: citazione ironica da Gravina, Della tragedia, p. 570: «Di qual luogo quei che voglion difendere la mutazion delle scene in una medesima opera, fuor d’ogni ragione si avvagliono»
;
semidotti: altra ironica allusione a Gravina (Della tragedia, pp. 588-589).
[commento_2.84ED] primo: anche Corneille si sofferma sull’Aiace per confutare l’osservanza dell’unità di luogo nella tragedia greca (Discours des trois unités, p. 188).
[commento_2.87ED] Non … esci: Sofocle, Aiax, 369-370.
[commento_2.88] Ma… padiglione: ivi, 530.
[commento_2.89] Serra… porte: ivi, 592.
[commento_2.90] Non… fuori: ivi, 735.
[commento_2.93ED] padre… scena: cfr. supra II.[64].
[commento_2.98ED] Sofocle, Oed. Col., 16-19.
[commento_2.99] Ivi, 910-918.
[commento_2.102ED] E… fatto: l’Edipo Colonneo e il Sisara apparvero nell’edizione romana del Teatro italiano, Roma, per Francesco Gonzaga in via Lata, 1715, vol. II.
[commento_2.106ED] Non… strepito?: passo non rinvenuto, che allude, comunque, al dialogo tra Elena e Elettra nell’Oreste euripideo (vv. 71-109).
[commento_2.108ED] Entriamo… morire: ivi, 1119.
[commento_2.110ED] State… casa: altro passo non rinvenuto che interessa il primo coro dialogato con Elettra (Euripide, Or.,139-210).
[commento_2.113ED] Andate… piena: Euripide, Hipp., 108-110.
[commento_2.114] Ivi, 776-789.
[commento_2.116ED] Ivi, 790-897.
[commento_2.117ED] Ivi, 1342-1461.
[commento_2.120ED] Sofocle, Elect., 86-120.
[commento_2.123ED] Ivi, 516-551.
Sessione terza
[commento_3.1] Agai: Agay, Saint-Raphaël.
Saint Orpè: Saint-Tropez.
[commento_3.3ED] affatto geniali: ‘interamente piacevoli’.
[commento_3.4ED] cortina: ‘muro’.
[commento_3.5ED] tanto… terra: descrizione di una celebre ‘passione’, quella del sollievo del pericolo scampato, molto prossima al ‘piacere’ dello spettatore assiso alla tragedia.
[commento_3.7ED] sceneggiamento: divisione in scene, marcate dalle entrate ed uscite degli attori.
[commento_3.10ED] sortire: ‘uscire sulla scena’, ora e sempre s’intenda l’apparizione dell’attore sul palco e con ‘entrare in scena’ il moto opposto verso il retroscena.
[commento_3.11ED] libertà… occasione: l’ingresso o l’uscita di scena di un personaggio è solitamente regolata da una ragione logico-narrativa, ad eccezione delle scene d’inizio atto.
[commento_3.17ED] essendo… vedrebbero: ‘essendo il discorso rappresentazione del pensiero’, ma è ipotesi subito smentita da M.
costasse: ‘constasse, fosse noto’.
[commento_3.18ED]
Quindi… rappresentato: periodo di stampo ironicamente graviniano, cfr. Gravina, Della ragione poetica, p. 201 («Onde ci dispone verso il finto nel modo come sogliamo essere disposti verso il vero»
; ivi, p. 202: «Quindi è che il poeta…»
).
fenestrella: allusione al tòpos della sinceritas (cfr. M. A. Rigoni, Una finestra aperta sul cuore (note sulla metafora della “sinceritas” nella tradizione occidentale), in «Lettere italiane», IV, 1974, pp. 434-458, e L. Bolzoni, «La finestra aperta sul cuore», in Ead., La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, Einaudi, 1995, pp. 154-164).
[commento_3.22ED] chi… … pensamento: M. individua due tipi di soliloquio: quello che imita il parlare a se stesso e quello con cui si dà voce al pensiero silenzioso.
[commento_3.24ED] cangiare… personaggio: ovvero se sia legittimo il secondo tipo di soliloquio, quello che esprime il pensiero interno e silenzioso del personaggio.
[commento_3.25ED] un … ascolti: descrive la convenzione dell’‘a parte’, in cui un attore in scena pronuncia una battuta che convenzionalmente non è udita dall’altro attore in scena.
[commento_3.31ED] Aiace… medesimo: particolarmente lunghi i soliloqui del protagonista, cfr. per es. Sofocle, Aiax, 815-865.
un… Tindaro: il primo si riferisce all’incipit dell’Oreste (Euripide, Or., 1-70); non rinvenuto il secondo soliloquio: nel testo vulgato, infatti, le due battute di Tindaro si rivolgono a Menelao e ad Oreste.
due… 54: cfr. Euripide, Hel., 1-67 e 386-436.
[commento_3.33ED] s’instatuiva… bande: ‘s’immobilizzava ai lati (della scena)’.
creanza da Greci: ‘buona educazione alla Greca’, antifrastico.
ceffata: ‘ceffone, schiaffo’.
[commento_3.34ED] accordando: accompagnando armoniosamente.
semitale: cioè ‘semicoro’.
[commento_3.36ED] imitazione… altrui: cioè da entrambi i tipi di soliloqui di III.[22].
genio: ‘inclinazione, parzialità’.
sceneggiamento: cfr. supra III.[7].
[commento_3.38ED]
affetti amorosi: sulla presenza di argomenti amorosi nel teatro tragico si consuma tra Sei e Settecento una lunga querelle, alimentata dal confronto con la scena tragica francese in cui il tema amoroso non patisce interdizione. In una lettera databile al 1717 a G. G. Orsi, Martello sarebbe tornato sull’argomento mostrando un maggior rigore e una più netta condanna dei modelli francesi (cfr. Martello, Teatro, III, a cura di H. S. Noce, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 711-712). La parabola si conclude con il Perseo in Samotracia (1709-1722) nella cui dedica M. afferma: «mal volentieri per me sopportarsi nella moderna tragedia gli amori tanto per la greca e per la latina abborriti, e ciò non solamente per l’esser noi sottoposti ad un soave giogo di legge, che nelle favole nostre maggior correzioni di costume ne impone, ma perciocché la grandezza di questo austero poema s’infievolisce e si effemina da passione la quale, dovunque allignar si lasci, rigogliosamente vuol sovrastare»
.
argomenti: intende il riassunto delle trame; fonti: ‘origini’, e cfr. infra III.[43].
[commento_3.40ED] freneticando: ‘in preda alla frenesia, al delirio amoroso’.
[commento_3.41ED] i… uomini: l’amore è dunque una passione propria dell’essere umano.
[commento_3.42ED] clima: allude alla teoria dei climi e dei loro effetti sugli uomini, di origine ippocratea e poi aristotelica, ma recuperata in Francia da Jean Bodin nel XVI secolo e poi dal padre Bouhours, e destinata a una considerevole fortuna nel secolo dei Lumi: cfr. G.-L. Fink, La teoria dei climi nel secolo dei Lumi, in «Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati», CCXLVIII, 1998, pp. 127-150.
[commento_3.45ED] cantar… cetera: l’amore era argomento ammesso nella poesia lirica.
[commento_3.49ED] coonesta: ‘dà parvenza di onesto’.
corrispondenze: ‘relazioni’.
[commento_3.50ED]-[3.58ED] M. recupera la teoria platonica dell’amore esposta nel Simposio da Pausania (Symp. 183d-e); l’amor platonico era nella prima Arcadia il codice attraverso il quale accogliere la tematica amorosa nei componimenti poetici, non senza le critiche di Gravina , Della tragedia, pp. 530-532.
[commento_3.53ED] bruti: ‘esseri senza ragione, animali’.
[commento_3.57ED] notizie: ‘conoscenze’.
[commento_3.61ED] senso… antichi: giacché la natura umana è immutabile.
attraendo: ‘estraendo, allontanando’.
[commento_3.68ED] irascibile… concupiscibile: altra teoria di origine platonica (espressa tanto nella Republica quanto nel Fedro, con il mito dell’auriga) che distingue tre anime: quella razionale, quella irascibile e quella concupiscibile, rivolte le ultime due dalle contrapposte passioni dell’odio/ira e dell’amore.
[commento_3.69ED] illustrar: ‘rendere illustre’.
mentisca: ‘neghi’.
soverchia: sogg. l’amore.
principal figura: ‘il protagonista’.
[commento_3.70ED] Mitridate: il personaggio eponimo della tragedia di Racine (1673).
[commento_3.76ED] contenta: sogg. Racine.
[commento_3.78ED] Nel confronto tra Racine e Corneille la preferenza accordata al secondo è motivata in quanto più prossimo a un ethos eroico.
[commento_3.79ED] Se… storia: ‘se nella realtà storica Fedra e Ippolito fossero stati amanti’.
perché… dovettero: celebre distinzione aristotelica, Poet., IX, 1451a36-38.
[commento_3.81ED]-[3.85ED]: Procolo… Rachele: si tratta delle cinque tragedie scritte da M. ed edite nel 1709 nel Teatro, Roma, per Francesco Gonzaga in via Lata, 1709.
[commento_3.87ED] difetto… antichi: cioè nella bassezza o nell’aridità.
[commento_3.88ED] invanire: insuperbire.
famiglia: l’insieme dei servitori al servizio di un medesimo signore.
[commento_3.90ED] erudito franzese: cfr. Introduzione, § 3.
[commento_3.97ED] Bulingero: J. C. Bulinger, De theatro ludisque scenicis libri due, Tricassibus, ex Typis Petri Chevillot, 1603, pp. 62a-b.
[commento_3.100ED]-[3.101ED] Cfr. Ch. de Marguetel de Saint-Denis de Saint-Évremond, Réflexions sur la tragédie ancienne et moderne, in Id., Œuvres mêlées, II, À Lyon, chez Hilaire Baritel, 1692 (ma ci sita da Id., Œuvres mêlées, II, texte établi par Ch. Giraud, Paris, J. Léon Techener fils, 1865, p. 329): «purgation, que personne jusqu’ici n’a entendu, et qu’il n’a pas bien compris lui-même, à mon jugement»
.
[commento_3.101ED] purgare… compassione: con allusione ad Aristotele, Poet., VI, 1549b24-28.
[commento_3.102ED] pubblicava: ‘reputava’
[commento_3.104ED] discresceva: ‘diminuiva’.
[commento_3.105ED] mezzo termine: ‘espediente’.
[commento_3.106ED]-[3.108ED] interpretazione… divora: riprende l’esposizione di Claude-François Fraguier (1660-1728) che aveva espresso un’interpretazione medica della catarsi come purgazione per mezzo del terrore e della pietà delle passioni nefande (ambizione, prepotenza e crudeltà), ma non da tutte le passioni, alcune delle quali, come la pietà, erano coerenti con l’etica cristiana e dunque da salvaguardare, di fatto correggendo l’interpretazione letterale.
[commento_3.110ED] per… repubbliche: la tragedia era coerente con un ordinamento politico anti-tirannico. Da qui la sua tradizione presso le repubbliche oligarchiche del Cinque-Seicento italiano, ma anche la sua inattualità nella Francia del XVIII secolo, retta non dalla tirannide, ma da una giusta monarchia. M. riprende così una lettura politica della tragedia che da Castelvetro era giunta fino a Rapin, di cui Gravina riprodurrà il passo centrale in Della tragedia, p. 582 (e cfr. Rapin, Réflexions, p. 122), che aveva così giustificato lo spostamento della tragedia dal fine politico a uno psicologico ed amoroso.
[commento_3.122ED] L’ordinamento bolognese riunirebbe così gli aspetti positivi tanto della forma repubblicana quanto di quella monarchica.
[commento_3.125ED] La tragedia in un contesto politico mutato è alla ricerca di nuovi valori morali, ma M. non è disposto a proseguire sul terreno della tragedia borghese, rimanendo lo status dei personaggi tragici limitato ai «personaggi illustri e reali».
[commento_3.130ED] Tuillerie: cfr. infra sessione VI.
Sessione quarta
[commento_4.2ED] Vergine… Forviere: si tratta della basilica di Notre-Dame de Fourvière, a ovest del centro storico di Lione.
San… Bosco: modesto rilievo appena a sud di Bologna noto per la vista panoramica sulla citta.
[commento_4.3ED] Scialone: Chalon-sur-Saône.
Trevoux: Trévoux. La cittadina era celebre all’inizio del Settecento per essere la sede dei «Mémoires pour servir à l’histoire des sciences et des beaux-arts» («Journal de Trévoux»), redatto dai gesuiti del collegio parigino di Louis-le-Grand.
[commento_4.6ED] s’incontra: ci s’imbatte.
[commento_4.7ED] scena… abbigliate: si noti la descrizione ‘teatrale’ di Parigi, come lo sfondo di una commedia borghese.
[commento_4.8ED] Marlì: Marly, località a nord-est di Parigi che ospitava una parte del sistema idraulico che alimentava le fontane di Versailles con l’acqua della Senna.
coraggio: ‘animo’.
[commento_4.9ED]
Bentivoglio: Marco Cornelio Bentivoglio d’Aragona (1668-1732), ferrarese, nunzio dal 1711 al 1719 a Parigi, noto anche per la traduzione della Tebaide di Stazio (1729). Di lui M. ricorderà nell’autobiografia (P. J. Martello, Vita… scritta da lui stesso fino l’anno 1718, p. 288) «che spesso lo voleva suo commensale, lo fece conoscere a’ letterati di tutta la corte, lo introdusse in tutti i luoghi più riguardevoli, ed in somma in quattro mesi e mezzo che l’autore dimorò in Parigi, ebbe mediante questo letteratissimo mecenate onori incredibili»
.
Aldrovrandi: cfr. supra I.[5].
trombe: ‘condotte’.
declive: ‘che digrada’.
Marlì: il serbatoio sul colle del Cœur Volant che sovrasta Versailles.
[commento_4.10ED] verdure… sé: ‘cespugli potati a forma di’.
[commento_4.11ED] medesima: sottinteso ‘mente’.
[commento_4.12ED] esaggerarle: ‘lodarle’.
anche: ‘ancora’.
San Germano: Saint-Germain, uno dei quartieri del centro parigino a ovest della Senna.
vicino teatro: potrebbe trattarsi del Théâtre de la rue des Fossés-Saint-Germain, dove si ha notizia di un allestimento dell’Iphigénie di Racine nell’agosto del 1712.
[commento_4.15ED] È forse lecito scorgervi una punta d’ironia nella discrepanza tra i Francesi in patria e quelli all’estero.
[commento_4.16ED] Palagio reale: Palais-Royal, residenza dei duchi d’Orleans e sede dell’omonimo teatro che ospitava l’Opéra. Nel 1713 fu rappresentata la Medea di La Roche – Abate di Pellegrin/J.-F. Salomon, cui forse allude M.; meno probabile un’allusione all’omonima opera di Thomas Corneille/M. -A. Charpentier del 1693.
[commento_4.20ED] Invalidi: l’Hôtel des Invalides (1677) fu costruito per ordine di Luigi XIV, come ospizio dei reduci e invalidi di guerra dell’esercito francese.
[commento_4.21ED] caffè di Ponte nuovo: cfr. infra IV.[27].
Fontenelle… Capistron: su Fontenelle, qui ricordato per il dialogo Entretiens sur la pluralité des mondes e per le Poésies pastorales, avec un traité sur la nature de l’églogue (1701), cfr. supra I.[38]; Antoine de La Motte (1672-1731), qui ricordato per l’attività lirica e per L’Iliade, poème, avec un discours sur Homère (1714), che accompagnava la riduzione della traduzione omerica di Madame Dacier in quindici (e non dodici) canti composta dallo stesso de la Motte; Crebillon: Prosper Jolyot de Crébillon (1674-1762); Capistron: cfr. supra I.[38].
[commento_4.26ED] estasi: la scelta lessicale richiama quella di ‘sonno’ e vuole restituire l’eccezionalità della fruizione melodrammatica, che ottunde le facoltà razionali e provoca una totale immersione nell’esperienza sensoriale.
[commento_4.27ED] posta: ‘appuntamento’.
cristalli: vetri.
[commento_4.28ED] sbaraglino: ‘gioco del tric trac’.
verso: l’alessandrino francese, distici di quattordici sillabe a rima baciata.
[commento_4.30ED] dissertazione… tragico: Del verso tragico fu premesso all’edizione del Teatro del 1709 (ora in M., Scritti critici e satirici, pp. 149-186).
simil guisa: cioè in martelliani (i doppi settenari a rima baciata).
sì… patria: cfr. Introduzione, § 1.
[commento_4.32ED] prefazio… l’Alceste: cfr. M., Alceste, in Id., Teatro, Roma, per Francesco Gonzaga, 1709, p. 318 (ora in Id., Teatro, a cura di H. S. Noce, cit., II, p. 816).
[commento_4.33ED] Teatro: la cui princeps uscì a Roma, per Francesco Gonzaga in via Lata, nel 1709.
[commento_4.35ED] nella disposizione che nella misura: nella prosodia e nella quantità sillabica.
[commento_4.36ED] dissertazione proemiale: il già ricordato trattato Del verso tragico, cfr. supra IV.[30].
[commento_4.38ED] Luigi Riccoboni, modenese (1676-1753), attore, capocomico e commediografo, dapprima in Italia e poi a Parigi, fu sensibile interprete del riformismo teatrale di primo Settecento: cfr. S. Di Bella, L’Expérience théâtrale dans l’œuvre théorique de Luigi Riccoboni, Paris, Champion, 2009 e X. de Courville, Un apôtre de l’art du théâtre au xviiie siècle: Luigi Riccoboni dit Lelio, Paris, Droz, 1943-1945.
dovendosi… comici: si colga l’intenso scambio che M. seppe intrattenere con il mondo del teatro e in particolare con l’esperienza degli attori.
duri… Ebrei: Exod., XXXII, 9.
cedere… tragedie: adeguarmi alla maggioranza.
srimarle: ‘eliminare l’omoteleuto’.
[commento_4.41ED] essametro… spondei: l’esametro è un metro della poesia greco-latina, formato da sei piedi; il dattilo è un piede costituito da tre sillabe di cui la prima lunga le altre brevi, mentre lo spondeo è formato da un piede di due sillabe lunghe.
[commento_4.44ED] diversamente: umida, infatti è un dattilo ūmĭdă, mentre, lĭquĭdă è un tribraco.
quei… venissero: ‘i posteri’.
[commento_4.45ED] quantità: sillabica.
l’alzare… suono: ‘la cadenza’.
[commento_4.46ED] proposizione: la ‘protasi’ dell’Eneide.
[commento_4.49ED] poeta… versi: distingue qui, ma vi tornerà più sotto (cfr. infra V.[68]), il poeta dal versificatore, l’artista dal tecnico.
[commento_4.50ED] quelli: l’Italia liberata dai Goti derogò dal metro canonico della narrativa lunga (l’ottava), in ossequio a un più rigido principio di imitazione classica adottando gli endecasillabi sciolti.
zitella: ‘fanciulla’.
[commento_4.51ED] posando… altrove: non scandendo l’endecasillabo secondo gli accenti canonici di 4ª o 6ª.
[commento_4.52ED] punteggiamento: ‘interpunzione’.
distinzione… sentimenti: ‘comprensione del significato’.
[commento_4.53ED] Crescimbeni… Comentari: G. M. Crescimbeni, Comentarj intorno alla sua Istoria della volgar poesia, I, Roma, per Antonio de Rossi, 1702, pp. 24-25.
[commento_4.55ED] essenziale armonia: ‘la prosodia non è dettata dalle parole che lo compongono, ma da regole esterne’.
Nemica…. pace: Petrarca, Rvf, V.4, in cui la prosodia impone una cesura dopo la 6ª sillaba a metà di un’unica parola.
[commento_4.58ED] posate: ‘cesure’ in corrispondenza dell’accento canonico di un determinato metro.
cortigiano prosaico: l’uomo di corte non esperto di poesia.
formiamo… argomento: inizia così una porzione (IV.[58]-IV.[72]), in cui l’argomentazione segue un andamento sillogistico, chiaramente ironica rispetto ai modi espositivi graviniani, che sarà ulteriormente parodiata nel trattato Del volo (cfr. Id., Scritti critici e satirici, p. 469).
[commento_4.61ED]
minore: la proposizione minore del sillogismo, cioè che «il verso italiano senza rima non ha quest’armonia inseparabile dal medesimo»
.
[commento_4.62ED] punteggiato: seguendo cioè la struttura sintattica della frase.
numero: ‘prosodia, ritmo’.
[commento_4.64ED] accorto loico: sagace filosofo.
[commento_4.67ED] primo principio: ovvero che verso è quello che ha armonia.
[commento_4.75ED] Cicerone… Oratore: Cicerone, Orat., L, 168-238, in cui discute del numerus della prosa oratoria.
[commento_4.76ED] Versum… jubet: Ivi, LI, 172.
[commento_4.77ED] orazione disciolta: ‘prosa’, di contro a quella ‘legata’ ovvero poetica.
[commento_4.78ED] Anzi… versi: A. Bagnoli, Ragionamento in difesa delle Osservazioni del signore Ottavio Maranta contro l’Antilogia del signor Fabio Carsellini, Roma, presso Francesco Gonzaga, 1713, p. 51.
[commento_4.79ED] Bembo…. leggiadria: Bembo, Prose, XI.
[commento_4.82ED] disdirmi: smentirmi.
[commento_4.83ED] E cfr. Martello, Del verso tragico, p. 182, laddove apprezza dell’alessandrino la lunghezza versale sia perché duttile allo scambio dialogico sia perché consente una giusta distanza tra le rime che, se troppo ravvicinate, snerverebbero il verso con la loro eccessiva frequenza.
[commento_4.85ED] Cfr. ibidem.
[commento_4.86ED] mia… dissertazione: il Del verso tragico.
secondo… circumscribitur: Mario Vittorino, Ars gram. I.x.3;
Diomede: Diomede, De poetica, Rythmo, Metro, III.3-4.
Beda: Beda, De arte metr., xxiii, De rithmo: tutti già messo a frutto da Bagnoli nel Ragionamento, cit., p. 46.
[commento_4.88ED]
dotto… rima: P. Sforza Pallavicino, Ermenegildo martire, Roma, per gli Eredi del Corbelletti, 1644, p. 157, secondo il quale il verso arrecava diletto all’udito, meraviglia all’intelletto e giovava alla memoria. Egli rigettava le accuse di inverosimiglianza e di bassezza rispetto al contesto tragico, prescrivendo una versificazione naturale che «paia effetto del caso»
(ivi, p. 160) e parole-rima scelte in base alle necessità del discorso. Di contro reputava il verso sciolto ‘ignobile’ o oscuro, appellandosi, infine, all’esperienza teatrale che avrebbe dimostrato che i versi non pregiudicano né all’arte attorica né alla commozione dello spettatore (p. 162).
Vossio… clausulam: I. Vossius, De poematum cantu et viribus Rythmi, Oxoni, e Theatro Scheldoniano, 1673, p. 33.
[commento_4.94ED] stanze siciliane: strofa di otto endecasillabi a rime alternate.
Radicone: poema in tre canti di stanze siciliane, pubblicato anonimo a Trento, s.d., per il quale M. interessò S. Maffei (Delle lettere familiari d’alcuni Bolognesi del nostro secolo, I, Bologna 1744, p. 19: E. Manfredi a P. J. Martello, 15.II.1713).
consonanza… cadenze: ‘l’omoteleuto’.
[commento_4.95ED] corone: sequenza di componimenti in cui l’ultimo verso di ognuno rima con il primo del successivo.
[commento_4.96ED] Orazio… fidelibus: Orazio, Ars poet., 180-181.
[commento_4.97ED] Orazio… agunto: Orazio, Ars poet., 99-100.
[commento_4.98ED] io… parlano: Aristotele, Poet., IV, 1449a25-27.
ho… parlano: ivi, XXII, 1459a11-13.
nomi: ‘parole’.
E… ornati: ivi, 13-14.
nomi ornati: ‘epiteti’.
[commento_4.99ED] Non… epica: cfr. Del verso tragico, pp. 154-155.
meditazioni… pitagorici: e cfr. Gravina, Della tragedia, p. 555.
[commento_4.100ED] portano: ‘ammettono’.
[commento_4.101ED] ettasillabi: ‘settenari’.
[commento_4.103ED] cfr. Magnani Campanacci, Un Bolognese nella repubblica delle lettere, pp. 61-65.
[commento_4.104ED] comparazioni: riferendosi a quella desunta dall’ottica di IV.[103].
[commento_4.105ED] Casa… Carlo V: si tratta dell’Orazione a Carlo V imperatore intorno alla restituzione della città di Piacenza, del 1548; la sua esemplarità è riconosciuta da M. anche nel Vero Parigino italiano, pp. 360-361.
[commento_4.106ED]-[4.108ED] Opportunamente Distaso (Un «giureconsulto», un «impostore» e una polemica settecentesca sul teatro, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bari», XXIII, 1990, pp. 239-240) richiama il passo di Gravina, Della tragedia, p. 542: «Ogni simile, perché sia simile, dee ancor esser diverso dalla cosa cui rassomiglia: altrimenti non simile sarebbe, ma l’istesso»
.
[commento_4.110ED] conosce… scena: conosce l’identità dell’attore che recita.
Lelio: nome d’arte di Luigi Riccoboni (cfr. supra IV.[38]) che interpretò Oreste nell’Ifigenia in Tauri di Martello (cfr. [P. J. Martello], Ifigenia in Tauri, s.n.t.).
Flaminia: Elena Balletti Riccoboni, moglie di Luigi.
chi… suggerisce: ‘il suggeritore’.
[commento_4.112ED] perché… vero: Gravina, Della ragion poetica, pp. 216-217.
[commento_4.116ED] Cfr. Martello, Del verso tragico, p. 181: «è d’uopo che l’arte sia conosciuta e distinta dalla natura per qualche tratto che la corregga non solo, ma, se abbisogni ancora, non le somigli»
.
[commento_4.117ED] Flaminia: cfr. supra IV.[110].
[commento_4.120ED] credenza: ‘opinione’.
[commento_4.122ED] Certa… scostano: P. Sforza Pallavicino, Ermenegildo, p. 160.
affatto: ‘interamente’.
[commento_4.123ED] è… parlari: affermazione sostenuta, da ultimo, dallo stesso Gravina, Della tragedia, p. 545.
[commento_4.129ED] M. enumera il canone del teatro tragico cinque-seicentesco, ovvero, F. Testi, Arsinda, overo la discendenza de Ser.mi prencipi d’Este, Venezia, per Francesco Baba, 1652; A. Caraccio, Il Corradino, Roma, G. F. Buagni, 1694 (ma qui il settenario è relegato nei cori); P. Torelli, La Merope, Parma, E. Viotto, 1589 (ma i cori sono in versi sciolti); e S. Maffei, Merope, Modena, per A. Capponi, 1714.
[commento_4.132ED] corrotto: giudizio fortemente limitativo sulle scelte metriche di Maffei.
[commento_4.135ED] provincia: ‘campagna, battaglia’.
cattivare: ‘catturare’.
[commento_4.136ED] bene… spalle: per evitare le critiche.
bacini: ‘strumento metallico a percussione’.
[commento_4.139ED] il sentimento… misurati: ‘il senso del discorso non coincida con il limite versale, ma che lo scavalchi per camuffare l’uniformità prosodica che la consuetudine suole dare a questa prosa ritmata’.
[commento_4.145ED] Cicerone… jubet: Cicerone, Orat., LI, 172 e cfr. supra IV.[75].
[commento_4.147ED]-[4.148ED] M. si riferisce a B. Garofalo, Considerazioni intorno alla poesia degli Ebrei e dei Greci, Parte prima, Roma, presso Francesco Gonzaga, 1707, e ad A. Bagnoli, Ragionamento in difesa delle osservazioni, già citato, da cui preleva la citazione di Scaligero (p. 34). Nella polemica scoppiata tra Garofalo, Raffaele Rabbenio e Fabio Carsellini era in gioco lo statuto dell’Antico Testamento che Garofalo, sulla scia di Spinoza aveva ridotto a testo poetico, tesauro di ‘profonda sapienza’, ma anche strumento di governo dei popoli. L’eterodossia della lettura di Garofalo non sarebbe passata inosservata, tanto che nel 1718 l’opera finì all’Indice (cfr. E. Di Rienzo, «Garofalo Biagio», in DBI, LII, 1992, pp. 362-364; A. Bussotti, Biagio Garofalo, il circolo del Tamburo e la colonia Sebezia: la riforma poetica dalla prospettiva filoimperiale, in «Atti e memorie dell’Arcadia», V, 2016, pp. 145-167).
[commento_4.153ED] Saffo… Alceo: ai quali si riconduce l’invenzione della strofa saffica e dell’alcaica.
[commento_4.154ED]-[4.155ED] cfr. Gravina, Della ragion poetica, p. 276.
[commento_4.159ED] Poetica… Boelò: N. Boileau, Art poétique, IV, 1-27.
[commento_4.160ED] gramaglia: ‘lutto’.
[commento_4.164ED] perché… bocca: perché ha tanto raziocinio quanto sono onorevoli coloro che si riempiono la bocca della parola ‘onore’.
che… mancando: Gravina, Della ragion poetica, pp. 278-279.
[commento_4.167ED] che… rivocato: Gravina, Della ragion poetica, p. 279.
[commento_4.169ED] che… coltivata: Gravina, Della ragion poetica, p. 279.
[commento_4.170ED] coltivazione: ‘livello di eccellenza’.
[commento_4.171ED] Vocabolario… preparando: nel 1729, infatti, sarebbe uscita la quarta edizione, in sei volumi, conclusa nel 1738.
[commento_4.173ED] contro l’esperienza: ‘è smentito dai fatti’.
[commento_4.174ED] volgarizzò… Fontanini: Gregorio, Moralia sopra il libro di Giobbe volgarizzata da Zanobi da Strata, I, Roma, per gli Eredi del Corbelletti, 1714.
essendosi… simili: Gravina, Della ragion poetica, p. 276.
[commento_4.175ED] oltre Giovanni Della Casa, Luigi Tansillo (1510-1568), Angelo di Costanzo (1507-1591), che in età arcadica godettero di una rinnovata fortuna.
stomachevole vizio: le rime; con scelta aggettivale ironica.
senza limite: le egloghe di Gravina recitate in Arcadia sollevarono, proprio per la loro lunghezza, un coro di critiche.
[commento_4.180ED] soprossuto: ‘gobbo’.
[commento_4.182ED]-[4.195ED] Il ritratto disegnato dal finto Aristotele allude chiaramente alle accuse mosse dall’ala crescimbeniana e da Sergardi a Gravina, così che M. fa rocambolare su Gravina l’accusa di impostore.
[commento_4.192ED] le: sottint. ‘opinioni’.
fansi: sottint. ‘gli impostori’.
[commento_4.199ED] lasciando… giureconsulto: costruzione retorica quanto mai esplicita nel concludere la sovrapposizione di Gravina al ritratto dell’impostore.
Solone… Cicerone: ovvero il legislatore, il filosofo e l’oratore.
[commento_4.201ED] mestiero… lusinghieri: cioè ad adulare.
[commento_4.203ED] fiaccaro: ‘vettura trainata da cavalli’, francesismo (fiacre).
Sessione quinta
[commento_5.8ED]-[5.23ED] Ma si confronti questa descrizione con quella ben meno lusinghiera del Vero Parigino italiano, pp. 326-327.
[commento_5.14ED] Menageria: Ménagerie royale (il serraglio di Versailles).
Junston: Jan Jonston (1603-1675), fisico, naturalista polacco autore di innumerevoli trattati botanici e zoologici.
[commento_5.16ED] Delfino: l’erede al trono di Francia, poi Luigi XV, piccolo figlio del Gran Delfino, morto nel 1711.
[commento_5.19ED] re: Luigi XIV.
[commento_5.32ED] Charles de Marguetel de Saint-Denis de Saint-Évremond, Sur les opéras (1677), si cita da Id., Œuvres mêlées, II, cit., p. 395.
[commento_5.35ED] Secondo canone, questa volta relativo al melodramma, che include: Giovanni Andrea Moniglia (1625-1700), medico fiorentino e poeta di teatro; Francesco de Lemene (1634-1704), lodigiano; Carlo Sigismondo Capece (1652-1728), romano, autore del Tolomeo ed Alessandro (1711), di una Tetide in Sciro (1712), cui evidentemente si riferisce M. impropriamente, e di un’Ifigenia in Aulide (1713) e Ifigenia in Tauride (1713); Pietro Ottoboni, cardinale e librettista; Eustachio Manfredi (1674-1739), bolognese e sodale di M., autore del Dafni (1696); Silvio Stampiglia (1664-1725) arcade e librettista, Giovanni Filippo Bernini, autore dell’Onestà negli amori (1680) dedicato a Cristina di Svezia, e Giuseppe Domenico De Totis (1644/45-1707).
[commento_5.36ED] libidine: ‘desiderio’.
[commento_5.38ED]-[5.39ED]: cfr. Magnani Campanacci, Un Bolognese nella repubblica delle lettere, p. 28.
[commento_5.38ED] smaschiati: ‘evirati’.
[commento_5.41ED] dilata: ‘distende ed amplifica’.
[commento_5.42ED] Il fine del melodramma, dunque, è il diletto. Una più approfondita critica del precetto oraziano, in Id., Comentari, pp. 120-121.
[commento_5.43ED] Risponde a Saint-Évremond che in Sur les opéras, cit., p. 395, aveva invece ribadito la necessaria subordinazione della musica alla poesia.
chiamato a parte: ‘è coinvolto’.
[commento_5.48ED] temperati: ‘accordati’.
[commento_5.49ED] sfuggiamo: ‘evitiamo’.
[commento_5.53ED] l’autor… franzesi: non identificato.
[commento_5.54ED] passeggi: ‘esecuzioni canore ornate’.
ricercate: ‘composizioni musicali di forma libera, improvvisata e con sviluppi contrappuntistici’.
[commento_5.60ED] prevedere: ‘intuire anticipatamente’.
[commento_5.67ED] ‘Non sviliamo la poesia definendo tale il libretto d’opera, così come esclusi Empedocle dal novero dei poeti, nonostante avesse scritto in versi il De Natura’ (e cfr. Aristotele, Poet., 1447b15-19).
[commento_5.68ED] più… altri: il poeta di teatro non è propriamente poeta, ma non è neanche un semplice verseggiatore, giacché è anche inventore della favola.
[commento_5.69ED] Precisa concordanza con la disamina fatta da Claude-François Ménestrier, nel Des représentations en musique anciennes et modernes (Paris, R. Guignard, 1681), p. 170.
[commento_5.71ED] punti: ‘punti di fuga della prospettiva’.
[commento_5.73ED] atteggiate: ‘disposte alla recitazione’.
[commento_5.74ED] alla reale: ‘di foggia regale’.
[commento_5.77ED] Pistocco: Francesco Antonio Pistocchi (1659-1726), palermitano, compositore e cantante. Trasferitosi a Bologna nel 1705 vi aprì una prestigiosa scuola di canto.
[commento_5.78ED] melodramma: dovrebbe trattarsi delle Pazzie d’amore e dell’interesse, Ansbach, per il Greschmann, 1699.
[commento_5.82ED] ingegnero: ingegnere e più sotto architetto è detto il compositore, colui cioè cui è demandata la costruzione mentre il poeta-pittore si limita alla decorazione. Ma sul musico-architetto, cfr. F. Piperno, «Classicismo romano e classicità di Arcangelo Corelli fra Arcadia, architettura e musica», in Roma nel Settecento fra letteratura, arte e musica, atti del Convegno di Roma, 28-30 settembre, 2016, i.c.s.
girelle: ‘carrucole’.
[commento_5.83ED] caricatori… note: ‘verseggiatori’, coloro cioè che ricoprono di parole le note.
[commento_5.85ED] Un’altra significativa convergenza con Ménestrier, Des représentations…, p. 168.
[commento_5.86ED] fortunatamente: ‘con esito felice’.
[commento_5.88ED] azioni… musica: le opere d’argomento pastorale non consentirebbero, per la semplicità dell’apparato e dei costumi, di sfruttare al meglio le potenzialità scenografiche del teatro musicale.
[commento_5.89ED] accetti: ‘graditi’.
[commento_5.90ED] Diversa considerazione M. riserva agli spettacoli musicali offerti da un mecenate, che, rivolgendosi a un pubblico non pagante e selezionato, consentono al poeta una maggiore libertà espressiva e inventiva, pur sempre subordinata alle esigenze della musica (e cfr. I. Magnani Campanacci, Un Bolognese nella repubblica delle lettere, pp. 30-40).
[commento_5.92ED] eminentissimo autore: il già ricordato cardinale Pietro Ottoboni (cfr. supra, V.[35]).
[commento_5.93ED] principe… Alessandro: Alessandro Benedetto (1677-1714), figlio di Giovanni III di Polonia e Maria Casimira, che, rimasta vedova, si trasferì a Roma dove aprì la sua corte a poeti e musicisti (G. Platania, Gli ultimi Sobieski e Roma, Manziana, Vecchiarelli, 1989; e per l’attività teatrale a Palazzo Zuccari: S. Franchi, Drammaturgia romana II (1701-1750), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997, ad indicem).
[commento_5.96ED] nella… cavalieri: allusione alla intensa stagione di sperimentazione scenica praticata nell’entourage del marchese Giovanni Gioseffo Orsi (cfr. S. Ingegno Guidi, Per la storia del teatro francese in Italia: L. A. Muratori, G. G. Orsi e P. J. M., in «La Rassegna della letteratura italiana», LXXVIII [1974], pp. 74-94).
[commento_5.98ED] Per un andamento normativo analogo, sebbene in altro campo, si vedano i Comentari di Martello, pp. 144-147.
[commento_5.104ED] Bononcino: Giovanni Bononcini (1670-1747), compositore modenese, che lavorò presso le principali corti europee (Vienna, Berlino, Londra).
fermati: ‘confermati, assunti’
pellegrini: ‘eccellenti, ricercati’.
[commento_5.108ED] si… apparenza: ‘popolato di personaggi noti, ragguardevoli’.
[commento_5.111ED] speso alla porta: per l’acquisto del biglietto.
[commento_5.115ED] Posto che lo spettacolo deve sorprendere lo spettatore, ciò scaturisca non dagli avvenimenti inverosimili, ma dai modi in cui questi accadono.
[commento_5.119ED] legittimi accoppiamenti: ‘matrimoni’.
crescere popolo: ‘l’incremento demografico’.
[commento_5.122ED] cuna: ‘culla’.
[commento_5.124ED] di… fortuna: il melodramma deve avere un lieto fine, altrimenti non conseguirà il suo fine che è di piacere e sollevare gli animi.
utile… repubblica: ‘giovare al vivere civile’.
[commento_5.127ED] tagliar… atti: metafora ‘tecnica’ dell’arte drammatica che insiste sul campo metaforico tessile; se ne ricorderà anche Carlo Goldoni nell’Ultima sera di carnevale.
[commento_5.134ED] agevoli… stese: ‘con sintassi piana e di brevi periodi’.
sentimento: ‘significato’.
[commento_5.140ED] escite: si ricordi quanto precisato a proposito di III.[10].
[commento_5.142ED] apostrofe: in quanto il personaggio si rivolge ad un altro già in scena.
[commento_5.145ED] interrogazione: che avvia il dialogo, ma che dovendo rispettare l’intonazione ascendente tipica della proposizione interrogativa, comporta una certa rigidità prosodica e intonativa.
[commento_5.146ED] musico: ‘cantante’.
[commento_5.150ED] chiaroscuro: ‘alternanza’.
[commento_5.151ED] ricercate: cfr. supra V.[54].
[commento_5.157ED] otto sillabe: Ménestrier, Des représentations, p. 243, propone un’analoga tassonomia di arie.
[commento_5.161] intercalare: ‘ritornello’.
[commento_5.164ED] ettasillabo: ‘settenario’.
[commento_5.174ED] furore: all’ira sarebbe dunque più congeniale il verso di dieci sillabe sdrucciolo.
[commento_5.180ED] venusto: ‘bello’.
[commento_5.182ED] costruzioni… agevoli: cfr. supra V.[134].
[commento_5.184ED] proposizioni… generali: ‘concetti sono universali’.
[commento_5.190ED] stirare… note: ‘rivestire quella melodia’.
[commento_5.196ED] mancamento… caricarle: ‘caduta scrivendo i versi sopra la melodia’.
[commento_5.202ED] Cfr. Distaso, Un «giureconsulto», un «impostore» e una polemica settecentesca sul teatro, pp. 240-241 vi coglie, giustamente, un’allusione a Gravina, Della tragedia, p. 509, in cui il calabrese aveva capovolto la gerarchia tra epica e tragedia espressa in Della ragion poetica.
certi… grido: Distaso vi scorgerebbe un’allusione a Scipione Maffei e alla sua unigenita Merope.
[commento_5.206ED] Agatone: poeta e drammaturgo ateniese della fine del V secolo, lodato da Aristotele (Poet., IX, 1451b21), per la composizione di una tragedia d’invenzione il Fiore, per l’appunto, la cui favola non si rifaceva ai racconti mitici.
[commento_5.209ED] segreto: cioè l’elisir dell’immortalità.
[commento_5.211ED] idea: cfr. supra II.[28].
[commento_5.215ED] M. rivela la paradossalità della sua preferenza per il melodramma, che razionalmente non può che condannare in quanto monstruum, ma che dal punto di vista sensoriale è fonte di irrefrenabile piacere.
[commento_5.227ED] E cfr. Magnani Campanacci, pp. 28-29, 54; e qui supra V.[82].
[commento_5.236ED] Altro canone, questa volta musicale: Bernardo Pasquini (1637-1710), Giovanni Paolo Colonna (1637-1695), Alessandro (1660-1725) e Domenico Scarlatti (1685-1757), Giacomo Antonio Preti (1661-1756), Giovanni Bononcini (1642-1678), già ricordato sopra (cfr. V.[104]), Pirro Albergati (1663-1735), Attilio Ariosti (1666-1729), Antonio Giannettini (1648-1721), Benati (non individuato), Carlo Francesco Pollarolo (1655-1723), Francesco Antonio Pistocchi (1659-1726), anch’egli già ricordato (cfr. supra V.[77]).
[commento_5.240ED] Singolare convergenza con l’estetica graviniana in merito ad una poesia che deve rendere sensibili e quindi corporei (dando forma e colore, trasformando in immagini) i concetti astratti della filosofia.
[commento_5.242ED] ridotta… atto: ‘eseguita’.
[commento_5.243ED] Ritorna il concetto di fruizione estatica, che addormenta le facoltà razionali, già espressa supra, IV.[26].
Sessione sesta
[commento_6.1] fiaccaro: cfr. supra IV.[203].
servirlo: ‘accompagnarlo’.
internati: ‘entrati’.
[commento_6.2ED] Bentivoglio: cfr. supra IV.[9].
Aldrovandi: cfr. supra I.[4].
[commento_6.3ED] Lampugnano: forse un Lampugnani, non identificato.
[commento_6.6ED] vedova: giacché la corte si era trasferita a Versailles.
estesa: più severo nel Vero Parigino italiano laddove definisce il Louvre un «nano di mostruosa bassezza»
(p. 326).
Vaticana: la Galleria delle carte geografiche, lunga 120 metri, che conduce alla Cappella Sestina, ultimata tra il 1580 e il 1585.
[commento_6.8ED] scommettendosi: ‘smontando’.
[commento_6.12ED] feluche: ‘imbarcazione stretta e lunga, a remi o a vela’.
[commento_6.13ED] Landau: città alsaziana, oggetto di ripetuti assedi (1701 e 1704) nel corso della guerra di successione austriaca.
[commento_6.17ED] fende: ‘ferisce’.
[commento_6.20ED] Saint Evremond: Ch. de Marguetel de Saint-Denis de Saint-Évremond, De la comédie angloise (1677), in Id., Œuvres mêlées, II, cit., pp. 383-388.
[commento_6.26ED] rompimenti… verso: enjambements.
[commento_6.27ED] Muratori: cfr. Lettere scritte a Roma al signor abate Giusto Fontanini, raccolta dall’abete D. Fontanini, Venezia, P. Valvasense, 1762, pp. 218-220: let. di L. A. Muratori, 3.IX.1701, e ivi, pp. 220-226: lett. del 28.IX.1701. E cfr. A. Cottignoli, Muratori teorico. La revisione della «Perfetta poesia» e la questione del teatro, Bologne, Clueb, 1987, pp. 13-35.
[commento_6.32ED] Allusione ai celebri miti di Anfione e Orfeo.
[commento_6.37ED] Cfr. supra IV.[106], IV.[116]-[117].
[commento_6.40ED] Orazio: Orazio, Ars poet., 99-100; e cfr. supra IV.[96].
[commento_6.44ED] M. riprende la classificazione dei modi musicali greci risalente ad Aristosseno di Taranto, ampliamente assimilate dalla musicologia erudita di Cinque-Seicento.
[commento_6.46ED] affettuosi: ‘appassionati’.
[commento_6.50ED] Saint…. tutto: cfr. supra, V.[32].
[commento_6.51ED] Orsi: Giovan Gioseffo Orsi, marchese bolognese, mecenate e protettore di M., cfr. Introduzione, § 1.
[commento_6.53ED] Cfr. Aristotele, Poet., XII, 1452b19-20.
[commento_6.55ED]-[ 6.56ED] Chiamo… melodia: Aristotele, Poet., VI, 1449b28-31.
[commento_6.57ED] Aristoxeno: Aristosseno da Taranto, filosofo greco del IV secolo, allievo di Aristotele e autore di diversi trattati di teoria musicale di cui ci sono giunti Gli elementi d’armonia, citati per l’appunto da Vitruvio (V, iv.1).
Nam… modulatiionis: Vitruvio, De arch., V, iv.2.
[commento_6.59ED] Hoc… vocis: Vitruvio, De arch., V, v.7.
[commento_6.62ED] Anfitrione: Amphitryon di Molière.
[commento_6.67ED] interviene: ‘è rappresentata’.
[commento_6.70ED] muta: ‘pantomimo’, un genere che ebbe notevole diffusione in Francia tra fine Sei e inizio Settecento.
[commento_6.80ED] Baubour: diversi i comici noti con il nome di Beaubourg: tra i più celebri e compatibile con le ragioni cronologiche, Pierre Trochon, detto appunto Beaubourg (1662-1725).
[commento_6.85ED] Dangeville: Marie-Hortense Racot de Grandval, épouse Botot, dite Dangeville (1676-1769).
Demarre: forse Christine-Antoinette-Charlotte Desmares, dite Lolotte (1682-1753).
[commento_6.86ED] Baubour: cfr. supra VI.[80].
Quinault: probabilmente Jean-Baptiste-Maurice Quinault (1687-1745), ma non è escluso M. si riferisca al fratello minore Abraham Quinault-Dufresne (1693-1767).
[commento_6.94ED] Orazio… amici?: Orazio, Ars poet., 1-5.
[commento_6.98ED] sortir… canto: ‘uscire in scena da quella parte’.
[commento_6.100ED] Demairre: cfr. supra VI.[85].
Quinault: cfr. supra VI.[86].
[commento_6.104ED] Baron: Michel Boyron, detto Baron (1653-1729), tra i più celebri attori francesi del Settecento. Sulla comparazione tra la recitazione di Baron e quella italiana, Flaminia, Elena Balletti Riccoboni scriverà la celebre lettera ad Antonio Conti apparsa a stampa nel 1736 (cfr. https://sharedocs.huma-num.fr/wl/?id=EoovHROvO2fu4BAHVXXt3nYS0KYQHUlP).
Duclos: Marie-Anne de Châteauneuf, dite Mlle Duclos (1668-1748).
[commento_6.110ED] madame Prevoste: Françoise Prévost (1680-1741).
[commento_6.119ED] lindura: sobria eleganza.
[commento_6.128ED] Luigi… Flaminia: cfr. supra IV.[38] e IV.[110].
[commento_6.135ED] Scipione Maffei: cfr. supra IV.[130].
[commento_6.136ED] Della… cavalleresca: S. Maffei, Della scienza chiamata cavalleresca libri tre, Roma, presso Francesco Gonzaga, 1710.
raccolta… rappresentare: la raccolta uscirà nel 1723-1725 con il titolo di Teatro italiano o sia scelta di tragedia per uso della scena (Verona, presso Jacopo Vallarsi, 1723-1725).
una sola: allusione (ironica?) alla Merope.
[commento_6.137ED] tilie: ‘tigli’.