Introduzione
Quando iniziai a lavorare su Pietro Calepio, stendendo il progetto di ricerca per l’ammissione al corso di dottorato, più di tre anni or sono, intuivo le potenzialità che offriva il suo Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia per sviluppare una ricerca vasta e complessa, che non si risolvesse semplicemente in un lavoro d’archivio volto a indagare il percorso biografico e culturale di uno dei tanti letterati «minori», quando non decisamente minimi, dell’Italia che usciva dalla guerra di successione spagnola e si affacciava timidamente sul palcoscenico dei Lumi. Ciò che mi spingeva a studiare l’opera di questo conte bergamasco, nato nel feudo di Calepio nel 1693, e autore di alcuni saggi critici che avevano ottenuto maggior fortuna al di là delle Alpi che non in patria, era un concorso di moventi di diversa natura. In primo luogo mi incoraggiava il fatto che Calepio avesse destato, nel secolo scorso, l’attenzione di interpreti molto raffinati, da Benedetto Croce, il quale si prodigò per riportare in Italia i manoscritti di questo autore, ammirato per la portata originale della sua estetica letteraria1, a Sergio Romagnoli, colui che promosse quella ripresa degli studi calepiani fra gli anni Cinquanta e Sessanta da cui scaturirono le edizioni della Descrizione de’ costumi italiani e del carteggio col Bodmer2, sino a Laura Sannia Nowé, che a Calepio aveva dedicato la propria tesi, nonché una serie di approfondimenti successivi sull’asse Maffei-Calepio che sono stati per me determinanti3.
Secondariamente mi stimolava il fatto che il Paragone, trattato che si imponeva per ricchezza e vastità dei riferimenti culturali del suo estensore, rimanesse inedito dopo le due edizioni settecentesche, scarsamente diffusa la prima, filologicamente trascurata la seconda, postuma; latitavano in effetti anche esplorazioni specifiche su questa preziosa miniera di informazioni in ambito di teoria tragica europea sei-settecentesca: il Paragone veniva osservato come attraverso gli squarci di un lenzuolo perforato, per impiegare l’immagine di apertura dei Figli della mezzanotte di Salman Rushdie; era stato analizzato soltanto per piccole porzioni, utilizzate, talvolta anche brillantemente, all’interno di studi che riguardavano per lo più altri autori e non elette a specifico oggetto di indagine4.
Infine mi affascinava l’idea che il Paragone potesse essere attraversato a partire da molteplici prospettive, come testo di critica e storiografia letteraria tra i più rilevanti nell’Europa del tempo — e in questo senso devo ringraziare soprattutto Andrea Fabiano e i membri dell’equipe del progetto di ricerca Historiographie théâtrale à l’époque moderne 5; come documento di evoluzione dell’estetica settecentesca europea che presentava indizi di un dialogo fecondo con i capisaldi della critica sei-settecentesca (Boileau, Pallavicino, Bouhours, Gravina e Muratori), ma che conteneva anche spunti di assoluta originalità circa la natura del gusto e la percezione del bello — interpretati da alcuni come segnali di una precoce ricezione delle tesi del Du Bos — che ponevano il bergamasco in una linea di rinnovamento settecentesca che precorreva la strada tracciata, fra gli altri, oltre che dal Bodmer, da personalità del calibro di Charles Batteux, David Hume, Edmund Burke, Gotthold Ephraim Lessing e Immanuel Kant; come tentativo, infine, di piegare i cardini della poetica aristotelica a un’esigenza religiosa che si poneva tuttavia in profondo conflitto con le soluzioni del teatro, marcatamente anti-aristotelico, di matrice gesuitica, promossa dalla sperimentazione tragica corneilliana e in generale barocca.
L’obbiettivo iniziale del progetto era duplice. Da una parte provare a scardinare alcuni vecchi topoi critici, ad oggi generalmente attestati, che credevo non fossero più funzionali ad affrontare la questione Calepio, come ad esempio l’idea di una sua posizione di isolamento all’interno della cultura lombardo-veneta quando non addirittura italiana6; la convinzione che Calepio non fosse altro che un «dilettante gentiluomo» la cui fama andava ridimensionata in quanto le sue speculazioni erano sempre in linea con la comune sensibilità dell’epoca7; oppure il pregiudizio secondo cui la fortuna del Paragone risultava molto modesta. Dall’altra, e questa era forse la vera scommessa, impiegare il Paragone come una sorta di microscopio attraverso il quale, osservando attentamente ogni paragrafo in cui il testo è stato sezionato, individuare la rete di riferimenti a cui Calepio alludeva e di lì procedere, seguendo i filamenti che si presentavano in una continua spola fra il passato rinascimentale e la conclusione dell’ancien régime, al fine di ricostruire, in sede di commento, la tradizione critica che stava alla base dei vari istituti teorico-drammaturgici di volta in volta descritti e impiegati. Un lavoro, insomma, che tendesse ad aprirsi a tutto tondo verso la poetica, la critica e l’estetica di quel periodo che viene identificato come «Early Modern».
I rischi insiti in questa operazione erano molteplici: certo vi era quello di usare lo scritto di Calepio come un mero pretesto per distendersi, col pericolo di divagare, su questioni di storia del teatro sei-settecentesco, ma non meno insidiosa era l’incognita relativa al quadro degli auctores da evocare: occorreva cercare di definire prioritariamente, sulla base dell’analisi del Paragone e degli scritti precedenti, la biblioteca critica e drammaturgica dell’autore nella quale cercare di decrittare le molteplici allusioni sparsevi. Tutto ciò era complicato dal fatto che, nel corso della sua argomentazione, spesso Calepio accennava implicitamente ad autori e posizioni che probabilmente all’epoca erano così note da non giustificare un rinvio palese, ma che oggi non sempre risultano facilmente decifrabili.
C’erano anche delle certezze che mi rinfrancavano, ad esempio, in prima istanza, l’ampiezza della cultura di Calepio che appariva tale sin da un primo cursorio riscontro della Descrizione de’ costumi italiani e del Paragone; ciò che tuttavia in qualche modo giustificava l’azzardo era il fatto che il Paragone si inserisse a pieno titolo all’interno di una tradizione critica ben precisa e consolidata, muovendosi con agio all’interno di quella che Merio Scattola aveva definito con grande perspicacia «comunità di citazione»8, intendendo una cerchia di testi che circoscriveva la comunità nella quale l’opera aspirava ad inserirsi a partire dalla condivisione di alcune specificità di ordine linguistico-formali che strutturavano il discorso.
Il commento che segue l’edizione del Paragone — per i criteri filologici impiegati rimando alla nota al testo — è animato dalla tensione a una continua contestualizzazione e discussione delle singole prese di posizione di Calepio nel panorama della storia della critica, dell’estetica, della storia del teatro europea tra Cinque e Settecento. A giustificare il volume notevole delle glosse, che mi auguro corrisponda a un’effettiva ricchezza di indagine, è innanzitutto la sede editoriale alla quale il lavoro è stata destinato sin dal principio. Il supporto digitale permette indubbiamente di sfruttare spazi che non sarebbero compatibili con il formato cartaceo — per non parlare del fatto che l’andirivieni tra testo e commento, «a portata di clic», è notevolmente facilitato —, ma induce anche — soprattutto perché l’edizione del Paragone è inclusa in una collana che comprende molti altri testi critici coevi — a istituire confronti fra diverse dissertazioni, il cui testo è facilmente raggiungibile attraverso la rete di collegamenti intertestuale allestita da ogni editore. In questo contesto un commento ampio e volto a trattare in maniera estesa, a partire dal testo di Calepio, l’evoluzione di singole unità teorico-drammatiche in riferimento ad autori le cui opere venivano contestualmente pubblicate, è sembrato più opportuno di un’edizione saltuariamente annotata. Lo scopo del progetto era inoltre quello di permettere, attraverso gli strumenti di ricerca infratestuale ed intertestuale predisposti appositamente, la consultazione rapsodica di alcuni passaggi del testo e del commento, per cui si è cercato di sviluppare, nel commento a ciascun paragrafo, un discorso il più possibile autonomo, che rimandasse ove necessario ad altre sezioni del testo calepiano, ma fosse comprensibile e utile anche senza l’esame di tutto ciò che era stato scritto prima e dopo. Al lettore viene offerto così uno strumento versatile, che permette di svolgere ricerche mirate o incrociate a seconda dell’approccio che si preferisce; anche per questa ragione si è scelto di suddividere implicitamente le note di commento in tre sezioni: una prima in cui si offrono i riferimenti indispensabili ai testi citati da Calepio; una seconda di discussione, più o meno ampia, sulle questioni di natura critica e drammaturgica sollevate nel paragrafo di riferimento, e una terza in cui si fornisce, se necessario, una bibliografia specifica relativa ai problemi toccati.
Guida alla lettura del Paragone
Nel primo capo Calepio affronta la questione della proprietà catartica delle favole tragiche; l’autore, ricollegandosi ad un’ampia tradizione classica e classicistica che valorizzava l’utilità morale e pedagogica della letteratura, prende le distanze dalla concezione edonistica del fine poetico sostenuta in Francia e in Italia nel Seicento, sulla scorta del Castelvetro e di Heinsius, e di cui ancora il Du Bos si faceva latore all’inizio del diciottesimo secolo. Al contrario, nel Paragone, si nota una sensibilità moralistica comune a quella che aveva mosso il progetto arcadico, sulla scorta anche del recupero del Discorso di Iason De’ Nores attuato dal Gravina. Come il Muratori della Perfetta poesia italiana, anche Calepio è convinto che la tragedia sia il genere per eccellenza «utile» e, secondo il precetto aristotelico, assegna al dramma il compito di stimolare pietà e terrore, nella convinzione che le emozioni suscitate dalla pièce possano aiutare gli spettatori a purgare l’eccesso di tutte le passioni: invalsa è qui l’interpretazione, avallata tra gli altri dal Maggi, dall’Ingegneri e dal Guarini, dal neostoicismo seicentesco, e riproposta più tardi anche dal Maffei nel Proemio alla Merope, secondo cui la tragedia è adatta a purgare ogni passione, e non soltanto la pietà e il terrore, come pretendeva ad esempio il Robortello. L’autore si trova quindi in disaccordo con le posizioni espresse da Corneille nei Trois discours sur le poème dramatique; il francese dubitava infatti dell’effettiva portata del processo catartico ed era portato a credere che altri fossero gli elementi capaci di giovare alla platea: in prima istanza l’esempio degli eroi virtuosi, quindi i discorsi e le sentenze in conformità con la morale cristiana che i personaggi avrebbero dovuto pronunciare.
Se nella poetica corneilliana, senz’altro diretta alla ricerca del «plaisir» del pubblico, c’era molto di quel gesuitismo che concepiva la santità come una virtù eroica, e la catarsi era considerata il relitto moralistico del genio di un autore che non era stato illuminato dalla luce del Cristianesimo — le stesse considerazioni si ritrovano peraltro nella Bellezza della volgar poesia di Crescimbeni —, Calepio dimostra una sensibilità etico-religiosa profondamente diversa. Il recupero della catarsi come strumento attraverso il quale legittimare l’utilità della tragedia era peraltro tipico nel primo Settecento e spesso, proprio attorno alla purgazione, ruotava anche l’ampia produzione teorica e drammaturgica che tentava di restituire dignità al coturno italiano. Oltre al Maffei e ben prima del Lessing, anche il Martello sottolineava l’effetto purificatore che aveva sullo spettatore la possibilità di sfogare la propria tristezza su di un oggetto finto, e il Muratori si diceva convinto del fatto che la tragedia dovesse, con la compassione e il terrore, «purgar gli affetti del popolo». Tuttavia per Calepio l’insistenza sull’imperfezione del protagonista, ben lontano dal martire corneilliano, ma anche leggermente diverso dall’eroe mediocre delineato nella Poetica di Aristotele, assume connotati non soltanto moralistici o didattici, ma specificamente religiosi. Nel parziale scarto operato da Calepio rispetto alla teoria aristotelica si intuisce la cognizione della profonda diversità del teatro greco da quello cristiano: il compito del drammaturgo non sarebbe più quello di illustrare la fatale parabola discendente di principi e sovrani, secondo la tipica modalità del De casibus, ma piuttosto di rappresentare cristianamente la fragilità dell’essere umano, mai al riparo, per quanto virtuoso, dalla tentazione e dal peccato. Il protagonista ideale, per il bergamasco, non è certo l’eroe corneilliano, capace di destare, nel bene o nel male, l’ammirazione degli spettatori, ma l’uomo fondamentalmente giusto che cade in miseria per qualche colpa occasionale; in questo contesto egli propone una lettura del mito di Edipo diversa da quelle offerte nel diciassettesimo secolo: il re tebano non sarebbe né un tiranno punito per l’eccessiva ambizione, né l’innocente ingiustamente punito, ma un uomo buono che, per eccesso di arroganza, si macchia di una colpa maggiore rispetto a quella in cui pensava di incorrere. Parrebbe agire in questa convinzione una sensibilità fortemente condizionata da venature protestanti, che emergono anche in altri punti del trattato.
Il primo capo prosegue con una lunga e puntuale disamina delle favole greche, italiane e francesi, volta a determinare la bontà dei protagonisti prescelti e la potenzialità catartica degli intrecci sviluppati. Fra i Greci Sofocle è giudicato l’autore più regolare; fra gli italiani si distinguono il Trissino, capace di offrire il prototipo dell’eroina tragica — a tutti gli effetti mediocre — con la sua Sofonisba, il Rucellai della Rosmunda, il Giraldi Cinzio, il Bonarelli e il Dottori: in queste scelte, spesso dipendenti dai canoni precedentemente forgiati dal Crescimbeni e soprattutto dal Maffei del Teatro Italiano, si scorge una certa originalità, dovuta proprio all’assunto di partenza e alla scelta di analizzare le tragedie dal punto di vista della qualità del protagonista e del grado di patetismo della favola. Fra le tragedie settecentesche la preferenza è data al classicistico Ulisse il giovane di Lazzarini, plasmato sull’Edipo Re sofocleo, mentre la Merope del Maffei non è neppure presa in considerazione a causa dell’esito doppio della favola, che non soddisfaceva l’esigenza catartica richiesta dal Calepio come prerogativa di ogni buon componimento tragico. In questo frangente si nota peraltro che l’attenzione dell’autore si sofferma anche su pièces recentissime (quelle di Salìo, di Zanotti, di Recanati, di Conti e in ambito francese di Voltaire e di de La Motte), in virtù del fatto che il suo interesse nei confronti della drammaturgia non è tanto di natura archeologica, quanto piuttosto militante, e decisamente rivolto a incidere sugli sviluppi della drammaturgia contemporanea per rendere perfettibile la scrittura tragica italiana. In questo senso l’operazione contenuta nel Paragone si distingue in modo lampante da quella condotta nel Teatro Italiano di Maffei, se non nell’obiettivo finale, certamente nei principi che ne guidano la stesura.
L’autore prosegue poi con un ampio sondaggio sulla tragedia francese, stimata generalmente inferiore a quella italiana sotto questo profilo, in quanto gli autori transalpini, a partire da Corneille, hanno cercato più spesso l’applauso del pubblico, e non la sua edificazione. Di conseguenza hanno prescelto soggetti poco adatti a purgare, pieni di eroi eccessivamente virtuosi o troppo malvagi e in ogni caso incapaci di destare nel pubblico qualsivoglia compassione. Il confronto indiretto fra Corneille e Racine si modula sui toni del «Parallèle», forma critica che aveva animato le polemiche letterarie sei-settecentesche in Francia, e che Calepio dimostra di conoscere molto bene; Racine, in particolare grazie alla sua Phèdre, vince nettamente il confronto, sebbene spesso non abbia badato a costruire intrecci e personaggi capaci di innescare nello spettatore un procedimento catartico.
Fin dalle prime pagine del Paragone si comprende che la dissertazione del Calepio risente fortemente di alcune querelles che avevano animato la scena letteraria europea a cavaliere fra diciassettesimo e diciottesimo secolo: in primo luogo, ovviamente, la polemica Orsi-Bouhours, di cui il bergamasco riprende indubbiamente motivi e posizioni; non meno rilevante è tuttavia l’incidenza, nella scrittura di Calepio, della Querelle des Anciens et des Modernes. L’autore dimostra qui un’ampia conoscenza dei classici greci e latini, sebbene non sempre di prima mano, che emergeva già nell’Apologia di Sofocle, lavoro critico giovanile e documento della precoce militanza di Calepio — impegnato a difendere l’Edipo Re dalle accuse rivoltegli da Voltaire — nel partito degli anciens. Nel Paragone, sebbene non manchino prese di posizione a favore degli antichi — viene ad esempio criticato l’atteggiamento aggressivo di Perrault e dei suoi sodali, spesso pronti ad osteggiare gli autori classici esclusivamente per petitio principii —, l’autore sembra schierarsi risolutamente a favore dei modernes: egli infatti rivendica, da una parte, l’adesione al metodo cartesiano, ammettendo di valersi delle auctoritates soltanto nella misura in cui queste siano assistite dalla ragione; dall’altra si mostra un convinto sostenitore dell’idea del progressivo raffinamento del gusto e dell’arte, come si evince ampiamente dal suo confronto fra l’Ippolito di Euripide e la Phèdre del Racine, risolto nettamente a favore del secondo.
Nel capo successivo si esamina la qualità della peripezia formata da meraviglia, riconoscimento e «passione». Calepio affronta singolarmente questi tre punti insistendo in particolare sulla meraviglia, concetto impiegato da Aristotele nella Poetica che si era prestato a molti fraintendimenti nel diciassettesimo secolo, dando luogo a una poetica dell’argutezza in cui la meraviglia era propriamente situata a livello di elocutio, e non di inventio, come prescriveva, secondo il bergamasco, il testo greco. A partire da questa ricognizione Calepio ritrova un ulteriore dato per perseguire la propria polemica con la drammaturgia di Corneille che diventa a tutti gli effetti, secondo il programma arcadico e generalmente primo-settecentesco, una polemica anti-barocca. Dopo aver denunciato la cattiva interpretazione del testo greco offerta da Castelvetro, il quale concepiva la meraviglia non come la sorpresa piacevole disposta in seguito allo sviluppo inaspettato della peripezia, ma come l’elemento che costituiva il «dilettevole» della tragedia, Calepio si scaglia contro Corneille: il drammaturgo sarebbe reo di aver contaminato la meraviglia tragica con il meraviglioso epico, dando vita, attraverso eroi eccellenti, a drammi eroici, anziché a tragedie. Il bergamasco procede quindi all’analisi dei trattati sulla tragedia e sul poema eroico composti tra Sei e Settecento in area francese e condanna la pratica dell’ibridazione che avevano avallato, oltre a Corneille, i vari Le Bossu e Terrasson, e che in Italia aveva sostenuto anche il Crescimbeni della Bellezza della volgar poesia; in questa sua concezione fortemente distintiva dei generi e degli stili letterari Calepio mostra un forte distacco dalla poetica seicentesca e si protende verso un esercizio critico già profondamente razionalista.
In disaccordo con la teoresi drammaturgica francese, che sminuiva il valore patetico dell’agnizione, egli difende poi il meccanismo della riconoscenza, rifacendosi ad una tradizione italiana che, da Crescimbeni a Maffei, passando per Martello, riconosce nella anagnorisis una caratteristica peculiare dei drammi italiani e una risorsa irrinunciabile per aumentare la spettacolarità della pièce, interessando lo spettatore allo sviluppo della vicenda sino al suo esito conclusivo. Quanto invece alle «passioni», il ragionamento di Calepio non è conforme a quello, in alcuni tratti ben vicino al suo, del Du Bos, il quale nelle sue Réflexions sondava il delinearsi della reazione dello spettatore teatrale o dell’osservatore di un’opera d’arte attraverso l’esame del rapporto fra passione e sentimento; il bergamasco, rifacendosi al termine greco pathos, intende qui con «passione» letteralmente l’atto del patire. Ancora una volta l’attenzione dell’autore è rivolta alle modalità con cui il drammaturgo deve coinvolgere all’interno del piano catartico il pubblico, inducendolo a provare pietà per il protagonista. Anche in questa parte egli riconosce superiori gli Italiani, dal momento che i Francesi hanno spesso introdotto nei loro intrecci affetti secondari, utili soltanto a frastornare l’attenzione degli uditori, che dovrebbero invece rimanere concentrati soltanto su pietà e terrore. La frequente introduzione, nelle tragedie francesi, di personaggi malvagi — e in questo caso è palese la vicinanza di Calepio alle Osservazioni sopra la Rodoguna di Scipione Maffei —, incuriosisce gli spettatori, rendendoli ansiosi di vedere i cattivi puniti e i buoni trionfanti, ma non li dispone adeguatamente al momento della purgazione finale. Gli argomenti di Calepio, che ruotano anche attorno alla necessità di mettere in scena la catastrofe come pratica sommamente patetica, sottendono una completa disistima di una delle tipologie tragiche contemplate nella Poetica di Aristotele, ossia la tragedia doppia, nella quale i personaggi positivi hanno la meglio e i crudeli soccombono. Dietro all’insistenza sulle imperfezioni della tragedia doppia, incapace di destare compassione e terrore, non è adombrata soltanto la consueta polemica contro Corneille e i Francesi, ma anche una identica condanna della fortunata Merope del Maffei — a cui viene preferita senza ombra di dubbio la mediocre tragedia del Lazzarini —, e probabilmente una implicita riprovazione nei confronti dell’incoerenza del Marchese, il quale, nella sua opera tragica, mostrava di tradire in modo lampante le giovanili premesse teorico-letterarie che lo avevano appunto portato a censurare la Rodogune.
Nel terzo capo vengono presi in considerazione lo statuto e la disposizione degli episodi. Ancora una volta la trattazione del bergamasco si svolge in margine alla precisa distinzione tra generi letterari, introdotta al fine di bandire ogni tipo di ibridazione: le digressioni presenti nella tragedia devono essere brevi e non distogliere lo spettatore dalla vicenda principale, ma semmai aumentare l’effetto patetico dell’intreccio; quelli dell’epopea, al contrario, possono essere anche molto lunghi e trattare di temi assai differenti, proprio perché il poema epico assume, come già accadeva nella Poetica di Aristotele, il profilo di una vicenda che si costituisce per accumulo di episodi. Di conseguenza egli condanna le tragedie seicentesche in cui gli episodi intervengono con maggiore frequenza, oppure assumono, per centralità nello sviluppo della favola e per dimensione, uno spazio uguale se non maggiore rispetto al motivo principale. Si delinea qui una spiccata preferenza per la semplicità tipica delle tragedie greche e classicistiche, sempre in opposizione all’eccessiva artificiosità delle prove barocche. Il classicismo del bergamasco non è tuttavia sempre ortodosso e in questo consiste l’originalità della sua posizione che in effetti è sempre animata da un vaglio delle auctoritates sulla base di un istinto scenico e razionale: prova ne sia il fatto che egli condanna in modo risoluto il Coro, istituto diventato inutile all’interno del dramma moderno, proprio perché priva le favole agite a palazzo della necessaria segretezza su cui si dovrebbe fondare la verosimiglianza dell’intreccio. In questo caso il Paragone parrebbe riprendere le tesi della Pratique du théâtre dell’abate d’Aubignac, nel quale venivano fatte considerazioni analoghe: il rifiuto del Coro procede infatti, in entrambi i casi, da ragioni di ordine puramente teatrale.
Al centro della polemica di Calepio si trova anche un insigne testo tragico tardo-cinquecentesco, il Torrismondo del Tasso, di cui viene censurata la lunga scena in cui il re dei Goti narra l’antefatto al Consigliero: anche qui il bergamasco mostra di essere in sintonia con la critica teatrale coeva, dal momento che questa stessa scena era stata notevolmente accorciata dal Maffei nel Teatro Italiano, e riscritta in prosa, in maniera molto più sobria, dal Martello all’interno del trattato Del verso tragico: anche questo è uno degli elementi che comprova il fatto che il bergamasco sia perfettamente al corrente delle posizioni dei suoi contemporanei italiani e che dialoghi vivacemente con loro, condividendone talvolta le tesi e bocciandone talaltra le proposte; un Calepio tutt’altro che estraneo al panorama teorico e concretamente drammaturgico veneto e in generale italiano.
Un altro punto assai importante dell’esame di Calepio riguarda il rapporto fra gli episodi introdotti e il rispetto delle tre unità, di tempo, di luogo e di azione, le règles classiques forgiate nella fucina poetica cinque-seicentesca francese ad opera dello Scaligero, e poi sostenute da Chapelain, dal d’Aubignac e dal Boileau, ma di fatto seguite dalla gran parte dei drammaturghi italiani e francesi di epoca moderna. Nel Paragone viene prescritto soltanto il rispetto scrupoloso dell’unità d’azione, l’unica di matrice aristotelica, perseguita con grande ostinazione. Molto moderna — al punto da precorrere le più tarde posizioni di Metastasio e Manzoni — è invece la tesi di Calepio riguardo al rispetto delle unità in genere (Paragone III, 2, [5]); se Corneille, nel suo Discours de la tragédie, ammetteva che era necessario per il poeta tradire talvolta la storia da cui attingeva il soggetto tragico al fine di osservare fedelmente le tre unità, nella cui conservazione constava il maggior diletto del pubblico, il bergamasco è di tutt’altra opinione: per lui conta molto di più l’aderenza alla storia — quello che sarà poi il «vero» manzoniano —, unico elemento atto a garantire la verosimiglianza, concetto che nella sua opera non è sinonimo di auctoritas, ma procede da una ragione tutta settecentesca. A simili conclusioni giungerà, quasi un secolo dopo, anche il Manzoni della Lettre à Monsieur Chauvet.
Inoltre viene ribadita ancora una volta la centralità del sentimento della compassione nel progetto teatrale ed ideologico del Paragone: mentre Saint-Évremond, appassionato lettore di Corneille, ammetteva che il legame più forte tra protagonista e spettatore consisteva nell’amore, debolezza condivisa dall’eroe messo in scena con l’uditore più modesto, per Calepio — che da questo punto di vista supera anche la posizione di Maffei, intento a dimostrare come l’affetto filiale fosse un sentimento più universale della passione erotica — il trait d’union che permette agli astanti di immedesimarsi nel protagonista è la «comunione della umana fragilità» (Paragone III, 3, [3]): il pubblico si riconosce nell’eroe fallibile che cade in disGrazia a causa di un proprio errore e prova nei suoi confronti quella pietà, quella misericordia, che lo rende migliore. Se in altri teorici del teatro settecentesco, come Gravina e Muratori, l’amore nella tragedia veniva generalmente condannato per una sorta di pruderie moralistica, in questo caso la censura procede esplicitamente da un progetto etico-religioso fondato su basi alternative rispetto a quelle su cui poggiava la poetica teatrale francese del Seicento.
Nel quarto capo, quasi a voler dimostrare la propria imparzialità rispetto alle opere e agli autori considerati, Calepio formula un giudizio profondamente negativo della tragedia italiana cinque e seicentesca dal punto di vista della tenuta scenica della tragedia. In questo ambito egli riconosce fin da subito la superiorità dei Francesi, con una franchezza sconosciuta, almeno all’interno di scritti destinati al pubblico, nel primo Settecento. In particolare imputa agli Italiani una troppo pedissequa aderenza ai modelli greci, i quali tuttavia, proprio a livello scenico, risultavano carenti; dopo aver insistito ancora una volta sul paradigma evoluzionista che al fondo è presente nell’intera disamina (Paragone IV, 1, [2]), dimostra come i Francesi siano riusciti a gestire in modo molto più raffinato ed efficace alcuni specifici istituti drammaturgici rispetto ai Greci e agli Italiani. Egli si sofferma ad esempio sull’esordio, dimostrando come nelle prime scene dei drammi antichi e dei loro epigoni italiani vengano introdotte a parlare inverosimili personificazioni di virtù o divinità poco credibili, impiegate soltanto per fornire agli spettatori alcune nozioni sugli antefatti o sui personaggi che agiranno nel dramma, utili a comprendere lo sviluppo successivo della favola. I Francesi non sono caduti in simili errori, ma non sono a loro volta esenti da colpe nella descrizione degli antefatti, affidata spesso a lunghe e noiose narrazioni. L’opinione di Calepio nei confronti dei confidenti che popolano la tragedia francese, ritenuti dannosi all’intreccio e facilmente sostituibili in modo ben più efficace, è peraltro conforme a quella di molti letterati italiani del Settecento, dal Martello al Riccoboni fino ad Antonio Conti, seppure con qualche eccezione — il Muratori li preferiva di gran lunga ai soliloqui.
Nel Paragone viene inoltre censurato il ricorso insistito e prevedibile a sogni e oracoli tipici della tragedia di derivazione classicistica: secondo Calepio questo tipo di stratagemmi appiattiva le prove italiane rendendole spesso monotone e spiacevoli. Ancora dal punto di vista della resa scenica, l’autore loda le tragedie francesi per la preparazione della peripezia, ossia del rivolgimento che avvia verso la catastrofe (o il lieto fine); le eloquenti condanne dell’artificiosità di molte tragedie italiane, dal Torrismondo all’Aristodemo, fino anche a esemplari contemporanei come la Temisto di Salìo, in cui questo cruciale snodo viene fatto dipendere dal capriccio del drammaturgo, piuttosto che da cause interne allo sviluppo della favola, testimoniano l’impietosa capacità di esaminare i difetti della tradizione italiana senza alcun tipo di animosità patriottica. Se questi vizi erano stati già rilevati da altri interpreti dell’epoca, da Martello a Maffei, Calepio è indubbiamente il primo a indicare con chiarezza queste pecche, fondando, proprio per la sincerità del suo giudizio, alcuni topoi storiografici che verranno puntualmente ripresi nella critica teatrale sette-ottocentesca: la distinzione fra la superiorità italiana a livello di fabula e di caratteristiche intrinseche all’intreccio, e quella francese in fatto di rappresentazione scenica, così come il pregiudizio circa l’eccessiva vicinanza delle tragedie italiane a quelle greche, diventeranno ben presto luoghi comuni costantemente ripresi nelle successive trattazioni di questa materia. Se il Quadrio sembra riprodurre senza troppe remore molte delle considerazioni di Calepio, ancora alla fine del secolo il Napoli Signorelli, seppure in modo più critico e autonomo, riparte proprio dal Paragone per affrontare molte delle questioni di poetica tragica italiana e francese. La tradizione storiografica, che proprio col Napoli Signorelli si consolida, assume così come statuti classici i giudizi del bergamasco, e ancora nell’Ottocento, le monumentali storie della letteratura, che per forza di cose si costituivano attingendo alle opere di critica letteraria e teatrale precedenti, riproporranno le stesse valutazioni.
Lo schema di analisi calepiano risponde del resto in tutto il quarto capo ad un criterio distintivo semplice, puntualmente ribadito: i Francesi sono superiori dal punto di vista scenico agli Italiani perché cercano nelle proprie composizioni una maggior naturalezza. L’adesione ad un principio naturale che coincide, all’interno del lessico pure non sempre coerente dell’autore, con quello di verosimiglianza, permette ai Francesi, da una parte, di adottare soluzioni più realistiche in occasioni specifiche — nell’esordio, quindi, o nella peripezia —, dall’altra di disporre in modo più credibile le battute dei personaggi, dosando con equilibrio dialoghi, monologhi e a parte. Questi due ultimi artifici devono essere introdotti con molta cautela, secondo il bergamasco, proprio in virtù del fatto che sono sempre sul punto di apparire inverosimili, in quanto dipendenti dalla fictio teatrale, e non genuinamente prodotti all’interno di un contesto mimetico. Anche i Francesi, ripete Calepio, hanno le loro pecche, come dimostrano alcuni monologhi, di carattere eccessivamente ingegnoso delle tragedie del vituperato Corneille. L’attacco del Cinna, ad esempio, è stigmatizzato in accordo con una lunga tradizione esegetica francese — dal Boileau a Voltaire, passando per Fénelon —, che ancora una volta il bergamasco dimostra di conoscere alla perfezione (Paragone IV, 5, [3]). In generale comunque, nel Paragone, il monologo è ammesso soltanto come espressione dell’impeto delle passioni, secondo un’interpretazione di stampo propriamente melodrammatico che farà propria, fra gli altri, anche il Metastasio dell’Estratto dell’arte poetica, ma che al fondo si ritrovava già nel Della poesia rappresentativa dell’Ingegneri. In virtù di questa ricerca della verosimiglianza, tuttavia, dal punto di vista retorico i monologhi devono essere improntati alla più sobria semplicità, e ripudiare di fatto la magniloquenza tipica dei soliloqui della tragédie classique francese: i personaggi in preda alle passioni infatti, secondo Calepio, non potrebbero verosimilmente esprimersi ricorrendo a tortuose metafore, ad arzigogolate circonlocuzioni o a improprie apostrofi. Ancora meno verosimile in questo sistema risulta l’a-parte, che richiede come prerogativa essenziale una suddivisione improbabile dello spazio scenico che sospende il flusso della rappresentazione per istituire una quinta parete fra personaggi, che per esistere abbatte la quarta.
Nel capo quinto Calepio tratta del costume a partire da una premessa di ascendenza muratoriana, che interpreta l’ethos elencato da Aristotele fra le sei parti di qualità della tragedia come un elemento afferente alla sfera morale. La bontà dei personaggi prescritta dal filosofo greco non sarebbe una caratteristica intrinseca alla costruzione del carattere — e quindi un elemento che ne regola il portamento scenico, insieme ad esempio alla convenienza, alla dignità e alla coerenza — ma un dato propriamente etico. In questo senso, dimostrando invero una lettura molto meno originale di quella fornita in altri punti, l’autore se la prende ancora con Corneille, reo di aver messo in scena personaggi reprobi e criminali che rischiano di risultare assai dannosi per il pubblico, in quanto insegnerebbero ad ammirare il male. Questi timori ricalcano da vicino quelli espressi da Pierre Nicole, all’interno del Traité de la comédie, proprio in margine alle tragedie corneilliane, e in particolare alla Théodore. Calepio non contempla nel sistema tragico che va delineando l’introduzione di personaggi assolutamente malvagi, a differenza di quanto facevano per ragioni diverse Du Bos — il quale si diceva convinto che questi amplificassero nello spettatore l’effetto catartico — e Muratori, che ne reputava utile l’inserimento soltanto nel caso in cui le loro azioni fossero costantemente accompagnate dai rimorsi dell’attore e dalla condanna degli altri personaggi. Il bergamasco si spinge oltre la posizione muratoriana e, dal suo progetto pedagogico-moralistico, esclude la rappresentazione della malvagità per paura degli effetti nefasti che questa potrebbe avere, accompagnata dalle lusinghe della scena, sul pubblico teatrale (Paragone V, 2, [4]). L’autore dimostra inoltre una sensibilità prettamente settecentesca nello schierarsi contro la ricerca di un θαυμάζειν che, anziché venire limitato all’interno dei limiti della peripezia, diventa il pilastro dell’intero dramma. Lo spostamento della tragedia verso l’epica perseguito da una drammaturgia della meraviglia e dell’ammirazione, mirava soltanto ad ammaliare e stupire lo spettatore, imponendogli una ricezione della favola esclusivamente passiva; al contrario nel Paragone, ben prima che nella Drammaturgia amburghese del Lessing, si presuppone che costui cooperi attivamente alla riuscita del dramma, partecipando emotivamente ai casi sfortunati del protagonista, così da raggiungere quella purgazione che costituisce l’utilità della tragedia.
Calepio ragiona poi ancora sulla fedeltà alla storia nell’organizzazione della favola a partire da una contraddizione che pareva insita nel testo della Poetica e che aveva assillato numerosi esegeti, dal La Mesnardière a Prospero Bonarelli, sino al d’Aubignac. Se nel Seicento tuttavia si rivendicava la libertà del poeta di trasgredire il racconto tramandato, nel Settecento — e Calepio non fa eccezione — prevale la concezione secondo cui la storia non deve essere alterata dal drammaturgo, onde evitare di smarrire la verosimiglianza necessaria. Ancora più alla lettera deve essere presa la storia sacra, ed in questo senso vanno lette le veementi accuse lanciate dal bergamasco nei confronti delle tragedie di Duché, il quale, nell’Absalon e nel Jonathas, aveva modificato il racconto biblico per rendere più virtuosi i protagonisti e gli antagonisti più crudeli. In questa sede, come in altre, emerge un altro tratto caratteristico del Paragone: nel trattato, in cui pure la materia è organizzata per argomenti e suddivisa in capi ed articoli, ritornano spesso alcuni segmenti e alcune tesi che erano state già accennate, se non propriamente dibattute, in precedenza. Questo effetto di «refrain» rende l’idea di un’opera non rifinita, scritta in modo discontinuo in un arco di tempo piuttosto lungo, che andava componendosi per progressive giunte, aggregate attorno a pochi ma solidi nuclei argomentativi.
Proseguendo nell’esposizione Calepio affronta la questione del decoro dei personaggi, rifacendosi alla nutrita speculazione seicentesca di area francese, recuperata anche in Italia all’inizio del diciottesimo secolo, come dimostrano, fra gli altri, Gravina e Muratori. Anche in questo caso i problemi mostrati dalle composizioni italiane derivano da una troppo scrupolosa fedeltà agli antecedenti classici, ma in questo punto, ancor più che nei precedenti, emerge l’immenso divario fra le tragedie greche e quelle francesi, frutto del progressivo raffinamento del gusto e delle tecniche drammatiche. Calepio si richiama in questo caso ancora alla Querelle des Anciens et des Modernes, inserendosi sulla scia delle molte polemiche sei-settecentesche circa il decoro dei personaggi omerici, criticato già dal Tassoni e dal Muratori fra gli altri. Certo, anche i Francesi si sono dimostrati reprensibili nel non rispettare il costume originario degli eroi antichi messi in scena, attribuendo inverosimilmente ai condottieri della Grecia e della Roma antica il carattere galante dei cortigiani francesi del Seicento: così l’Alexandre innamorato di Racine risulta grottesco a Calepio, il quale riprende in questo frangente una delle argomentazioni forti del partito corneilliano. Tutte le puntualizzazioni circa la tragedia italiana e francese sono sempre animate dall’attenzione nel preservare la verosimiglianza del costume dei personaggi, che si ottiene appunto attraverso il rispetto della bontà, della coerenza, dell’età, del sesso, della nazione del personaggio. Tra i modelli positivi, quanto al rispetto del costume, andrà notata la particolare lode per Antonio Conti, ritenuto capace di riprodurre con esattezza la maestosità dei soggetti romani che rappresentava nelle sue tragedie.
Nel penultimo capo viene presa in esame la questione stilistica: alla tradizione tragica italiana cinquecentesca viene immediatamente imputato un difetto piuttosto rilevante, ossia l’aver fatto ricorso ad una lingua troppo verbosa e familiare che ha tolto la necessaria maestosità ai versi tragici. Calepio si inserisce all’interno di un dibattito tutto settecentesco di cui erano stati già protagonisti il Gravina e il Maffei, i quali, guardando alla Sofonisba e alle prove successive, avevano rilevato il medesimo problema; la colpa starebbe anche in questo caso nella troppo servile imitazione delle auctoritates, che non tiene conto una differenza strutturale della lingua italiana rispetto a quella greca, ossia la maggiore solennità della prima, che non sopporta un abbassamento come quello adottato dal Trissino e dagli altri drammaturghi del suo secolo. Al di là di queste censure in merito alle scelte formali delle tragedie del Rinascimento, l’obiettivo polemico principale è costituito ovviamente dal dramma seicentesco. Andrà osservato che il discorso di Calepio è ancora una volta sostenuto, in primo luogo, dalla preoccupazione per la ricerca della verosimiglianza, dall’altra dalla disamina delle specificità dei differenti generi letterari; riprendendo tesi già esposte in precedenza, infatti, egli stigmatizza l’abuso di figure e tropi petrarcheschi all’interno della lingua tragica dei secoli precedenti. Se allegorie, ossimori e ipotiposi impreziosiscono lo stile lirico, esse risultano dannose in tragedia, in quanto compromettono la verosimiglianza dei discorsi appassionati che devono presentarsi, come già si è riportato, del tutto scevri di questi abbellimenti. L’autore parrebbe esasperare una critica che veniva comunemente mossa alla tragedia italiana del Seicento: dal Muratori al Martello, molti letterati italiani all’inizio del secolo erano concordi nel censurare l’eccessivo lirismo di prove autenticamente barocche, come l’Aristodemo del Dottori. Ma se la disputa, dal Crescimbeni al Maffei, ruotava principalmente attorno al dato stilistico, in Calepio si affaccia anche una rilevante problematica di stampo logico-rappresentativo.
Le escrescenze liriche del linguaggio tragico che Calepio condanna non sono tuttavia le «parolette», per così dire, che Alfieri bandirà dal proprio teatro, alla ricerca di una nuova lingua tragica grave, per nulla fiaccata da calchi del Canzoniere; per Calepio è lirico e petrarchesco ogni artificio elocutivo, ogni figura retorica che starebbe bene in un verso del Petrarca, ma non in bocca a un personaggio tragico nel pieno di uno sfogo passionale. Certo, come notava il Maffei nella sua Recensione al Paragone, Calepio ha una concezione prettamente retorica del dato stilistico — egli mette quindi in secondo piano, ad esempio, il ruolo della sintassi o delle figure di suono —, eppure ancora una volta le sue tesi faranno scuola nella critica teatrale successiva, e i vari Quadrio, Napoli Signorelli, Andrés e Ginguené riproporranno quelle stesse censure. Anche dal punto di vista drammaturgico il prototipo delineato da Calepio parrebbe avere fortuna nel Settecento, se si pensa alle tragedie di Antonio Conti, ma anche, sebbene con le dovute distinzioni, al progetto del teatro alfieriano.
Tale inclinazione per una «prosa misurata» — in questi termini ne parlerà ancora il Maffei —, non si risolve peraltro nella predilezione di un linguaggio sentenzioso e oratorio, tipico anche delle Tragedie Cinque del Gravina: queste forme vengono anzi rifiutate come caratteristiche di una stagione ormai tramontata. Venendo alla lingua tragica francese Calepio riconosce in effetti una particolare cura per il dato contenutistico: i discorsi degli eroi corneilliani e raciniani sono ricchi di ottime massime, ma peccano spesso nell’eccesso inverosimile e noioso di ornamento. L’interminabile elenco di passi, tipici del «grand style» di Corneille, commendati a causa di vane antitesi, di concetti arguti, di immagini fredde, di ossimori triti, di apostrofi affettate, insiste sempre sul medesimo punto, ossia la necessità di garantire alla lingua tragica la maggior verosimiglianza possibile. Calepio parrebbe scorgere nella lingua dei tragici francesi del Seicento gli stessi vizi che i gesuiti Rapin e Bouhours imputavano alle pastorali italiane, secondo una controffensiva ben studiata, che si pone direttamente in linea con gli scritti polemici generati in occasione della querelle Orsi-Bouhours. Anzi, con il Bouhours, Calepio intrattiene un duro corpo a corpo, volto a delegittimare l’opinione, difesa negli Entretiens d’Ariste et d’Eugène, secondo cui il francese era al contempo la lingua più semplice e nobile al mondo, naturalmente ostile, a differenza dell’italiano, ai concetti e alle pointes (Paragone VI, 4): il bergamasco riporta così un gran numero di passi di Corneille, di Racine, di de La Fosse, di Deschamps, di Duché, di Crébillon, di Voltaire in cui vengono sistematicamente introdotte personificazioni, allegorie, segni, traslati, perifrasi ed epiteti per mostrare quanto sia comunemente diffuso, nelle prove d’oltralpe, un linguaggio costruito e innaturale che sarebbe più consono a un poema epico o a una lirica, piuttosto che a una tragedia. Insomma, ben prima della Risposta a Voltaire del Maffei, in cui il veronese rimproverava al teatro francese il difetto di «star sempre sui trampoli», già il Calepio aveva denunciato la gonfiezza della lingua tragica francese — peraltro teorizzata icasticamente nell’Art poétique del Boileau — comparando la tragedia transalpina ad una regina che «passeggi sempre in cadanza di ballo».
Nel settimo capo l’autore affronta l’annosa questione della versificazione, unendo la propria voce al coro di quegli autori italiani — praticamente tutti, fuorché il Martello — che avevano condannato l’alessandrino francese a causa della monotonia, della lunghezza del verso e soprattutto della rima. Anche sotto il profilo metrico lo scopo principale del progetto teatrale di Calepio è quello di raggiungere la verosimiglianza; di conseguenza si impegna a cercare un verso che sia il più possibile vicino alla prosa, avendo tuttavia una cadenza variata e piacevole. Ovviamente viene respinto il verso rimato per ovvie ragioni di credibilità — in forte polemica contro il Martello — e gli endecasillabi sciolti, assieme alla commistione, in pari misura, di endecasillabi e settenari, vengono considerati i metri migliori: proprio questa seconda forma, quella adottata dal Lazzarini nell’Ulisse il giovane, e prediletta anche dall’Orsi nelle sue Considerazioni, viene considerata la più efficace, in quanto, mentre la ripetizione dello sciolto — verso prediletto del Maffei — creava una noiosa armonia, la soluzione mista assumeva un profilo più mosso e gradevole.
La conclusione è comunque ancora all’insegna della polemica anti-francese ed in specie anti-bouhoursiana: il gesuita francese aveva infatti ingiustamente attaccato la lingua poetica italiana, denunciando la monotonia delle desinenze in rima, senza comprendere la profonda diversità dei sistemi di pronuncia delle due lingue, dalla cui analisi procedeva — come già aveva rilevato il Muratori — una netta superiorità dell’italiano sul francese in quanto a varietà rimica. La traduzione di un passaggio, ad alto tasso figurale, dell’Horace di Corneille, serve infine a dimostrare nel concreto la maggiore armonia e verosimiglianza della lingua poetica italiana, la quale, priva del giogo delle rime, assumerebbe una connotazione molto più naturale di quella che viene imposta dall’alessandrino francese.
Nota al testo
Del Paragone esistono due differenti edizioni: la prima, uscita in poche copie su interessamento del Bodmer a Zurigo nel 1732 per i tipi di Rordorf, lo stesso editore che in quell’anno stamperà la traduzione in prosa del Paradise Lost di Milton curata proprio dal Bodmer9; la seconda, postuma, del 1770, pubblicata a Venezia presso Zatta, e allestita per volontà del figlio Galeazzo. Per la prima edizione non esistono copie manoscritte su cui riscontrare la stampa, nella quale si trovano peraltro molti errori, neppure nella Zentralbibliothek Zürich, in cui erano conservate le lettere componenti il carteggio Bodmer-Calepio, prima del loro trasferimento in Italia, e dove ancora oggi è custodito il manoscritto della Descrizione de’ costumi italiani, pubblicato, sempre per mezzo del Bodmer nei tomi della ginevrina Bibliothèque Italique 10. L’edizione del 1770 non è curata da Calepio e non può considerarsi per nulla testimonianza dell’ultima volontà dell’autore: essa riprende in tutto e per tutto il testo del Paragone del 1732 correggendo alcuni errori di stampa che erano intervenuti nell’edizione svizzera e aggiungendo un corposo apparato di paratesti. Benché nel titolo essa annunci l’Apologia di Sofocle, questa non viene inclusa nella nuova edizione, che comprende invece la Vita dell’autore scritta da Marco Tomini Foresti, delle Giunte al Paragone e la lunga Confutazione di molti sentimenti disposti da Giuseppe Salìo, testo di una lezione pronunciata presso l’Accademia degli Eccitati nel 1752. Le Giunte, conservate presso la Biblioteca Civica Angelo Mai11, documentano invece un percorso di riscrittura del Paragone a cui probabilmente il bergamasco si era dedicato a partire dalle prime importanti reazioni alla sua opera, arrivate invero piuttosto tardi, nel 1738, anno in cui uscivano sia l’Esame critico di Giuseppe Salìo che la recensione del Paragone da parte di Scipione Maffei sul primo tomo delle Osservazioni letterarie. Calepio doveva scorgere, nelle reprimende del Salìo e del Maffei, un certo fraintendimento delle proprie tesi e intendeva, da una parte, rispondere a specifiche accuse, dall’altra allargare la propria indagine alle tragedie pubblicate negli anni successivi all’uscita del Paragone. La volontà di chiarire alcuni concetti e di aggiornare i riferimenti al teatro contemporaneo avevano probabilmente spinto l’autore a progettare una riedizione del Paragone di cui aveva gettato già solide basi, come documentano le carte conservate nell’Archivio Calepio, faldone P1.d, in cui si trova un nuovo piano di edizione con alcune annotazioni relative ai testi da aggiungere12. Fra i drammi che si ritrovano citati con maggior frequenze in queste due pagine di prospetto, si contano le tragedie di Antonio Conti, di cui il bergamasco aveva potuto leggere in prima istanza solo il Cesare, e non le tragedie degli anni Quaranta, il Brutus (1731) di Voltaire e il Sedecia (1752) di Giovanni Granelli.
Certo l’edizione del 1770 che pubblica separatamente le «giunte» alla fine del Paragone non rispecchia le intenzioni del bergamasco, il quale tra gli anni Quaranta e Cinquanta, aveva avviato un lavoro di riscrittura che probabilmente puntava ad una revisione completa dell’opera, in cui le giunte sarebbero state integrate all’interno dei capitoli e la struttura avrebbe assunto un nuovo ordine certo più lineare di quello impresso all’edizione del 1732.
La presente edizione è stata approntata sulla princeps, optando per una sobria modernizzazione del testo nello spirito del progetto internazionale all’interno del quale è stata condotta. Si sono quindi seguite le norme di trascrizione fissate dal gruppo di ricerca, intervenendo sul testo nelle seguenti circostanze: la punteggiatura è stata adattata all’uso corrente per rendere il testo più leggibile (si è eliminata la virgola prima del che dichiarativo e si è introdotta per chiudere gli incisi; si è sostituito il punto e virgola con una semplice virgola nel passaggio dalla protasi all’apodosi del periodo ipotetico; si è di norma eliminata la virgola prima delle congiunzioni copulative; si sono mutati in virgola o punto e virgola i due punti, qualora ricorressero più di una volta nel medesimo periodo; si è normalizzato l’uso dell’apostrofo nei casi in cui la stampa lo richiedeva: dal oggetto → dall’oggetto; un’intiero applauso → un intiero applauso; si è introdotta la virgola per chiudere gli incisi, laddove necessario); nella paragrafatura, saltuariamente, sono stati spezzati i paragrafi troppo lunghi per agevolare la lettura e la stesura del commento; negli accenti, che sono stati normalizzati secondo la consuetudine moderna; laddove fossero citati testi in francese, sono state modernizzate integralmente le porzioni di testo riportate; nella trascrizione del testo, si è proceduto a correggere alcuni palesi refusi di stampa (ad es. convincerelo → convincerlo; esamplare → esemplare; alteri → altri; almo → alma; chiascuno → ciascuno; marchiare → marciare; allega a que’ testi → allega que’ testi; proposto → proposito; concorrerei → concorderei) e sono stati adottati dei cambiamenti sistematici tesi a normalizzare la scrittura dell’autore secondo l’uso corrente.
Si dà di seguito notizia degli interventi dell’editore nella trascrizione:
— tutte le j italiane sono state ridotte a i (ad eccezione dei casi in cui compariva all’interno di nomi propri o titoli di opere), senza l’utilizzo di accenti circonflessi: principj → principi;
— le h etimologiche sono state eliminate secondo l’uso moderno: qualchuno → qualcuno;
— nella convinzione, dovuta all’analisi dell’usus scribendi calepiano, che l’indecisione riguardo all’uso delle geminate, molto incerto in tutta la princeps, piena di ipercorrettismi ed errori, non sia dovuta all’autore, ma agli interventi tipografici avvenuti nella stamperia di Zurigo, si è scelto di normalizzare secondo l’uso moderno: (ad es. proccuro → procuro; scruppoloso → scrupoloso; dificile → difficile; alesandrini → alessandrini; profferisce → proferisce; imagini → immagini);
— l’iniziale maiuscola è stata mantenuta soltanto nel caso in cui indicasse un nome di persona, personaggio, o di luogo determinato (oltre che, ovviamente, dove richiesto dalla punteggiatura). Sono stati invece normalizzate in minuscolo le iniziali dei titoli onorifici e di altri sostantivi impiegati nella stampa, spesso in modo incoerente, con la maiuscola iniziale;
— sono stati eliminati i cultismi, peraltro presenti sporadicamente e in modo incoerente: muovimento → movimento; calumniato → calunniato;
— nei plurali di sostantivi in –io è stata modernizzata la grafia «alla Latina» in doppia i: formularii → formulari; varii → vari;
— le abbreviazioni, sempre intelligibili, sono state sciolte sistematicamente: P. Cornelio → Pietro Cornelio;
— si è sostituita l’abbreviazione «ecc», sempre impiegata da Calepio per indicare l’interruzione di una citazione testuale, con i tre punti fra parentesi quadre, secondo l’uso tipografico attuale;
— si sono introdotti i corsivi e i segni diacritici secondo l’uso moderno;
— si è normalizzato l’uso delle maiuscole, mantenute soltanto nel caso in cui marcassero l’iniziale di un nome proprio o del titolo di un’opera, oltre che, ovviamente, dopo il punto fermo.
Al contrario sono state invece mantenute le forme desuete o minoritarie nella trascrizione dei titoli e dei nomi di autori e personaggi.
Ringraziamenti
Nel licenziare l’edizione voglio ringraziare caldamente le persone che mi hanno aiutato nell’impostare, nel delineare e nell’aggiustare il progetto, fornendomi opportunità formidabili di crescere come ricercatore e come uomo. Il primo grazie va doverosamente alla mia «scorta saputa e fida», Elisabetta Selmi, che in qualità di supervisore ha saputo guidarmi nei meandri della drammaturgia rinascimentale e moderna, essendo fonte inesauribile e generosa di stimoli e suggerimenti. Ringrazio coloro che sono stati per me interlocutori costanti ed esemplari nella loro serietà e passione per la ricerca, e hanno avuto la pazienza di leggere e correggere minutamente saggi e capitoli che man mano proponevo loro, Corrado Viola, Laura Sannia Nowé e Andrea Fabiano; la mia gratitudine si estende però a tutti gli studiosi con i quali durante questo percorso mi sono confrontato, nel corso di convegni e seminari, su temi calepiani, ottenendo spunti assai importanti, e in particolare Beatrice Alfonzetti, Franco Arato, Alberto Beniscelli, Silvia Tatti, Piermario Vescovo e Stefano Verdino.
Vorrei dire un grazie sincero a tutti i docenti del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari con cui ho proficuamente discusso della mia tesi a vari stadi del suo sviluppo, in un dialogo che si prolunga da anni con beneficio esclusivo ma straordinariamente significativo del sottoscritto: Anna Bettoni, Annalisa Oboe, Guido Baldassarri, Adone Brandalise, Valentina Gallo, Donatella Rasi, Anna Scannapieco, Franco Tomasi. Un ricordo speciale e affettuoso è per Merio Scattola, venuto a mancare nel corso di questi tre anni: di quel poco che ho saputo imparare da una persona eccezionale come lui nella tesi c’è molto.
Al personale delle biblioteche in cui ho lavorato in questi anni, e soprattutto quello della Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo, della Capitolare di Verona, della Zëntralbibliothek Zürich e della Bibliothèque Nationale de France, va parimenti un sentimento di viva gratitudine per la gentilezza con cui mi hanno accolto e aiutato nella non facile operazione di scandagliare archivi e carteggi settecenteschi, non sempre facili da reperire.
Una menzione particolare meritano gli amici che mi sono stati vicino in questo percorso: dal mentore Alessandro Metlica, a cui devo tanto, a Paolo Scotton, insostituibile compagno di tante imprese, e poi Luca Scalco, Luca Trevisan, Alessandra Munari, Giacomo Comiati e tutti coloro con cui, nel corso di questi anni, ho condiviso conversazioni, idee, progetti.
A Daniela, che ha il merito più grande, quello di rendermi felice, ogni ringraziamento sarà sempre insufficiente, ma senza di lei nulla di quanto ho fatto avrebbe preso forma.
Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia di Pietro Calepio.
All’onoratissimo signore
Jacopo Bodmer
P. † † † †
[Ded.1] Il desiderio ch’avete mostrato di vedere i miei sentimenti intorno la poesia tragica degl’Italiani e quella de’ Francesi, m’eccita a fare uso di qualche breve ozio, ch’ora m’accade di godere per dare ordine, e compimento ad alcune bozze già da me scritte in tal proposito. Vero è bensì, che l’opinione troppo vantaggiosa, ch’avete del mio poco sapere dovrebbe rendermi timoroso di non incontrare aggradimento in voi pari alla favorevole aspettazione: Ma come colui, che son più vago di dottrina, che di lode risolvo ciò non ostante di scrivervi il mio parere, più valendo a muovermi il profitto ch’io spero dalla vostra censura, che il timore della insufficienza per rattenermi. Gl’Italiani che sono stati già da gran tempo felici in più maniere di poetare dopo il primo risorgimento delle lettere, coltivarono prima d’ogni nazione anche l’arte della tragedia: ma siccome non è stato loro conteso il pregio d’avere occupato i primi posti dell’epica, della lirica e della pastoral poesia; così sembra ad alcuni, che nella tragica sia loro stato tolto il vanto da’ Francesi, ed altri all’incontro sostengono che le tragedie di que’ poeti son lunge dalla perfezione di molte italiane. Toccò di passaggio questa materia il marchese Maffei nella prefazione del suo Teatro Italiano; adducendo alcune ragioni contro l’opinione favorevole a’ Francesi: ma perciocché trapassa egli lievemente ciò che di maggior dichiarazione ha mestiere, e perché non discende a certe prove particolari che sarebbono necessarie per appagare il mondo, e finalmente perché non credesi totalmente giusta qualche sua censura ho già creduto opera non vane il fare un esame diligente e disappassionato delle italiane e delle francesi tragedie per discuoprire i pregi ed i difetti di queste e di quelle. Per venir dunque all’argomento io ridurrollo a certi capi principali e procurerò con tale divisamento di schifare la confusione che potrebbe nascere da troppo superficial considerazione, imitando coloro che per giudicare dell’architettura d’un edificio non s’appagano d’un guardo universale, ma scorgendone ad una ad una le parti, esaminan l’uso, la struttura e la proporzion di ciascuna. Per prima e general divisione della tragedia parmi acconcio il considerar la favola quasi anima e l’altre parti cioè il costume, la sentenza, la favella ed il metro quasi corpo della medesima.
[Ded.2] Potrebbesi la favola riguardare altresì come il disegno nella pittura e l’altre cose come colori che le dan compimento. Meritando adunque riflessione distinta la perfezione che spetta alla favola, comincerò da’ pregi che son di questa propri, de’ quali alcuni appartengono alla pura teoria, alcuni alla pratica: ma non di tutto ciò che vien compreso dalla natura della favola stimo che or debba farsi particolar osservazione; perocché non vedo generalmente discordia tra Francesi ed Italiani in tutte le sue parti. Prima considererò partitamente la qualità sovrana delle azioni tragiche; poscia i pregi delle peripezie e delle passioni indi derivanti; in terzo luogo gli episodi: perché s’approva bensì presso da amendue le nazioni la necessità di tali cose, ma con varia maniera. Intorno la pratica verrammi in acconcio d’esaminare l’arte di preparare gli accidenti e di distribuire gli atti e le scene, il tenor de’ discorsi, l’uso de’ soliloqui. Passerò quindi alle considerazioni che mi sembreranno opportune circa il costume, circa l’elocuzione e circa il metro.
Capo I.
S’esaminan le favole tragiche nella lor proprietà principale.
Articolo I.
[1.1.1] Benché la poesia nella prima sua origine non avesse altro fine che il dilettoso sentimento del popolo, con tutto ciò la perfezione che nel progresso del tempo acquistò, massimamente nelle sue spezie principali, drammatica ed epica, non derivò che dall’arte di ricreare utilmente le città, cioè di guidarle per via del diletto agevolmente alla virtù. Tale, se ben si considera, fu quella che praticarono Eschilo, Euripide e Sofocle nella tragedia, ed Omero in ambedue li suoi poemi, e che fu quindi ridotta a precetti da’ due antichi maestri, Aristotele ed Orazio.
[1.1.2] Ad imitazione de’ Greci scrisse Gian Giorgio Trissino la prima tragedia italiana in principio del secolo decimosesto, seguito poco appresso dal Rucellai, dallo Speroni, dal Giraldi e quindi da numeroso stuolo d’altri che son fioriti fino a questo tempo. Jodel e Ronzard in Francia, invitati dall’esempio degl’Italiani, tentarono di seguirli nella imitazione medesima, ma le loro tragedie furono poco applaudite.
[1.1.3] Credono alcuni che avvenisse ciò per una troppo servile rappresentazione de’ Greci originali: ma gran parte ci ebbero sì le particolari imperfezioni degli autori, che la fievolezza della letteratura francese, la quale in que’ tempi era ancora troppo bambina. Assai maggiore applauso ebbero alcune favole di Quinault nel secolo posteriore, benché molto irregolari: ma perdettero esse ancora il lor concetto all’apparir di quelle di Pietro Cornelio, la cui maniera è poi stata seguita in gran parte delle circostanze, eziandio dagli autori più novelli.
[1.1.4] Per discernere però sopra quali fondamenti sieno fabbricati comunemente i lor tragici drammi, respettivamente alla costituzion favolosa, è d’uopo prima d’ogni cosa osservare le massime di Cornelio, che può dirsi primo loro institutore.
[1.1.5] Egli affetta in sembianza di seguire i precetti che lasciocci Aristotele e, nel mostrar l’utile che la tragedia ha per proprio fine, allega que’ testi che stabiliscono consister la perfezione della favola tragica nel muover la compassione ed il timore per mezzo d’un attore illustre che cada per qualche errore di felicità in miseria: ma poi, veggendo poco corrispondere a tal regola molte delle sue tragedie, s’ingegna con sue nuove interpretazioni di far servire i precetti del greco maestro al sostenimento delle medesime.
[1.1.6] Però soggiunge egli che Aristotele, non giudicando essenziali alla favola tragica le sentenze ed i discorsi instruttivi, né potendo rinvenire altra ferma utilità, volle sostituirne una, la qual non è forse se non immaginaria; perciocché il purgamento delle sopradette passioni non pare che siegua nelle tragedie stesse, ove si ritrovano le condizioni che richiede quel filosofo.
[1.1.7] Quindi conchiude che la più tollerabile spiegazione che si possa dare a’ passi della sua poetica, si è il dire ch’egli non intenda esser necessarie amendue le commozioni, e che l’una possa bastar senza l’altra. Ma non posso tralasciare le proprie parole, con cui dichiara il motivo delle sue esposizioni, sentendo la forza che in cotal guisa viene fatta a’ testi. Dice egli:
Trouvons quelque modération à la rigueur de ces règles du Philosophe, ou du moins quelque favorable interprétation, pour n’être pas obligé de condamner beaucoup de poèmes, que nous avons vu réussir sur nos théâtres.
[1.1.8] Ed in altro luogo, mal soddisfatto d’Aristotele che condanna intieramente quella spezie di favole ove coloro che vogliono ammazzare persone conosciute non adempion l’impresa, scorgendosi quivi solamente il delitto senza nulla di tragico, così scrive in sua difesa Cornelio:
Si cette condamnation n’était modifiée elle s’étendrait un peu loin, et envelopperait non seulement le Cid, mais Cinna, Rodogune, Heraclius, et Nicomede: disons donc qu’elle ne se doit entendre que de ceux, qui connaissent la personne, qu’ils veulent perdre, et s’en dédisent par un simple changement de volonté sans aucun événement notable, et sans aucun manque de pouvoir de leur part.
[1.1.9] Appare però che Cornelio vuole che le sue favole decidano del valor delle regole, non già che le regole siano norma a giudicar delle favole. Ma tale assunto diviene più strano per la frivolezza della ragione con cui queste si difendono: perocché quale effetto più tragico produce, per dire un esempio, l’impotenza che diverte Cinna dall’esequir la cospirazione, che se rimanesse da ciò per volontario pentimento? Ciò che in somma può dirsi di Cornelio si è ch’egli ha per fine di tutta la poesia drammatica il diletto, né secondo il suo parere è necessaria l’utilità, se non per render quello più compiuto ed universale; laonde dal piacer recato dalle sue tragedie traeva egli bastante argomento della loro bontà: né di vero a più sue tragedie poteva egli addurre altra giustificazione.
[1.1.10] Dopo le predette testimonianze dee parere strano che il signor Dacier, benché nelle osservazioni sopra la poetica d’Aristotele mostri conoscere nelle favole francesi del disviamento, abbia asserito, nella prefazione, che Cornelio sostenuto dalle regole di questo filosofo ha restituito lo splendore alla tragedia appresso il suo lungo smarrimento.
[1.1.11] Io so bene che coloro i quali professano in Francia maggior raffinamento di gusto non considerano i pregi de’ loro tragici poeti per la conformità ch’essi hanno colli precetti degli antichi, ma per certa eccellenza di discorso che ci fa ridurre ogni cosa a’ suoi naturali principi senza dipender punto dall’altrui opinione ed autorità, dichiaransi d’estendere ad ogni sorta di letteratura quella esatta filosofia, da cui negli ultimi tempi ha fatto ogni scienza notabili avanzamenti; però non accettano le dottrine di veruno quantunque celebre; perciocché trovansi non di rado discordi da quella ragione universale cui convien ricorrere per discernere il valor di ciascuna. Quindi è che s’è dichiarato imperfetto il libro del poema epico fatto dal padre Bossu solamente perché l’autore proponendo per esemplari Omero e Virgilio s’è soggettato a’ precetti d’Aristotele e d’Orazio: ancorché veramente meriti il maggior biasimo per le male interpretazioni ch’egli fa di que’ due maestri.
[1.1.12] Per mio parere non puossi se non approvare quel genio filosofico, da cui riconosciamo ridotta la critica a quella perfezione che giammai non ebbe presso gli antichi, né giudico ristretto fra termini de’ primi autori ogni pregio che l’umana invenzione accrescer puote all’arte poetica; ma non so lodare l’abuso che molti fanno di tale filosofia, investigando ogni fievol ragione per denigrare gli scrittori dell’antichità ed usurparsi sopra di loro mille vani vantaggi, siccome s’è veduto nella famosa quistione già dibattuta in Francia intorno gli antichi ed i moderni. Io per me, con la dovuta moderazione, uso non farò nel presente paragone che della accennata filosofica discussione e di quel destro discernimento che li Francesi chiamano Esprit de philosophie, non curando d’alcuna autorità che sia scompagnata dalla ragione: né lascerò di dire con indifferente ingenuità sì le virtù che li difetti d’ambedue le parti.
Articolo II.
[1.2.1] Dalla perfetta tragedia vuolsi ricercare il fine ottimo, né questo altro è propriamente che il purgar con piacevolezza lo sregolamento delle passioni per mezzo della compassione e del terrore. Questa purgazione, benché in varie guise s’esponga da molti interpreti ch’han cicalato sopra Aristotele, oramai dagli uomini dotti più non si dubita che non si possa estendere al regolamento d’ogni passione, perciocché per mezzo delle due predette commozioni si può correggere ogni difetto che soggiace a perniciose conseguenze.
[1.2.2] Ogni ragion vuole che nulla meglio vi conduca che rappresentanza di persona virtuosa, o non mal costumata, che per qualche umano trasporto di felicità cada in miseria. E purché l’uomo di gran virtù non sia esente da qualche difetto, io contro il parer d’Aristotele lo giudico secondo la cristiana legge idoneissimo fra tutti.
[1.2.3] Tutto ciò ch’io trovo opposto a tale principio parmi assai vano. Perché laddove Cornelio dice che tal purgazione gli sembra una bella idea che non abbia mai il suo effetto, reca per ragione l’esempio del suo Cid, che non gli pare atto a ciò fare, benché secondo lui contenga ogni richiesta condizione.
[1.2.4] Ma s’inganna egli nell’assegnare alla passione amorosa di Rodrigo e di Cimene la cagione della peripezia. Se a me lice anatomizzare tal favola meglio dell’autore, il trascorso che dà moto alla catastrofe è la vendetta che fa Rodrigo dell’affronto fatto al padre. Se l’azion sua ben s’esamina col dovere della morale, non colla massima del volgo, non lice farsi giustizia da se stessi; laonde falsamente dice Cimene: «Tu n’as fait le devoir que d’un homme de bien.»
Però giudicando più favorevolmente, dico che fassi qualche purgazione di tale reità, ma non piena, perché la favola termina lietamente e per qualche altra ragione che ne’ successivi capi si potrà raccogliere. Cimene non è rea di nulla per l’amore legittimo concepito verso Rodrigo: però non ha le condizioni di protagonista. La pietà ch’ella muove giova alla favola solamente come una conseguenza funesta dell’azione di Rodrigo.
[1.2.5] Cornelio cerca avvalorare la sua opinione dicendo che l’Edippo di Sofocle, il quale si dà per idea della perfezione, non purga punto: ma questo Francese s’inganna per non saper rinvenire in Edippo alcuna colpa e va quindi interpretando che Aristotele con la voce ἁμάρτεμα non abbia voluto prescrivere se non un errore involontario come falsamente ha creduto anche il nostro Castelvetro13, ed altri prima di lui, seguiti ultimamente anche dal Dacier nella sua traduzione. Il costoro sbaglio è nato, per mio avviso, dalla contrapposizione di queste parole del testo μὴ διὰ μοχθερίαν, ἀλλὰ δι᾽ ἁμαρτίαν μεγάλην
14: ma la voce μοχθερία non significa già la malizia d’un delitto, ma l’abito vizioso: perciocché secondo il sistema della morale aristotelica, un sol atto, ancorché pravo non rende l’uomo d’ordinario malvagio. La malvagità però come abituale s’oppone alla colpa accidentale, non ad un innocente errore.
[1.2.6] Comprova ad evidenza il mio sentimento l’uso che Aristotele fa della medesima dizione nella morale, massimamente nel libro 7 capo 1, ove diversificando l’incontinenza da μοχθερία, oppone questa seconda all’abito della virtù. La mente del greco scrittore appare anco dall’esempio di Tieste, cui mette insieme con Edippo. In vero siccome fu l’uno incestuoso, l’altro dalla tragedia stessa di Sofocle si vede non innocente: perciocché, se non conobbe il padre quando l’uccise, egli nondimeno fece un temerario risentimento d’un lieve affronto, trucidando quattro persone.
[1.2.7] Crede Cornelio esser di mestiere che ’l fallo sia nell’azione della tragedia, ma basta per l’intento che la peripezia si vegga derivare dal medesimo. Dacier per difender Sofocle ed insieme la sentenza dallui attribuita ad Aristotele, dice esser in Edippo la violenza e l’orgoglio e la temerità, ma per mostrarlo persona propria per lo fin tragico, lo figura inettissimo, rappresentandolo quasi abitualmente vizioso ed aggrava il poeta, invece di lodarlo. Ma per confermare il giovamento che quivi s’è proposto il poeta, piacemi avertire altresì che, secondo l’antica superstizione, insinuavasi l’orror delle vere colpe anche per le gravi conseguenze de’ misfatti involontari, perché si credeva che contaminassero; però l’oracolo presagì che la tranquillità di Tebe dipendeva dalla partenza d’Edippo. Con ciò rimane riprovata l’opinione dell’abate Tarasson15, che imputa a Sofocle l’indegna intenzione d’infundere unicamente la massima che non si potesse schifare un delitto a cui gli dei destinassero. Per le cose da me dette riescon vani tutti i ragionamenti che dirigonsi a levar il pregio di purgar le male affezioni alla tragica poesia.
[1.2.8] Egli non ha dubbio, a dir vero, che se ponderiamo le favole de’ greci autori se ne incontrano molte cui mancano le condizioni del principio sopra stabilito: nondimeno una gran parte di quelle, se non purgano per mezzo di persone cadute in calamità per qualche fallo scusabile, riguardano almeno di lontano un medesimo fine. Fra le sette tragedie d’Eschilo tre hanno il predetto attor tragico che immediatamente può produrre l’effetto proposto. Tale è la favola di Prometeo, ove egli si scorge punito d’una colpa compatibile da tutto il genere umano che fu da lui beneficato, ancorché non sia commendabile per avere un sol tenore di fortuna. Tale è pure quella de’ Persiani in cui Serse cade in calamità seguendo i consigli degli amici, persuadendosi, spinto da giovanile ardire, di soggiogar l’Ellesponto, come espone l’ombra di Dario. La tragedia delle Eumenidi rappresenta Oreste uccisore bensì d’Egisto e della madre Clitennestra, ma nondimeno degno di compatimento per li mali minacciatigli dall’oracolo di Lossia, se non vendicava la morte del padre, e per l’altre necessità a cui soggiaceva a cagione della madre stessa.
[1.2.9] A questo grado s’approssima anche l’Agamemnone, perciocché se ben egli muore innocente, s’espone non pertanto tal morte come un effetto del paterno delitto che gli dei vogliono castigato nella discendenza. La favola de’ Sette contro Tebe è priva di simili protagonisti, ma si scorge che il poeta non ha perduto di mira l’intento di purgare, accennando la desolazione di Tebe insieme con le calamità d’Eteocle e Polinice esser provenute per la colpa di Laio, che contro i divieti d’Apollo si congiunse con Giocasta, onde poi nacque Edippo.
[1.2.10] Euripide sembra essere stato men regolare nella invenzione delle sue favole. Fra queste non trovo che l’Oreste, l’Ippolito e Creusa nell’Ione che abbiano le qualità richieste nella persona tragica, a cui puossi aggiugner l’Andromaca, che pare essersi accresciuta le miserie per colpa d’avere poco piamente aderito a far le nozze col figliuolo d’Achille, uccisor del marito.
[1.2.11] Certi francesi, avidi d’accrescere la gloria alla Fedra di Racine, hanno ingiustamente censurato Euripide d’avere nell’Ippolito preso per soggetto un eroe perfetto, che muore calunniato indegnamente; ma non hanno questi avvertito che la sua morte è castigo del dispregio con cui egli parla di Venere.
[1.2.12] Varie tragedie del medesimo purgano solamente nella seconda maniera da me notata ed altre non sembrano avere altro fine che di mostrare le vicende della fortuna e le disgrazie a cui sono soggetti anche i più felici per instruire l’uditore a non insuperbirsi nella prosperità.
[1.2.13] Sofocle è stato osservatore delle qualità perfette della persona tragica nell’Edippo, nell’Aiace, nelle Trachinie e nella Antigona, ancorché qualche critico abbia creduto che questa ultima fosse persona affatto innocente, perché la sua disobbedienza verso a Creonte fu per motivo di religione. A tale accusa si ponno dare due risposte. Una si è che la religione non obbliga in certe cerimonie a costo della vita e l’altra che il poeta s’è regolato col costume de’ suoi tempi, in cui non erano sì sottilmente considerati i termini del dovere. Nell’Elettra pare che il fin principale del poeta sia mostrare qual pena sia dagli dei decretata all’impietà e renderne piacevole il castigo con la compassione degli oppressi: e di vero questa favola, siccome in più cose, così nell’argomento mal corrisponde all’altre e puossi accoppiare con i Coefori d’Eschilo. Il Filottete scostasi anche assai più dallo scopo della perfetta tragedia.
Articolo III.
[1.3.1] Gl’Italiani che si proposero di seguire la scorta de’ Greci s’avvisarono per lo più dover imitare le favole più regolari. La Sofonisba del Trissino (per cominciar dalla prima che comparve in nostra lingua) contiene l’azione d’una reina generosa che per iscansare la schiavitù, si risolve dopo qualche resistenza di rinunziare al maritaggio di Siface, già fatto prigione, e sposar Massinissa, a cui prima era stata promessa. Ella però commette errore costretta dalla necessità che non lasciavale altro scampo: quindi giunge in conseguenza del medesimo all’estremo di darsi morte per quella via onde sperava la salvezza.
[1.3.2] La Rosmonda del Rucellai, che poco appresso venne alla luce, rappresenta una fanciulla reale che per dar sepoltura al corpo del padre ha l’impudenza di trattenersi tre giorni e più nel campo della battaglia; e però riman presa e sforzata a bere nel cranio paterno. Lilio Gregorio Giraldi ne’ dialoghi de’ poeti dice aver il Rucellai voluto in essa imitare l’Ecuba d’Euripide. Ma la favola del poeta greco è molto meno ordinata per lo proprio fine, che l’italiana. L’Oreste del medesimo tuttoché di lieto fine non lascia di far comparire in guisa compatibile, ch’egli vien punito per l’uccisione degli adulteri.
[1.3.3] Fra le tragedie di Gian Battista Giraldi non pur l’Orbecche ha simili qualità, ma parimenti la Didone, l’Altile i figliuoli di Nicio negli Antivalomeni e la Cleopatra: tali son pure la Canace dello Speroni, l’Orazio di Pietro Aretino, la Ghismonda del Razzi, il Torrismondo del Tasso, l’Elisa del Closio e nelle favole di Pomponio Torelli il Tancredi per mio avviso dovrebbe anteporsi alla Merope del medesimo, benché questa sia preposta a tutte l’altre dal Marchese Maffei, nel suo Teatro Italiano, perciocché quando pur si conceda che essa sia più dell’altre atta ad esser ricevuta con applauso in teatro, non merita ella però precedenza come favola doppia per la bellezza (come si dice) dell’argomento, la qual si considera dalla attività di purgare principalmente. Il Nino nella Semiramide del Manfredi, le Gemelle Capuane del Cebà, il Solimano del Bonarelli e l’Aristodemo del Dottori sono tutte della medesima idoneità.
[1.3.4] Il Gravina a’ nostri giorni, affettando d’introdurre nel teatro d’Italia l’idea eccellente della greca tragedia, ha preteso che gli altri nostri poeti non abbiano che una larva della medesima e confundendo ciò che le greche favole han di buono con ciò che hanno d’imperfetto e che sente i principi della poesia, ha senza discernimento ammesso nelle sue ogni soggetto. Ma laddove intende di liberar la poesia tragica dalla schiavitù di molte regole e renderle l’antica libertà «con volo generoso e libero», si mostra schiavo imitatore di maggior loro imperfezioni. Il Papiniano suo è nondimeno ottimo autore, che purga dalla imprudenza di non saper far uso della dissimulazione.
[1.3.5] Non merita gran pregio per la scelta de’ successi principali neppure il Teatro Italiano di Pier Jacopo Martelli, il quale non par che guari abbia curato le favole di questo primo ordine. Tal proprietà fu dall’autore attribuita al Procolo, ma senza sufficiente raggione. Il Cicerone ed i Taimingi paiono meglio conformi a tale idea ed il Quinto Fabio, benché sia di fine lieto, ha per altro soggetto assai regolare.
[1.3.6] Fra molte altre moderne tragedie che abbiamo non mancano più saggi d’una ottima elezion di soggetti. Per ciò son degni di loda Beatrice nel Corradino del Carracci, la Polissena d’Annibale Marchesi, l’Ulisse del Lazzarini, la Didone del Zanotti, la Temisto del Salìo, l’Achille del Montanari. Non voglio già quindi conchiudere che le mentovate tragedie sieno però perfette; esse hanno i loro difetti ed havvene alcune che toltone la qualità del protagonista sono debolissime ora nella condotta, or nella forza degli affetti, or nella proprietà de’ costumi, or nella gravità delle sentenze. Laonde è facile avvedersi esser non senza ragione sopra molte delle precedenti applaudita la Merope del Marchese Maffei.
Articolo IV.
[1.4.1] Ma perciocché mio avviso è di parlare in questo capo della sola dignità più sustanziale della favola tragica, paragonando in ciò gl’Italiani con li Francesi, non posso astenermi d’asserire esser in tal parte inferiori questi secondi. Cornelio non sa citare fra le sue tragedie per ottimi esempli di tragiche persone che Rodrigo del suo Cid e Placido della sua Teodora, ma se ben s’esamina ciascuno di questi due, si ritrovano in essi de’ difetti che gli allontanano dalla decantata perfezione.
[1.4.2] La calamità di Rodrigo, se si considera in riguardo al pericolo della sua condannagione, è più propria per eccitare timore della medesima e dell’esito del duello, che compassione: onde trattien l’uditore quasi nella sola ansietà di sapere il suo destino rispettivamente al rammarico ch’egli prova d’avere offeso l’amata Cimene; egli si merita bensì qualche pietà, ma non sì grande, né si comune presso tutti gli ascoltatore e finalmente quella poca ch’egli è valevole a provocare, svanisce quasi in un punto per l’allegrezza finale della tragedia.
[1.4.3] Placido reca in fine qualche purgativo timore per l’infelice trasporto che lo riduce a ferir se stesso mortalmente, ma la compassione ch’egli muove è menomissima, perché trova l’uditore occupato da quella di Teodora e di Didimo assai più degni della medesima. Inoltre il rimprovero, che egli fa nelle ultime parole al padre addolorato, hanno certa asprezza ed indecenza che pregiudicano a quella tenerezza che potrebbe cagionare. Di più dico, che l’aspetto della sua disGrazia è sì momentaneo e sì privo di quella parte che chiamasi da greci πάθος, che la sua morte pare così accessoria alla tragedia.
[1.4.4] L’Orazio avrebbe soggetto non indegno, se questo poeta non lo trattasse talmente che, scordato di tutti i vantaggi che poteva trarre dal suo protagonista, fa tutto lo sforzo nel muovere l’uditore a compassion di Sabina e di Cornelia: però li primi atti riescono passionatissimi e gli ultimi freddi ed inutili. Con giudizio assai migliore adoperossi il medesimo tema da Pietro Aretino nella sua Orazia, ove se non si scorge la vivacità de’ caratteri, la dilicatezza e la forza delle episodiche passioni, e certo artifizio nella condotta, come presso Cornelio, non ha però l’autore perduto di mira il fin principale e procaccia sorprendere l’uditore utilmente sì colla compassione del medesimo, come col timore.
[1.4.5] Le due persone più proprie che Pietro Cornelio ha preso a rappresentare sono la Sofonisba e l’Edippo, ma ne ha fatto sì mal uso che n’ha formato due delle sue inferiori tragedie. L’azione tratta dall’Edippo di Sofocle gli è sembrata secca: però volendola nobilitare havvi introdotto l’episodio di Dircea e di Teseo, che non solo frastornano l’interesse primario, ma lo fanno diventare accidentale, oltre di che s’occupa talmente Edippo stesso ne’ loro affari che sembra scordarsi della sua disGrazia quando in effetto dovrebbe mostrare trasporti degni d’una disperazione che induce a cavarsi gli occhi.
[1.4.6] La Sofonisba, che deve meritarsi la compassione della gente, si comincia nelle prime scene a rendere odiosa da Cornelio col far ch’ella posponga una vantaggiosa pace ad una battaglia pericolosa per lo marito Siface, perciocché aveva gelosia che Massinissa col benefizio della pace sposasse una sua rivale. Confermasi dappoi l’odiosità con l’asprezza che usa al marito, che vien fatto schiavo per aver voluto compiacerla. Laonde alfine e per la poca disposizione che trova negli spettatori o per la maniera con cui muore quasi trionfando non reca veruna pietà. Non così fece il Trissino nostro, nel cui dramma non solamente si rende ella in ogni incontro aggradita al popolo, ma non abbandona il marito che con ribrezzo, vinta dalla necessità.
[1.4.7] Nelle altre sue tragedie il medesimo Francese si è discostato anche più dalla idea della perfezione, non essendosi proposto per iscopo che o d’instruire nella politica, che egli dichiara esser l’anima del suo Sertorio, o di mostrare esempli di gran coraggio, o di pingere alcun carattere straordinario, dando talora espressamente bando ad ogni tragica tenerezza, e finalmente in ogni luogo di dileticare l’orecchie e gli animi delle dame francesi con amorosi trattenimenti.
[1.4.8] Racine, cui dassi il vanto d’esser giunto alla maggiore perfezione della tragica poesia, non ha per mio avviso altri argomenti che si possano ridurre alle leggi della perfetta tragedia, se non quello della sua Fedra (con la quale la Fedra italiana di Francesco Bozza non può stare in paragone) ed al più quello del Britannico, a cui soglio far più giustizia che non gli abbia fatto l’abate Tarasson, che per altro esalta i poeti della sua nazione. Pare allui Britannico innocente, ma se quella tragedia meglio s’esamina, si scorge che non mancavano a Britannico le idee di procacciarsi anche criminalmente le fortune interdettegli dal destino, oltre la molta imprudenza cagionata non meno dalla passione amorosa che dalla età; laonde il timore che la sua morte commove, rendesi correttivo.
[1.4.9] Nella Ifigenia, che contiene la raccolta di tutti i miglior passi di quella d’Euripide, l’autore ha posto l’arte sua principalmente in trovar modo di salvar la vita a quella donzella per contentare gli uditori, e pretende muovere un util terrore non disgiunto dalla compassione per mezzo di Erifile, che muore in sua vece: ma senza effetto ciò spera, perciocché se merita questa rivale qualche castigo, non perisce però che in conseguenza del primo oracolo di Calcante, che l’aveva a ciò condannata avanti ogni sua colpa, non essendo il secondo oracolo che la dichiarazione del primo. Inoltre non puote ella traer pietà trovando gli animi disposti a favore della figliuola d’Agamennone, i quali non possono se non odiare chi s’oppone, come Erifile, alla sua liberazione e godere di tutto ciò che la produce.
[1.4.10] Alessandro pare nella tragedia di tal nome piuttosto un cavaliere errante d’un romanzo che protagonista d’una tragedia, non consistendo questa favola che nella impresa d’acquistare il pacifico possesso dell’amata Cleofila, in cui sforzato quell’eroe a combattere con Poro mostra d’amar la vittoria principalmente per il possesso di lei, sortendo dal conflitto per ire a visitarla prima di sapere il fin di Poro.
[1.4.11] La Tebaide scuopre la gioventù del poeta. L’Andromaca pare che dovesse anzi intitolarsi l’Oreste, perché questi sembra l’attore primario, cominciando e terminando l’azione da cui dipendono le vicende di Pirro, d’Ermione e d’Andromaca parimenti; senza che non recano alcun timore purgante Andromaca ed il figliuolo Astianatte: poiché sono del tutto innocenti promuovon solo una pietà passeggera che per l’esito felice tosto svanisce.
[1.4.12] La Berenice, benché sia alquanto compassionevole, ha soggetto poco atto per recare un giovevol terrore, perciocché la sua calamità non è punto dallei merita con veruna colpa; né giudico potersi replicare che la sua disGrazia corregga la violenza della passione amorosa, perché sarebbe ridevole il creder che alcuno s’avvisi per essa di non innamorarsi, o di liberarsi da tale passione.
[1.4.13] All’incontro la tragedia di Mitridate eccita spavento, ma muove poca compassione, sì perché quel re appare di costume alquanto crudele, come perché la commozione che fa Monima contrasta a quella che Mitridate dovrebbe acquistarsi. Aggiungo che l’animosità e la costanza del medesimo sono poco atte a produrre tal passione, avvegnaché per muovere altrui sia d’uopo aver prima in se stesso la commozione giusta ciò che dice Orazio:
Si vis me flere dolendum estPrimum ipsi tibi16.
Quindi è che generalmente debbonsi giudicare poco propri per rappresentar la prima persona della perfetta tragedia simili soggetti, ancorché possano fare qualche buon effetto per la magnanimità.
[1.4.14] Il Baiazetto è fondato sopra azione poco compassionevole, perciocché egli stesso spontaneamente incontra una morte che potrebbe sfuggire. Qualcuno ha censurato Racine, perocché Baiazetto rifiuta il trono e la vita per lo solo eccesso d’amore, ma tale censura è di niun valore, perché si suppone che l’eroe tragico debba essere perfetto esemplare di virtù, né possa perciò sagrificare la gloria d’un impero ad una molle passione. L’amore ch’egli ha perfezionerebbe la tragedia se l’esito infelice apparisse un castigo della sua tenerezza, invece d’essere una pena non solo ingiustamente ordinata dalla tirannia del fratello, ma con cieca ferocia dallui stesso voluta. L’Atalia, benché abbia più dell’altre il gusto della antichità sì per la semplicità che per l’ordine, se si considera secondo il fine primario non reca niun utile terrore, veggendosi in pericolo d’oppressione un fanciullo innocente; contuttociò, perché insinua mirabilmente la confidenza verso Dio, ho sempre avuto per tal favola una particolare estimazione.
[1.4.15] Io farei cosa troppo vana se qui fare volessi particolare menzione delle tragedie di Rotrou, di Mairet, di Tomaso Cornelio, di Pradon, di Crebillon, di monsieur de La Fosse, di Duché, e degli altri più moderni, i quali tutti sono inferiori a due predetti poeti. Havvi bensì tra dessi alcuno che ha mostrato di conoscere e di pregiare il valore delle tragedie del primo grado, ma niuno è stato provveduto de’ mezzi propri per arrivarvi. Di molte lor favole occorrerammi di ragionare nel decorso di questo paragone.
[1.4.16] Io chiuderò dunque il presente capo con dire che la rappresentanza de’ tragici successi presso gl’Italiani ha della conformità maggiore col genere perfetto della tragica poesia e però meglio acconcia a produrre quel piacere e quell’utile che son di lei più propri. Né contuttocciò ricuso a Francesi la loda che meritano; anzi, secondo l’opportunità, mostrerò ne’ capi seguenti senza parzialità ch’essi hanno in certe cose della particolare benemeranza, e nel proposito di cui trattiamo in questo, conviene altresì dire che hanno non di rado una lodevole precauzione per rendere amabili appresso gli uditori que’ personaggi con cui intendono talor di commuovere, celando loro il più che ponno quelle parti che offendono la dilicatezza de’ nostri tempi, ancorché a tale prerogativa non corrispondano gli altri mezzi della compassione, e questa istessa sia più fiate praticata con troppa libertà d’alterare le storie.
[1.4.17] Si veggano oltre ciò presso Pietro Cornelio e Racine de’ tratti mirabili ove si rappresentano i caratteri de’ nostri affetti sì vivamente, che sarebbe difficile rinvenirne di simili nelle tragedie italiane. Ma sovente i più bei passi sono un puro ornamento di persone subalterne, o superfluo o talor anche nocivo allo scopo primiero. Si potrebbe dire ancora che li Francesi sono inventori, o piuttosto riformatori d’una spezie di poema che meglio chiamerebbesi dramma eroico, che tragedia.
[1.4.18] Non vo’ tralasciare che ad una censura parmi all’incontro che soggiacciano non poche tragedie italiane per avere argomento finto, ancorché peraltro idoneo, dalla qual pratica si son guardati i Francesi. Io non saprei almeno ben difenderne alcune, in cui s’attribuiscono a persone ideali quegli avvenimenti straordinari per cui si son resi celebri fino a’ nostri giorni gli uomini più sepolti nelle tenebre dell’antichità. Negli uditori di mezzana cognizione poco o niun colpo possono fare tali casi, perciocché essendo di sua natura poco credibili se non sono appoggiati ad alcuna memoria, lo lasciano almeno in dubbio della lor verità, però credo che solamente ne’ più rozzi possono produrre il loro effetto.
[1.4.19] Li poeti greci non eran soliti a prendersi tal libertà se non in certe tragedie di lieta riconoscenza, come è probabile che fosse anche il Fior d’Agatone. Fra le tragedie della natura orribile abbiamo la sola Medea d’Euripide, che licenziosamente appar finta non pur contro la naturale credibilità, ma contro la storia stessa, secondo Eliano17, il quale scrisse che non dallei, ma da’ Corintii furono uccisi i suoi figliuoli, ma un pari fallo sarebbe assai men perdonabile ai tempi nostri che a quelli de’ Greci, i quali avevano minori comodi d’apprendere l’istoriche notizie. Ma passiamo ad altre considerazioni.
Capo II.
Osservazioni intorno le circostanze che rendono efficaci le peripezie.
Articolo I.
[2.1.1] Per lo precedente capo si può comprendere che le tragedie de’ Francesi sono per lo più difettose ora per poca idoneità alle persone principali, ora per l’incapacità degli argomenti, ora per l’improprietà de’ fini proposti da que’ poeti; con tutto ciò per formare una intera comparazione della tragica teoria rimane ad esaminarsi particolarmente il valore delle peripezie più regolarmente da essi praticate. Tre cose concorrono a far sì che ’l rivolgimento della tragedia sia bello e cagioni efficacemente la compassione e lo spavento, cioè maraviglia, riconoscenza e passione.
[2.1.2] La maraviglia propria della tragica poesia consiste nell’orribilità derivata da mezzi inaspettati, imperocché ’l timore e la pietà ricevono maggiore aumento qualor c’incontra vedere de’ casi orribili per quelle vie onde meno si tema di pericolo, sì perché paiono meno evitabili i mali più comuni a fronte degli straordinari, come perché vie più si commove la nostra umanità mentre apprendiamo dalla novità dell’altrui disavventure de’ nuovi modi che ci agevolan maggiormente que’ patimenti a cui soggiaciamo. A che si puote aggiugnere che li mali divengon più considerabili quando vengono d’onde s’attende del bene; per la qual ragione piacquero agli antichi quelli che occorrono tra congiunti di sangue, o d’amicizia.
[2.1.3] Però quantunque ogni sorta di maraviglia sia in ciascun poema generalmente lodevole, perciocché reca seco diletto grande, la tragedia non richiede di sua natura se non questa come sua propria, potendo sussistere facilmente senz’altra. Laddove i poemi epici sarebbon mancanti di cosa essenziale, se fossero privi di quella che nasce dalle altre cose.
[2.1.4] Li poeti francesi pare che non abbian fatto gran conto di questa maraviglia particolare della tragica poesia. Pietro Cornelio ha procurato in più drammi di dilettare solamente con esemplari eroici, costituendo l’essenza del diletto tragico in una ammirazione accessoria. Molti più considerando, per così dire, l’arricchimento del corpo che la virtù dell’anima, si sono avvisati ch’egli abbia in cotal guisa perfezionato la tragedia.
[2.1.5] Però ricercano assai comunemente i Francesi, come cosa necessaria alla poesia tragica gli eroi egualmente grandi che nell’epopeia, nel che parmi che s’ingannino; conciossiaché oltre il non aggiungere essenziale benefizio al fine proprio della perfetta tragedia, divertono talora l’uditore dalle passioni e fanno perdere l’efficacia alla favola, oltre qualche altra sconvenevolezza che toccherò parlando de’ costumi.
[2.1.6] Per avvedersi di ciò basta osservare quanto la Sofonisba di Pietro Cornelio, che ha per altro argomento assai tragico, perda per cagione dell’eroismo in paragone di quella del Trissino. Non credo però buona induzione quella dell’abate Tarasson, il quale dice18 che la tragedia può prendere dall’epopeia la maraviglia, siccome l’epopeia piglia la compassione ed il terrore dalla tragedia, imperciocché il poema epico è rappresentazione più generale della vita umana, laonde non solamente può senza nocumento, ma deve contenere l’imitazione d’ogni affetto; il che non accade nella tragedia, poesia più limitata e dilicatissima nel ricevere pregiudizio da’ forastieri accrescimenti.
[2.1.7] Alcuni per errore hanno creduto che la spezie delle tragedie doppie, ove i cattivi muoiono ed i buoni si liberan dalle miserie, non abbia altro fine che d’instruire gli uomini con l’esempio: quindi è che approvano in esse somiglianti introduzioni. Ma poco mostrano di conoscere la natura della tragica poesia, la quale per la finale letizia perde bensì gran parte della sua forza, ma non cangia essenza. Che se s’ammise sotto il nome della tragedia ogni sorta di fatti illustri indistintamente, non aveva essa ricevuta ancora dalle regole la spezial forma.
[2.1.8] Per cagione delle predette massime è succeduto che hanno i Francesi in particolar guisa praticato una qualità di drammi differenti dalle tragedie, la quale abbia per fine di giovare con l’esempio delle grandi virtù; il che, come loro è venuto fatto qualche fiata con della lode, così pure che già due secoli fosse proposto dal nostro Castelvetro19.
[2.1.9] Nelle tragedie italiane non s’è trascurata la meraviglia propria di tale poesia. Chi scorreralle s’avedrà che non pur quelle che da me furono nel primo capo nominate l’hanno alle loro peripezie d’ordinario congiunta, ma le favole doppie ancora. Fra le quali ci presta assai bell’esempio la Merope del marchese Maffei.
Articolo II.
[2.2.1] L’uso della riconoscenza è pure assai comune nelle nostre poesie tragiche: all’incontro da’ Francesi ella viene creduta incomoda e però da loro molto trasandasi, laonde ci convien vedere in secondo luogo il valore anche di questa circostanza per determinare se sia più pregevole il praticarla, o l’ometterla. La ragione che adduce Pietro Cornelio in dispregio della riconoscenza si è che gl’Italiani perdono sovente per essa occasioni di sentimenti patetici, i quali avrebbon bontà più considerabile e che la compassione, svegliata da chi commette opera indegna contro persone amate e non conosciute, ha poca estenzione nell’atto del riconoscerle, perciocché avvien ciò solamente nella catastrofe.
[2.2.2] Io rifletto nonpertanto che la riconoscenza non lascia d’accrescere la pietà finale, a cui principalmente dee dirigersi l’arte; e supposto che fra le tragedie di Pietro Cornelio più commuovessero, come egli dice, Cimene ed Antioco, che Edippo, ciò potrebbe avvenire solamente per le imperfezioni degli episodi con cui egli ha tolto a quella favola la forza che ha presso il greco poeta. Il differire fino alla catastrofe la compassione non pregiudica punto, anzi accresce la virtù della medesima, conciossiaché penetrando ella come in un colpo nell’uditore lo lascia più sorpreso, come appare nel Solimano del Bonarelli, ove appunto ella nasce dalla riconoscenza che fa quegli del suo Mustafa e la reina d’aver cagionato la morte del figliuolo, mentre procurava di salvarlo.
[2.2.3] I combattimenti delle passioni che sono nel decorso delle favole e vengono sopra tutto approvati da Cornelio lasciano languido il fine che dovrebbe essere il più forte, perocché gli affetti mossi dalla pugna del dovere contro l’inclinazione della natura, o di questa contro le passioni, ove s’opera tra persone note, invece di crescere vanno scemando, perché non si possono per tanto tempo sostenere.
[2.2.4] Oltre ciò non sono talora que’ propri che ricerca la tragedia, come si vede nel Cinna, il quale sentendo il rimorso del tradimento ed il debito della gratitudine verso Ottaviano, viene combattuto dall’amore d’Emilia e della fede a lei data di vendicarla. Un tale contrasto dà bensì piacere per la pittura della naturale agitazione che prova Cinna, ma non si può quindi nascere il frutto della compassione richiesta, perciocché qual pietà merita un traditore che mette in bilancia il debito che ha verso il suo principe con quello che ha verso l’amata? Confesso che non so comprendere come da Cornelio si preponga la rappresentanza di sì torbide irresoluzioni a’ vantaggi che s’hanno dalla riconoscenza per ottenere il fine pocanzi espresso.
[2.2.5] Io non intendo però di rendere necessaria l’ignoranza delle persone e di non lasciar luogo agli affetti di quelli che non l’hanno, perché ciò farebbe riprovare un pregio nobile delle favole tragiche, massimamente quando essi sono adatti alla misericordia, e ristringerle ad una noiosa uniformità, per la quale la lettura delle italiane tragedie riesce talor men grata.
[2.2.6] Ma giudico assai biasimevole l’opinione di coloro i quali credono che la riconoscenza non solamente sia inutile, ma privi ancora la tragedia della sua maggiore virtù. Li combattimenti interni delle persone senza ignoranza operanti sono per mio parere lodevoli massimamente nelle favole doppie, o di lieto fine, imperocché non avendo di mestieri di continuare sino alla fine, rimangono nella sua vigorosità sin che dura il lor corso, e l’ascoltatore riceve diletto e nella loro durevolezza e nella lor cessazione. Ha degnamente luogo il riconoscimento in ogni sorta di favole: esso dove dall’uditore s’attende produce una certa impazienza dell’esito che maggiormente lo rapisce; esso inoltre abilita quantità di persone a cadere in cose orribili senza incorrere nelle odiosità delle gran colpe, laonde le tragedie senza esser piene di scelleratezze ponno cagionare quell’orrore che loro conviene, né fa lor bisogno di rappresentar punito un delitto con un altro maggiore che impedisca il frutto del castigo; ma sopra tutto esso è pregevole perché reca seco negli avvenimenti una rarità per cui appaion più maravigliosi. Tutte queste riflessioni muovonmi a disapprovare la massima più comune de’ Francesi ed a pregiar quella degli Italiani, benché vorrei che questi avessero assai più curato anche gli affetti compassionevoli che nascono tra chi nulla ignora; l’uso de’ quali avrebbe loro recato più varietà, ed una maggiore imitazione della nostra natura, siccome è stato un gran mezzo a Francesi per acquistarsi dell’applauso.
Articolo III.
[2.3.1] Tre considerazioni occorre di fare intorno alla passione, una delle quali riguarda la qualità di ciò che si debbe patire, l’altra il preparamento per cui si rende efficace la compassione verso coloro che cadono in miseria, e la terza gli accompagnamenti che richiede il lor patimento per produrre perfettamente negli ascoltatori il suo effetto.
[2.3.2] Non dirò circa la prima se non che non veggo ne’ Francesi l’osservanza inalterabile che hanno gl’Italiani di cercare nelle morti, nelle perdite degli stati, o in altre gravi disavventure, le commozioni già statuite; ma oltre che in più drammi ove si trovano di tali disastri manca la persona propria per le medesime, in qualche altra avvengono disgrazie di sì poco conto che non meritano il nome di tragiche. L’arte di preparare il favore del popolo a chi dee patire pare che sia massima de’ Francesi quando discorrono di tragici precetti, ma trovo nell’esecuzione assai negletta tal regola. Chi crederebbe che Tommaso Cornelio avesse voluto procacciare ad Achille la compassione che dovevasi alla sua morte, mentre in tutta quella favola ad altro pare che non attenda se non a renderlo odioso con dare risalto ora alla sua perfidia verso Briseida, ora alla sua violenza contro Polissena. Migliore avvedutezza ebbe in questa parte il Montanari nella tragedia del medesimo argomento.
[2.3.3] Di simili inavvertenze si hanno più saggi ne’ poeti di Francia, siccome pure d’altre meno considerabili bensì, ma che scemano in qualche parte la pietà. Non posso astenermi di riprovare monsieur de La Fosse, il quale si vanta d’avere nella sua Polissena cambiato le tradizioni della fama, fingendo che Pirro la sveni involontariamente. Egli credendo di migliorare in tal guisa la favola, halle tolto parte della sua efficacia, perciocché sì per Polissena che per Pirro a quanti maggiori affetti dava luogo una sì lugubre azione che un colpo accidentale?
[2.3.4] Certo il nostro Annibale Marchesi ha mostrato più discernimento rappresentando in simile tragedia Pirro, che per venerazione de’ numi e per adempimento del giurato impegno si dispone a trucidare l’amata con animo di non sopravvivere; con che s’aggiugne nuova pena alla calamità di Polissena stessa. Stabilisce quel poeta francese la lode della sua invenzione sulla proposizione d’un simil modo inventato da Pietro Cornelio per iscolpare il parricidio d’Oreste, ma non v’ha parità tra l’una e l’altra azione. In quella d’Oreste è d’uopo fare tal cangiamento per non irritare con l’empietà l’uditore contro Elettra e contro Oreste, ma la volontaria uccisione di Polissena invece di frastornare la compassione a chi la merita l’accresce maggiormente, posciaché non per veruna sceleratezza, ma per rassegnazione virtuosa viene da Pirro commessa.
Articolo IV.
[2.4.1] Nel proposito degli accompagnamenti accennati ritrovo primieramente in più nostri poeti una attenzione particolare di tessere li accidenti in maniera che la forza degli affetti finali non sia dissipata dalla diversione degli altri, mostrando essi avere avvertito che per la debolezza della nostra natura un sentimento viene infievolito dall’altro. Hassi un chiaro indizio di ciò nel vedere eschiuse in varie favole le persone crudeli, o di costume per altro odioso, che svegliano l’indignazione nel popolo, perocché, occupato esso da tale irritamento, sente assai meno il benefizio del terrore e della compassione. Di tal sorta sono la Sofonisba, l’Oreste, il Solimano, l’Aristodemo, l’Ulisse sopra mentovate e molte altre che tralascio.
[2.4.2] Questa cautela non è però senza esempli contrari, come può vedersi nell’Orbecche del Giraldi, nella Rosmonda del Rucellai ed in simili ove spicca grandissima crudeltà. Ma gli Francesi, se ben m’avviso, sono lontani da tale avvertenza e se hanno delle tragedie libere dalla macchia pare che ciò sia piuttosto effetto casuale dell’argomento che opera dell’arte. Pietro Cornelio fra più difetti che scuopre nel suo proprio teatro, non s’attribuisce mai questo: anzi egli non dubita di preporre a tutte le sue favole la Rodoguna, ove più che in altre esso è notabile. L’autore si persuade aver ritrovato de’ mezzi nuovi di rendere terribile e compassionevole la tragedia che sieno per la forza e per lo frutto eguali a migliori praticati dagli antichi, rappresentando persone empissime che perseguitino l’ottime, purché queste si salvino; però porta egli quasi in trionfo la persecuzione che fa Cleopatra de’ suoi figliuoli, dicendo che la pietà delle miserie loro non rimane soverchiata dalla avversione che si concepisce contro di lei, perché si spera la loro salvezza.
[2.4.3] Ma questa difesa è confutata dal fatto e dalla ragione. Dal fatto, perciocché Seleuco, uno de’ figliuoli, muore trucidato per sua mano e con fierezza vie più di quella di Medea intollerabile, apparendo ella quindi sulla scena a compiacersi tranquillamente sì del suo misfatto che d’un altro simile che spera di compire; dalla ragione, perché lo sperare la liberazione de’ buoni, oltreché sospende quella intiera pietà che s’avrebbe loro nel compimento della sciagura, nulla non impedisce il comprendere la crudeltà di chi procura la loro calamità, né scema però punto l’irritamento della indignazione.
[2.4.4] Una compiacenza simile a quella di Cornelio mostra anche Racine per avere introdotto nella sua Ifigenia una rivale che porta il medesimo nome e muore in luogo di lei, quantunque lo spirito di costei, pieno d’un odio indegno per cui perseguita una sua innocente benefattrice con vano pretesto di vendetta, occupando lo spettatore nella avversione della sua indegnità, lo diverte dal pietoso sentimento che costituisce appresso Euripide il massimo diletto.
[2.4.5] Fra gli accompagnamenti della passione sono efficacissimi gli affetti delle persone subalterne per commuovere chi ascolta, perciocché li nostri sensi a guisa di corde unisone corrispondono vicendevolmente al provocamento del primo. Però son degni di loda li primi poeti che attribuirono principalmente al coro l’uffizio del compatire. Questa prerogativa non manca alle favole italiane, ove d’ordinario appare la cura d’interessare sì li cori di quelle che gli hanno continui, come gli nunzi e gli altri personaggi nelle disavventure de’ miseri.
[2.4.6] Li Francesi son poco osservatori di ciò, laonde egli incontra non rado di vedere terminar le lor favole con un secco avviso del funesto avvenimento. Mi sovviene che nella Teodora di Pietro Cornelio, invece d’addursi un messaggero appassionato che descriva il martirio di quella santa vergine e di Didimo, e di prepararsi alcuna persona che l’oda con passione, si introduce Stefania, che in due parole si spedisce di questo punto e distende la sua narrazione nell’esprimere la gioia che aveva Marcella della sua vendetta, e quindi la morte di costei disperata.
[2.4.7] Nel Polieuto egli s’è curato sì poco di questi mezzi commotivi che, invece di provvedere chi doveva raccontare e sentire il successo della sua morte, s’è trovato in necessità d’ometterla per non aver modo di rappresentarla convenientemente al bisogno della tragedia, però non se ne ha che un argomento dalla conversione di Paolina.
[2.4.8] Una cagione per cui non cale molto a’ Francesi d’accompagnare la calamità con espressioni di certi flebili sentimenti è stato il timore d’incorrere in qualche languidezza, di cui sono stati censurati li poeti greci, ma parmi che abbiano mostrato poco discernimento fuggendo egualmente que’ dogliosi trattenimenti che accrescono il moto delle passioni, come debbonsi schifare le declamazioni superflue che le lasciano illanguidire quando la commozione è giunta al colmo. Nell’Apologia di Sofocle da me scritta anni sono, accenno il discapito che anche in questa parte ha l’Edippo di monsieur di Voltaire a paragone di quello del poeta greco.
Capo III.
Dell’uso che suol farsi degli Episodi.
Articolo I;
[3.1.1] Ancorché quel diletto che genera la varietà degli avvenimenti fosse dagli antichi maestri ricercato nel poema epico, nondimeno la copia e la lunghezza degli episodi giudicaronsi poco proprie per la tragedia. Aristotele non adduce di ciò ragione se non l’esempio della Odissea, che dice essere cresciuta sopra la mole d’una tragedia per la sola estenzione degli episodi. Altri han detto appresso che la brevità del tempo permesso alle tragiche rappresentanze non è capace come quello dell’epopea, ma ciò ch’io credo doversi massimamente considerare è che il fine della vera tragedia non è di dilettare a guisa della epopeia colla rassomiglianza di molte cose, ma colla compassione. E questo piacere si forma principalmente, secondo il mio sentimento, da quell’interesse che per la conformità della natura s’assume lo spettatore nelle peripezie de’ miseri, che ché si dica sofisticamente dal Castelvetro, il quale vuole che nasca obliquamente dal riconoscere che la tristezza insinuata dalla compassione è un atto giusto, e però commotivo di compiacenza20.
[3.1.2] Egli è vero che li poeti greci non s’astennero per tale riflesso dalle episodiche prolissità, ma perché furono amanti della semplicità, non pur nelle favole tragiche ma nelle comiche ancora, siccome si raccoglie dalle reliquie che s’hanno di Menandro. Da’ Latini cominciossi a traer la commedia dalla prisca ristrettezza, però fu degnamente lodato Terenzio dal Donato per essersi in ciò dipartito dal costume greco ed avere arricchito gli argomenti suoi con la composizione de’ negozii; il che non fu però praticato da latini tragici, che dovettero per mio avviso avvedersi che, siccome la nuova commedia — la quale ha per iscopo di piacere con lo scherno de’ costumi ridevoli e con gli esiti felici de’ privati affari — riceve giovamento, anziché pregiudizio, da digressioni che rendono gli argomenti più composti, così la tragedia non può se non perdere della sua forza, distraendo per l’uditore con la moltiplicità degli interessi da quella passione la cui maggior violenza è l’effetto della tragica perfezione.
[3.1.3] Gl’Italiani ch’hanno preso per iscopo le antiche tragedie non sono incorsi comunemente nella censura d’avere con troppo ammassamento di successi oppressa la virtù dell’azion principale: le lor favole sono per lo più semplici e, nelle più composte, quali potrebbon dirsi il Solimano del Bonarelli e l’Aristodemo del Dottori, non v’ha di sì notabili accidenti che nuocano al soggetto.
[3.1.4] Contuttocciò molti autori nella stessa loro semplicità non sono esenti dalla sconvenevolezza di certi discorsi, i quali non son congiunti all’azione né per necessità né per verosimiglianza ed oltre l’essere sconvenevoli all’occasione sono anche per altro noiosi. In questo numero puossi mettere la storia che il Trissino fa che raccontisi da Sofonisba ad Erminia sin dall’origine di Cartagine; la narrazione che leggesi nella prima scena dell’Oreste del Rucellai toccante le cose accadutegli sin dalla guerra di Troia; la descrizione della tempesta di mare che vien fatta dal Torrismondo del Tasso nell’appassionato racconto delle sue disavventure e molti altri interponimenti non pur superflui ma disadatti che si veggono sparsi in gran parte delle nostre antiche tragedie, il tedio de’ quali appare che fosse sentito anche dal Marchese Maffei che sovente accennò nel suo Teatro Italiano de’ passi che debbonsi troncare.
[3.1.5] Né dissimulerò che in più favole riesconmi ancora disaggradevoli certi intervenimenti staccati, per cui manca loro quella perfetta unione che debbe avere un corpo con le sue membra. Che se si riflette non potere la poesia drammatica sortire intieramente il suo effetto se non si conformano insieme l’arte di scriverla e l’uso di rappresentarla, converrà dire che siccome a nostri tempi non è praticabile (se non con una cautela particolare che ha qualcuno osservato) il coro, che frapposto agli atti era appresso de’ Greci quasi una specie di episodio che dava alle favole una convenevol misura, così certe tragedie italiane considerate rispettivamente alla rappresentanza teatrale rimangono mancanti d’una convenevol grandezza. E di vero tale mancanza sarebbe sensibilissima, se non che la qualità dello stile congiunta ad altri riempimenti le prolunga oltre modo, come per saggio si può vedere nella Progne del Domenichi.
[3.1.6] Per lo riguardo dell’uso teatrale e per altri che più oltre ci occorreranno, io non saprei disapprovare li Francesi non meno per avere abbandonato il coro che per avere introdotto in supplimento del medesimo qualche maggiore episodio, se si fosse osservata tutta l’accortezza in far sì che le favole ne godessero benefizio senza offesa della lor propria dilicatezza. Ma sovente parmi essere avvenuto a que’ poeti, come a quegli imbanditori di conviti che, per far pompa di condimenti, opprimono il sapor natio delle vivande, o lasciano mancare i messi sostanziali per dar luogo agli accessori. Ma per venire a particolarità maggiori e notare i difetti ch’io ritrovo negli episodi francesi, come le lodi ch’essi meritano per li medesimi, esporrò le osservazioni che m’avvenne di fare nella lettura di tali tragedie.
Articolo II.
[3.2.1] Non può negarsi che le digressioni usate da Francesi in alcune favole con moderazione e con ingegno non diano loro molta Grazia ed ornamento senza punto scemare di quella forza che ha l’azione primaria. Però di leggieri non si può scorgere che l’antica favola di Fedra nella riforma fatta dal Racine ha vantaggiato, come per altro, così pure per esse. Nel Britannico del medesimo veggo altresì l’uso degli episodi sì moderato che perfezionano la favola non che non le nuocano.
[3.2.2] Un esempio della artificiosa collegazion de’ medesimi mi sovviene aver veduto nell’Orazio di Pietro Cornelio, ove le passioni di Sabina e di Camilla, composte naturalmente con l’azione, costituiscono una parte bellissima, benché il rimanente non corrisponda, come già notai. Né certo così possono lodarsi gli episodi della italiana Demodice, la quale rappresenta un fatto simile a quello degli Orazi e de’ Curiazi, perciocché l’amicizia di Eurindo con Critolao, il conflitto di questi col lione, gli amori di Lagisca e d’Eurindo sono cose tutte aliene dalla favola e, ciò massimamente importa, male insieme vincolate. Ma quantunque si trovino presso i Francesi de’ pregevoli episodi, e generalmente si vegga in essi dell’arte nell’innestar le parti avventizie con l’essenziali e formarne quinci un sol nodo, moltissimi sono li disordini da me notati ne’ medesimi:
[3.2.3] 1. Disapprovo certi dialoghi di personaggi oziosi, né solamente intendo di quelli che sembrano anzi spettatori della favola che attori, come l’infante del Cid, ma d’altri ancora che sotto il titolo di confidenti sovente s’introducono, i quali benché giovino assai per dar motivo a’ principali d’instruire naturalmente gli spettatori di molte cose e di meglio dipingere li contrasti delle loro interne passioni, ed inoltre per dar comodo collegamento alle scene, fanno bene spesso riconoscere degli inserimenti affettati con poco di verisimile e meno di necessità.
[3.2.4] 2. Mi spiace il veder talora frammessi alle favole accidenti che, benché siano investigati per render più mirabile lo scioglimento, entrano in esse con mala grazia, come si potrebbe asserire dall’intervenimento di Telefo nella Polissena di monsieur de La Fosse.
[3.2.5] 3. Peccano ancora molte digressioni per la ristrettezza del tempo a cui si riducono. Un tal fallo assai frequente credo che abbia avuto origine dalla massima di Pietro Cornelio che definisce il necessario «le besoin du poète pour arriver à son but»
, e fonda tale definizione nella parola ἀναγκαῖον usata da Aristotele, dandole significato d’utile invece di necessario, il che tanto è contrario alla ragione, non che al senso d’ogni testo aristotelico, che stimo superfluo il dimostrarlo. Da questo falso principio deduce egli che, avendo mestieri il poeta di racchiudere la favola nell’unità di luogo e del tempo, lice in molte azioni far violenza alle diliberazioni ed agli effetti loro, affrettando oltre il verisimile il tempo che per essi si richiederebbe. Un tal difetto mi sembra tollerabile in quelle tragedie ove il successo essenziale è secondo la storia alquanto lungo, per non bandirne dal teatro molti per altro degni di rappresentazione, ma non saprei compatir quelle favole, le cui circostanze ideate da’ poeti non posson rinserrarsi nella brevità del tempo prescritto. Racine mostrò di conoscere questo errore e d’amar però meglio la semplicità, ma non seppe sempre usarla quanto era d’uopo per non violare la verisimiglianza.
[3.2.6] 4. Havvi non poche digressioni che occupano la maggior parte della tragedia, o vi danno la principale figura, come mi sovviene aver particolarmente notato nell’Edippo di Pietro Cornelio e nell’Andromaca di Racine.
5. Se ne trovano dell’altre che soffocano con accidentali commozioni la passione dell’intento primario.
[3.2.7] 6. Molte levano ancora all’azione la necessaria unità. Così, per esempio, nella Elettra di monsieur Crebillon, l’idea finale è di mostrare la forza che da lei fassi al proprio amore per vendicarsi, ma poi senza veruna connessione si scorge l’amor d’Oreste verso la figliuola d’Egisto, l’arrivo di Palamede che scuopre ad Oreste la sua qualità e l’esorta alla vendetta della morte del padre; laonde siegue poi l’uccisione di Egisto e di Clitennestra. Nel Coreso di monsieur de La Fosse chi mai non crederebbe a vedere i primi due atti che la materia principale sia l’infedeltà di Agenore che viene per conchiuder le nozze con Calliroe? Certo l’azione di Coreso che si scuopre nel terzo è distinta dalla prima da cui essa deriva.
7. Finalmente, dalla qualità comune a tutti gli intrichi delle persone chiamate da’ Francesi episodiche, nasce un difetto ancora più comune d’ogni altro a’ loro episodi.
Articolo III.
[3.3.1] Fu massima di Pietro Cornelio e poscia generale presso li poeti di Francia che le tragedie ove amore non ha parte alcuna sieno prive de’ principali allettamenti. Monsieur Saint Evremond fu di parere, oltre ciò, ch’egli giovi per mantenere tra gli eroi e gli spettatori un certo vincolo, ma che non si deve attribuire loro sentimenti comuni che avviliscano il loro carattere per lo fine di produrre tal corrispondenza, con la qual regola crede egli potersi in ogni azione mischiare la passione amorosa senza pena e senza violenza.
[3.3.2] Aggiunge ch’essendo le donne necessarie nelle tragedie fa di mestiere introdurle a ragionare d’amore sì perché loro è più naturale, come perché ne parlano meglio che d’ogn’altra cosa, anzi senza esso riesce noiosa ogni loro conversazione; né dubita però d’affermare che tutti i loro dolori, timori, desideri, trasporti debbono per piacerci sentir d’amore, toccandoci in tal guisa assai più, secondo il suo parere, i tormenti d’una tenera amante che l’altre umane disgrazie che ci recano solamente idee lugubri. Laonde sembra ch’egli pretenda ch’offendasi piuttosto con esse la nostra fantasia che non s’interessi il nostre cuore.
[3.3.3] Ma per rispondere brevemente a tali discorsi, io non posso astenermi dal dichiarar prima inetta la sentenza che stabilisce essere l’amore un mezzo che ci unisce con gli eroi, perocché le persone proprie della tragedia non sono gli eroi in ogni virtù perfettissimi, anzi devono avere di que’ difetti che mostrano agli ascoltatori la comunione della umana fragilità. Né meno è strano il dire che la donna sia incapace d’acquistarsi gli animi solamente con discorsi d’amore, quando all’incontro l’altre calamità tragiche ch’ella soffra debbono tanto più muovere, quanto ha più di forza sopra noi ciò che distrugge la nostra natura, o le cose per natura a noi congiunte, che ciò che ci separa da quelle a cui siamo uniti per accidente.
[3.3.4] È però leggerezza il credere che la tristezza della tragedia abbia bisogno, per toccar meglio, delle amorose tenerezze. Li Francesi secondo i principi sopra accennati praticano l’amore generalmente nelle loro tragedie, non già per passione primaria sopra di cui debba aggirarsi la favole, come altri ha loro ingiustamente rimproverato, ma per materia necessaria de’ loro episodi, perciocché, a dir vero, poche sono le favole puramente fondate sopra intrichi amorosi, quale mi sovviene essere l’Arianna di Tommaso Cornelio, gli avvenimenti di cui converrebbono alla sola commedia. Dall’uso delle amorose digressioni derivano de’ difetti ch’io non saprei scusare, ancorché giudichi potersi avere qualche indulgenza maggiore per li Francesi che per altri, sì perché tal sorta di galanteria s’accomoda agevolmente senza offesa di certe convenienze al costume di quella nazione, come perché l’applauso delle loro tragedie dipende principalmente dall’approvazione delle dame in essa raffinate, da cui tutto il resto della gente per certa indole ivi si lascia rapire.
[3.3.5] Una delle male conseguenze che produce l’amore è render fredda la favola invece di tenere occupato l’uditore nelle premure de’ gravi mali in cui le tragiche passioni hanno il lor fondamento. Niuno potrà leggere gli episodi della gelosia introdotta nella Sofonisba di Pietro Cornelio tra quella regina ed Erice senza sentire un languore che snerva il dramma. Peccasi sovente da’ Francesi in tal fatto invece d’aiutare con gli affetti degli episodi quello dell’azione. Nelle poche italiane tragedie che hanno digressioni d’amore s’è molto diversamente operato. Nel Solimano del Bonarelli l’amore che passa tra Mustafa e Despina, invece d’intepidire la passione finale, coopera ad accrescerla. Il medesimo accade nell’Aristodemo per l’amore di Policare e di Merope.
[3.3.6] Altro cattivo effetto dell’amore è presso li Francesi un dispiacere notabile che prova l’uditore mentre nel bollore della passione, concepita per la disGrazia d’alcuno, invece di sentirsi secondare in quell’interesse che ha per lui preso, riceve motivo di sdegno, scorgendo la stessa persona per cui penava scordarsi quasi delle proprie calamità per le cure amorose. Il che, comeché avvenga in più tragedie, riesce notabilissimo nell’Idomeneo di Crebillon. Talora accade anco che l’affare d’amore introdotto per accessorio occupa il luogo del principale, come è facile d’osservare negli amori d’Oreste e d’Ermione nell’Andromaca di Racine ed in quello di Teseo e Dircea nell’Edippo di Pietro Cornelio. Per tali ragioni sembrami assai biasimevole l’uso che si fa dell’amore nelle tragedie francesi, quantunque tali loro episodi meritino sovente la lode d’essere ingegnosamente legati con gl’interessi degli attori principali e con tale continuazione di scene che presso gl’Italiani difficilmente si trovarebbe.
[3.3.7] È degno di distinzione il contenimento di monsieur Duchè, che s’è guardato di mischiare digressioni amorose alle azioni delle sue tragedie, e lodasi d’avere intenerito gli uditori senza tale specie di passione, ma per altro egli è incorso in uno de’ difetti sopra mentovati, introducendo nel Gionata Achinoa, moglie di Saule, con le due figliuole, come pure nell’Assalonne la reina Maaca e la figlia Tamar, persone tutte superflue alla costituzione di quelle due favole, non veggendosi alcun successo dipendente dal loro intervenimento. Racine, che ha preservato la sua Atalia dall’amore, l’ha guardata assai meglio da simili superfluità.
Capo IV.
De’ vantaggi ch’hanno li Francesi circa vari artifici toccanti l’ordine e la forma della tragica rappresentanza.
Articolo I.
[4.1.1] Se dalle cose dette sinadora alcun sospettasse che l’amore della propria nazione m’avesse fatto dissimulare o non conoscere i difetti degl’Italiani poeti e m’avesse mosso a censurare quelli de’ Francesi, in questo capo egli s’avvedrà che l’amore del vero, siccome è scorta d’ogni mio studio, così pure è direttore de’ miei giudizi, perocché con quella libertà che mi son preso nel dichiarare le tragedie di Francia meno regolari che le nostre nella teorica costituzion della favola, parimenti confesserò che queste sono assai difettose nella disposizione ed in altre qualità rappresentative della medesima, siccome quelle hanno in ciò molti pregi particolari. L’arte che ora prendo a considerare è quella che consiste in far sì che l’uditore ingannato apprenda con agevolezza e con piacere la tragica rappresentazione per l’azione stessa che si rappresenta. Per riconoscere questa osserveremo distintamente l’avviamento degli affari e de’ successi, la maniera d’introdurre le persone, la dignità e proprietà de’ colloqui e de’ soliloqui, il regolamento degli atti e delle scene.
[4.1.2] L’artifizio d’avviare gli affari si può considerare nella informazione de’ fatti precedenti, corrispondente al prologo degli antichi, e nel ravviluppamento equivalente al loro episodio, e nello scioglimento già detto esodo. Benché li Greci sieno stati maestri degli altri per l’invenzione sustanziale delle favole tragiche, contuttociò, perché difficilmente le cose hanno ne’ suoi principi ogni perfezione che possono acquistare col benefizio del tempo, eglino lasciaron che desiderare circa le condizioni che prendo ad esaminare. Un tale difetto parmi massimamente notabile ne’ loro prologhi, ove s’instruivan sovente gli ascoltatori col far loro narrare lo stato de’ successi, onde dipendevano le favole, da qualche attore che pareva venire in teatro a tal fine, o da qualche Deità e talora anche da personaggi del tutto ideali, come è la Morte introdotta nell’Alceste d’Euripide. Sofocle è stato in ciò più degli altri guardingo, ma non è libero in tutte le sue tragedie da simili imperfezioni. Li nostri poeti non andarono esenti da simili difetti degli antichi precessori, anzi, salvo più tragedie di questi ultimi tempi, nelle quali si scorge qualche miglior gusto circa la disposizione, rada è quella ove non s’incontrino esempli di sì difettosa imitazione.
[4.1.3] Né solamente di quelle persone, le quali intervengono a favellare, tale appare sola in principio a raccontare con improprietà le cose che sono necessarie per l’intelligenza del rimanente, ma talora per serbar qualche naturalezza si fa con tanta oscurità che l’instruzione si rende inutile, come osservai già nella Tullia di Lodovico Martelli, che viene sulla scena a far lunga narrazione de’ suoi avvenimenti in una guisa che non può comprendere i medesimi se non chi li fa. Al qual proposito non posso non riprovare il giudizio che fa di tale tragedia Vincenzo Gravina21, riponendola fra le migliori che abbiamo, ancorché senza di questa particolarità per cento altri falli meriti appena luogo fra le peggiori.
[4.1.4] Nelle tragedie del Giraldi veggonsi non pur persone umane che comparendo sole in principio instruiscono il popolo, come fa Enone negli Antivalomeni, ma l’ombre e le deità; oltrediché introdusse egli la fama in mezzo della sua Didone a raccontare i trastulli amorosi d’Enea e di Didone. Non pochi altri hanno nelle protasi seguito le medesime orme. Bongianni Gratarolo ha tentato rimediare in parte alla improprietà di far recare le primarie notizie a persone sole, coll’aggiugnerne altre che ragionassero insieme, ma non ha scansato in tal guisa l’indecenza di costituire tutto il primo atto di Deità separate affatto dal resto della favola, e per la qualità delle persone, e per la natura del commercio, come si può vedere sì nell’Astianatte che nell’Altea del medesimo. Tale disordine diviene anche maggiore nella Dalida del Groto, ove favellano la Morte e la Gelosia. Né rimango pago di quegli stessi autori, che fattisi imitatori delle migliori favole di Sofocle si guardaron bensì d’usare πρόσωπα προτάτικα e legarono i prologhi col rimanente della tragedia, perciocché lasciano bene spesso conoscere all’uditore che gli interlocutori loro, quantunque interessati nell’azione, appaiono prima più per rendere intelligibile la favola che per proprio interesse. Nella Sofonisba e nell’Oreste è ciò sì notabile che anche i critici più superficiali e sciapiti l’hanno riconosciuto.
[4.1.5] Non mancano presso li Francesi di simili inconvenienze, né fra le tragedie dello stesso Pietro Cornelio sono scusabili le narrazioni dell’Infanta del Cid, della Cleopatra del Pompeo ed il dialogo di Laonice e Timagene della Rodoguna; contuttociò sarebbe ingiustizia il negar loro il vantaggio che hanno per lo più nell’artifizio di nascondere agli ascoltatori l’intenzion di instruirli. Essi il più sovente schifano que’ soggetti che hanno d’uopo in principio di lunghi ragguagli, i quali sogliono per due ragioni infastidire, cioè perché stancano la memoria dell’uditore con molti fatti antecedenti e perché riescono freddi, non essendo ancora il popolo eccitato ad ascoltare con curiosità da veruna premura, ché se accade loro di dovere esporre qualche lungo fatto, non caricano almeno il racconto di noiose superfluità. Inoltre son d’ordinario lodevoli le loro protasi, perocché contengono il seme di tutte le cose notabili che debbono occorrere dappoi, sì per l’azione che per gli episodi, il che di rado s’osserva nelle tragedie italiane.
[4.1.6] Tutto ciò che potrebbesi censurare nella esposizione instruttiva de’ drammi francesi è il continuo uso de’ confidenti. Imperciocché quantunque, come ho già notato addietro, essi siansi assai giovevolmente inventati, nondimeno la smoderata pratica di frapporli pertutto quasi indispensabili e la loro ordinaria moltitudine scuoprono, insieme con l’affettazione dell’arte, la povertà d’altri mezzi. Racine, che è stato per altro industriosissimo, non ha saputo astenersene totalmente che nell’Alessandro, tragedia che per ciò riesce assai attiva, benché quanto al rimanente irregolare.
[4.1.7] Per cagione della frequenza paionmi in simil maniera noiosi tanti sogni da cui li nostri prendono occasione d’aprir l’argomento delle favole e d’adombrarle. Io so che, dove s’imiti alcuna riconoscenza di cosa orribile, giova di molto l’accennare in qualche guisa all’uditore ciò che si debbe riconoscere, conciossiacosaché egli più s’appassiona ed attendendo l’esito senza saperne le circostanze, le apprende poi con maggior maraviglia, perché sono inaspettate, ma nonpertanto que’ sogni che sarebbon lodevoli perdono il lor pregio per sentirsi quasi in ogni tragedia come comuni ed essenziali formulari, con quelle trite risposte in cui se ne detesta la vanità. Li Francesi tuttoché non ne abbiano ignorato i suoi buoni effetti, come si vede nel Polieuto ed altrove, hanno mostrato dell’avvedimento usandoli parcamente. Ciò che ho detto de’ sogni si potrebbe distendere alla moltitudine degli auguri e degli oracoli che s’incontrano or nell’ingresso, or nel progresso de’ drammi italiani.
[4.1.8] Un’altra specie di prologo fu praticato dal Giraldi seguito dal Dolce nella Giocasta e quindi dal Groto e da qualche altro, la quale non si trova appresso i tragici antichi. Questa consiste nel far comparire in principio della favola persona dallei separata e senza nome a dire il tema, ad imitazione di Terenzio. Tale invenzione richiedeva meno d’arte nella esposizione successiva del primo atto; né ha però avuto il comun seguito. Il Castelvetro, che non aveva veduto se non l’Orbecche del sopradetto Giraldi, la quale ha soggetto finto, dispregiò totalmente questa introduzione, come parte inventata per solo soccorso di tal favola. Nulladimeno non può negarsi ch’ella non facesse un buon effetto per tutti gli argomenti che al popolo non son noti, di che li Greci non abbisognavano, perciocché versavano sempre intorno a pochi successi famosissimi. Que’ prologhi che servono puramente per dar lode a’ principi hanno il primo esempio nell’Orazia dell’Aretino. Però Pietro Cornelio s’inganna nel dire che sieno invenzione del suo secolo.
Articolo II.
[4.2.1] Circa l’arte d’avviare gli avvenimenti del nodo parmi scorgere ne’ Francesi maggiore avvertimento d’ordinare gli affari con naturale dipendenza. Spesso accade fra gl’Italiani di trovare nel secondo atto alcun negozio nuovo, che non ha congiunzione se non di tempo con gli altri esposti nel primo. Ma ciò che importa assai più, li trattati d’una scena sono non di rado diversissimi da quelli dell’altra. Laonde certe favole mostrano uno aggregamento di varie piccole azioni che accidentalmente s’uniscano alla principale, anziché un’azione che riceva sua debita grandezza dal collegamento naturale delle proprie parti. Però non senza ragione ricercarebbe alcuno a qual proposito nel secondo atto del Torrismondo esca Rosmonda a moralizzare tra sé. Potrebbesi dire il medesimo della venuta di Miseno nell’atto terzo dell’Astianatte del Gratarolo. Li dialoghi d’Alvante e di Despina interposti all’azione del Solimano del Bonarelli, benché abbiano principio nell’atto primo, non debbonsi per simile cagione approvare, né sarebbe difficile rinvenire pari disordini in molte altre favole.
[4.2.2] Tuttoché non manchino ne’ Francesi di simili esempli è non pertanto lor pratica più costante di far sì che ciascuna delle faccende che alla tragedia s’assegnano derivi dall’altre in guisa che rimangono incorporate all’azione primaria. Parmi pure inescusabile nel viluppo tragico la maniera con cui si trattan gli affari in molte favole italiane di coro continuo. Nelle tragedie greche non è notabile tale inconvenienza sì perché il costume di que’ tempi permetteva al medesimo il famigliarizzarsi con li re, come perché alla loro condotta non era per lo più necessaria la segretezza. All’incontro quelle de’ nostri poeti, che a loro imitazione hanno amato la permanenza del coro, riescono sovente improprie, o perché rappresentano azioni romane alla cui maestà non conviene la comunione del coro, tanto più dove trattisi di segreti gravissimi — quale è nella Tullia di Lodevico Martelli quello di Lucio Tarquinio, il quale non voleva esser noto alla stessa moglie, poi si scuopre alla presenza del coro delle donne che sono seco —, o perché versano intorno soggetti che, avendo del moderno, offendono lo spettatore che li vede maneggiati in una maniera che punto non conviene all’uso delle corti degli ultimi secoli; per lo che paionmi riprensibili la Vittoria ed il Tancredi di Pomponio Torelli, nella seconda delle quali s’aggiugne all’indecenza dell’uso, anche quella dell’inverisimile per le pratiche tenute da Gismonda acciò fosse licenziato Guiscardo e per li consigli che prendeva Tancredi contro di lui in presenza del coro stesso. Inoltre le storie greche non sono presso de’ nostri senza simili inverisimiglianze, conciossiaché il nodo si fonda sovente nella segretezza incompatibile con il coro continuo. Però nella Merope del medesimo Torelli non è credibile l’incauta comunicazione de’ consigli sì di lei che di Polifonte, come pure che lo scoprimento cui ella fa di Telefonte in palese rimangasi occulto fino al fine. L’inavvertenza d’alcuno nel fare uso del coro è giunta a lasciargli udire gli stessi soliloqui.
Articolo III.
[4.3.1] Nella catastrofe desiderarei da gran parte de’ nostri l’artifizio di farla dipendere da mezzi necessari, il quale ho notato in molti drammi francesi, anzi che da successi casuali che hanno pochissima e talor niuna dipendenza da primi fatti. Nel Torrismondo, per cagion d’esempio, la peripezia deriva dal messo che sopraggiunge di nuovo a recar novella della morte inaspettata del re di Norvegia; nella Semiramide del Manfredi nasce dalla novella della morte d’Anaserne seguita accidentalmente. Nel Solimano 22 comparisce improvvisamente Aidina con Alicola a dare il motivo della riconoscenza della favola, né da tale difetto aliena è la venuta di Licisco nell’atto 5 scena 4 dell’Aristodemo, ancorché l’autore abbia con maggiore arte degli altri legato in qualche maniera la morte d’Arena con le cose narrate nell’atto primo.
[4.3.2] Per non passare sotto silenzio le moderne tragedie aggiugnerò che nella Temisto del Salìo il rivolgimento riesce poco pregevole per procedere non solamente dalla morte fortuita d’Ipseo, ma dalla disposizione de’ quattro anelli, la quale appare piuttosto accattata dal poeta che verisimile. Nel Crispo d’Annibale Marchesi è pure sgraziata l’invenzione di fare che Costantino lasci in balia di Fausta i felloni compagni di Crispo, da che deriva poscia la confessione di Flavio che scioglie il dramma.
[4.3.3] La maniera tenuta da’ Francesi nello sviluppare le loro favole siccome è più naturale, così più parmi ingegnosa per la difficoltà d’unire gli avvenimenti in guisa che l’uno sia cagionato dall’altro. Contuttociò questa ancora ha bene spesso il difetto che consiste nell’accennare prima del tempo proprio le circostanze della catastrofe invece dì prepararle. Per lo che nasce che l’uditore presentendo agevolmente il termine della tragedia, non prova poscia quella maraviglia che il perfeziona. Da tale presentimento non è libero neppure il Britanico di Racine, ma sopra tutto esso è considerabile nell’Andromeda di Pietro Cornelio. Né possonsi assolvere da questo difetto alcune italiane. La Polissena del Marchesi mi pare che fra l’altre lasci assai prevedere il suo esito. Ne’ Francesi è biasimevole anche il dividere talora la peripezia rappresentandone una parte prima dell’altra per non sapere sostenere fino al fine i mezzi della medesima. Ciò mi ricorda aver notato particolarmente in una censura che già feci al novello Edippo di monsieur de Voltaire, ove invece di sorprendere quasi in un colpo l’ascoltatore con l’intero ammassamento delle tragiche vicende, come fece Sofocle, si sa ch’Edippo cominci nel quarto atto a riconoscersi uccisore di Laio. Rotroù cadde in un error differente e meno ancora scusabile inducendo egli verso la metà della sua Antigone la peripezia d’una azion differente per non sapere in altra maniera prolungar fino al fine quella del suo assunto.
[4.3.4] Qualche fiata s’è mancato altresì per li mezzi inverisimili di sospender la catastrofe sino al termine della favola: di che puote esserci esempio, nella Berenice di Racine, la risoluzione che forma Antioco d’andare a morire, la quale dall’autore non per altro è rappresentata che per dargli giusto motivo di scuoprire il suo amore e la sua rivalità, ma per altro non par verosimile, perciocché non ha quegli cagion maggiore di ciò fare in fine della tragedia che in principio. Esso sino nel primo atto ha già perduta ogni speranza, né però risolve d’ammazzarsi, ma solamente di partire di Roma; la partenza vien sospesa da qualche conforto che poi gli cessa, e senza altro motivo che quello di prima si getta in una disperazione che lo spigne ad uccidersi. Una simile disposizione s’è con ragione attribuita agli amanti qualor la novità degli accidenti ha potuto far credere intollerabile l’eccesso della passione, come si vede nell’Aminta del Tasso, ma nel caso presente, posciaché tutta la forza della disGrazia d’Antioco era in costrignerlo alla sua partenza poche ore prima, non pare più credibile la sua posteriore risoluzione. S’accresce l’inverisimile per l’inconvenienza del costume, mentre s’attribuisce tal debolezza ad un re, che per altro vien dipinto nel rimanente della tragedia uomo di spirito e di gran valore, sicché Tito stesso gli dice23:
Je n’ai pas oublié, prince, que ma victoireDevait à vos exploits la moitié de sa gloire.
Articolo IV.
[4.4.1] Nell’adoperamento delle persone tragiche osservo praticarsi da’ Francesi tre cose che accreditan mirabilmente la finta rappresentanza e pur meno si sono osservate dagli Italiani. La prima consiste in non lasciare apparir nella scena alcun’attore che non diasi bentosto a conoscere, massimamente quando sia de’ principali. Fra l’altre favole ove s’incontra un tal mancamento pare assai notabile nell’Aristodemo del Dottori, ove non si riconosce esattamente dal contesto il medesimo Aristodemo, se non dopo molte scene, benché sia il primo a comparire ed a parlare. Havvi ancora alcuno de’ nostri che, quantunque abbia avvertito di schifare tal difetto, pure rassomigliando Euripide anzi che Sofocle, scuopre di sì mala Grazia le persone rappresentate che nuoce con l’affettazione al verisimile. Le favole del Giraldi son sopra l’altre piene di coteste indecenze. Né manca di ciò prova anche in qualcuna delle migliori che si leggono nel Teatro Italiano del marchese Maffei.
[4.4.2] La seconda avvertenza che s’ha da’ Francesi è di trattenere il primo personaggio sul teatro il più del tempo, il che giova per dar modo all’uditore di prendere maggior interesse nelle sue passioni, o di farvi almeno rimanere persone in sua vece degne della tragica dignità. All’incontro vedesi trascurata tal regola in qualche tragedia italiana delle più celebri. Nella Sofonisba del Trissino passa il secondo, il terzo ed il quarto atto senza che quella reina si scorge; poi mentre si trattien l’uditore con dialoghi inetti del coro e del famiglio il quale racconta
Essere stato lungamente intentoa far la casa coltacome ordinato aveva la reina […]
si perde l’occasione di molti nobili colloqui che quivi potevansi introdurre. Nella Canace dello Speroni pare che la tragedia si converta in commedia laddove si trattiene il famiglio solo a motteggiare intorno i vizi delle donne.
[4.4.3] Finalmente il terzo de’ predetti pregi, e che manca comunemente agli Italiani, è il rendere o fare apparir la ragione della venuta. Più nostri antichi hanno ciò trascurato anche nella partenza; quindi è che si veggono venire le reine ed i re ne’ luoghi anche straordinari e poscia partire senza che si sappia motivo che qualifichi la natura di tali congressi, come per esempio accade nell’atto 3 del Torrismondo, in cui dopo che s’è veduto il consigliere a far seco stesso un lungo discorso, egli alfin parte, come se fosse ivi venuto a dire alcuna cosa agli uditori, e tosto viene Rosmonda a fare il medesimo; partita questa, Torrismondo e Germondo arrivano insieme a raffermarsi ivi l’amicizia, poi l’uno si vede sparire senza dir nulla e senza vedere Alvida che in quell’instante sopraggiugne. Ella lascia molto più desiderare la cagione di tale arrivo, mentre non è credibile, che venga ad abboccarsi con Germondo che odia e fugge: si parte quindi anche Torrismondo e sopravviene prima la cameriera a portare i doni per parte del re Germondo, e poco appresso la nutrice a trattenersi con essa lei, come se quel luogo fosse il suo segreto appartamento. Finalmente si scorge anche la reina madre che entra, e sorte senza mostrare d’aver nulla che dire. Una simile maniera si puote osservare anche in molte altre favole, per la quale di vero ogni rappresentazione riman priva de’ mezzi naturali che perfezionano l’assomiglianza della vera azione, parendo che le persone si mostrino sulla scena perché il poeta le fa venire, non perché gli affari ne diano loro la spinta. Laonde non resta sì nascosta sotto la sembianza del vero l’economia della favola.
[4.4.4] Per mancanza di cotale avvertimento in più tragedie è dunque successo che la comparsa delle persone sia fuori di tempo o di luogo, il che talora diviene anche meno soffribile quando s’offendono le usanze particolari delle genti. Cosi nel Solimano del Bonarelli veggiamo, dalla scena 2 dell’atto primo fino alla 5 del secondo, trattenersi inverisimilmente in un luogo vicino alla corte del Sultano Despina ed Alvante, dove viene contro il suo stile a ragionar Solimano, e di più si tengono tra la reina ed altri congiurati segreti discorsi, i quali dovevan certo sentirsi da que’ due, perocché non attendevano che la partenza di questi per proseguire il lor ragionamento senza essere uditi, quasi che non potessero ire altrove.
[4.4.5] Ma quantunque da’ migliori Francesi siasi usata l’arte delle predette cose, una eccezione vuolsi fare tra li meno recenti ed i nuovi poeti. Questi, siccome sono inferiori agli altri in più circostanze, così sono principalmente nelle regole di bene ordinare la rappresentanza, al qual proposito ricordami aver notato che non pur senza ragione, ma talora contro il verisimile si fanno apparir sulla scena li personaggi secondo che torna meglio al bisogno loro, come quando, nel Radamisto di Crebillon, il re Farasmane esce ad ascoltare insieme l’ambasciatore di Roma e quello d’Armenia contro il decoro proprio e contro l’interesse di stato, che non voleva entrambi partecipi de’ loro differenti affari. All’incontro con miglior arte si veggono disposte le favole de’ moderni italiani che degli antichi, ma niuno è giunto a quella identità di luogo sì particolare e maravigliosa che si vede in certe tragedie ove s’è meglio procurata cotal perfezione da Pietro Cornelio e da Racine. L’abate Conti ha voluto in un solo atrio far succedere ogni scena del suo Cesare, ma non è verisimile che ivi si facciano tutti li discorsi come in luogo proprio. Strano particolarmente parmi che Antonio venga nell’atrio medesimo a recare la novella della morte di Cesare, mentre Calpurnia è in Senato né v’ha persona a cui quivi debba annunziarla.
Articolo V.
[4.5.1] Non è meno dell’altre cose osservabile la qualità de’ discorsi che li poeti attribuiscono a coloro ch’espongono sulla scena per ben conoscere il valore della imitazione, però non vo’ tralasciare qualche riflessione intorno i medesimi ed esaminarò sì quelli che si fanno in palese tra circostanti, sì li soliloqui e ciò che si dice ad alcuno a parte. Certo anche in questo non è lieve il vantaggio de’ Francesi. Già sopra notai che li discorsi narrativi s’espongono da loro assai più brevemente e ristringonsi quelli che per essere nudi d’affetto stancano agevolmente chi ascolta, e finalmente non si veggono sì d’ordinario come negli Italiani delle particolarità che sono o disadatte alla passione di chi favella, o superflue al proposto.
[4.5.2] Ora inoltre vuolsi osservare che, quando sono necessarie molte notizie allo spettatore, s’avverte meglio di scuoprirne parte per volta secondo il bisogno nel decorso del dramma, senza caricare ad un tratto la memoria della gente. Laonde si scorge ancora qualche maggior destrezza d’ingegno nel ritrovare i mezzi di farle venire in acconcio alle vicende ed alla proprietà del costume, e d’animarle colle circostanze dell’azione, in che fra l’altre è mirabile la narrazione d’Eudossa nell’atto secondo dell’Eraclio di Pietro Cornelio. Quanto agli altri discorsi suasivi, contenziosi, deliberativi, patetici e simili, mi sembra parimenti che nelle favole francesi abbiano maggiore energia e gravità, venendo essi da’ nostri sovente snervati, ora con la prolissità soverchia, ora con la vanità degli ornamenti; oltre di che accade non rado nelle italiane tragedie di vedere delle scene quasi oziose e per conseguenza piene di freddi ragionamenti.
[4.5.3] Nulla meno favorevole a’ Francesi è l’opinion mia circa l’arte de’ soliloqui. Io non saprei già da tutti i difetti assolverli. Di tale dilicatezza è per mio avviso la tessitura loro che troppo difficile è lo schifare ogni imperfezione. Quindi è che m’offende, anche fra quelli di Pietro Cornelio, ora qualche detto che ha del narrativo senza che si riferisca a trasporto di passione, o serva ad un animo agitato di motivo per alcuna deliberazione, ora qualche pensiero troppo ricercato che non si confà con l’agitazione che deve sempre esser norma di cotali ragionamenti, come quando Emilia parla nel Cinna a’ proprii desideri, Cleopatra nella Rodoguna al veleno, senza che ve n’ha talora alcuno disadatto all’occasione.
[4.5.4] In altri moderni francesi manca sovente quella veemenza di passione che più li giustifica ed abbondano anche maggiormente le narrazioni improprie. Contuttociò, se si considerano i soliloqui di moltissime tragedie italiane, assai maggiore è il numero e la qualità delle indecenze. Primieramente mi spiace in molte la troppa frequenza de’ medesimi, sì perché li soliloqui sono di sua natura una invenzione licenziosa di cui deesi fare minor uso ch’egli è possibile, come perché in vederli sì frequenti si direbbe che il poeta, invece d’imitare una azione continua che si tragga a fine col mezzo d’interlocutori che trattano insieme, abbia per iscopo di divertir l’uditore con la varietà di più personaggi che appaiano non ad altro fine che di fare la loro recitazione. Ciò massimamente mi spiacque nelle tragedie del Giraldi ed in particolare nell’atto 5. della sua Cleopatra, ove prima esce Olimpo solo; partito questi arriva Cleopatra pur sola a fare la seconda scena; nella medesima guisa Gallo fa quindi la terza e la quarta fassi dal famigliare di Cleopatra senza che uno s’avvegga dell’altro. Non mi ricordo d’avere osservato tra francesi qualche viziosa frequenza che nelle tragedie di monsieur de La Fosse.
[4.5.5] Altro difetto più comune agl’Italiani è nella sustanza de’ mentovati ragionamenti, avvegna che non hanno bene avvertito che per essere alquanto verisimili conviene che non contengano che una meditazione di persona che, a stimolo d’alcuna passione, pronuncia ciò che pensa per puro sfogo. Sono però degni di riprendimento in primo luogo assaissimi che si veggono non pure ne’ prologhi (come addietro accennai), ma in ogni atto, i quali altro non comprendono che una fredda relazione delle cose seguite e che vanno seguendo, o che si pensa di fare. Biasimevoli sono anche molti altri che consistono in una tranquilla esposizione di morali sentenze, perciocché non è cosa naturale il parlare fra sé senza qualche trasporto. Aggiungansi le lunghe allegorie, le similitudini affettate, la dicitura colta e fiorita che molto meno conviene a simili favellatori che a chi comunica ad altri i suoi sentimenti, e finalmente le indecenze che nascono dalle circostanze dell’occasione, come è quella del Solimano nella scena 3 dell’atto 3, ove egli continua il suo soliloquio in tempo che deve sentire Rusteno che sopraggiungendo parla a soldati.
[4.5.6] Sembrami strano altresì che alcuni sieno sensibili ad altri circostanti. Ciò puossi ammettere solamente in alcune brievi esclamazioni forzate da qualche impeto di passione: però nella Merope del Maffei non disdice, anzi riesce ingegnosa quella di Cresfonte nella quale, mentre egli si vede assalire con l’asta, rammentandosi di Polidoro, ne proferisce il nome, ma non è soffribile il far che s’odano lunghi ragionamenti di tal sorta e molto maggiore è la sconvenevolezza ne’ parlari men passionati, la qual pur si vede appresso i men periti, come per esempio vedesi nel prologo dell’Altea del Gratarolo, ove Nemesi ode i segreti di Diana.
[4.5.7] Li Francesi, che da ciò si sono, per quanto m’è venuto fatto di vedere, attenuti in ogni incontro, mi paiono degni anche di questa particolar loda, perocché, essendosi la natura di tali ragionamenti ammessa per certe necessità del teatro in Grazia degli uditori, tanto sono essi men tolerabili quanto più si dilata la loro licenza col farne tra gli attori stessi un uso non necessario. Di schifare il detto disordine molti hanno creduto col lasciar sentire alle persone operanti non i sentimenti, ma solamente le voci flebili di chi seco stesso si querela; ma questa regola soggiace ad una sconvenevolezza anche maggiore, perocché meno inverisimile sì è che un attore senta il discorso inteso anche dall’uditore, che non è l’apprendere che uno parli e non distinguere i sensi e talora le persone stesse, mentre dal popolo tutto si capisce. Né stimo che in ciò fare prestar ci possa valevole suffragio l’esempio di Sofocle, il quale mi sovviene che nell’Elettra fa dire tre versi a Clitennestra senza che la figliuola ed il coro conoscano chi si lagni. Mi pare sopra modo assurdo nell’Orbecche del Giraldi il vedere che la nudrice e le donne di corte sentono le querele della loro reina non pur senza intenderle, ma senza conoscere la di lei voce stessa, tuttoché dicano che non è molto lontana, come infatti non debbe essere, posciaché l’uditore, siccome ode perfettamente le donne medesime, così apprende i sentimenti d’Orbecche, la quale, dopo il primo ben lungo favellamento, siegue a dire altri ventiquattro versi e contuttociò elleno, che stanno intente con ansietà, non s’avveggono mai che sia la regina che si dolga fin che non giunge la nudrice a vederla.
[4.5.8] I discorsi che si fanno a parte ad alcuna persona in presenza d’altre senza che quelle nulla intendano, benché s’odano nell’udienza distintamente, si sono d’ordinario da’ Francesi scansati. Non mi ricordo aver veduto in Racine che un sol detto nell’Atalia che ha qualche simile sconvenevolezza. Dagli altri moderni ove non si sono schifati del tutto si sono con molta moderazione usati. Appresso gl’Italiani se n’è fatto uso maggiore ed ho notato con maraviglia che certi moderni, i quali hanno per altro purgata la tragica poesia da qualche imperfezione de’ primi, sieno caduti in questa indecenza, da cui si sono assai ben guardati il Trissino ed altri nostri antichi e, se qualcun di loro è caduto in tale trascorrimento, ha regolarmente supposto alcuna notabile distanza di luogo, per lo che se non si leva, almeno si minora l’indecenza. Da tale macchia rimane assai difformata la Merope del Marchese Maffei, benché per più cose pregevolissima, come si può riconoscere ne’ colloqui segreti che quella regina fa con Ismene alla presenza del tiranno che nulla ode. L’Ezzelino del signor Baruffaldi è contaminato anche più di simil pece. Nel Cesare del Conti, fra gli altri sensi detti a parte, inescusabile è ciò che dice Cassio ad Albino nell’atto 3, scena 6. Questo difetto che da me si considera per una reliquia delle mostruosità di cui la corruttela del secolo prossimamente scorso aveva empito le nostre favole, mi fa concepire quanto sia difficile anche a’ più dotti scrittori liberarsi affatto da pregiudizi anticipati.
Articolo VI.
[4.6.1] Nel regolamento degli atti e delle scene nulla meno che nelle sopra riferite particolarità li Francesi vincono il più degl’Italiani. Circa gli atti mancasi da’ nostri ora per la troppa scarsezza delle scene, veggendosi sovente a somiglianza degli antichi greci e latini occupato un atto da una o due scene, nella qual guisa si stanca l’uditore per mancanza di varietà, schifasi la difficoltà di ben concatenarne di molte e privasi il dramma della proporzione d’un atto con l’altro, con pregiudizio di quella bellezza che consiste nella giusta misura delle cose bene insieme composte e divisate. Manca alcuno eziandio nel tempo che si fa trapassare nella rappresentazione de’ medesimi, il quale suole talora esser più lungo ch’ella non permette, come accade nel Torrismondo, ove si lascia un piccolo spazio di una scena a chi doveva ire a chiamare Frontone, il quale da più anni viveva in riposta solitudine e per la venuta di lui stesso. Parmi assai poco il tempo che scorre anche nella Merope del Maffei tra ’l comando di chiamarsi Ismene e l’arrivo di questa nella scena 4 dell’atto 2, mentre ella doveva essere in maggiore distanza dal luogo ove Polifonte si tratteneva in consigli contrari alla sua signora. Non è senza molta accelerazione di tempo nell’Ezzelino del Baruffaldi la giunta di Beatrice e de’ sei compagni, i quali, intanto che Amabilia dice sei versi, si fingono chiamati da Tiso che va sino nel fondo della torre, ove prima s’era detto che per le tante e tortuose vie appena poteva giungere la voce e quindi vengono come se fossero al limitare della porta. Nel Cesare del Conti havvi pure de’ fatti troppo affrettati.
[4.6.2] Pietro Cornelio s’è preso tal sorta di libertà solamente negli ultimi atti in Grazia dell’uditore, a cui sembra languido in quel tempo tutto ciò che si frappone all’impazienza della sua attenzione. Gli altri hanno per lo più seguito il suo esempio. Mi rammento nondimeno d’avere osservato presso monsieur Duchè molte sproporzioni di tempo anche negli atti antecedenti, e m’è paruto degno d’osservazione, nel Coreso di monsieur de La Fosse, il viaggio che fa Lido tra ’l secondo e ’l terzo atto, partendo da Calidonia e ritornando colla risposta dell’oracolo. Benché si dica ch’egli andò al più vicino ha ben fatto il poeta a provvederlo d’ali con far dire ad Arbace: «Lidus y vole»
. Imperciocché l’oracolo consultato in quella occasione fu, come è noto per gli scritti di Pausania24, quello di Dodona, la qual città, secondo Strabone25 essendo nell’Epiro, richiedeva più giornate di viaggio. Giudico bensì che il predetto autore del dramma abbia creduto di coprire lo sconcio tralasciando il nome dell’oracolo, ma troppo esso appare sì per la chiarezza della storia, come perché da niuno storiografo abbiamo che fosse alcun oracolo in tutta l’Etolia, non che vicino a Calidonia, e pure si dovette ricorrere in questo incontro ad uno classico e famoso come costumavasi nelle gravi calamità.
[4.6.3] Alla separazione degli atti appartiene il coro, che dal più de’ nostri lor si frappone; al qual proposito tornan bene varie osservazioni da me fatte addietro, da cui si raccoglie ch’io non saprei approvare tale uso, imperciocché quando esso non è stabile conviene che il suo canto sia un membro di cantilene noiose che non abbiano veruna connessione con la favola, non potendo versare che sopra cose generali, le quali or poco or nulla s’adattano all’azione, i cui intrichi non gli debbono verisimilmente esser noti; dove all’incontro è fermo convien privare le tragedie o della segretezza, con la qual d’ordinario si sostengono, o del verisimile. Che se l’ufficio del coro continuo era di qualche utile nella instituzione de’ Greci, conciliando la benevolenza a’ buoni, biasimando i vizi, e lodando la virtù, si puote avere il medesimo benefizio con attori meglio legati e non oziosi, come è ’l coro anche per sentimento d’Aristotele, il qual disse ne’ Problemi
26
ἔστι γὰρ ὁ χορὸς κεδευτὴς ἄπρακτος
.
[4.6.4] A tutto ciò deesi ora aggiungere che riempiendosi gl’intervalli che sono fra l’uno e l’altro atto col canto del coro, essi non si possono immaginare punto più lunghi del tempo che si consuma nel medesimo; però perdesi il vantaggio di poter rappresentare con verisimiglianza le azioni che richiedono più ore della rappresentazione attuale. Per queste considerazioni non posso non lodare il Bonarelli, che nel principio del secolo antecedente a questo cominciò ad eschiuderlo del tutto, come ora veggiamo aver fatto anche i Francesi. Alcuni Italiani a nostri giorni l’hanno seguito, ma più altri hanno amato meglio di conservare il rito antico, tra quali hanno eletto il coro diviso il Caracci, il Gravina, il Marchesi ed il Conti, che più degli altri hallo introdotto con giudizio; al Lazzarini ed al Salìo è piaciuto il fermo. E certo come che sia venuto fatto particolarmente al Lazzarini di fare una tragedia assai bella e conforme al gusto di Sofocle, non sarebbe forse strano che ad alcuno paresse troppo servile attaccamento il seguire i Greci in ogni circostanza.
[4.6.5] Nella particolarità delle scene i nostri poeti hanno per lo più trasandato la loro congiunzione, quantunque servendo essa per mostrare un perfetto componimento degli accidenti minuti con l’azion principale e ad incorporar meglio gli episodi, rechi alle favole quel maggior pregio che hanno nella scoltura le immagini d’un sol pezzo sopra quelle che hanno membra posticce. Li Francesi quasi sempre l’osservano e si possono dire inventori di sì bella legge, benché a dir vero certi moderni non abbiano sempre un ordine sì naturale, come Cornelio e Racine.
[4.6.6] Alcuni novelli poeti anche presso di noi si sono mostrati amatori di cotal ordine, ma nelle loro tragedie incontra di vedere or qualche inverisimile di luogo, or di tempo, or d’altre circostanze che è un altro difetto assai comune eziandio agli altri, e da me sopra in parte toccato. Gli abboccamenti notturni che si fanno al buio ed in luoghi impropri nel quarto atto dell’Ezzelino sono di ciò notabilissimi esempli, oltre quelli del Cesare sopra accennati. Se in qualche tragedia del Marchese Gorini corrispondessero l’altre cose all’osservanza dell’ordine scenico sarebbe assai degno di loda. Per iscansare ogni sorta d’inconvenienti il signor Baruffaldi ha fatto la Giocasta con altra disposizione, intitolandola di scena mutabile, perciocché professa con tal mutazione provvedere all’inverisimile dell’uniformità sforzata ne’ fatti che vogliono diversità di sito, ma non è nuovo il suo sentimento; hansi esempli di ciò nelle nostre favole antiche, de’ quali mi ricordo ora averne notato nell’Arrenopia del Giraldi, e nella Progne del Domenichi, oltre più contrassegni che ne appaiono nel Torrismondo. Nell’età nostra altresì Pier Jacopo Martelli ha fatto prima del Baruffaldi tal professione, cangiando bene spesso luogo da scena a scena. Io non niego che in ciascuna maniera non sieno delle sconvenevolezze, ma più m’aggrada il temperamento de’ Francesi, i quali, benché abbiano talora di simili cambiamenti, riservano, nelle necessità di variare il luogo, la mutazione al fine dell’atto. In tali intervalli siccome si suppone che possan trapassare delle ore, cosi non riesce strana l’alterazione delle positure, come l’altro subitaneo trasporto dell’uditore; oltre di che rimane alle scene quel vincolo che dà tanto pregio alle favole.
Articolo VII.
[4.7.1] Terminerò questa parte del mio paragone con dire che la differenza che ha tra gl’Italiani ed i Francesi nell’arte della rappresentanza deriva dall’avere questi secondi rivolto il loro studio principale al piacere del popolo e dall’aver regolato ogni cosa colla esperienza dell’applauso che dal medesimo si traeva, laddove i primi quasi tutti si son proposti l’imitazione pura de’ saggi lasciatici dall’antichità senza guari curarsi di ciò che può piacere o dispiacere alla propria nazione ed alla propria età; nel che fare i nostri son meno lodevoli degli altri, sì perché le tragedie antiche non sono sì raffinate e perfette che non s’avesse a tentare d’aggiugner loro maggiori perfezioni, come perché fa di mestiere che le favole sieno proporzionate al tempo in cui si fanno ed alle genti che debbono ascoltarle. Un poeta novello ha scritto per iscusa di ciò che niuno ha sin ad ora stabilito regole migliori di quelle dell’antico teatro e che il moderno è una immagine guasta dell’antico, allontanandosi da’ ben fondati precetti in molte sue parti. Ma di vero egli prende errore confondendo ciò che si dee distinguere: conciosiaché (lasciando che nella corruttela del nostro teatro ha gran parte l’ignoranza degli istrioni che scelgono sovente le più sciocche favole per le loro rappresentazioni) certo è bensì che più tragedie dell’età nostra hanno de’ difetti o nelle azioni, o nelle passioni, o ne’ caratteri, o nello stile per cui cedono a’ buoni esemplari che in ciò lasciarono i Greci.
[4.7.2] Ma convien dire ancora che siccome ce n’ha di molte non inferiori alle greche, così ne abbiamo alcune di questo secolo superiori non pur nelle cose medesime, ma nell’artificio della disposizione, e sono più confacenti agli uditori per cui son fatte, il che agevolmente puossi apprendere da chiunque pareggi l’Ifigenia in Tauris e l’Alceste d’Euripide con le due favole fatte da Pier Jacopo Martelli sopra i medesimi argomenti. Il simile vedremmo essere avvenuto della Merope, la quale fu delle migliori di quel greco poeta se l’antichità l’avesse lasciata giugnere a nostri tempi. Ma in mancanza possiamo osservare che l’un de’ motivi per cui la novella del Marchese Maffei supera quella del Riviera e quella del Torelli, scritte con metodo greco, è l’arte d’ordinar gli accidenti e d’introdurre gli attori, e d’accomodare tutta l’azione all’uso del teatro. Contuttociò non parmi di rinvenire in alcuna delle nostre la perfezione che hanno per queste circostanze più favole de’ Francesi, i quali han posto in ciò tanta cura, quanto han trasandato le regole toccate ne’ capitoli precedenti.
Capo V.
Dell’osservanza delle regole spettanti a’ costumi.
Articolo I.
[5.1.1] Tra coloro che sin ad ora hanno ragionato de’ costumi delle francesi tragedie, altri non sanno rifinire di lodarne la bellezza e la dignità; condannano altri ogni lor personaggio di qualità romanzesche, inverisimili e chimeriche. A me sembra che sì quelli come questi diano sopra modo negli estremi. Per ben discernere il merito che hanno in tal parte que’ drammatici scrittori e quindi pareggiarlo con quello degli Italiani, noi distingueremo in vari punti il discorso. Prima d’ogni cosa m’accade di riflettere che, benché il costume sia un ornamento notabilissimo della poesia drammatica, con tutto ciò pare che da’ Francesi siagli attribuito un luogo più degno di quello che veramente tiene nella perfetta tragedia, perciocché occupati quasi totalmente nel procacciarsi con questo la maraviglia, mostransi d’ordinario meno curanti della tragica essenza, la quale consiste nella qualità dell’azione, in cui entrano i costumi non come fini, ma come compagni e talor quasi accessori, come erano in certe favole accennate da Aristotele in quelle parole della Poetica
27
αἱ γὰρ τῶν νέων τῶν πλείστων ἀήθεις τραγωδίαι ἐισί
. Per tale inganno desiderava monsieur Saint Evremond, come s’espresse nel giudizio sopra l’Attila di Cornelio, che questo poeta prendesse a comporre tragedia sopra Annibale e Scipione, non ad altro fine che per veder parlare in maniera conveniente due de’ più grand’uomini del mondo.
Articolo II.
[5.2.1] Ma per discendere all’esame de’ punti sopraccennati incominceremo dalle osservazioni spettanti allo ’ndirizzo morale, il quale è necessario ad ogni sorta di poesia, che ché si dica inettamente il padre Bossu28, il quale non riconosce altra essenziale bontà che quella da lui chiamata poetica, la quale secondo lui puote essere parimenti nella malvagità come nell’onestà. Da ciò che s’è detto nel primo capo di quello paragone, appare che i Francesi nella elezione de’ loro soggetti non hanno quasi mai avuto riflesso d’esporre al popolo quel tanto di probità che fa di mestieri alla persona principale per l’eccitamento della compassione. Ora aggiungerò qual regola s’hanno comunemente proposta nella imitazione de’ tragici costumi.
[5.2.2] Cornelio29 spiega la bontà conveniente alla persona tragica non per quella virtù che vaglia a renderla più degna di pietà; ma per un «caractère brillant et élevé d’une habitude vertueuse, ou criminelle selon qu’elle est propre, et convenable à la personne, qu’on introduit»
. E però stabilisce che ogni persona, anche malvagia, sia capace della tragica maggioranza. Una ragione che a ciò lo muove si è che se dalle tragedie degli antichi e de’ moderni si levassero i cattivi e quelli che sono contaminati d’alcuna macchia offensiva della virtù si ridurrebbon quasi al nulla: in prova di ché s’adduce che Orazio descrivendo i costumi degli uomini non attribuisce loro più perfezioni che difetti. Ma quello Francese cade in errore, prima perché la tragedia non vuole di necessità una eroica virtù scompagnata da qualunque debolezza, ma sol tanta che basti per acquistarle la benevolenza dello spettatore. Inoltre laddove Orazio ci prescrive di dipingere Medea fiera e perfido Isione eccetera, non perciò intende egli dire altro se non che conviene serbare i costumi delle persone quali sono dati e reca esempli di tali persone, perché il loro carattere è de’ più noti, non perché non si potesse citarne dì migliori.
[5.2.3] Ma il motivo fortissimo che conferma Cornelio nella predetta opinione è quel passo d’Aristotele30, ove vuole che i poeti facciano a guisa de’ pittori, che ἀποδιδόντες τὴν ὀικεὶαν μορφὴν, ὁμοίους ποιοῦντες, καλλίους γράφουσιν
. Cioè, come io spiego, «con l’applicazione della domestica forma migliorano le immagini che prendono a fare in quel genere»
. Ma rispondo che non ha con questo voluto Aristotele distruggere la prerogativa della perfetta tragedia, a cui debbon servire i costumi, e che però non conviene nella introduzion de’ medesimi trasandare il riguardo di quella col far conto solamente di quella maraviglia che potrebbe recare una qualità segnalata di spirito in una persona viziosa, la quale, come che possa produrre alcun piacere, nonpertanto non hassi a procacciare, amando la buona poesia quel solo che è congiunto col giovamento, il quale non può negarsi esser fine primario, perciocché il ben morale è la meta più degna e più nobile che possa avere un’arte.
[5.2.4] Il diletto che propone Cornelio è sì lontano dal retto fine che, invece d’unirsi con l’utile, produce il mal effetto di render piacevole lo stesso vizio. Infatti qual altro è quello che nasce dalle bugie del suo mentitore ch’egli reca per esempio della sua praticata dottrina? Dorante, dice egli, «débite ses menteries avec une telle présence d’esprit, et tant de vivacité, que cette imperfection a bonne grâce en sa personne, et fait confesser aux spectateurs que le talent de mentir ainsi est un vice dont les sots ne sont pas capables»
. Quindi puossi comprendere quanto egli si compiaccia vanamente sì del carattere di Cleopatra, dallui rappresentato nella Rodoguna
31, come di quello di Marcella esposto nella Teodora, del quale si loda assai più che della virtù di Teodora stessa, per quella sola attrattiva che consiste nell’essere animata da una mostruosa fierezza32. Vana parimenti è la compiacenza ch’egli ha per lo carattere di Placido, che dà per modello d’un perfetto protagonista della medesima favola33, posciaché, per renderlo vigoroso quale egli lo vanta, l’induce a parlare con tale indecenza a Marcella, moglie di suo padre, che giunge a dirle che sarebbe ito a cercarla nel letto paterno per prevenire i suoi disegni col trucidarla.
[5.2.5] Di sì nocivo diletto sono infetti i costumi de’ Cinni, degli Attili, de’ Stiliconi e d’altri che non hanno altro allettamento che quel carattere brillante di cui son capaci non solamente coloro che non operan per virtù, ma quelli ancora che son malvagissimi. Racine è stato più di ciascuno avveduto, additando in più protagonisti che ha preso ad imitare quella vera virtù che può nel medesimo tempo renderli amabili ed utilmente esemplari. Per giustificare la pratica di far tragedie senza il riguardo di conciliare colla bontà morale la compassione, asserisce Pietro Cornelio34 essersi a suo tempo ritrovato alla poesia tragica un giovamento che non era in uso presso de’ Greci, il qual consiste nell’esporre al popolo il gastigo delle male opere e la ricompensa delle buone; ma certo egli mostrasi poco erudito delle favole de’ tragici antichi, ove si scorge un simil fine, ancorché propriamente considerato accessorio all’ottima costituzione delle medesime. Scrisse Seneca35 che insorto il popolo contro chi rappresentava il Bellerofonte d’Euripide, ove si posponevano le virtù morali all’ammirazione dell’oro, si frappose il poeta dicendo che prima di sdegnarsi conveniva attender l’esito infelice che nella favola egli aveva. Plutarco parimenti narra36 ch’Euripide si difese da chi lo rimproverava per l’empietà d’Isione con dire che prima d’uscire dalla scena egli rimaneva affisso alla ruota.
[5.2.6] Già toccai una altra massima ch’ebbe Cornelio intorno i protagonisti e che quindi è passata anche ne’ suoi successori, la qual si è che la tragedia possa ricevere altresì per unico fine quel frutto che nasce dalla forza dell’esempio. Quivi, ascrivendo egli anco di tale invenzione la gloria alla sua età, disse che mancava a’ Greci il vantaggio che da quello può derivare; in che parimenti errò, perciocché vero è che nel secolo di que’ poeti non fioriva una morale sì fina come ne’ nostri e che però molte lor favole riescono difettose, ma sconcio è pure sì l’asserire che in que’ tempi non fossero uomini che potessero con la lor virtù servire d’esempio agli altri, di ciò convincendo le storie; sì l’imputare alle loro tragedie una totale mancanza di simili persone. Basta fra l’altre osservare l’Edippo e l’Antigone di Sofocle per rinvenire in quello il carattere d’un buon Re, che con paterno amore verso de’ suoi sudditi, scordato quasi della propria dignità e della cura della propria salvezza, esce dalla sua reggia come un privato per provvedere a’ loro bisogni, dando saggi di vigilanza, d’umanità, di modestia e di pietà, ed in questa il ritratto d’una religiosa, pia ed intrepida principessa, che per seppellire il cadavere del fratello s’espone a pericolo di morte. Pure egli è vero che nel poema tragico l’utilità dell’esempio non è principale; essa fu creduta, come in fatti è, più propria della epopeia, e tutto che Omero malamente nell’Iliade la procacciasse, egli diede di ciò buon saggio nell’Odissea. Però disse Orazio:
Rursus quid virtus et quid sapientia possitUtile proposuit nobis exemplar Ulyssem37.
E molto meglio d’Omero ci mostrò Virgilio nel suo Enea il modo di ben esercitare sì le virtù belliche che le civili, sicché lo Scaligero profferì38 che «nullis philosophorum praeceptis aut melior aut civilior evadere potes quam ex Virgiliana lectione»
.
[5.2.7] Adunque avvisatosi Cornelio d’avere stabilito un nuovo giovamento alle favole tragiche, introdusse l’usanza, seguita poscia da’ Francesi comunemente, di fare tragedie con puro oggetto di proporre alla gente de’ modelli di virtù. Quindi è che essi, datisi ad imitare altamente i costumi degli eroi, non solo privarono la poesia tragica del suo fine per attribuirle quello del poema epico, ma per l’ansiosa brama di rendere maravigliosi tali caratteri fecero delle immagini, in cui si scorge più l’idea pellegrina del poeta che l’imitazione, somiglianti a quelle fantasime che veggonsi in sogno ma non si ponno raggiugnere, laonde in vece di produrre alcun frutto, sono atte solamente a sospendere gli spettatori in uno scioperato stupore, o se fanno alcun’effetto, a renderli fanatici.
[5.2.8] Racine pare più moderato degli altri, per la qual cagione credo che s’inducesse monsieur de la Bruyere a dir39 che Cornelio forma gli uomini come dovrebbono essere e Racine come sono, ma per vero dire s’applica male a quelli due poeti una tale sentenza che fu dalli antichi fatta tra Sofocle ed Euripide. A Racine, secondo il mio parere, conviene il vanto di fare gli uomini come debbono essere; Cornelio all’incontro per far gli uomini come esser debbono li fa sovente quali esser non ponno, sul qual metodo s’è lavorata la maggior parte delle francesi tragedie. Ciò massimamente mi spiace laddove tali caratteri pregiudicano al fin tragico, come avviene nella Sofonisba di Cornelio, la quale, per essere feroce e non sentire alcun affetto per lo marito abbandonato, si rende meno atta a farsi compatire. Quindi pure avvenne che la Sofonisba di monsieur Mairet piacque in Francia molto più di quella di Cornelio, perocché dallui fulle imposto un costume più naturale e più dolce. Il medesimo si potrebbe dire d’Orazio, a cui Cornelio ascrive un costume troppo aspro, il che non fa il nostro Aretino, che per altro lo rappresenta coraggiosissimo.
[5.2.9] Ma convien far ragione a’ Francesi con non tacere che, laddove essi si son proposti per accidente di muovere l’uditore a pietà d’alcun personaggio participante delle tragiche azioni, han saputo con molta arte cattivargliela o nascondendo, o scemando al possibile le colpe che secondo l’esatta fedeltà della storia avrebbon potuto, coll’offendere i nostri animi, impedirci la necessaria indulgenza. Però si loda Cornelio ben giustamente d’aver nella Rodoguna preservato Antioco dal parricidio, ancorché egli non sia veramente il principale attore, come il poeta si persuade.
[5.2.10] Non così puossi però lodare monsieur Duchè, che siccome mostra d’avere inteso meglio d’altri la vera idoneità de’ protagonisti tragici, così s’è fatto lecito d’alterare nel suo Assalonne l’istoria sagra, acciò questi non fosse odiato anzi che compatito. Si difende fievolmente l’autore con dire che dotti teologi l’han liberato da tali scrupoli. Quando egli non avesse peccato come poeta in teologia ha peccato in poesia, perocché le circostanze della divina scrittura si suppongono note e non soggette a quella varietà d’opinioni che s’incontra nella storia umana. Per altro credo altresì non potersi senza offesa delle sagre carte, in cui ogni fatto ed ogni detto è misterioso alterar le cose a capriccio. Fu però con ragione da’ critici censurato il poema del parto della Vergine del Sannazaro, e l’Iephte del Buccanano. Racine nell’Ester osservò bene tal regola.
[5.2.11] Circa le persone non primarie non voglio lasciar di dire un difetto, in cui qualche fiata è caduto Pietro Cornelio ed alcuni altri più moderni, come che Racine siasene guardato. Questo è nel rappresentare de’ malvagi senza necessità. Ciò m’ha sorpreso massimamente nel Catone di monsieur Des Champs, ove l’autore si vale della libertà poetica per inchiudere nella favola Farnace, che nulla ha che fare nella azione, e non contento d’imitarlo quale egli fu, lo finge anche peggiore attribuendogli misfatti dallui non sognati. Male si scusa il poeta con dire che non lo crede capace di far cattiva impressione, perciocché viene proposto come uno scellerato abominevole. La malvagità punita, tuttoché non necessaria, sarebbe soffribile in tragedia di lieto fine, ma in una di fin lugubre come è quella non può fare si non effetto nocivo, distraendo l’uditore in affetti diversi dalla pietà. Lascio però giudicare quanto sia ridevole il motivo per cui mostra questo Francese d’essersi indotto a ciò fare, dicendo egli nella sua prefazione: «Persuadé qu’il faut des ombres dans un tableau, j’ai taché d’opposer des crimes aux vertus de Caton.»
Quasi che la luce della virtù abbia d’uopo del contrasto delle ombre per comparire. Non saprei scusare neppure monsieur de La Fosse per avere nella Polissena fatto Pirro reo senza necessità d’essersi opposto al paterno comando con pertinacia irreligiosa e con civile dissenzione; da che s’è ben guardato il nostro Annibale Marchesi.
Articolo III.
[5.3.1] La bontà morale che nel più de’ loro protagonisti hanno rappresentato gl’Italiani non giunge che ad una mediocrità capace d’incontinenze e d’imprudenze e simili difetti, nel che non si sono scostati dal fine tragico. Contuttociò desiderarei in alcuni d’essi, che si mostrasse più di virtù che di passione viziosa e che si fosse con arte scemata la gravezza di certe lor delinquenze che li fanno apparire men degni di compassione. Tra questi si puote annoverare Beatrice che è nel Corradino del Caraccio, della quale s’accennano bensì varie passate virtù, ma non se ne vede orma nel corso della favola che possa rendere compatibile la di lei disgrazia, sicché tutta la pietà rimane sopra l’innocente Corradino. Per altro non sono mancati degli autori che, scordati del mezzo proprio per recare un profittevol timore, altro non han preso a mostrare che l’innocenza e la virtù depressa; de’ quali possono esser saggio il Palamede ed il Servio Tullio del Gravina. Né tacerò d’altri poeti, anche più male avveduti, che senza alcun riguardo han posto sulle scene azioni e sciagure di protagonisti empi che né possono muover compassione, né giovar col terrore, perché di quella sono indegni e questo si rende inutile al più della gente che non è sì scellerata. Tali mancamenti si veggono nella Progne del Domenichi, e nella Fedra di Francesco Bozza, la quale ben longe dalle circostanze artifiziose ritrovate da Racine per renderla degnamente compatibile, procaccia arditamente di soddisfare l’adultere ed incestuose voglie e quindi non per altrui stimolo, ma contro il buon consiglio della stessa nutrice, desiderosa di vendicarsi s’avanza ella stessa a calunniare l’innocente figliastro, laonde ciò che poteva soffrirsi in certo modo presso Euripide e presso Seneca, i quali trattarono tal fatto sotto la persona d’Ippolito, diviene per questo poeta insopportabile.
[5.3.2] Il frutto del terrore, non men che dello esempio morale, si scema anche in altra guisa, cioè col mostrar punito un delitto col trionfo d’un maggiore, della qual cosa si veggono forse più esempli ne’ nostri che ne’ Francesi. Tali sono particolarmente quelli ch’abbiamo nella Progne sopracitata, nell’Acripanda d’Antonio Decio e nella Tullia di Lodevico Martelli, ma diviene più detestabile simile impunità de’ rei trionfatori, poiché si veggon per opera loro perire gl’innocenti, come nella Perselide di Pier Jacopo Martelli, dove si fa pure la sultana più rea che non appar dalla storia, fingendosi che operi per pura ambizione, non per amore del figliuolo.
[5.3.3] Ne’ personaggi di secondo ordine avvi pure in alcuni nostri della colpevole inavvertenza. Di vero io non so vedere alcuna necessità nell’Ezzelino del signor Baruffaldi che richiedesse Ansedisio, uomo d’iniquità ben nota, la quale riesce tanto più biasimevole quanto importuno al fin morale della poesia è il suo sopravvivere. Nulla più faceva di mestieri l’Ebreo che si vede nel Procolo di Pier Jacopo Martelli, la cui avarizia forma un carattere più proprio per lo ridicolo della commedia che per la gravità della tragedia. Marco nell’Appio Claudio del Gravina era persona necessaria, ma il suo perfido e calunnioso ruffianesimo non doveva vedersi senza castigo. Ma delle leggi della bontà morale ho parlato abbastanza.
Articolo IV.
[5.4.1] Passeremo ora al decoro, il quale ancorché sia per se stesso preso qualità de’ costumi meno instruttiva, non è però meno essenziale. Esso è come canale per lo cui mezzo s’insinua piacevolmente la probità, la quale non avrebbe alcuna forza, se non venisse da quello per così dire animata, perciocché non essendo il decoro se non una certa convenevolezza che hanno l’opere ed i ragionamenti colle persone, ogni azione ed ogni discorso rimane senza la medesima inverisimile. Orazio ristrinsela sotto l’osservanza di cinque attributi, cioè della condizione, dell’età, del sesso, dell’ufficio e della nazione, mentre disse:
Intererit multum davusne loquatur herosve,Maturusve senex an adhuc florente juventaFervidus, an matrona potens, an fedula nutrix,Mercatorne vagus, cultorne virentis agelli,Colchus an Assyrius, Thebis nutritus an Argis.
Io riduco al decoro anche l’egualità, tuttoché si soglia distinguere perocché, se dritto si mira, altro non è la mancanza di questa che una offesa di quello.
[5.4.2] Furono delle predette proprietà poco esatti osservatori i Greci, o fosse ciò difetto della adolescenza in cui si trovava allora la poesia, o, come altri ha creduto, della rozzezza di que’ popoli, i quali amavano stoltamente gli spettacoli e massimamente le tragedie. In ciò che riguarda la lesione della dignità de’ caratteri appare certo che il costume del secolo aveva non poco contribuito: però nelle tragedie scritte a’ tempi del Romano Impero, che vanno sotto il nome di Seneca, si veggono corretti degli sconci commessi in tale proposito non pur da Euripide, ma da Sofocle stesso, quantunque per altro esse sieno inferiori alle greche. Può servire per saggio la morte della reina Giocasta, che appresso il greco poeta s’appicca ad un laccio ed appresso il latino s’uccide col ferro. Parimenti con giudizio vien mitigato da Seneca il discorso che secondo Sofocle fa Ercole al figliuolo per obbligarlo ad essere parricida e divenire consorte della concubina paterna. Hanno le loro indecenze sì gl’Italiani che li Francesi, ma con particolar differenza.
[5.4.3] Una delle colpe più comuni a’ Francesi consiste nell’avvilir troppo in Grazia dell’amore i loro eroi, il che riesce tanto più assurdo quanto procacciano di farli maggiori che non sono. Per tal cagione fa stupire il vedere, nell’Alessandro del Racine, uscir quel re dal conflitto curando più d’anticiparsi il contento di riveder l’amata Cleofila che di sapere il fine del suo nemico. Tomaso Cornelio deprava il costume del Conte d’Essec col renderlo pazzo d’amore e farlo morire più per disperazione che per la grandezza dell’animo. Telefo travestito, cui per cagion d’amore introduce monsieur de La Fosse nel campo de’ Greci, merita per lo meno quella censura che nelle Rane d’Aristofane dassi ad Euripide, perché indusse de’ re sul teatro sotto abito non decoroso.
[5.4.4] Un altro errore assai frequente è l’alzar troppo all’incontro i caratteri delle donne, dandosi loro ancorché più deboli per natura, il coraggio proprio degli eroi per superare la violenza de’ teneri affetti. Nell’Edippo di Pietro Cornelio si vede unitamente tale contrapponimento, ove si crederebbe Dircea un eroe e Teseo una femina, mentre invece di far servire l’amore alla grandezza dell’animo non sa questi sostenere per una scena intiera l’impresa dissimulazione. L’altera asprezza di Sofonisba, la magnanimità di Cornelia sorpassano il sesso virile non che il donnesco.
[5.4.5] Il terzo difetto, il quale è molto generale, è la poca distinzione delle nazioni, e come che consista esso principalmente nell’attribuire a vari popoli anche più barbari la galanteria amorosa, ed il genio delle francesi maniere si trova talor notabile anche per l’inosservanza e per la confusione delle altre nazionali proprietà, siccome pecca solennemente monsieur Crebillon nel suo Radamisto, fingendo che questi fosse inviato da’ Romani ambasciatore a suo padre Farasmane, ancorché fosse contro il rito romano il dare a barbari carattere d’ambasceria. Né meno strana è presso Racine la grandezza e la nobilità de’ sentimenti di Poro, la cui ferocia secondo Curzio era grande bensì, ma la coltura non eccedeva i limiti della rozzezza indiana, venendogli ascritta «quanta inter rudes poterat esse sapientia»
40. Tralascio la galanteria con la quale egli dice che corre al vincere
…………………………… bien moins pour éviterLe titre de captif, que pour le mériter41.
[5.4.6] Rispettivamente all’ufficio, all’età e all’uguaglianza sono più radi i falli. Intorno all’ufficio hammi offeso assai nelle tragedie di Cornelio la temerità con cui parla Placido alla moglie paterna, Dircea a Giocasta sua madre e a Edippo suo padre. Intorno l’età mi viene in mente l’esempio del Britanico di Racine, il quale, ancorché si finga imprudente, parmi che superi col senno gli quindici anni. Gioa, nell’Atalia del medesimo, eccede anche più li dieci anni, che licenziosamente gli si ascrivono dal poeta con alterazione della storia sacra, perocché quantunque le sentenze ch’egli dice sieno di quelle, che puote avere appreso nella scrittura, l’applicarle sì bene e sì d’improvviso alle proposte, non è possibile a tale età. L’equalità da Pietro Cornelio e da Racine è stata generalmente bene osservata. In qualche più moderna tragedia si vede nondimeno mal conservata, e particolarmente nel Radamisto del Crebillon.
Articolo V.
[5.5.1] Fra le circostanze del decoro quella che più s’è trascurata da’ nostri poeti è la maestà delle tragiche persone, di che credo essere stata cagione la cieca imitazione degli esemplari greci. Cotale difetto in tre guise si vede occorso. Una è dove si sono rappresentati soggetti assai antichi, i quali per loro natura vogliono una semplicità troppo dissimile dalle nostre consuetudini, né in ciò puossi altro desiderare se non qualche giudiziosa mescolanza della moderna grandezza, la quale, senza distruggere l’essenza de’ riti antichi, alletti e passioni lo spettatore. Per mancanza di questa credo esser rimaste con poco applauso molte italiane tragedie. La ragione che a ciò mi muove è che il popolo, per cui tali favole son fatte, non apprende l’idea d’un re senza l’idea della maestà che suole accompagnarlo, laonde ove questa manchi, la rappresentanza riesce men verisimile e meno efficace. Per simile cagione il nostro Tasso42 fu di parere che non si dovesse scegliere per un poema argomento che per l’antichità richieda costumi troppo dispari, ma ristrinse egli troppo col suo rigore le materie, potendosi ciascuna accomodare a’ nostri tempi. Il Giraldi però43 lodò molto ragionevolmente Seneca, perciocché laddove egli rappresentò li medesimi successi d’Euripide, diede loro una maggior maestà.
[5.5.2] L’Oreste del Rucellai, la Merope del Torelli con moltissime altre ch’abbiamo di soggetti greci patiscono l’accennato difetto. Ma questo è di poca considerazione a rispetto d’altre composte sopra avvenimenti romani, perciocché in esse si scorge altro errore contro la proprietà della nazione, avendo quasi tutte qualche bassezza. In questo numero è la Sofonisba del Trissino, ove si vede fra l’altre cose che Lelio, il quale, dopo Scipione, secondo il poeta «tenea del campo il più sublime onore»
, si trattiene nell’ufficio vile ed indegno del roman fasto di visitare le stalle. Il Conti nel suo Cesare sostenne meglio degli altri il decoro de’ Romani: contuttociò non parmi proprio della maestà d’un dittatore ch’egli si trattenga in un pubblico atrio a far tutti i ragionamenti di quel dramma, massimamente quello della scena 1 dell’atto 4.
[5.5.3] Grave sconcio contro la tragica dignità pure è quello che deriva dalla qualità delle azioni principali, sovente improprie. Fra molti esempli che di queste potrei recare m’ha sommamente stomacato quella che compone tutto il fondamento della favola intitolata l’Appio Claudio del Gravina, conciossiaché non si potesse scerre fatto più sconvenevole non meno per la viltà che per l’iniquità, non essendo egli altro che l’impresa di tradire una fanciulla. Notati i falli più generali non lascerò di dire, circa l’altre proprietà del decoro, che s’incontrano qualche fiata de’ difetti enormi. Grave nel proposito dell’ufficio è quello di Tullia44 nella scena che fa con la madre, ove rinfacciando ella a’ parenti de’ misfatti dice cose indegnissime: in che tanto è più da biasimarsi l’autore, quanto pecca contro la storia introducendola ad operar per odio del padre e della madre, mentre secondo Livio non aveva altro stimolo che ’l desiderio di regnare. Impropri per lo costume d’un giovine allevato fra l’armi e convenienti solo ad un filosofo sono i seguenti versi, che il Rucellai fa dire al suo Oreste per provare che fosse vano l’oltraggio che credeva fargli Toante:
E non sa che l’uom muor dal dì che nasce,e ch’ei comincia a viver quando muore.
A che quivi appresso soggiunge:
Pensate, che lo spirto che Dio colsedall’ampio grembo su; poscia lo posecome una luce in questi cechi sensi,desia tornar nel suo patrio albergo.
[5.5.4] Offende sopra modo nel Torrismondo del Tasso il sentire la reina madre che persuade la figliuola a maritare, descrivere allei li piaceri, li soavi sussurri ed i baci che si rammentava nel suo letto vedovile, come farebbe una sfacciata ruffiana. Né propria del sesso e della sua educazione è la risposta che ella rende a’ consigli materni laddove invidia fuor di proposito la sorte de’ guerrieri. Per disuguaglianza sconvenevole è il costume della Merope del Torelli, la quale dopo aver mostrato nel corso della tragedia contro Polifonte tutto quell’odio che si può concepire per un tiranno, uccisor del marito, usurpatore del suo regno, al fine vedendolo estinto per mano del proprio figliuolo, invece di gioire per essere liberata e per essere ricoverato nel regno il figliuolo stesso, si trattiene a dire a favore del morto tiranno:
Fosti re valoroso e quel che duolmie per forza mi trae dagli occhi il pianto,fosti leal, fosti cortese amante.
Quindi dopo avere proseguito più lungamente a lodarlo, soggiugne, come se la vanità della sua bellezza fosse stata cagione della morte di due amati re:
O mia vana bellezza, eccoti estintiavanti due re grandi, e tuoi fedeli!Che più t’insuperbisci, o che altro pregioomai che morte, o che continuo duoloda tal trionfo da tal fasto attendi?
[5.5.5] Indecente per inequalità trovo anche il costume dell’Oreste del Rucellai, il quale, come che forte in tutto si dia a conoscere, chiede poscia soccorso alle donne del coro per la commozione che gli reca la memoria della sorella già gran tempo estinta in apparato simile al suo. Il poeta ha voluto ad imitazione dell’Enea virgiliano unire in Oreste la pietà colla fortezza, ma egli è caduto in errore inescusabile, perciocché (omettendo che Enea appresso Virgilio non chiede mai aiuto a donne in simili congiunture, né tra morti, come qui succede ad Oreste) non era da giudizioso scrittore l’imitar Virgilio in una massima, per cui si rese egli stesso condannevole nel suo poema, ove fa piangere Enea ora sotto il tempio di Giunone nel guardare le immagini dell’assedio di Troia, or nella perdita di Creusa, or nell’abbandonamento della patria, or nel partire da Andromaca, or nell’affogamento di Palinuro, ed in più altri luoghi. Conciossiaché, quantunque la pietà non si possa eschiudere dal numero delle virtù, l’abito del piagnere agevolmente è sempre indizio d’animo molle e di fievolezza feminile che mal s’accorda con la magnanimità: che che s’abbian detto alcuni, schiavi ammiratori di Virgilio. Però con ragione fu da Platone45 biasimato per simili mancanze di decoro anche Omero, che fece scorto al poeta latino.
Articolo VI
[5.6.1] La terza qualità de’ costumi che ci occorre d’esaminare è la somiglianza, la quale è dal decoro in ciò differente, che questa riguarda la particolare corrispondenza che hanno le persone colla storia o colla fama, siccome l’altra spetta generalmente al sesso, all’ufficio ed alle altre condizioni. Contro questa peccano il più delle volte i Francesi in due maniere, cioè o nell’elevar troppo i caratteri oltre i confini del verisimile, o nell’accomunarli tra loro nell’uso dell’amore. E come che d’amendue questi falli possano servire per prova gli esempi sopra addotti in altri propositi, con tutto ciò per lo primo non voglio omettere il carattere espresso nella persona di Filottete dall’Arouet de Voltaire. Egli nel novello suo Edippo appar tale che appena si potrebbon dire d’Ercole stesso, di cui fu soldato, i vanti che il poeta gli mette in bocca, rubando a Seneca i sentimenti con cui Alcmena parla del proprio figliuolo.
[5.6.2] Per lo secondo è notabile il costume d’Ippolito nella Fedra del Racine e quello d’Elettra appresso il Crebillon. Ippolito non pur da Euripide e da Seneca vien descritto alieno da pensieri venerei, di costumi rigidi e seguace di Diana, ma da tutti coloro che hanno di lui parlato si raccoglie ch’egli era tale. Però nelle favole46 d’Igino, nelle Metamorfosi d’Ovidio47, nell’Eneide di Virgilio48 leggesi che Diana, dea della pudicizia, lo protesse sì, che per mezzo d’Esculapio ritornollo in vita. Ed Orazio49, benché neghi tal fatto, ciò non ostante nomina Ippolito pudico. Che se Virgilio narra avere egli sposata Aricia, ciò però non fece secondo lui che dopo essere risorto sotto nome di Virbio. Io per ciò non so come si potesse da Racine finger cotanto erudito nella galanteria amorosa senza guardare il carattere lasciatoci dagli antichi.
[5.6.3] Elettra, giusta le prische memorie, conservò sempre un odio implacabile contro Egisto uccisore di suo padre, usurpatore del suo regno ed autore della di lei schiavitù, e trasse in continua afflizione la vita fin che il fratello dallui preservato in fanciullezza ed altrove mandato in educazione giunse in età di fare la comune vendetta. Monsieur Crebillon per nobilitare il di lei carattere le attribuisce qualità ripugnanti non pure alla fama, ma alla natura stessa, fingendola innamorata del figliuolo d’Egisto, perocché siccome l’amore, il quale50
«luxu, otio, nutritur inter laeta fortunae bona»
, non si confà colla vita misera ed angosciosa d’Elettra, così disconviene al suo odio, il quale doveva renderla avversa a tutto ciò ch’aveva attenenza con Egisto. Quindi si può scorgere quanto male scusisi il poeta con dire ch’egli non ci presenta la favola di Sofocle o d’altri, ma la sua, e che non si può riprendere d’avere alterato il costume d’Elettra nulla più che i pittori che dopo Apelle hanno dipinto Alessandro senza fulmine in mano. Sofocle ha bensì commesso delle indecenze nel costume d’Elettra che non pure imitare non dovevansi, ma s’avevano a schifare. Nonpertanto non era lecito ascriverle carattere sì fantastico.
[5.6.4] Una parte de’ nostri poeti s’è liberata dalla soggezione di rassomigliare la fama col prendere persone o finte o non note, ma siccome con ciò non hanno commessi errori contro la medesima, così riescono meno ingegnose e men dilettevoli le lor favole, e talor anche meno utili. Con tale libertà sono scritte l’Orbecche ed altre del Giraldi, il Torrismondo del Tasso, l’Idalba del Veniero, l’Elisa del Closio, la Dalida del Groto, l’Acripanda del Decio. Gli altri che hanno imitato persone celebri non si sono d’ordinario scostati dalle tracce delle loro memorie e sono anzi incorsi in qualche difetto per aver talora affettato troppo la rassomiglianza, ove ella offendeva alquanto la convenienza.
[5.6.5] Per questa cagione i’ non saprei approvare i garrimenti contenziosi di Pirro e d’Agamemnone nella Polisena del Marchesi, ove s’imitano senza moderazione quelle indecenze che hanno reso condannevoli negli antichi originali i caratteri de’ medesimi e d’altri eroi. La necessità d’osservare la convenevolezza dispensa dallo rassomigliare la stessa storia non che le favole, quando si può dissimulare alcun difetto senza contrapporsi alle loro notizie: però con ragione fu dal padre Bossu51 lodato Cornelio per aver giudiziosamente soppresso l’avara inclinazione di Maurizio, la quale come indegna d’uno imperatore avrebbe offeso gli spettatori. All’incontro male avvisossi monsieur Duchè d’attribuire ad Assalonne il carattere di penitente per abilitarlo al movimento della compassione, conciossiaché contraria alle memorie della Sacra Scrittura. Né con tale occasione lascerò di biasimare il medesimo poeta, poiché per render Gionata idoneo a recare un salutevole terrore lo rappresenta fanatico, laddove gli fa dire: «l’ignorance est au crime une frivole excuse»
, volendo egli esser reo più che non è52. Quegli che tra nostri ha meglio d’ogni altro rassomigliato la storia, omettendo solamente ciò che poteva pregiudicare al fin tragico, è l’abate Conti. Li Francesi non hanno alcuna tragedia ove sieno con pari esattezza ritratte le idee de’ caratteri antichi.
Articolo VII.
[5.7.1] Ora che abbiamo esaminato sì le tragedie italiane che quelle de’ Francesi rispettivamente alle qualità de’ costumi, ci rimane ad osservarle in riguardo del maggiore o minore scoprimento de’ medesimi, il quale è una parte sopra l’altre notabile come fondamento di quelle, perciocché laddove questo manchi debbon mancare necessariamente la bontà, la convenienza, la somiglianza; ove per contrario gli atti ed i discorsi son copiosamente e vivamente costumati, cresce altresì l’ornamento che la favola riceve dalle predette circostanze, oltre di che li costumi sussistono in qualche luogo senza bisogno d’equalità, di somiglianza e di bontà. Una parte della morale imitazione non dà veruna loda al poeta, essendo di sua natura unita a’ fatti e però necessaria a qualunque favola. Che se Aristotele narra essersi composte da certi poeti del suo tempo molte di esse senza costumi, non vuolsi intendere se non che esse ne trascuravano assai l’uso ch’avrebbon potuto farne.
[5.7.2] L’altra parte è un ornamento che avvalora l’utile degli drammi, senza lasciare apprendere al popolo che si voglia instituirlo, e ne accresce l’aggradimento col diletto suo proprio. Di ciò si veggono esempi nobilissimi nelle reliquie ch’abbiamo delle greche tragedie, e massimamente appresso Sofocle, che per animare i costumi derivò le sentenze dalle particolari inclinazioni, non da principi universali e filosofici. Contuttociò, s’io mal non m’appongo riflettendo sopra di esse, que’ poeti guari non si curarono di qualificare altri caratteri fuori che quello de’ primi personaggi, traendo per lo più non dalle morali disposizioni, ma da’ fatti i sentimenti degli altri interlocutori. Inoltre quegli stessi costumi ch’avevano intenzione di rappresentare non furono nelle loro tragedie dipinti con quel rilievo e con quella vivacità che abbiamo poscia osservato in altre. Il medesimo dee dirsi di gran parte delle favole nostre de’ passati secoli: quindi avviene che molti discorsi che potrebbonsi perentro animare con grande allettamento del popolo, riescono freddi e senza attrattiva.
[5.7.3] Per avvedersi di ciò non hassi che a leggere nella Sofonisba del Trissino i ragionamenti di Lelio, di Catone e di Scipione, i quali, come che fossero idonei a rapire ogni uditore colla distinta grandezza del loro carattere, nulla più l’occupano che se essi fossero altre comuni persone: li Francesi, che hanno procacciato ciascun mezzo di dilettare in supplimento di quel proprio e finale piacere da essi trascurato, hanno il merito d’aver dato a’ costumi una estensione, un risalto ed una vivacità che prima non avevano avuto. Nondimeno alcuni de’ nostri in questi ultimi tempi gli hanno anche in ciò superati. Certo chi leggerà le tragedie di Pier Jacopo Martelli incontrerà non solamente de’ caratteri più esemplari e più propri, ma più vivi ancora e più vari. Il Corradino del Caraccio, la Merope del Maffei, il Cesare del Conti con qualche altra sono pure sì eccellenti per la rilevata e copiosa pittura di convenevoli costumi che nel lor genere non possono i Francesi pretendere veruna superiorità.
Capo VI.
Della qualità dello stile praticato da’ poeti d’ambedue le nazioni.
Articolo I.
[6.1.1] Lo stile che riceve la sua essenza da’ pensieri e dalle parole trae altresì dal vario componimento di quelli e di queste le convenevoli proprietà che perfezionano il suo valore e la sua bellezza. Però, benché nel capo precedente abbia ragionato della sentenza per ciò che riguarda lo scoprimento del costume, mi rimane ora a discorrere della medesima, considerata come idea di ciò che si sente, o si vuole dalle persone tragiche. Ella soggiace propriamente alla retorica, ma tanto distinguesi dalla oratoria invenzione, quanto l’una viene con agevolezza in mente e si serve di voci usitate e naturali, e però fu da qualcuno detta cittadinesca; l’altra non sovviene se non a chi parla studiosamente ed ama per lo più maggior coltura di parole e di figure: senza che questa seconda ha per oggetto principale il provare e per accessorio il muover gli affetti, la prima all’incontro è più diretta a muovere che a provare. Esamineremo adunque nelle favole de’ nostri e de’ francesi poeti la qualità sì de’ concetti, come de’ vestimenti, che a’ medesimi presta l’elocuzione, avendo rispetto ed al fine della tragedia ed alla condizione di chi vi favella.
Articolo II.
[6.2.1] Più scrittori di tragedie italiane ebber ciò di comune, che mal sostennero con lo stile la tragica maestà, perocché disperdendo i concetti in una verbosità prolissa, priva di ritegni, e propria ben sovente della prosa più famigliare, egli riusciva languido e dozzinale, ed invece di ricever sostegno dal verso, cadeva nel noioso suono d’una vil cantilena, con difformità nulla meno spiacevole di quella che apparirebbe in vedere gran matrona abietta nell’abito e scomposta nel portamento. Inoltre agli stessi concetti manca talora la necessaria grandezza, massimamente ove si fanno parlare Romani con la greca semplicità.
[6.2.2] Un terzo difetto de’ medesimi si è che per sostenere in alcuna guisa sì cadente elocuzione hanno frammischiato con disuguaglianza di stile comparazioni ed allegorìe, le quali appaiono tanto maggiormente improprie, quanto sovente si fanno proferire a persone appassionate. Tale è nella Sofonisba del Trissino la seguente espressione detta da quella reina nel colmo delle sue afflizioni:
Turbato è ’l mare, e mosso un vento rio,pur troppo oimè per tempoche la mia nave disarmata inscoglia.
Il Giraldi nelle sue tragedie ha molti esempli di ciò; non dissimile del precedente è quello ove Oronte dice fra sé mentre si duole di sue disavventure53:
Difficile è nell’onde acerbe, e crudequando l’irato mar poggia, e rinforza,tener dritto il timone: ma non deveperò esperto nocchier perder sì l’arte,che dall’ira del mar rimanga vinto,senza opporsi al furor: che spesse voltevince l’altrui valor l’aspra tempesta,e s’avvien pur ch’ei si sommerga in mare,gran parte di contento è non averelasciato cosa a far per sua salvezza. […]
Chi crederebbe che un uomo il quale veramente pensi alle proprie calamità, mediti i casi del nocchiero?
[6.2.3] Nell’Orazia dell’Aretino, oltre certe indecenti allegorie, notabile è la similitudine che reca Publio Orazio pregando il popolo romano acciocché non condanni il suo figliuolo. Dice egli:
La gioventù, furor della naturache in l’esser suo un caval fiero sembradai legami disciolto in un bel prato,che in sè ritroso la giumenta vistanei campi aperti alza su i crini folti,le nari allarga, e la bocca disserra,fremita, ringe, calcitra e vaneggia,poi dopo alcuni salti e forti, e destrimosso il gagliardo e furioso corsoné precipizio u’ traboccarsi possa,né tronco, dove dar di petto debbia,né sasso, o altro ivi in suo danno guarda.
Tra gli autori delle prime tragedie si distinse con qualche particolar pregio di sublimità il Rucellai nell’Oreste, benché affettasse di render magnifico lo stile con forme talor troppo poetiche e con l’uso di parole troppo latine, ed offendesse la gravità della tragedia con qualche cicaleccio.
[6.2.4] Altri scrittori di quel secolo avvedendosi della languidezza che pativan le prime favole tragiche, s’avvisaron di provvedere al mancamento con gli ornamenti non pur della epica, ma della lirica poesia; quindi avvenne che spogliarono il Petrarca de suoi be’ modi di dire per introdurli nella tragedia, perdendo di mira il suo vero fine, che non puossi ottenere se non per mezzo di concetti e parole dicevoli alla natura. Laonde i lor tragici discorsi per essere pieni d’abbellimenti alieni dal proposito, rimangono inefficaci alla compassione ed al terrore, e le persone che li pronunciano pare anzi che scherzino o che vaneggino invece di trattar cose gravi, o di dolersi. Cominciossi a frequentare tal sorta di fiori nella Canace dello Speroni, uomo per altro dotto, ma che per la tema d’incorrere nella noia delle altre favole e per l’avidità di far pompa di tutte le ricchezze della sua eloquenza, si lasciò trasportare a sparger queste oltre misura fuori di tempo e di luogo in ogni tragico intertenimento. Di vero s’egli avesse applicato il suo stile a descrivere solamente passioni tenere, non ad eccitarne di gravi, egli sarebbe tanto più lodevole del Tasso e del Guarini, quanto è servito di scorta all’Aminta dell’uno ed al Pastor Fido dell’altro come agevolmente si riconosce dal loro confronto, e si comprova dallo stesso Guarini, il quale scrivendo allo Speroni54, dopo aver detto che la leggiadria dell’Aminta è derivata dalla imitazione della Canace, confessa ch’egli s’è proposto lo stile della medesima per esemplare del Pastor fido. Ma gl’infioramenti che resero pregevoli quelle due pastorali, resero inetta questa tragedia.
[6.2.5] Di molti esempi che potrei recare, ne porrò qui due soli che s’incontrano nelle prime scene. Eolo nella prima favella cosi:
Lunge dalla mia casacada l’ira di Marte,scuota Bellona il suo flagel sanguigno,sparga l’odio in disparteil suo veleno e la discordia pazzasquarci altrove a se stessa il petto, e i panni.
Nella scena 3 dice Deiopeia alla cameriera:
Ben puoi sicuramentespaziare a tua vogliaper entro a miei segretitu la cui fede ha seco ambe le chiavi,onde si serra, ed aprel’arbitrio del mio cuore.
Seguirono l’abuso dello stile più poeti che appresso scrissero tragedie, ora troncando la compassione in mezzo al corso delle passioni più violente con l’improprietà de’ poetici concetti, ora prolungando con inutili pompe la dicitura, invece di levarne il soverchio ch’aveva pregiudicato allo Speroni. Nella Progne del Domenichi, nell’Idalba del Verniero, nell’Elisa del Closio, nel Torrismondo del Tasso, nelle tragedie del Torelli si scorgono di ciò copiose prove e benché questi due ultimi usassero maggior copia di gravi sentenze, non aggiunsero però al loro stile valore corrispondente, perocché paiono esse quasi sommerse nel verboso inondamento. Muzio Manfredi, che scrisse la Semiramide con uno stile più proprio degli altri, pur non guardossi da molte superfluità in cui farebbe di mestiero adoperar la falce, né libero del tutto è da liriche affettazioni. Fra l’altre che m’occorsero offesemi quell’importuno concetto che dice Nino verso il luogo in cui ritrova estinta la consorte con i figliuolini trucidati da Semiramis:
Morta hai tu qui di questo cor la fiammama l’incendio è pur vivo, e cresce ardendo.
[6.2.6] Bongianni Gratarolo nell’Astianatte s’astenne dal poetico, ma diede talor nelle frasche. La sua Altea non meno per la dicitura che per la natura de’ versi cade troppo nel basso. Il Cebà siccome nelle azioni così pure nello stile ha più del comico che del tragico. Nel Solimano del Bonarelli, che successe a’ predetti poeti, si scorgon tratti d’una grandezza che la tragedia prima non aveva avuto, ma di quando in quando per passi troppo fantastici e pieni di furor poetico esso inciampa e sviene. L’Aristodemo fu sopra tutte difformato dalle liriche inezie. L’autore, che fiorì nel tempo che per la corruttela del gusto s’amavano i fiori più che i frutti, ed erano in credito i falsi brillanti, non seppe guardarsi d’empierne la tragica poesia. Il cardinal Delfino diede principio all’abbandonamento degli scherzi, recando alla tragedia della maestà sì con le sentenze che con la maniera d’esporle. Quindi risorgendo vie più la coltura abbiamo avuto più moderni i quali ne’ lor tragici saggi hanno mostrato che l’italiana favella è capace della natural dicitura senza cadere nel basso e della tragica grandezza senza trasandar nel poetico.
[6.2.7] Il Corradino del Caracci, la Merope del Maffei, la Didone del Zanotti, l’Ulisse del Lazzarini, le Tragedie di Pier Jacopo Martelli, d’Annibale Marchesi, del Baruffaldi, il Cesare del Conti ed altre hanno generalmente uno stile lodevole, ancorché rada sia che non abbia qualche germoglio da mozzicarsi: perciocché io non sono del parere di Pier Jacopo Martelli, il quale55 scrisse che lice usare, ma rare volte «qualche cosa di quasi inverisimile e di poetico che faccia la spia all’ascoltante, levandolo in tal qual modo d’inganno: perché per far conoscere l’eccellenza dell’arte è d’uopo che l’arte sia conosciuta e distinta dalla natura per qualche tratto che la corregga non solo; ma s’abbisogna ancora non la somigli»
. Avvalora egli il suo sentimento colla similitudine d’una pittura che rappresenti Adone ferito dal cignale e dice che se in nulla per dipinto egli si conoscesse, le fanciulle lo fuggirebbono, laddove riconoscendolo per finto vi perdono sopra gli occhi, vi s’interessano e ne sentono compassione. Ma egli prende un granchio, prima perché non occorrono artifizi per dare a vedere l’imitazione, la quale è già nota a chiunque sente o legge tragedie; inoltre le fanciulle per la riconoscenza dell’artifizio ammirerebbon bensì quella immagine, ma l’interesse e la compassione che ne avrebbono deriverebbe dalla fantasia che nonostante il disinganno dello ’ntelletto riceve le impressioni dell’obbietto finto con un commovimento simile a quello del vero. Tutto ciò che lice per mio parere al poeta, si è il dare alle azioni ed alle passioni que’ migliori sentimenti che umanamente possono ricevere, essendo ufficio
del poeta rappresentar tutto nella maggior perfezione.
[6.2.8] Ma ritornando a’ nuovi nostri autori, io desiderarei pure nello stile di vari qualche maggior ritegno e brevità, perciocché quindi nasce la gravità proporzionata al decoro delle persone grandi, come bene avvertì ne’ Proginnasmi 56 Udeno Nisieli (altrimenti Benedetto Fioretti), critico giudizioso de’ poetici scritti. Però siccome Virgilio in simili discorsi fu più maestoso d’Omero, così Seneca vinse i tragici greci, ancorché in alcune tragedie per troppa vaghezza di procacciarsi ammiratori sia caduto in una scolastica affettazione. Pier Jacopo Martelli è tra nostri assai sublime ed enfatico, ma quanto egli acquista di gravità con i modi di dire, tanto ne perde per lo stucchevol vezzo delle rime come poscia confidereremo. Lo stile dell’abate Conti, ancorché in politezza e leggiadria ceda a quello d’altri poeti, contuttociò sì per la precisione, come per una austera avversione de’ vani ornamenti è proprissimo per la tragedia. Il Gravina, che ha preteso ridurre la tragica poesia alla sua perfezione sul modello della greca, ha meno nobiltà di molti altri, perciocché non ha saputo accoppiare alla natura quella dignità di cui è capace la semplicità delle locuzioni. Egli contrasse gran parte di tale difetto dagli esemplari che s’è proposto, non avendo avvertito che la domestichezza de’ Greci non poteva servir di norma per rappresentar con decoro quella grandezza che la maggioranza ed il raffinamento degli stati ha quindi attribuito alle altre nazioni.
[6.2.9] Una particolarità fra l’altre da’ Greci derivata è qualche importuna loquacità. Plutarco la riconobbe singolarmente in Euripide57 ma non è difficile rinvenirla anche negli altri. Pecca pure il Gravina in certe similitudini troppo colte che inserisce in qualche luogo per ristorare con tali vaghezze la noia dello stile. In una di queste Polissena dice:
Come dal dolce nidoi pargoletti uccellila cara madre aspettano,che col suo rostro provvidoadduchi l’esca amabile;così ancora dalle muraio sollecita ed attentaosservava il grande Achillese portava alcun conforto.E qual del Soleallo splendorel’erbetta s’ergesopra del gelosotto cui langue;sì il pensier mioal grato avvisoche da te sperasorge dal freddotimor che ’l preme.
Alla medesima risponde quivi Achille con altra similitudine parimenti affettata.
[6.2.10] È lodevole il Gravina nel travestire ed applicare all’azione quella sorta di sentenze che contengono massime di morale: in questa arte egli s’è distinto da gran parte de’ nostri poeti, i quali per affettare gravità le hanno seminate per le tragedie a guisa di filosofici precetti, laonde pare che le persone le quali le profferiscono sieno sulla scena per meditare, o per ammaestrar l’uditore, piuttosto che per operare; il che talora riesce tanto più sconcio quanto tali dottrine lo raffreddano per la tranquillità che si mostra nel mezzo delle passioni, o l’offendono per la poca convenienza che passa fra lo stato degli attori e le attratte loro riflessioni, come per esempio si vede nella Merope del Torelli, ove la nutrice, nell’agitazione in cui era per la creduta morte di Telefonte, quasi divenuta tranquilla trattiensi a considerare politicamente che:
Come nel corpo ogni virtù compartel’alma, e senz’alma il corpo è un grave pondo.Così da giusti principi dipendeogni vigor nei popoli ogni ardire.Senza essi sono le cittadine i regniinutili cadaveri, e vili ombre.
[6.2.11] Per questa, per così dir, «cacoete» di parlare per generali sentenze, pare che li predetti poeti, scordati del tragico ufficio, abbiano talvolta voluto unicamente far pompa d’una intempestiva sapienza. Al qual proposito mi sovviene esser parimenti biasimevoli alcuni per una ostentazione vana d’erudizione. Nel Torrismondo 58 è notabile la geografia che fuori di tempo mostra la cameriera, che verisimilmente doveva ignorare anche i nomi de’ seguenti versi.
Questi doni a voi manda alta reinail buon re mio signore, e vostro servo,che al servir non estima eguali il regno:né stimeria benché il superbo scettroi Garamanti e gli Etiopi, e gli Inditremar facesse, e insieme Eufrate, e TigreAcheloo, Nilo, Oronte, Idaspe e Gange […]
[6.2.12] In ciò più d’una fiata ha peccato modernamente Annibale Marchese rappresentando le nutrici instrutte nella mitologia e nella storia. Nella Polissena 59 dice la nodrice:
Te dunque ingiusto foco, ed empio avvampa?Ma qual cotesto sia, se in te l’ardoreregnar non può, per cui d’Atreo la mogliefu ria cagion dell’esecrando pasto,né quel, ch’empia noverca a l’innocenteIppolito scovrio?Né la fatale incestuosa fiammaper cui Mirra infelice arbor divenneprender ti puote?
Nel Crispo del medesimo60 altra nodrice per provare che è prudenza essere ingrata e spietata quando giova favella così:
Ciò de’ più giusti ancor la storia narraqual mal fece il buon Tullio al primo Augusto:anzi qual ben non fece e pur quel capod’onor sì degno per voler di luiche chiaman giusto fu ceduto al finedi Flavia irata al fiero ago pungente.Taccio que’, ch’al germano, al padre, al figlioper sue voglie appagar dier cruda morte.
Articolo III.
[6.3.1] Ora che abbiamo esaminato lo stile degli Italiani, passeremo a quello de’ Francesi per discernere quasi in bilancia il valore degli uni e degli altri. Se si paragonan le nostre antiche tragedie con i tragici drammi della Francia, non v’ha dubbio che, generalmente parlando, quelli sono superiori per essersi meglio in essi schifata sì la bassezza che le borre da me sopra descritte. Per questo riguardo può giustificarsi in gran parte chi scrisse che quanto i Francesi dovevano cedere agli Italiani per gli altri poetici stili, tanto eccedevano ne’ pregi del drammatico. Ma se col paragone di più moderne tragedie che noi abbiamo e molto più se colla norma della sola ragione, che prescrive le leggi del perfetto, vogliamo discutere l’elocuzione delle Francesi, non mi pare che si possa attribuire alla stessa quella eccellenza che non pur da que’ nazionali, ma da certi nostri ancora le viene ascritta. Per formarne un giusto giudizio faremo alcune distinte riflessioni prima intorno la sentenza, poscìa intorno l’espressioni della medesima.
[6.3.2] La sentenza puossi considerare o come pensiere che riguardi l’utile, o come idea che spetti al piacevole. Quella è veramente essenziale e contiene o qualche verità, o qualche prova di quella: questa è di puro ornamento e comprende le pompose similitudini e le acutezze. Nel primo ordine non si dee rifiutare a’ Francesi la lode che meritano sì per la copia e dignità de’ sentimenti, che per l’arte d’appropriarli agl’interessi e d’animarli colle azioni. Nel secondo sono bensì più cauti di molti italiani rispetto alle comparazioni, ma vorrebbonsi correggere nell’uso de’ concetti, i quali siccome quando si dicono a tempo e secondo il vero, acquistano una giovevole maraviglia; così quando sono vani, o importuni, nuocono alla tragedia interrompendo le commozioni principali con l’inverisimile degli affettati pensamenti ed offendendone la gravità con l’indecenza de’ vezzi. Di questi si verifica particolarmente quel lambiccamento che dal Marchese Maffei s’attribuisce generalmente a’ sentimenti de’ tragici francesi.
[6.3.3] Si rese in parte scusabile Pietro Cornelio del raffinamento troppo ingegnoso di pensieri riconosciuto dallui stesso nel Cid, per averli egli trovati nell’originale spagnuolo, di cui la sua tragedia è quasi una parafrasi, ma non saprei punto scolparlo d’avere sparso di sua invenzione in più altre favole de’ concetti d’una strana bizzarria, e che sono talora condannevoli per falsità, non che per la boriosa affettazione. Nel Pompeo sotto la persona d’Acoreo si denota il poeta mascherato che scherza, mentre questi nel riferire l’assassinio fatto a quell’eroe, che si coprì la faccia al vedersi ferire, cosi riflette:
À son mauvais destin en aveugle obéit,Et dédaigne de voir le ciel, qui le trahit.De peur que d’un coup d’œil contre une telle offenseIl ne semble implorer son aide, ou sa vengeance.
L’affettazione procede più oltre nell’atto 3, scena 1, ove il medesimo racconta che la testa di Pompeo offerta a Cesare:
Il semble qu’à parler encore elle s’apprêteQu’à ce nouvel affront un reste de chaleurEn sanglots mal formés exhale sa douleur:Sa bouche encore ouverte, et sa vue égaréeRappellent sa grand’âme à peine séparée,Et son courroux mourant fait un dernier effortPour reprocher aux Dieux sa défaite, et sa mort.
Nell’atto 5, scena 1 parmi riflesso da chi ruzza, non da chi narra cosa gravissima il dire del corpo di Pompeo:
Où la vague en courroux semblait prendre plaisirÀ feindre de le rendre, et puis s’en ressaisir.
[6.3.4] Chi non si sente a rispignere, invece d’essere allettato, al sentire nel Cinna a primo incontro quel pueril contrapposto che dice Emilia nel bollore de’ suoi gravi pensieri:
Impatients désirs d’une illustre vengeance,Dont la mort de mon père a formé la naissance.
Chi crederebbe Antioco in una traversia tormentosissima nell’atto 3, scena 5 della Rodoguna mentre dice, quasi παιγνήμων:
L’espoir ne peut s’éteindre où brûle tant de feu,Et son reste confus me rend quelques lumières,Pour juger mieux que vous, de ces âmes si fières.
[6.3.5] Uno degli incontri più propri per muovere a tenerezza è l’ultimo addio che viene a dire Sabina allo sposo ed al fratello mentre vanno a combattere tra di loro nell’Orazio. Ma ecco con che riflessioni non pur ricercate, ma false, per ravvivare il colloquio s’ammorza la passione in mezzo de’ più nobili affetti. Ella, dopo una degna introduzione, vuol persuadere ambedue ad ucciderla e dice fra l’altre cose queste ragioni:
Enfin je vous veux faire ennemis légitimes,Du saint nœud qui vous joint je suis le seul lien,Quand je ne serai plus vous ne vous serez rien.Brisez votre alliance, et rompez-en la chaîne.
Quindi come se amasse eccitare tra di loro un odio vicendevole e necessario soggiugne con altra argutezza:
Et puisque votre honneur veut des effets de haineAchetez par ma mort le droit de vous haïr.
[6.3.6] Appresso, quasi mutata di parere, procura lo stesso intento con riflessi contrari, e dicendo che convien loro trucidarsi senza odio, gli esorta a ciò fare, poi con concetto cavato dal fonte della novità così siegue a dire:
Commencez par sa soeur à répandre son sang,Commencez par sa femme à lui percer le flanc.
E poco dappoi:
Vous êtes ennemis en ce combat fameuxVous d’Albe, vous de Rome, et moi de toutes deux.
Fra pensieri della medesima tragedia parvemi già freddissimo questo che dice Orazio al re Tullo:
Un homme tel que moi voit sa gloire ternie,Quand il tombe en péril de quelque ignominie:Et ma main aurait su déjà m’en garantir,Mais sans votre congé mon sang n’ose partir.
[6.3.7] Sarebbe vano il distendermi in altri esempli poiché tutti questi son tratti dalle tragedie di cui l’autore s’è più compiaciuto ed ha sentito maggiori applausi. Egli rimase ingannato quando stabilì per massima che «si nous ne permettions quelque chose de plus ingénieux, que le cours ordinaire de la passion; nos poèmes ramperaient souvent, et les grandes douleurs ne mettraient dans la bouche de nos acteurs que des exclamations, et des hélas»
. Il poeta dee bensì, come ho toccato sopra, rappresentar ne’ discorsi tutta quella eccellenza di cui è capace, la qualità delle persone e lo stato in cui esse ragionano, e quindi è che si puote anche ne’ gran dolori, con l’uso della retorica, aggiugner perfezione a’ naturali ragionamenti. Ma li vani acumi d’ingegno, massimamente nelle passioni, fanno un effetto assai opposto: conciossiaché in luogo di perfezionar la natura ne distruggono ogni sembianza, però comeché in Lucano non sieno disdicevoli molti pensieri, perché dove parla un poeta conviene uscire da confini umani, offendono essi nelle tragedie di Cornelio suo imitatore, che in pari maniere fa ragionare le sue tragiche persone.
[6.3.8] Racine, ch’ebbe avanti gli occhi l’esempio di Pietro Cornelio, non seppe ben guardarsi da simili sconci. La Tebaide particolarmente ne abbonda: quivi Giocasta, a somiglianza della Sabina di Pietro Cornelio, interposta a’ figliuoli furibondi implora la morte così motteggiando:
Si de votre ennemi vous recherchez le sang,Recherchez-en la source en ce malheureux flanc.Je suis de tous les deux la commune ennemie,Puisque votre ennemi reçut de moi la vie.Cet ennemi sans moi ne verrait pas le jour:S’il meurt ne faut-il pas, que je meure à mon tour61?
[6.3.9] Antigone, che viene a querelarsi per esserle morta la madre fra le sue braccia, conchiude la querela con dire ad amore:
L’espérance est morte en mon cœurEt cependant tu vis, et tu veux que je vive62.
Tra gli altri freddi concetti di quella tragedia, i quali tralascio, parvemi inetto ancor quello che dice Giocasta agitata dal timore dell’azzuffamento de’ figliuoli:
Va, je veux être seule en l’état où je suis,Si pourtant on peut l’être avecque tant d’ennuis63.
[6.3.10] Per recare qualche esempio d’altre favole del medesimo, dirò che improprio per un funesto racconto mi sembra nel Mitridate quel concetto che dice Arbate nel rapportare che quel re sta morendo:
Mais la mort fuit encore sa grande âme trompée64.
Nell’Ester importunamente motteggevole si mostra quella reina mentre non ancor ben rimessa dallo svenimento dice ad Assuero:
Sur ce trône sacré qu’environne la foudreJe crus vous voir tout prêt à me réduire en poudre65.
[6.3.11] Nella Fedra, che pure è il capo d’opera di Racine, due inezie mi parvero già particolarmente notabili: una si è laddove Ippolito, calunniato dalla matrigna e sbandito dal padre, si perde con Aricia a dire fra l’altre questa bella galanteria:
Quand je suis tout de feu d’où vous vient cette glace?
il qual pensiere si trova anche nell’Alessandro, ove dice Tasillo ad Asiana:
Ainsi je brûle en vain pour une âme glacée66?
L’altro è nella descrizione che fa Teramene del mostro che assaltò Ippolito, mentre invece di venire a ciò che importa, si perde in fantasticherie:
Le ciel avec horreur voit ce monstre sauvage:La terre s’en émut, l’air en est infecté:Le flot qui l’apporta recule épouvanté67.
Ne’ quali versi oltre l’improprietà de’ pensieri scorgesi anche una di quelle osservazioni maravigliose che son fondate sopra di falsa supposizione.
[6.3.12] Nella Ifigenia Agamennone, che teme di vedere sagrificata la figliuola, così ne narra il pericolo con contrapposto male adatto alla gravità dell’affare:
Qui l’attend en ces lieuxFera taire nos pleurs, fera parler les dieux68.
Un tal pensiere parve sì bello a Tomaso Cornelio che volle imitarlo nel suo Achille ove Polissena dice che il suo amante convien che taccia nel suo cuore quando ha parlato Priamo. A tale proposito avvertirò che non mancano vari esempli di vane acutezze anche in questo poeta, benché ne fosse più parco di Pietro suo fratello. Uno d’essi si è quello ch’egli fa dire alla regina Elisabetta nel Conte d’Essex:
…………… Ô Reine, injuste reine!Si ton amour le perd, qu’eût pu faire ta haine?
Ove s’afferma cosa non vera per dire cosa maravigliosa. Se l’amore di lei fosse stato cagione della sua morte l’induzione sarebbe stata acconcia, ma non perì quegli per tal motivo, che anzi ella tentò tutte le vie di liberarlo: perì per la credulità prestata a suoi malevoli. Lo studio di render mirabili i sentimenti ha fatto sì che dietro la scorta de’ primi, certi moderni non si sono talvolta rattenuti da qualche simile affettazione.
[6.3.13] Nell’Elettra di monsieur Crebillon Oreste all’udire ch’egli ha trucidato inavvedutamente la madre dice:
Sort ne m’as tu tiré de l’abîme des flotsQue pour me replonger dans ce gouffre de maux?Pour me faire attenter sur les jours de ma mère69?
L’esclamazione ha la sua forza senza il secondo verso, ma perché in questo si riconosce la combinazion ricercata dell’abisso e del golfo, s’ammorza la passione nell’atto del concitarla. Il medesimo avviene appresso ove egli dice:
Nature tant de fois outragée en ces lieuxJe viens de te venger du meurtre de mon père:Mais qui te vengera du meurtre de ma mère70?
Le due vendette che si procacciano alla natura pare che sieno più del poeta che le compone insieme, per bizzarria, che della persona che favella. La buona morale distingue l’offesa volontaria del dritto naturale, dalle operazioni casuali.
[6.3.14] Monsieur de La Fosse induce Polisena, dopo il tremuoto cagionato dall’ombra d’Achille, a parlare in cotal guisa:
Vous voyez contre moi par un accord funesteLe ciel, l’enfer, les flots, les vents se révolter,Et la terre gémir, lasse de me porter.
Al legger tali versi mi venne in mente quel verso d’Ovidio:
Ingemit et nostris ipsa carina malis.
Nel quale si vede una acutezza poco degna di quel poeta, ma riesce essa molto meno scusabile dove parla persona grave, che dove egli poeticamente si lagna.
Articolo IV.
[6.4.1] Molto più frequenti sono i vizi della espressione, perciocché quantunque abbiano i Francesi de’ bellissimi esempi, ove s’unisce la nobilità del verso all’indole della prosa, contuttociò bene spesso con frasi troppo poetiche corrompono così proprio temperamento: né però saprei loro accordare tutta quella semplicità che lor viene da molti attribuita. Io non so come Pietro Cornelio, che s’avvisò benissimo71 che lo stile drammatico non doveva elevarsi fino alla gonfiezza dell’epico, perciocché chi parla ne’ drammi non è poeta, mettesse in uso le figure più particolari e dell’epica e della lirica poesia, come si scorge massimamente nel Pompeo, ove le persone tragiche paion sovente prese all’improvviso dal furor poetico, scordarsi di sè medesime: il che si comincia ad incontrare ne’ primi versi, in cui Tolomeo descrivendo gli effetti della strage di Farsaglia dopo aver dipinto i fiumi resi più gonfi, e più rapidi da parricidi, narra che la natura sforza le montagne de’ morti a vendicarsi da sé stessi con le esalazioni atte a far guerra a’ vivi.
[6.4.2] Nella medesima tragedia per esprimere che Cesare sottometterebbe anche l’Egitto, dicesi che attaccarebbe l’Egitto alle pompe del suo carro: s’attribuisce a Roma la fronte d’una figura umana, s’assegnano a’ fiumi le imprese delle nazioni, si racconta che la città s’allontana da vascelli giusta quel detto virgiliano «terraeque urbesque recedunt»
, ed insomma lo stesso autore non ha difficoltà a dire ch’egli ha procurato di far sentire ne’ pensieri e nelle frasi il genio di Lucano, gloriandosi d’esser quindi giunto a maggiore sublimità che nell’altre sue favole. Coloro istessi che hanno lodato i Francesi d’una prosaica naturalezza, han riconosciuto nelle tragedie di Cornelio dello smoderato innalzamento, ed han però dato qualche eccezione al suo stile. Ma io non saprei assolvere da molti sconci né lo stile di Racine, né quello degli altri più moderni. E perché presso alcuno farei per incorrere nella taccia di soverchiamente scrupoloso, procurerò di metterli in chiaro lasciando a parte Pietro Cornelio.
Articolo V.
[6.5.1] Derivano i predetti vizi parte dall’abuso de’ tropi nelle parole e nelle frasi72, parte da altre figure di discorso lontane dal parlar comune, parte da perifrasi inutili, parte da epiteti ed altri nomi superflui. L’abuso de’ tropi, delle parole e delle frasi deriva ora dalla frequenza de’ medesimi, ora dall’arditezza. Il linguaggio ordinario delle francesi tragedie è un perpetuo tessimento d’astratti, di segni, di parti che fanno le veci del tutto, di traslati, e di cose simili.
[6.5.2] Le virtù, li vizi e l’altre qualità sono per lo più le persone agenti. L’odio or73 giura di turbare incessantamente, or74 vede fuggirsi la vittima, or75 trema, siccome pure76 il tremante furore si lascia disarmare. Trovasi77 che gli Dei fanno tremare la virtù troppo timida d’Edippo; altrove78 il furore chiama lo zelo al combattimento e lo zelo ne sorte vincitore, parimenti79 la virtù teme la disperazione, l’amicizia80 ha rossore delle altrui pene: anzi81 la stessa gloria s’arrossisce d’offerire il partito della fuga, ed in simil guisa si fanno talvolta operare come persone umane altri accidentali attributi.
[6.5.3] Intorno l’uso de’ segni, osservo che li troni, le corone, gli scettri, gli allori, i ferri, o le catene sono formole che sempre s’hanno nell’orecchio, schifandosi le dizioni proprie delle cose significate come se fossero disoneste. Leggesi82 che la fortuna e la vittoria celavano i capegli canuti di Mitridate sotto trenta diademi. Agamemnone83 si sgomenta figurandosi i suoi futuri allori tinti del sangue della figliuola. Ogni minimo guerrier di Poro84 si promette messi di lauri. L’amore85 ne’ cuori simili a quello d’Alessandro rimane oppresso dal fascio degli allori. Li ferri86 che Alessandro mise alle nazioni aggiogate s’arrendevano per la troppa estensione.
[6.5.4] Qualche fiata gli autori di queste tragedie, per far maggior pompa d’ingegno, fanno per così dire passare a rassegna in un sol passo più d’una di queste bizzarrie. Racine fa parlare così Poro87:
Nos couronnes d’abord devenant ses conquêtesTant que nous régnerions flotteraient sur nos têtes.
E poi siegue:
Et nos sceptres en proie à ses moindres dédains,Des qu’il aurait parlé, tomberaient de nos mains.
Monsieur de La Fosse fa dire a Polisena:
Quelle gloire seigneur, qu’au milieu de mes fersAu milieu des débris du trône, que je perds,Ulisse ambassadeur devant moi se présente? […]88
[6.5.5] Le dizioni metaforiche sono assai lodevoli nelle tragedie come opportune per ispiegar le passioni violente, e si trovano nelle favole francesi de’ passi in cui se n’è fatto un uso degnissimo: nonpertanto la frequenza de’ traslati è doppiamente in esse viziosa, cioè per la copia loro, onde è costituita affettatamente troppo gran parte della elocuzione, e per la repetizion di moltissime, poiché rada è quella scena, ove non s’incontri o la tempesta per le avversità, o l’abisso per l’oppression de’ mali, o il fulmine per lo castigo, o il sacrificio per la sofferenza di qualche privazione, o la vittima per chi soccombe, o il carnefice per chi, o per ciò, che dà pena, o la fiamma per l’amore. Due mali nascono dalla frequenza de’ tropi sinadora descritta: prima un tedio simile a quella nausea che provarebbe chi prendesse per cibo continuo un condimento; inoltre si cade sovente in qualche mostruosità per l’innestamento di quelli che sono disadatti, come quando monsieur de La Fosse dice89
«fiamma intimorita»
per significare un amante atterrito. Cosi nell’Achille di Tomaso Cornelio la fiamma disidera90, la fiamma s’inorridisce91 ed in un un luogo dice Briseida parlando d’Achille92:
Sa flamme rallumée eût plaint mes feux trahis.
[6.5.6] Nell’Alessandro di Racine s’esorta Tasillo a coronare i suoi fuochi di palme. Da vari esempli de’ tropi sopra accennati puossi comprendere ancor l’arditezza de’ medesimi: contuttociò vedrassi ella maggiormente da certi altri che particolarmente m’occorrono a tal proposito. Nel Mitridate di Racine dice quel re a suoi figliuoli che troveranno:
La triste Italie encor toute fumanteDe feux, qu’a rallumés sa liberté mourante93.
Chi non crederebbe udire un poeta lirico invece d’un grave personaggio?
[6.5.7] Non parla con immagini meno poetiche Ulisse ne’ seguenti versi dell’Ifigenia:
Déjà de tout le camp la discorde maîtresseAvait sur tous les yeux mis son bandeau fatal,Et donné du combat le funeste signal94.
Ifigenia in altra scena dice alla sua rivale:
Voilà donc le triomphe, où j’étais amenée:Moi même à votre char je me suis enchaînée95.
Nel qual verso è notabile l’applicazione del carro ad un trionfo amoroso. Nell’Alessandro dice Efestione:
Mais l’Hidaspe malgré tant d’escadrons éparsVoit enfin sur ses bords flotter nos étendards96.
[6.5.8] Nella medesima tragedia or dicesi che97 la vittoria non vola se non intorno ad Alessandro, or che98 egli la strascina seco catturata. Che dirò di certi modi di dire che disconverrebbono ad ogni poeta, come insanguinar99 la gloria a’ nemici, ed avere100 una novella sanguinosa, ed intenerir la vittoria101? Le medesime locuzioni si veggono in quasi tutti gli altri. Tomaso Cornelio induce il conte d’Essex a dire:
Mon bonheur semble avoir enchaîné la victoire102.
[6.5.9] Manlio anche più stranamente cosi favella appresso monsieur de La Fosse:
Nous avons par nos soins et par nos artificesDu sort autant qu’on peut enchaîné les caprices103.
Né proprio parmi se non per poeta ciò che dice Erixene alla sua confidente in proposito di Stenelo:
Tu connais Stenelus, ce héros intrépideQue la gloire conduit sur les traces d’Alcide104.
[6.5.10] Trasmodato, per non dir ridicolo, è pur nel Coreso 105 quel detto d’Agenore, in cui s’appella dai rigori della sorte alla gloria. Monsieur Duchè fa che Davide dica parlando de’ suoi nemici:
En vain devant leurs pas a marché la victoire106.
Ed in altro luogo fa che vegga la morte che «marche sur ses pas107»
, in che si sente più lo stile d’Orazio che d’un tragico attore. Nel Catone di monsieur de Champs, il quale è pieno di fiori lirici, dice Arsene a Catone:
La mort sur vos guerriers ne lance point ses traits108.
[6.5.11] Un Tebano nell’Edippo di Voltaire dice:
Et la mort dévorante habite parmi nous109.
Meno arditamente il nostro Ariosto favellò quando, a proposito della moglie dell’Orco, disse che «morte avea in casa110»
. Il medesimo Tebano poco appresso racconta che i suoi concittadini si lusingavano che le felici mani d’Edippo legassero per sempre i destini al suo trono. Ivi vicino Filottete dice:
Je traînais avec moi le trait, qui me déchire,
il che sembra un detto del nostro Petrarca.
Articolo VI.
[6.6.1] Le altre figure lontane dal parlar comune, che disdicono non di rado ne’ tragici francesi, sono le allegorie e gli apostrofi. Nell’Ifigenia di Racine quella donzella nell’andare alla morte parla ad Achille:
Songez, seigneur, songez à ces moissons de gloireQu’à vos vaillantes mains présente la victoire:Ce camp si glorieux, où vous aspirez tous,Si mon sang ne l’arrose, est stérile pour vous111.
[6.6.2] La descrizione d’Alessandro fatta da Tasillo re dell’India sarebbe bellissima in un poema epico, ma in di lui bocca, mentre che parla quivi del maggior suo interesse, riesce troppo affettata. Dice egli:
C’est un torrent qui passe, et dont la violenceSur tout ce qui l’arrête exerce sa puissance,Qui, grossi du débris de cent peuples divers,Veut du bruit de son cours remplir tout l’univers112.
La Polisena di monsieur de La Fosse, mentre nella dura condizione di dovere essere schiava de’ Greci risolve di soggiacere a tutto per vendicarsi, non lascia di confermare i suoi pensieri disoccupati dalla sua grave risoluzione per comporre questo scherzo:
Que mon cœur soit l’écueil, où sa gloire se brise113.
[6.6.3] Monsieur Crebillon nell’Atreo introduce Plistene, che teme l’odio d’Atreo, a parlare in tale maniera a suoi congetturali avvisi:
Tristes presentiments que le malheur enfante,Que la crainte nourrit, que le soupçon augmente […]114
Ne’ quali versi oltre lo studiato lambiccamento, si vede un saggio anche d’apostrofe troppo poetico, nella qual figura questo autore s’è reso più d’ogni altro imitatore di Cornelio. Un simil saggio si legge in altra scena, ove parla Atreo alla pietà:
Lâche, et vaine pitié que ton murmure cesse:Dans les cœurs outragés tu n’es qu’une faiblesse.Abandonne le mien: qu’exiges-tu d’un cœurQui ne reconnaît plus de dieux que sa fureur115?
[6.6.4] Nella Tebaide di Racine Antigone, che appare sulla scena desiderosa di finir la vita per la perdita della madre e per l’orrido spettacolo de’ fratelli, termina la sua querela con volgersi in cotal guisa al proprio amore:
Oui tu retiens, amour, mon âme fugitive:Je reconnais la voix de mon vainqueur:L’espérance est morte en mon cœur,Et cependant tu vis, et tu veux que je vive:Tu dis que mon amant me suivrait au tombeau,Que je dois des mes jours conserver le flambeau116.
È strana altresì l’apostrofe117 che fa Creonte disperato all’amore, ai trasporti, alla rabbia, acciocché lo soccorrano a morire. Se la rabbia ed i trasporti dovevano venirgli solo in virtù di tale chiamata, gli uditori avran per aspettar lungamente la sua morte dalla sua disperazione.
[6.6.5] Spiacemi ancora nel Mitridate l’apostrofe intempestiva ch’egli fa verso Roma mentre parla a suoi figliuoli, ove così dice:
Non, Princes, ce n’est point au bout de l’universQue Rome fait sentir tout le poids de ses fers,Et de près inspirant les haines les plus fortesTes plus grands ennemis, Rome, sont à tes portes118.
Un tale rivolgimento è permesso all’entusiasmo de’ poeti: in bocca d’altre persone ha del fanatico.
Articolo VII.
[6.7.1] Passiamo alle perifrasi. Questa figura è sommamente propria per li poeti, perciocché loro intento si è procacciarsi dell’ornamento da quella maggior copia d’immagini che lor puote venire in acconcio, né sdegnano di metterla in opera gli oratori quando l’assunto loro può riceverne energia, o pure un abbellimento non importuno; ma perocché d’ordinario nelle diffuse espressioni di ciò che vivamente puossi spiegare colla brevità trovasi della languidezza e della vanità pregiudiziale al lor fine, essi le praticano parcamente. Le circollocuzioni sono massimamente poco idonee alla tragedia, perché con superfluità di parole né trattansi dalle persone gli affari gravi, né s’esprime la veemenza delle passioni. Per mio avviso vi sono lodevoli solamente quando giovano allo scopo di chi vi favella. Tale è quella di Racine nella Fedra, dove volendo Enone esaltare alla sua signora ciò ch’era riservato al di lei figliuolo per consolarla e per impegnarla a protteggerlo, invece di dire «Atene» dice:
Les superbes remparts, que Minerve a bâtis119.
[6.7.2] Contuttociò da Francesi non s’è praticata questa moderazione. In diversi esempi sopra addotti appare che certi modi di dire troppo lirici han prodotto de’ vani giri di parole, e si scorgerà da quelli che qui succedono che que’ poeti sono caduti ancora in una noiosa freddezza per un inutile riempimento di cose che servono solamente al metro, o alla rima: il che talvolta s’è fatto con un vano rivestimento d’un medesimo pensiere. Nella Fedra or ora citata cosi si legge:
Les ombres par trois fois ont obscurci les cieuxDepuis que le sommeil n’est entré dans vos yeux;Et le jour a trois fois chassé la nuit obscureDepuis que votre corps languit sans nourriture120.
Nella Berenice del medesimo poeta, volendo Tito spiegare che dopo la morte di suo padre si ravvide dell’error del suo amore non si contenta di dire propriamente:
Mais à peine le ciel eut rappelé mon père121;
Ma soggiunge con verbosa repetizione:
Dès que ma triste main eut fermé sa paupière.
[6.7.3] L’Elettra del Crebillon incomincia con questi versi:
Témoin du crime affreux, que poursuit ma vengeanceÔ nuit, dont tant de fois j’ai troublé le silence,Insensible témoin de mes vives douleurs,Electre ne vient plus te confier des pleurs.
Chi giudicarebbe che una persona, la qual perde tante parole parlando colla notte, sia presa da vera e grave passione, o piuttosto che non sia una forsennata? Il terzo de’ predetti versi è del tutto disadatto al trasporto che si vuole rappresentare, non che inutile al sentimento. Non è senza vani riempimenti nella Polisena di monsieur de La Fosse ciò che dice Lycas a Pirro nel seguente modo:
La nuit qui doit, seigneur, sous ses ombres obscuresCacher votre dessein, et tromper tous les yeuxDe quelque temps encore ne couvrira les cieux122.
Articolo VIII.
[6.8.1] Ma veggiamo gli epiteti ed i nomi superflui posti per cagione della rima, i quali non fanno men noioso effetto delle precedenti cimature. Trovasi in Racine ora «la sombre nuit123»
, ora «nuit obscure124»
: ad imitazione di che disse il medesimo monsieur Duchè125, monsieur de Voltaire126 e monsieur de La Fosse127. Io contuttociò credo che tal sorta d’aggiunti sieno appena tollerabili in quelle opere, ove parlano poeti, a cui permise Aristotele di dire128 il latte bianco, e cose simili. Vero è che ho letto anche nell’Elettra di Sofocle129:
μέλαινά τ᾽ ἄστρων ἐκλέλοιπεν ἐυφρόνη.
Ma son di parere che, quantunque egli per la coltura dello stile abbia avuto più lode degli altri greci ben degnamente, non sia però lodevole né in questa, né in certe altre soprabbondanze; quando qui non si possa scolpare, perciocchè ἐυφρόνη è nome non proprio della notte, ma dagli effetti attribuitole, laonde l’epiteto μέλαινα non rimarrebbe ozioso.
[6.8.2] La superfluità cagionata dalla rima si scorge particolarmente in questi versi dell’Atalia di Racine:
J’avais tantôt rempli d’amertume et de fielSon cœur déjà saisi des menaces du Ciel130.
Nella medesima tragedia Abner dopo aver parlato a lungo d’Atalia e d’aver detto:
Croyez-moi plus j’y pense et moins je puis douterQue sur vous son courroux ne soit prêt d’éclater,
aggiugne tosto:
E que de Jezabel la fille sanguinaireNe vienne attaquer Dieu jusqu’en son sanctuaire.
Quasi che la figliuola di Jezabel fosse diversa da Atalia. Telefo nella Polisena di monsieur de La Fosse dice:
Pour chercher en ce camp une ingrate que j’aimeJe néglige et sujets, et sceptre, et diadème131.
Da’ saggi sin ad or recati credo che rimanga a sufficienza dimostrato che lo stile de’ poeti succeduti a Pietro Cornelio non è sì semplice, né sì naturale, come alcuni scrittori anche dell’Italia l’han celebrato. Da che vuolsi dedurre che quantunque le tragedie francesi abbiano in questa parte alcuna superiorità sopra molte italiane, esse nondimeno non pur non hanno quella eccellenza che vien loro ascritta ma sono inferiori a certe nostre moderne.
Capo VII.
Di vari metri usati dagli Italiani in tragedia, e de’ tragici versi de’ Francesi.
Articolo I.
[7.1.1] Quantunque il numero sia una prerogativa inseparabile dallo stile, nonpertanto sì per lo grado distinto che ha massimamente nella drammatica poesia, come per le molte considerazioni che merita, stimo confacente il farne particolare discorso. Sei maniere di verseggiare furono ne’ secoli addietro in nostra lingua messe in opera per la tragedia. La prima fu quella del Trissino che si servì de’ versi endecasillabi con varie rime sparse senza ordine, frammischiandoli in qualche incontro ancora con gli ettasillabi. La seconda che apparve fu la terza rima, nella quale fu scritta la Discordia d’amore di Marco Guazzo, ma questa non ebbe seguito, come troppo affettata e disadatta alla natura della tragedia. Altra, assai comune anche di presente, fu di soli endecasillabi sciolti; altra di versi ettasillabi sovente rimati con interposizione di pochi endecasillabi piacque prima allo Speroni, e fu dal Dolce in alcune scene imitata. Altra fu d’endecasillabi e d’ettasillabi senza rima misti insieme qualmente a’ nostri giorni è stato scritto l’Ulisse del Lazzarini. Una particolare di versi intieri sdruccioli usossi dal Gratarolo nella Altea.
[7.1.2] In questo secolo si sono aggiunte due forme nuove di versi. D’una fu promotore il Gravina, il quale ad imitazione de’ Greci ha voluto introdurre la varietà che si trova nelle loro tragedie, mischiando agli endecasillabi gli anapesti, gli ellenici e talor anche i giambi: né puossi se non approvare la sua introduzione, perciocché proporzionandosi la differenza del metro alla diversità degli effetti, essi acquistan più forza di penetrare negli animi dal sono lor convenevole. Nondimeno, se ben s’osservano le tragedie del Gravina, egli non è riuscito in pratica come s’avvisava, perocché rado accade che i novelli suoi versi sieno corrispondenti a’ sentimenti, e si rappresenta talora in versi di canzonetta ciò che meritarebbe la maggior gravità; senza che guasta egli la maestà tragica coll’abbondante inserimento degli sdruccioli, che convengono solamente a basse materie e fiancano colla continuazione ancora in esse, come osservò già certo critico nelle commedie dell’Ariosto. Dopo il Gravina ha fatto qualche uso della disuguaglianza greca il Lazzarini con migliore riuscimento.
[7.1.3] L’altra guisa, che consiste in una imitazione de’ versi alessandrini de’ Francesi, fu messa in opera da Pier Jacopo Martelli, che non è stato seguito se non in qualche tragedia che, per quanto so, non ha veduto la luce. Piacque allui la forma di questi perché, come egli dice, altro essi non hanno di verso che la misura e la rima, e fu dallui approvata la lor misura per la lunghezza comoda per esprimere intieramente qualunque difficile sentimento e perché non lascia da vicino sentir le rime. Si mosse poscia ad usare un numero a quelli somigliante, perciocché, ritrovando generalmente della deformità nelle tragedie italiane degli andati secoli, giudicò che avesse in ciò gran parte l’improprietà de’ lor versi. Ma certo quantunque fosse scrittore assai degno, prese egli non lieve sbaglio sì nel credere che mancasse alla nostra lingua metro convenevole per sostener la tragica gravità, sì nello stabilire che il metodo de’ versi francesi sia più d’ogni nostro metro confacente alla tragedia, come quindi mostrerò.
Articolo II.
[7.2.1] È bensì mio parere che la lingua italiana non abbia in verun metro quella dignità che prestano al verso giambo la greca e la latina, ma questo difetto è comune alla francese altresì, perciocché l’una e l’altra di quelle antiche lingue, spiegando i pensieri con più precise locuzioni, più riescono enfatiche di queste moderne, cui fa bisogno di più voci per esprimere i suoi sensi, ed è facile riconoscere tale verbosità se paragonansi gli originali antichi colle traduzioni italiane e francesi. Osservò già Paolo Beni132 che quella di Virgilio fatta dal nostro Caro, ancorché questi procurasse di non frapporvi giunte, supera il poema latino di cinque milla e più versi, il numero de’ quali si trova anche maggiore nella rimata del Dolce. Vero è che il verso esametro è più lungo del nostro, ma non può ridursi a ciò tale differenza. Il Salvini nella traduzione d’Omero, quantunque gli sia riuscito d’imitare in più luoghi mirabilmente la greca precisità, ha dovuto in molti altri ricorrere ora a circollocuzioni snervate, ora a parole licenziosamente composte a somiglianza delle greche.
[7.2.2] La lingua francese non ha punto maggiore idoneità per raffigurar l’enfasi delle medesime, benché per altro nelle sue formole sia di molto espressiva. Certo se si consideran, giacché siamo in proposito d’Omero, non dirò la traduzione del Salel o quella di Sarnin, le quali per la rima hanno più giunte accessorie, ma la prosaica di Madama Dacier in que’ passi stessi, ove lasciati gli abbellimenti ha meglio procurata l’omerica semplicità, si riconosce agevolmente un fiacco rilassamento, come ella stessa confessa in qualche incontro.
[7.2.3] Alcuni Francesi, per sostenere il pregio del loro idioma in confronto di ciascun’altro, han detto che l’allungamento d’una traduzione non mostra il difetto d’una lingua, ma che è conseguenza del timore che hanno i traduttori di non rendere l’equivalente; in prova di che mi ricordo che l’abate Tarasson133 reca qualche traslazione di francese in latino e di latino in greco, le quali sono più lunghe de’ loro originali, ma certo non è induzione di buon geometra, quale egli in tutto si professa, il determinar quindi che tutte le versioni sieno più lunghe degli originali e che ogni traslatore abbia la medesima impotenza. Prima si potrebbe rispondere che fra il latino ed il greco non è sì grande la differenza che questo non possa facilmente soprabbondare per cagione di qualche perifrasi che piaccia a chi traduce. Che se vogliamo ragionare delle greche traduzioni de’ commentari di Cesare e del trattato della vecchiaia di Cicerone, le quali dal predetto abate si citano per esempi, chiaro è ch’esse s’allontanano sì dalla mente de’ loro autori che non si può traerne alcuna prova. Non niego inoltre che la gelosia di non esprimere pienamente ogni cosa non abbia cagionato della verbosità per entro a qualche traduzione che siasi fatta non pur di latino in greco, ma dal francese in latino, massimamente d’opere oratorie, quale è ’l panegirico di monsieur Pelisson unicamente citato, perocché invece di sentir pregiudizio vengono esse nobilitate dalli fraseggiamenti, ma sciocca conseguenza si è l’attribuire a naturale insufficienza d’ogni versione i particolari motivi de’ traduttori. Nelle traduzioni verbali, quali d’ordinario son quelle della Sacra Scrittura, si vede agevolmente la superiorità delle prime lingue, massimamente della greca, la quale racchiude sovente in una voce tai sensi che in niuna si ponno esporre se non con molte parole.
[7.2.4] Per altro se lasciando a parte quegli antichi idiomi paragoneremo insieme questi due moderni, credo poter dire, senza incorrere nella censura dell’arditezza che viene ascritta al marchese Maffei nella Biblioteca Italiana di Genevra134, che il nostro volgare, siccome è felicissimo fra gli altri viventi nell’epica, nella lirica e nella pastoral poesia, così nella tragica non è meno atto del francese a sostenere la dignità de’ gravi sentimenti ed a spiegare la veemenza nelle maggiori passioni: ma oltre il vantaggio d’essere assai più ricco di locuzioni che sopra l’altro lo nobilitano, ha pure, s’io dritto miro, metro più proprio per la tragedia. Né posso qui tralasciare che l’autor delle annotazioni fatte al discorso del Maffei, nel luogo testé accennato, dà saggio di molta leggerezza, mentre (per tacere l’altre inezie) decide che la lingua italiana è più graziosa nelle materie tenere e propria per esprimere piacevolmente le piccole cose che la francese, all’incontro come più maestosa e più capace di toccar degnamente le grandi: che veruna altra ragione di ciò si reca se non l’approvazione che ha fatto Pier Jacopo Martelli della drammatica poesia de’ Francesi.
[7.2.5] Se quell’anonimo critico avesse meglio saputo le proprietà di ciascuna poesia non avrebbe certamente ristretto ne’ termini della drammatica la grandezza, la quale è più propria de’ poemi epici che del tragico, come ho già detto in altri luoghi. Per lo che rimane evidente che li Francesi, non avendo avuto fino a’ nostri giorni alcun poema eroico che possa contrapporsi a più mediocri di que’ moltissimi che noi abbiamo, tanto cedono in grandezza agli Italiani quanto si lodano d’avanzarli. Madama Dacier, nella prefazione del suo Omero, confessa candidamente la lingua francese essere insufficiente a conservare l’eroica dignità. S’ingegnano bensì li suoi avversari di riprovare tale accusa, ora con dire che la lingua francese è non pure veramente ricca per aver voci esprimenti ogni cosa secondo le minori differenze, ma più pregevole dell’altre d’una particolare esattezza, per non avere se non termini unici di quasi ciascun significato, ora con produrre un’ampia raccolta di vocaboli toccanti le scienze e le arti, delle quali altre si sono perfezionate da moderni, altre eran del tutto ignote agli antichi. Ma vana appare tale difesa, prima perché se pareggiasi quella lingua con altre, e particolarmente colla greca e coll’italiana, si ritrova essa dilettosissima, di che ci può somministrar saggio, per l’una, il gran numero de’ composti, e per l’altra, la copia e varietà de’ superlativi, diminutivi, peggiorativi, vezzeggiativi, i quali tutti spiegano particolarità diverse che presso i Francesi sono inesplicabili; secondariamente perché è falso non pure il dire che la ricchezza d’un linguaggio consista unicamente nell’esprimere ogni cosa, ma che sia singolar pregio del francese l’avere nomi unici di ciascun significato. Tutti gl’idiomi hanno ne’ lor vocaboli una propria significazione, né pregiudica punto alla loro esatta congruenza la copia de’ sinonimi: anzi siccome non puossi dir ricco chi puramente ha ’l necessario per vivere, così ricca non può dirsi una lingua mancante de’ medesimi, i quali non solamente colla varietà rendono più piacevole l’elocuzione, ma giusta la nobiltà, l’uso ed il suono loro provvedono maggiormente la favella di parole idonee per qualunque stile.
[7.2.6] Quanto a’ vocaboli delle scienze e dell’arti io non saprei negare a’ Francesi la lode d’avere con essi assai bene accresciuto sopra il greco ed il latino il loro linguaggio, ma poco vantaggio quindi può trarne un poeta per recar grandezza alle sue opere, perocché tal sorta di termini astrusi e particolari mal si confanno colla poesia, arte popolare: per la qual ragione furono già disapprovati certi nostri antichi che prima del Petrarca fecero uso di voci scientifiche. Né qui debbo astenermi di riprovare l’abate Tarasson, il quale afferma135 che nulla fa maggiore onore ad un poeta che il mostrar di non ignorare le cose fisiche adducendo per esempio questi versi del Tasso:
Qual tre lingue vibrar sembra il serpenteche la prestezza d’una il persuade;tal crede a lui la sbigottita gentecon la rapida man girar tre spade:l’occhio al moto deluso il falso credee l’orror a que’ mostri accresce fede136.
[7.2.7] Prende egli errore non meno nella massima che nello esempio, perciocché ne può derivarsi il principal lustro d’un poeta da una cognizione totalmente accessoria alla poesia, né gli addotti versi son belli per la fisica instruzione, la quale riguarda una cosa assai volgare, ma per la convenienza della comparazione che avviva la descrizion del successo e per la verisimile rappresentanza delle umane immaginazioni che l’accompagnano. Quanto alla sentenza del Martelli, recata dall’anonimo sopracitato nella Biblioteca Italiana di Genevra, rispondo che quel nostro poeta non attribuisce vantaggio alla lingua francese nel valore e nella dignità delle espressioni: anzi avverte benissimo che la nostra non è punto di ciò mancante137.
Articolo III.
[7.3.1] Tutto ciò che il Martelli oppone alla tragica poesia degl’Italiani è l’improprietà de’ versi a cui sostituisce un metro somigliante al francese, ma contro questa sua particolare opinione io non dubito punto di non mostrare con evidenza che, siccome l’italiana lingua ha la prerogativa d’essere più ricca di locuzioni che sopra la francese la nobilitano, ella ha pure metro più proprio per la tragica poesia o riguardisi quello de’ puri e sciolti endecasillabi, o quello de medesimi misti con gli ettasillabi parimenti senza rima. Vero è che s’io paragono insieme quelli due metodi de’ nostri poeti, non m’aggrada tanto il primo quanto il secondo, perciocché il verso endecasillabo, che ha suono alquanto più distinto dalla prosa, se non s’interrompe talora con l’altro più famigliare, produce una noiosa armonia che fa degenerare qualche fiata la tragedia dalla natura de’ gravi discorsi, massimamente se non s’avverte di spezzarlo con le pose de’ sensi: all’incontro quando si combina con l’ettasillabo egli comunica a quello la sua grandezza, siccome questo corregge l’altro con la naturalezza e con la varietà. Per rendere ottimo tal temperamento vorrei però che né l’ettasillabo abbondasse, come nella Canace, né l’endecasillabo come nella Sofonisba. Ma benché m’avvisi che il metro de’ continui endecasillabi, il quale ha ’l comun seguito, rechi alle favole un importuno vezzo, non mi rimuovo punto dal credere che il metro de’ Francesi sia men proprio d’amendue i nostri, né giudico meno degno di riprovazione il Martelli, che ascrive generalmente come a cagione primaria a mancanza di versi idonei quella deformità la qual deriva comunemente dagli altri difetti dello stile già da me dimostrati a suo luogo.
[7.3.2] Egli per provare il pregiudizio de’ nostri metri volgari adduce saggi del Torrismondo del Tasso e dell’Arsinda del Testi, che ridotti in prosa riescon migliori; nondimeno è troppo agevole riconoscere che non dalla privazione del verso, ma dalla correzione dell’altre cose spettanti alla elocuzione nasce il comun meglioramento di quelli. Per venire oramai alle ragioni che mi persuadono essere il metro de’ Francesi assai men convenevole d’ambedue i nostri sopradetti, lo considereremo prima ne’ versi che da loro chiamansi alessandrini, poi nelle rime e finalmente ne’ mali effetti che nascono dalla obbligazione delle medesime.
[7.3.3] Io non sono sì ritroso contro i versi tragici de’ Francesi, come s’è mostrato l’autore del nuovo libro scritto contro tutta l’arte di versificare usata da poeti di quella nazione138. Egli mi pare che quelli con troppa baldanza litighi nell’altrui foro, perocché frammischia ad alcune giuste riflessioni non poche censure inettissime. Chi paragonerà li versi alessandrini co’ nostri endecasillabi, di leggieri s’avvedrà che questi ammettono un’armonia tanto più varia, quanto sono differenti le pose della misura che hanno, perciocché (senza parlar di quelle che son prive d’accento) posano essi con ritegno accentato ora sopra la quarta sillaba, ora sopra la sesta, ora sopra l’ottava139. Gli altri all’incontro non pur fanno sempre cesura nel luogo medesimo, ma la metà posteriore non è che una repetizione della metà precedente. Laonde sembra udire in ciascuno di essi non un verso grave, ma due versi anacreontici, e siccome l’endecasillabo vien temperato da una piacevole varietà, così l’alessandrino produce col lungo decorso una intollerabile sazietà, e rende inoltre il metro men conforme alla natura de’ ragionamenti.
[7.3.4] Il Martelli, che imitò la misura de’ Francesi, s’immaginò che dalla unione di due piccoli versi nascesse un suono grave, come se il modo di scriverli potesse a ciò cooperare, né sapendo render ragione di questo suo sogno, procurò d’avvalorarlo con la similitudine di tre adonei, che compongono un verso esametro: però cadde in nuovo errore, non avvedendosi che li tre adonii incorporati in un verso mutano armonia per lo nuovo vincolo che ricevono i lor piedi dalle voci che lo costituiscono. Ma qui rimane ciascuno nel suo essere naturale e distinto, per lo che ridicolo riesce eziandio il dire che dalla lunghezza del verso alessandrino s’acquisti maggior comodo per l’espressione di qualunque sentimento, come egli asserisce per confermazione della sua sentenza. Udeno Nisieli ne’ suoi Proginnasmi 140 ragionando in altra guisa a favore de’ versi settesillabi della Canace disse che si potrebbe muovere una lite a Greci ed a Latini perché usassero nella tragedia versi più corti che nella commedia, ma parmi che a ciò si possa rispondere che la maggior parte de’ versi corti conviene al coro in Grazia del canto ed il rimanente de’ medesimi, che non è molto, serve d’ordinario all’espressione delle commozioni, che stimolan le persone ad alcun tuono straordinario.
Articolo IV.
[7.4.1] Per conoscere quanto disconvenga la rima alle tragedie basta considerare ch’ella fu ritrovata per produrre insieme il piacer dell’udito e la maraviglia dello intelletto, perocché quindi appare che, siccome lo studio della medesima è proprio per le canzoni, così non è compossibile né colla gravità de’ tragici interessi, né collo spensierato sfogo delle passioni, poiché l’artifizio non può rimanerne nascosto a guisa della misura ch’hanno i versi greci e latini, ma tutto al di fuori si sente, come bene osserva il Gravina141. Però molto ragionevolmente fu censurato lo Speroni che la frequentò nella Canace, né il Trissino è del tutto scusabile, benché in ciò fosse più parco e più guardingo. Pier Jacopo Martelli s’avvide di tale difetto: nonpertanto, rapito dal capriccio d’introdurre in nostra lingua un nuovo sistema, approvò l’uso francese, adducendo a suo favore che la lunghezza del verso alessandrino non lascia sentire le rime in maniera che l’orecchio s’infastidisca e la maestà de’ ragionamenti s’offenda; ma chiunque ha fior di senno puote agevolmente convincerlo sì perché il verso endecasillabo non è minore che di due sillabe, come per due enormi sconci che sono propri del metro dallui approvato, cioè del rimare ogni verso e della vicinanza inalterabile delle rime.
[7.4.2] Io, nel riflettere a queste sconvenevolezze, soglio pareggiare la tragedia francese ad una reina che, invece di conservare la maestà d’un decoroso portamento, passeggi sempre in cadanza di ballo, o non discorra se non cantando. Pietro Cornelio nell’esame dell’Andromeda mostrò di sentire l’improprietà sì de’ versi che delle rime comunemente usate nel teatro di Francia; però disse che l’armonia de’ versi alessandrini non era punto più atta delle stanze a tenere il luogo della prosa se non per l’uso, ed aggiunge che le stanze per l’inequalità de’ versi e per la lontananza delle rime s’accodano più, secondo il suo parere, al parlar naturale, massimamente quando non s’osservi né il medesimo ordine di rimare, né la medesima misura de’ versi fra l’una e l’altra, ancorché poscia conchiudendo il discorso pare che per confusion di specie egli contradica a se stesso.
[7.4.3] Ma qui non finiscano i difetti della rima francese: avvene uno che per essere sol proprio di quella lingua non fu dal Martelli partecipato. Questo è la scarsezza delle desinenze, per la quale l’orecchio rimane sovente offeso dalla medesima (dirò così) omofonia. Notabilissimo è nelle rime tronche terminanti in pronuncia di semplice vocale, o di dittongo ad essa equivalente, perciocché, consistendo esse in una sola sillaba, si ristringono a pochissimi suoni, i quali non vengon guari diversificati dalla consonante precedente, e di ciò pare che ci somministrino una gran prova i Francesi stessi, i quali, benché unicamente per tal consonante distinguano il più di queste rime, contuttociò moltissime volte non osservano tal regola. Però pis, apris, adoucis, fils formano una medesima rima, come parimenti pas, bras, soldats, combats. Secondo la qual maniera le rime formate da simil sorta di sillabe son tante, quante sono le vocali in cui finiscono, e que’ dittonghi che alle vocali medesime non s’uniformano. Una tale ristrettezza diviene notabilissima per l’uso di pronunciare in una medesima maniera più voci diversamente scritte come faits, effets, paix, attraits, jamais. Per la qual cagione la lingua francese impoverisce ancora sì dell’altre rime dissillabe, come delle monosillabe, la cui pronuncia finale è di consonante; conciossiaché non si discerne zele da elle, ville da fertile, ame da femme, fers da soufferts, promesse da grece, offense da violence e da suffisant, accord da mort, sang da flanc, ecc. Che se si riflette avere identità di pronuncia le rime che da’ Francesi non si distinguono se non per regola, come moi da rois e da loix; guerres da terre, bontè da douter si conoscerà sempre più la sopraddetta povertà. Quindi puossi argomentare che nell’idioma francese non solamente non è possibile scrivere lunghe scene con obligazione di non ripeter le medesime desinenze nella guisa che dagl’Italiani si pratica ne’ capitoli quantunque lunghissimi, ma riesce inevitabile il cadere tratto tratto in sì spiacevole repetizione.
[7.4.4] Quindi si può scorgere quanto s’inganni sì l’abate Tarasson142, che distinguendo le terminazioni secondo le regole francesi, afferma potersi fare più di 200 versi senza tornare nella medesima rima, come monsieur de la Bruyere dallui citato, il quale per simile errore loda Racine per ricchezza di rime. S’aggiunga che essendo quella lingua assai men ricca che la nostra, non solamente essa è più scarsa di rime, ma le rime sono più scarse di voci, sicché accade bene spesso d’incontrare nelle medesime desinenze le medesime parole. Al qual proposito rammentomi aver per divertimento osservato nell’Alessandro di Racine victoire e gloire rimate insieme diciassette volte, e moltissime altre fiate separatamente.
Articolo V.
[7.5.1] Non sono meno notabili gli sconci che vengon prodotti dalla obbligazione del rimare per indurre chi che sia a detestare le qualità de’ versi usati nelle tragedie francesi. Siccome la troppa frequenza delle locuzioni figurate è un effetto evidente della necessità delle rime, così gran parte de’ tropi smoderati, delle circollocuzioni vane, delle repetizioni, e de’ riempimenti superflui sono fecce spremute a forza dal loro strettoio, il che qui confermarei con particolari esempli, se quelli che nel capo precedente furono addotti di ciò non facessero abbondanti prove. Monsieur de Voltaire, tutto che appassionato per li drammi francesi, ha mostrato nella critica del proprio Edippo d’avere qualche sentore del danno che reca alla tragica poesia di quella nazione il giogo delle desinenze: però confessa egli che a molti pensieri che dirsi vorrebbono convien sostituirne altri in Grazia della rima. Contuttociò non ha saputo cavare altro frutto dal suo avviso, se non qualche licenzioso dilatamento di regole, che sono di lieve suffragio.
[7.5.2] Per mettere meglio in chiaro l’errore di chi disapprova i metri italiani con approvare di ricontro quello de’ Francesi ora descritto, prima di dar fine a questo capo, piacemi qui recare un saggio tratto dall’Orazio di Pietro Cornelio col confronto d’una traduzione che già ne feci negli anni più giovanili, nella quale il discorso parmi non pure più naturale, ma più grave ancora, quantunque fosse per essere assai migliore se il poeta non vi avesse interposto de’ sentimenti più propri per mostrare ingegno che per imitar donna appassionata.
Discorso di Sabina allo sposo Orazio,
ed al fratello Curiazio, i quali son
per ire a combattere tra di loro
nell’atto 2, scena 6.
Non non, mon frère non, je ne viens en ce lieu,Que pour vous embrasser, et pour vous dire adieu.Votre sang est trop bon, n’en craignez rien de lâche,Rien dont la fermeté de ces grands cœurs se fâche:Si ce malheur illustre ébranlait l’un de vous,Je le désavoûrais pour frère, ou pour époux.Pourrai-je toutefois vous faire une prièreDigne d’un tel époux, et digne d’un tel frère?
Traduzione.
No fratello, non vengo in questo locoche per darti un amplesso, e dirti addio.Non temer dal tuo sanguepur troppo generoso affetti molli,che de’ gran cori offendan la costanza.Se questa alta sciagurapiegasse alcun di voi.No ’l riconoscerei fratello, o sposo.Ma deh poss’io porgervi almeno un priegodegno di sposo tal, di tal fratello?
[Discorso.]
[7.5.3] Je veux d’un coup si noble ôter l’impiété,À l’honneur qui l’attend rendre sa pureté,La mettre en son éclat sans mélange de crimes:Enfin je veux vous faire ennemis légitimes.Du saint nœud qui vous joint je suis le seul lien:Quand je ne serai plus, vous ne vous serez rien.Brisez votre alliance, et rompez-en la chaîne;Et puisque votre honneur veut des effets de haine,Achetez par ma mort le droit de vous haïr.Albe le veut, et Rome: il faut leur obéir.Qu’un de vous deux me tue, et que l’autre me venge,Alors votre combat n’aura plus rien d’étrange,
Traduzione.
Vo’ scevrar l’empietà dall’opra illustre,pura all’atteso onor render la luce,e da mistura di delitto illesa.Che più? vi vo’ legittimi nemici.Il sol vincol io sonodel nodo che vi lega.Più senza me non rimarreste uniti.Rompete la catena a voi comune.Poiché vuol l’onor vostro effetti d’odio,si comperi da voi con la mia morteil diritto d’odiarvi.Così vuol Roma, ed Alba:Obbedir lor conviene.M’uccida uno di voie mi vendichi l’altro.Più non sia strana allor la vostra pugna.
[Discorso.]
[7.5.4] Et du moins l’un des deux sera juste agresseurOu pour venger sa femme, ou pour venger sa sœur.Mais quoi? vous souilleriez une gloire si belleSi vous vous animiez par quelque autre querelle.Le zèle du pays vous défend de tels soins:Vous feriez peu pour lui, si vous vous étiez moins.Il lui faut, et sans haine, immoler un beau-frère:Ne différez donc plus ce que vous devez faire:Commencez par sa sœur à répandre son sang:Commencez par sa femme à lui percer le flanc:Commencez par Sabine à faire de vos viesUn digne sacrifice à vos chères patries.
Traduzione.
Almen fia l’un di voi giusto aggressorevindice della moglie, o della suora.Ma come? ahi macchiarestedella gloria il chiaror, se stimol d’ontav’animasse all’impresa.Vietavi tali cure il patrio zelo:poco questo oprarebbe,se congiunti tra voi men foste: è d’uopoimmolar, e senz’ira,alla patria il cognato.Che più dunque tardate?Spandi tu pria di sua sorella il sangue:apri tu pria di sua consorte il fianco.Cominci da Sabinail sagrificio delle vite vostre,dell’alme patrie degno.
[Discorso.]
[7.5.5] Vous êtes ennemis en ce combat fameux,Vous d’Albe, vous de Rome, et moi de toutes deux.Quoi? Me réservez vous à voir une victoire,Ou pour haut appareil d’une pompeuse gloire,Je verrai les lauriers d’un frère, ou d’un mariFumer encor du sang que j’aurai tant chéri?Pourrai-je entre vous deux régler alors mon âme?Satisfaire aux devoirs et de sœur, et de femme?Embrasser le vainqueur en pleurant le vaincu?Non non avant ce coup Sabine aura vécu.Ma mort le préviendra de qui que je l’obtienne.Le refus de vos mains y condamne la mienne.
Traduzione.
Voi nell’aspra tenzon nemici siete:tu d’Alba, tu di Roma, ed io d’entrambe.Che riserbarmi ad una ria vittoria,ove l’alto apparatod’una gloria pomposam’offra fumanti ancor di sangue carogli allori d’un fratello, o d’un marito?Come, deh come allorareggerò tra voi l’alma?Come farò gli ufficie di suora, e di moglie?Strignerò ’l vincitor piangendo il vinto?No: pria che giunga a tal già sarò morta.La morte preverrammida qualunque l’ottenga. Il ricusarmile vostre mani a ciò le mie condanna.Chi dunque vi trattiene?
[Discorso.]
[7.5.6] Sus donc qui vous retient? allez, cœurs inhumains:J’aurai trop de moyens pour y forcer vos mains.Vous ne les aurez point au combat occupées,Que ce corps au milieu n’arrête vos épées:Et malgré vos refus il faudra que leurs coupsSe fassent jour ici pour aller jusqu’à vous.
Traduzione.
Ite cori inumani:ben mezzi avrò di vi ci trarre a forza.Entrerò nel conflitto infra le spade:ratterrolle col seno:e, malgrado il rifiuto, i colpi lorosol per me s’apriranno a voi la strada.
Per dar fine a quest’opera dirò che dalle cose sinadora esposte parmi che si possa conchiudere che siccome gl’Italiani non sono ancora giunti a perfezionar la tragedia e che, generalmente parlando, si sono con troppa superstizione trattenuti della imitazion degli antichi; cosi li Francesi, benché abbiano i lor pregi particolari, rimangono addietro nelle cose più sustanziali della favola e rispettivamente a qualche italiana tragedia delle più moderne son superati anche in altre. Il raccogliere insieme le buone prerogative degli uni e degli altri sarebbe la via d’arrivare a’ primi gradi della perfezione.
Giunta toccante le tragedie di monsieur de la Motte
[Giunta.1] In questi giorni ho letto i due tomi che contengono i drammi di monsieur de la Motte con i discorsi toccanti la tragedia: debbo però parteciparvi le riflessioni che in tale lettura mi sono occorse, sì per l’assunto che ho di ciò preso quando me li avete spediti; come per mandarvi (per così dire) un corollario del mio critico paragone. Certo per formare un compiuto giudizio delle tragedie francesi rimanevami a vedere una degna parte di esse, ed un saggio notabile del gusto, ch’ora ha la Francia nell’arte tragica. Convien confessare che questo scrittore è uno de’ più rari spiriti che abbia avuto quella nazione: mostra che non abbiano conosciuto i suoi pregi gli autori per altro dotti del giornal letterario d’Aia, i quali rapiti dalle facezie di qualche suo schernitore, non dicono, se ben mi ricorda, in proposito delle sue opere teatrali143, se non ch’egli si è messo in ludibrio.
[Giunta.2] Io dirovvi l’opinion mia sì d’ogni discorso distintamente, che di ciascuna tragedia, nulla meno ingenuo nell’esporne le lodi, che libero nel notarne le censure. La sustanza del primo discorso è generalmente buona. L’autore parla più ragionevolmente degli altri francesi dell’amore da essi introdotto nelle tragedie, confessando con candidezza il comune abuso, e distinguendo peraltro con buon discernimento il miglior uso che n’ha fatto Pietro Cornelio con diversificarlo secondo i caratteri, che Racine col vestirlo sempre alla francese: nonpertanto non avrei del tutto assolto Cornelio stesso da simili indecenze. Sagge sono le considerazioni che fa intorno l’unità del luogo, del tempo e dell’azione; massimamente quella che riguarda l’unità d’interesse, che si distingue dall’unità dell’azione. Di questa avrebbono avuto mestieri non pur molti poeti di Francia, i quali unirono in tragedia varie persone che in una sola azione hanno i lor propri interessi, in guisa ch’ognun d’essi richiederebbe una particolare passione; ma certi nostri ancora, i quali indussero degli attori a favellare di cose aliene dal principale soggetto e senza connessione veruna. Ove discorre del metro egli mostra buon senno nell’anteporre i versi liberi dell’Agesilao di Cornelio a’ versi alessandrini. Finalmente sopra tutto è lodevole la dottrina con cui tratta dello stile convenevole alla tragedia. Certamente egli in ciò scuopre una finezza di gusto a cui non era giunto alcuno altro de’ tragici francesi: ancorché per vero dire le sue tragedie non ben corrispondono al ragionamento.
[Giunta.3] Nel secondo discorso giudiziose sono le osservazioni circa la semplicità e la moltiplicità degli avvenimenti, come pure ciò che dice della esposizione preparatoria e dell’altre circostanze delle scene dallui chiamate «situations». Non così saprei approvare tutti i suoi sentimenti spettanti a’ caratteri: quantunque alcuni sieno rettissimi. Una delle cose che paionmi particolarmente riprensibili, si è l’asserire che li caratteri più cattivino gli uditori qualor danno in qualche eccesso, perché secondo il pregiudizio comune del popolo una tal condizione imponga idee di gran virtù, soggiogando l’immaginazione degli uomini: da che si passa a conchiudere che, benché giusta la buona filosofia sia ridevole un carattere eccessivo, nondimeno secondo la poesia è d’un grande vantaggio. A questo errore sembra che monsieur de la Motte sia stato indotto sì dal favore acquistatosi dal suo Romolo, come dall’essere invaghito della inflessibilità che in quella favola mostra Tazio.
[Giunta.4] Prima dirò che una tal massima rispettivamente a’ principali personaggi, che debbono esser norma per la correzion de’ costumi, è contraria al fine del poeta, il quale non dee adulare il comun pregiudizio; ma liberare piacevolmente da’ pregiudizi. Però laddove si rappresentino simili eccessi fa di mestieri accompagnarli con i lor funesti effetti; acciocché s’avvezzi ciascuno a schifarli per l’avversione delle idee penose, che con essi si congiungono. Quando si concedesse che la presunzion giovanile di Romolo avesse potuto appassionare la gente a suo favore (il che come appresso vedrassi è falso) non per questo l’autore «omne tulit punctum»
. Allora avrebbe egli ottenuto il primario frutto quando Romolo avesse lasciato gli spettatori persuasi delle male conseguenze che cagiona un fanatico ardire: ma il nostro poeta, col renderli unicamente interessati per tale persona, ha l’intento bensì di fare che la tragedia non riesca noiosa: per altro, invece di recar giovamento, dispone gli uomini a confondere il vizio colla virtù, ad amare, a seguire il medesimo.
[Giunta.5] Quanto alla resistenza inflessibile di Tazio, per compiacenza della quale dice monsieur de la Motte: «Che essa ha sembianza di maggiore grandezza che non ha la virtù, perché s’ammira maggiormente»; parmi doversi riflettere che l’ammirazione non tanto è proprio effetto della altrui virtù, quanto delle cose strane e rade a succedere: anzi non per altro s’ammirano i virtuosi se non perché appunto son radi. Non si dee però da tal meraviglia indurre che gli uditori ammirino Tazio, perché concepiscano idee non pure di gran virtù, ma di qualità superiori alla virtù stessa. Se ciò solo fosse vero le persone di più chiaro intendimento non sarebbon capaci in simili incontri d’alcuna meraviglia, e però il carattere di Tazio non sarebbe per esse riuscito secondo il fine del poeta. Contuttociò l’ammirazione sarà stata comune a tutti: ma con tale differenza, che i saggi avran condannato Tazio; gli altri avranno dal suo esempio appreso una falsa fortezza.»
[Giunta.6] Certo indegnissima di monsieur de la Motte è la proposizione che appresso egli soggiunge a favore de’ caratteri eccessivi dicendo: «Avouons-le à notre honte, la vertu mesurée ne nous passionne guère: nous voulons des excès, et les excès sont des vices.»
Generalmente parlando nulla più ci appassiona che l’infelicità di un uomo, in cui veggiamo della virtù: e, se ben s’osserva, la passione che cagiona Romolo non deriva già dalla sua temerità; ma dall’opinione della sua morte, la quale non poteva se non essere compatibile per l’inclinazione della nostra umanità verso chi soggiace ad alcun male, e per le molte belle qualità che per altro egli aveva. Che se l’autore intende qui per passione la sola meraviglia, io dico che essa non è per sé la passione propria della tragedia: anzi è contraria al suo scopo quando può pregiudicare alla morale; né si dee secondare lo sciocco volgo, ma sanarlo dalle sciocchezze.
[Giunta.7] Non m’aggrada neppure la massima, nella quale monsieur de la Motte stabilisce che li personaggi odiosi, quali sono quelli di Cleopatra nella Rodoguna di Cornelio e di Medea appresso il medesimo, possano con buon successo dominare in una tragedia. Parmi primieramente vedere gran differenza tra Cleopatra e Medea. La prima non ha veruna scusa della sua crudeltà: perciocché il pregiudizio del popolo atto a concepire la sua ambizione per testimonianza d’un cuor forte non è punto valevole a moderare l’irritamento degli animi, come suppone questo scrittore. L’altra all’incontro ha de’ motivi veri, ed avvalorati dalla natura de’ nostri risentimenti: però sarebbe più disposta a muover pietà, se la sua vendetta violando ogni legge d’umanità non eccedesse que’ termini oltre i quali non può sperarsi umano compatimento. Ma quello che principalmente vuolsi riflettere si è che col dare in tragedia il prio luogo a tal sorta di persone, non solamente si manca all’indirizzo morale della poesia, e con pravo abuso della medesima si propongono esempli idonei ad accreditare i delitti, o a scemarne almeno l’avversione: ma si travia totalmente ancora dall’oggetto essenziale della tragica purgazione. Ciò che sopra modo ammiro è che monsieur de la Motte riconosce benissimo se non il secondo, almeno il primo difetto, e confessa che, invece d’instruire con buoni esemplari nella virtù, s’inducono delle male impressioni, le quali non vengono abbastanza cancellate dalla precauzione per altro usata di rendere in fine punite le colpe, o di non lasciarle trionfare senza gravi rimorsi de’ delinquenti: contuttociò la confessione della mancanza non lo induce a procurare veruna ammenda, ma seguendo egli la piena degli altri abbraccia colla difesa quel’abuso che colla ragion disapprova. Ciò che l’autore dice in favore delle azioni commotive esposte alla comun vista sembrami ragionevole.
[Giunta.8] Fra molte belle considerazioni che nel terzo discorso s’incontrano, giudico doversi qualche eccezione alla dottrina spettante alla gradazione dell’interesse, ove dice che la tragedia fa poco effetto nella catastrofe se dal bel principio non comincia a commovere; o se pur l’esito è passionato non può chiamarsi se non una mezza tragedia. Io non dubito d’affermare che certe tragedie di primo grado, in cui il protagonista da felicità cade in misero stato, avran d’ordinario maggior efficacia nella mutazione della fortuna, quando questa succede in un sol colpo, che quando a poco a poco negli atti antecedenti all’ultimo si va discoprendo. Non occorre rintracciare altrove esempli: possiamo vederne uno nell’Edippo dello stesso monsieur de la Motte, la cui peripezia riesce appunto per ciò men meravigliosa ed efficace, che appresso Sofocle, siccome si vedrà poscia notate ove discorrerò particolarmente delle tragedie. L’arte che per mio avviso è necessaria in esse per disporre chi ascolta ad una viva commozione, consiste nel procacciare alla persona principale della estimazione e della benevolenza, sicché ciascuno per lei s’interessi: il che maggiormente succede quando grande è l’importanza dell’affare che si tratta e quando si mettono gli animi in gelosia di qualche gran male che sia per avvenirle; ma si trattengono in lusinga coll’ignoranza de’ mezzi, onde dee derivare.
[Giunta.9] Giudiziose sono le regole che si danno da monsieur de la Motte per ben condurre l’azione per mezzo de’ vicendevoli ragionamenti degli attori, e la critica degli autori che hanno ad esse contravenuto non può se non approvare. Dirò solamente che quel difetto, che si trova nell’atto 2. dell’Ifigenia del Racine, ove Achille lascia partire la principessa senza procurare con nuove instanze di farle dichiarare i suoi sensi, non è mancanza che riguardi il dialogo, ma inosservanza di naturale carattere.
[Giunta.10] La massima di non frammischiare ne’ costumi d’un primario personaggio cosa alcuna che infievolisca la passione, la qual s’ha disegno di acquistargli appresso la gente, è giusta: ma nella censura che fa l’autore dell’Orazio di Pietro Cornelio a cagione del suo parricidio, io son di parere assai discordante. L’intenzion d’un poeta non dee tanto essere di metter sotto gli occhi un eroe perfetto; quanto di muovere utilmente la compassione ed il terrore: or che pietà potrebbe egli seguire senza il parricidio che lo riduce in condizione compassionevole? E se cadesse innocentemente nel suo pericolo qual utile recarebbe il terrore del medesimo? Concorderei con monsieur de la Motte se tal delitto fosse effetto d’una prava volontà, non d’un trasporto accidentale: ma nelle circostanze della storia che si rappresenta da Cornelio, Orazio non solamente con esso non pregiudica alla tragedia, ma è uno dei soggetti migliori che abbia scelto quel poeta per lo suo teatro; ancorché per altro l’abbia dipinto troppo feroce per non dire inumano.
[Giunta.11] Una sola osservazione farò nel 4. discorso circa la disputa che fa monsieur de la Motte per abilitare la prosa alla tragedia: perciocché altre cose che ivi si toccano son concernenti alla favola particolare dell’Edippo, ed occorrerà favellare a parte delle medesime. Non è nuova in Italia la controversia intorno l’uso della prosa in poesia. Sin nel secolo decimo sesto fu dibattuta, e si è continuata buona pezza anche in quello succeduto appresso. Altri sostennero esser necessario ad esse il verso, e di questa opinione furono il Robertello, il Castelvetro, il Maggio, il Lombardo, il Patrizio, il Pontano, il Mazzoni, Giason de’ Noris, Faustino Sommo, Roberto Titi ed il Nisieli: altri stabilirono poter sussitere la poesia per la sola imitazione, nella qual dottrina si distinsero il Piccolomini, Agostino Micheli, Paolo Beni ed il Ghirardelli: finalmente fu sentenza assai comune, anche ad alcuni de’ sopracitati fautori de’ versi, che la commedia si possa lodevolmente scrivere in prosa.
[Giunta.12] Ma tutte queste dispute s’aggiraron principalmente o nella varia interpretazion d’Aristotele, o sull’uso degli antichi. Io discorrendo secondo la sola ragione son di parere che, nelle favole drammatiche, le quali vogliono stile non disdicevole neppure alla prosa, la mancanza del verso sia assai più tolerabile che in altre opere poetiche, le quali tanto meno credo che sieno capaci della prosa, quanto più richiedono di locuzion figurata: per conseguenza giudico la poesia lirica meno acconcia a riceverla che l’epica. La prova della mia proposizione si è che la favella sciolta è lo strumento proprio per le occorrenze dell’umana società, e le figure poetiche, facendola servire ad idee fantastiche, abusano della medesima in una guisa contraria alla sua natura; sicché la rendono inetta e sciapita nulla meno che i discorsi de’ pazzi. La quale sconvenevolezza non accade ne’ versi: perciocché non essendo essi d’uso comune, e rappresentando un linguaggio più divino che umano, danno un’aria misteriosa e sublime a ciò che sembra delirio nell’idioma ordinario. L’oda in prosa intitolata La Libre Éloquence può valere per saggio dell’insana stravaganza che ho sopra accennato, siccome potrebbe recarci un bell’esempio di poetico entusiasmo, se fosse in versi. Non posso indurmi a credere ch’essa abbia ottenuto un intiero applauso da persone libere dal riguardo di compiacere all’autore. Né quantunque io conceda qualche pregio a’ drammi scritti in prosa, ammetterei però che fossero perfetti senza il metro. L’imitazione ne costituisce l’essenziale bellezza; l’armonia del verso dà loro la grazia. Però come in vaga donna languisce beltà scompagnata da graziosa leggiadria, così le favole teatrali senza il verso rimangon prive di certa vivacità che le rende compiutamente piacevoli ed attive.
[Giunta.13] Non niego che la prosa non abbia il suo spirito, le sue grazie, i suoi allettamenti: ma l’imitazione poetica richiede l’armonia del verseggiare come Grazia sua propria, e questa proprietà non deriva in essa tanto dalla sola consuetudine, quanto dalla sua natura: perocché essendo la poesia stata prodotta con fine di dilettare, ad essa conviene tutto ciò che diletta; all’incontro senza il metro sarebbe mancante sì del piacere che i versi recano coll’armonia, come di quello che cagionano per la maraviglia, l’uno de’ quali lusinga il senso, l’altro rapisce l’animo degli ascoltatori. L’unica opposizione di monsieur de la Motte, che sembra abbattere questa dottrina generale per tutte le lingue, è l’imputazione dell’inverisimile, dicendo egli che ove s’introducono a parlare uomini, essi debbon parlare come uomini, e che sconviene alla natura loro il soggettare i più gravi discorsi a certo numero di sillabe ed a regolati riposi. Ma per la medesima ragione si potrebbe dire che non è ragionevole il pretendere di svegliare, a favore de’ principi che si rappresentano sul teatro, della compassione in uditori che sanno esser tutta finta la rappresentanza delle loro passioni e delle loro persone. Niuno di coloro ch’entrano ne’ teatri crede di andare a veri spettacoli; pure la gente vi si appassiona, e vi piange in virtù d’una anticipata supposizione con cui s’inganna la propria fantasia. Ora nella medesima guisa che si prepara ciascuno a ricever per veri i successi tragici, che conosce esser finti, si dispone ancora ciascuno a concepire quasi naturale linguaggio quel metro che è proprio de’ tragici discorsi.
[Giunta.14] Senza un simile inganno tutti i ragionamenti delle persone che da’ poeti s’introducono a favellare direttamente nell’epopea soggiacerebbono all’incredibilità. Ma ne’ drammi esso riesce tanto più facile; quanto i versi drammatici si scostan meno dal suono della prosa. Che se si dicesse potersi per la stessa induzione attribuire alle persone tragiche ancora l’altre figure ardite della poesia; risponderei che queste sono incompossibili di loro essenza colla passione, e distraerebbono l’immaginativa dalla sua illusione: laddove il puro metro non mette nella elocuzione che una forma estrinseca ed accidentale, a cui s’accostumiamo, come ad un particolare idioma, quando sia libero dalla rima, la quale, quantunque esteriore, fa sentir troppo di ricercamento e d’affettazion di canzone.
[Giunta.15] L’altra obiezione che reca monsieur de la Motte per sostegno della sua opinione è la tortura delle rime, per cui sovente si snervano i concetti e si toglie la precisa attività de’ ragionamenti: ma questo bensì prova quel difetto che io stesso ho già notato nella critica delle tragedie francesi; non già che la prosa generalmente sia più convenevole de’ versi. Ciò che si potrebbe ragionevolmente sostituire al metro ordinario de’ Francesi sono per mio avviso i versi sciolti, parte de’ quali avessero il numero degli alessandrini e parte il corrispondente a nostri endecasillabi. Con essi s’agevolerebbe abbastanza il vantaggio eziandio di correggere i falli, che si conoscono dopo il bollor del comporre. Quanto all’ultimo giovamento che monsieur de la Motte spererebbe dalla prosa, cioè la moltiplicazione degli autori drammatici, io son di diversa opinione, ed inclino anzi a credere che la facilità di scriver tragedia in prosa accrescerebbe il numero de’ cattivi autori ed alienerebbe i buoni.
[Giunta.16] Ora passando ad esporvi ciò che ho notato nelle tragedie, comincerò da’ Macabei. Questa favola parmi lodevole per passioni vivamente espresse, per frequenza di nobili sentimenti, per elocuzione propria e sublime: almeno vi s’incontrano poche reliquie di quella affettazione di stile che è comune a’ Francesi. L’azione ha del difetto. Il tentativo che Antioco imprende nel secondo atto per indurre Misaele piacevolmente ad abbandonare la religione ebrea, si può dire una azione distinta dall’eccidio che nel primo atto egli fa de’ suoi fratelli: ma dato che sia una continuazione della persecuzione de’ Macabei, si compie almeno nel primo atto sì gran parte di essa e s’induce colla medesima tanta commozione che ciò che rimane a terminarsi sembra in paragone poco considerabile, e riesce languido almeno per qualche tempo appresso gli ascoltatori, i quali non sanno darsi ad intendere di dovere essere occupati in maggiore oggetto di compassione. Salmonea è un esemplare di gran virtù: ma sino al quinto atto è persona oziosa ed a guisa del coro degli antichi è più spettatrice che attrice. Nel fine entra nell’azione tragica eccitando il figliuolo ad offrirsi alla morte: ma il pretesto per cui viene inchiusa, manca di ragionevole, perciocché non si dee credere che Antioco le permetta d’abboccarsi con Misaele per dare allei tormento. S’accresce l’incredibile, perché il motivo che aveva il re di farlo custodire separato dalla madre, continua come prima, sperando ancora Antioco d’indurlo al culto degli Dei.
[Giunta.17] Circa l’arte della condotta e della rappresentanza incontransi parimenti delle circostanze viziose. Nella scena prima dell’atto 3. scuopresi con improprietà l’intento di preparare l’ordine delle scene successive. Che giova ad Antigone il dire al re in proposito di Misaele:
Mais des pleurs d’une mère il fallait l’affranchir;Et vous aviez encor à craindre que son zèleNe l’armât contre nous d’une force nouvelle:Vous le faites farder en ces lieux par Barsès.
Se Antioco aveva avuto queste precauzioni non serve il riferirgliele, né ciò puote fare Antigone verisimilmente. L’uditore in questo luogo sente l’importunità della narrazione: s’avvede poscia nel decorso dell’atto che all’altre scene era d’uopo preparativo sì sforzato per iscansare molti altri sconci. Contuttociò tutti non si schifano: l’arrivo di Misaele nella scena prima rimane ancora troppo pronto144.
[Giunta.18] Ne’ soliloqui ha talora del narrativo, come può vedersi in quello d’Antioco alla scena 6. dell’atto 4. ed in quello di Misaele nella scena prima dell’atto 5. Ciò che dice a parte Antigone nella scena 3. dell’atto 3. mi dispiace e per l’indecenza generale ch’io sento ne’ parlari a parte, ancor che sieno soliloqui, e per quelle parole «ô vertu que j’admire»
, ove pare che notifichi agli uditori la sua maraviglia: più sarebbe adatto il dire «o vertu admirable». Nell’atto quarto manca alquanto di corrispondenza il tempo della rappresentanza con quello degli avvenimenti, e nel quinto l’acceleramento di ciò che vi accade eccede i termini d’una tolerabile indulgenza.
[Giunta.19] Nel Romolo m’occorre in primo luogo un grande inverisimile toccante l’amore del medesimo. Io non dico che sia contro la natura e l’età di Romolo l’innamorarsi: anzi accordo al poeta che non era convenevole che mentre egli s’è proposto il medesimo per un eroe, gli attribuisse quella stessa brutalità che usano i suoi soldati, come egli sostiene nel suo discorso. Ma due sconvenevolezze inescusabili io trovo: una nel suo innamoramento, l’altra nella maniera d’amare. Rispettivamente a quello la descrizione de’ continui dispregi usati da Ersilia a Romolo rende incredibile ch’egli concepisse amore sì violento quale è quello che gli si assegna. Per un amor tale dee supporsi qualche lusinghiero tratto, almeno ne’ suoi principi. Radicata una volta la passione può fra gli sdegni alimentarsi, ma da dispregi non può nascere. Il poeta mostrasi poco pratico della filosofia che riguarda amore. Intorno alla maniera d’amare, tante lagrime, tanta sofferenza con altre circostanze appena converrebbono ad un folle garzone che languisse in uno scioperato amore; non che disdicano all’indole di Romolo ed al carattere d’eroe che l’autore gli ascrive.
[Giunta.20] Ha pure dell’inverisimile assai che tante truppe armate, atte a costituire un esercito numeroso, coll’ascondersi il giorno ne’ boschi e col marciare di notte, possano giungere sino alle porte di Roma senza che ne prevenga la fama. Né ragionevole è che l’esercito de’ Sabini dopo la prigionia del suo re dimori nel posto ove era: anzi dovrebbesi credere che, seguita la presa del medesimo, si mettesse tutto in fuga e si disperdesse. Aggiungasi che l’azione delle Sabine, le quali accorrono a frapporsi colli loro figliuoli all’una ed all’altra armata, non poté seguire senza un anticipato e comune concerto delle medesime, da che conchiuderei che la venuta de’ Sabini non dovesse essere sì improvvisa, come è nella tragedia. L’autore nel suo discorso non prevedendo questa censura sostiene che i due fatti d’armi non richieggono tempo di cui la tragedia non sia capace, ed in ciò concorro anch’io.
[Giunta.21] Non parlerò della maniera in cui Romolo si preserva da’ traditori nell’atto del sacrificio: monsieur de la Motte stesso concede esser chimerica; tuttoché coll’esempio di Siccio Dentato procuri di scemare il difetto. Avverto solamente che non consiste tutto l’inverosimile nelle circostanze del fatto di Romolo, ma in quelle ancora degli assalitori e di Tazio: perciocché come è possibile che Tazio vedesse di lontano i pugnali scintillanti, con cui si voleva trucidar Romolo? Per coglierlo all’improvviso lo sfoderare ed il colpire doveva essere un atto solo. Inoltre perché fingere che cento braccia sieno per ferirlo in una fiata, mentre bastava uno o due soli? Il poeta ha voluto render verisimile questa circostanza col prepararla fino alla scena prima dell’atto 4. ma non ha fatto altro che aggiungervi l’affettazione d’un vano preparamento. Oltre alle censure sinadora esposte non lascerò di dire ancora che que’ versi che profferisce Ersilia a parte nella scena 2. dell’atto 3. mostrano il poeta scarso di mezzi idonei per far sapere agli spettatori ch’ella ha scritto il biglietto, poiché ricorre egli allo sconcio di far che oda lo spettatore ciò che Romolo non sente. Lo stile di questo dramma per frasi poetiche ed espressioni strane non si distingue punto da quello ch’è consueto a’ tragici francesi. Monsieur de la Motte qui si scosta con esso dalla natura più che nell’altre sue tragedie.
[Giunta.22] L’Inès de Castro, per quanto raccolgo, è stata soggetta a molte critiche ed anche a qualche scherno: ma ciononostante ha sempre riportato dell’applauso e, se crediamo all’autore, niuna tragedia dopo il Cid si è rappresentata in Francia con sì felice successo. Io siccome riconosco in essa delle pregevoli qualità; così non la ritrovo senza difetti: ma dubito che il mio giudizio non s’incontrerà con quello degli altri che sinadora l’han censurata. Le qualità d’Inès sono proprissime per un tragico protagonista ed i pregi di questa favola sono per mio parere assai superiori alle sue imperfezioni. Per altro, rispettivamente alla pietà che Inès dee muovere, la disposizione della tragedia potrebbe esser migliore. Le persone accessorie (benché sieno un de’ mezzi che hanno acquistato appresso molti dell’applauso per la varietà de’ vivi caratteri) lasciano poco campo alla principale di prepararsi il favore di chi ascolta; sicché rimane assai meno distinta che non conviene: anzi sino al 4. atto si può quasi dubbiare se più rapisca l’agitazione d’Alfonso, o il pericolo d’Inès; con tale aggiunta, che l’interesse loro non solamente è diverso, ma opposto: conciossiaché diviene esso comune solamente nel fine.
[Giunta.23] Le doti ragguardevolissime di Costanza fanno ancora mal’effetto, distraendo alquanto dall’attenzione e dalla estimazione di quelle d’Inès, il che è contro il tragico artifizio. Ne’ caratteri avvi qualche sentimento che non m’aggrada. Sconvenevole e freddo mi pare per esempio ciò che dice Inès a Don Pietro in questi versi:
Jugez mieux des terreurs dont je me sens saisie:Je crains cet intérêt, dont vous touche ma vie.Je sais ce que ma mort vous coûterait de pleurs,Et ne crains mes dangers, que comme vos malheurs145.
Ben si scorge che l’autore non è stato indotto ad ascrivere tal concetto che dall’intento di disporre una occasione al racconto, ch’ella fa dappoi, del suo matrimonio e della reità compatibile, in cui incorse col medesimo. Impropria stimo anche nella reina la digressione delle lodi della figliuola nella quale dice, fra l’altre cose, che il cielo non ha formato nulla di più bello e che la natura si è per essa resa esausta de’ suoi tesori. Questi encomi disconvengono al proposito ed alla persona che li dice: ed una tal maniera di favellare raffigura un poeta lirico che canti d’una Beatrice o d’una Laura. Altra sconvenevolezza notabile, e che ferisce la condotta, è nella medesima scena ove dice la reina che in qualunque occasione compariva alla corte Don Pietro, i di lui occhi sempre distratti non vi cercavano, né vi incontravano se non Inès. Siccome tal fatto sarebbe verisimile in un altro amante; così non confassi ad un marito che ha già posseduto per anni l’oggetto amato. Il poeta si serve di ciò per dar motivo allo scuoprimento che dappoi siegue per opera della reina stessa, che accusa Inès di corrispondenza amorosa con Don Pietro: ma in vece di giovare alla favola con l’artifizio appoggiato all’inversimile, aggiunge all’insussistenza del fondamento anche la rovina della fabbrica; laddove agevolmente da altre circostanze potea derivarsi la medesima ricognizione. L’elocuzione è miglior che nel Romolo: non è però del tutto libera da’ suoi vizi. Mi par degno di distinta osservazione ciò che dice Don Pietro ne’ seguenti versi:
Ne doutez pont, Inès, qu’une si belle flammeDe feux aussi parfaits n’ait embrasé mon âme146.
Lascio giudicare quanto convenga questo motto giocoso al doloroso annunzio che Inès allui reca ed alla tristezza de’ comuni sentimenti.
[Giunta.24] Circa l’Edippo vuolsi fare giustizia a monsieur de la Motte con dire che, nella proprietà degli episodi, egli ha superato sì Cornelio che monsieur de Voltaire, ed ha con ingegno corretto un inescusabile errore della favola greca rispetto all’ignoranza inverisimile che ivi mostra Edippo intorno le circostanze della morte di Laio. Ciò che mi disaggrada nella sustanza di questa tragedia è che il poeta, con rendere Edippo innocente, in riguardo alla morte di Laio, leva alla favola il giovamento essenziale. Egli si sforza di giustificare il castigo permesso dal cielo ad Edippo coll’attribuirgli dell’ambizione e della presunzione: ma non avverte che quindi nascono due disordini. Uno è che la pena non corrisponde direttamente al difetto che gli ascrive, non avendo questo veruna altra attinenza che d’una occasione lontana ed impensata colla colpa dell’uccisione di Laio, la quale sì secondo l’antica favola, sì secondo la presente si vuole punita dagli dei. Da tale disordine deriva l’altro, il quale è che gli spettatori non ottengono il frutto proprio di questa tragedia: poiché si vede il castigo in chi è senza il delitto, a cui deve corrispondere. Però monsieur de la Motte credendo migliorare il dramma l’ha reso fra sé discordante ed inutile. Il suo inganno è venuto (come comprendo per lo quarto discorso) dal giudicare ch’Edippo appresso Sofocle non sia reo d’alcuna delinquenza, il che è falsissimo: perciocché nella favola del greco il risentimento che fece Edippo uccidendo Laio non fu senza notabile reità. Nell’ordine della favola disapprovo la divisione della riconoscenza, per cui la peripezia riesce meno maravigliosa, siccome avviene anco nell’Edippo di monsieur de Voltaire. Ne’ caratteri non ha dubbio che non si pecchi alquanto col diversificare quelli d’Eteocle e di Polinice dalle antiche memorie, giusta le quali essi non appaion capaci d’usar tanta generosità a favore del padre. È ufficio di buon poeta migliorare i costumi: ma non mai portarli all’eccellenza d’una contraria virtù.
Commento.
Dedica.
[Ded.1] Il Paragone è dedicato allo svizzero Johann Jakob Bodmer (1698-1783), coetaneo del bergamasco e suo corrispondente sin dal 1728, dopo che gli era stato segnalato da Caspar von Muralt, uno degli animatori del periodico ginevrino Bibliothèque Italique. Il Bodmer era interessato ad ottenere dal Calepio alcune informazioni circa i trattati italiani di retorica ed eloquenza, dal momento che intendeva avviare la scrittura di una Retorica che si soffermasse in particolare sull’evoluzione del concetto di «gusto»; nella lunga lettera del 7 gennaio 1729 (Pietro Calepio, Lettere a J. J. Bodmer, a cura di Rinaldo Boldini, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1964, pp. 5-17), il Calepio rispondeva alle richieste del sodale affrontando proprio l’argomento del «buon gusto» nella trattatistica italiana tra Cinque e Settecento. Nel merito di questa lettera egli rispondeva anche ad un altro desiderio del Bodmer, il quale chiedeva notizie circa le recenti tragedie pubblicate nella penisola, citando Gravina e Martello — precisando tuttavia che «né l’uno né l’altro ha soddisfatto la buona aspettazione del pubblico» —, ma raccomandando la lettura di Caraccio, Lazzarini, Maffei, Recanati, Marchese, Pansuti, Baruffaldi e Zanotti. La corrispondenza prosegue; Bodmer manda al Calepio alcuni suoi capitoli intorno alla «virtù della fantasia» (ivi, p. 44) e il bergamasco accenna in questa sede — nella lettera del 10 aprile 1729, di aver cominciato a «sbozzare» il Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia (ivi, p. 48) in seguito alla richiesta dell’amico di avere qualche nozione circa la tragedia contemporanea italiana, dal momento che il Teatro Italiano del Maffei, con un’operazione che si potrebbe definire archeologica, per quanto erudita, si era limitato a pubblicare il meglio del teatro nazionale antico, lasciando insoddisfatto il desiderio di un intellettuale cosmopolita e curioso come il Bodmer, a sua volta impegnato all’epoca nella scrittura di una tragedia. I progetti poi si accumulano e sebbene molti di essi non vedranno la luce — ad esempio una raccolta di tragedie italiane che proseguisse il Teatro Italiano curata dal Bodmer con il consiglio di Calepio (ivi, p. 87) —, il Paragone viene portato avanti con costanza, come dimostrano successivi stralci delle lettere del bergamasco: «Ho già posto in ordine una parte dell’esame critico intorno le tragedie d’Italia e di Francia, giusta la determinazione che feci a vostro stimolo», scrive Calepio il 6 novembre 1729, sebbene poi aggiunga che due cose gli impediscono di portare a termine il lavoro, ossia «lo stabilimento del mio matrimonio che mi dà qualche distrazione» e inoltre «la copia delle osservazioni che mi sono cresciute in guisa che richiedono una lunghezza che prima non m’avea proposto» (ivi, p. 103). Già a quest’altezza il lavoro di Calepio, inizialmente pensato come un’introduzione alla raccolta di tragedie a cura del Bodmer, conquista, per dimensione e portata concettuale, un’autonomia che lo configura come trattato indipendente: «Per tal ragione credo pure che questa opera non sarà propria per una prefazione o per una introduzione da farsi ai tomi futuri del Teatro Italiano» (ibid.). I lavori proseguono invero a rilento, anche per alcuni ritardi nella ricezione delle opere che Calepio intendeva esaminare — fra le quali la Polissena e il Crispo del Marchese, nonché l’Orazia del Pansuti —, come dimostra la lettera del 19 febbraio 1730 («Voi argomentate invano di ritrovare gran perfezione nell’operetta intorno la poesia tragica dalla tardanza del compirla, perché già è lungo tempo ch’ella rimane in riposo senza ch’io v’applichi punto: il che avviene non pure per le molte distrazioni che ho sin ad ora patito, ma perché aspetto da Napoli più tragedie, una buona parte delle quali ho inteso essersi ultimamente stampato», ivi, p. 107), e soltanto a novembre del 1730 il bergamasco ammette di avere, «coll’agio dell’autunno», pressoché terminato la stesura del Paragone, al punto da escludere pregiudizialmente ogni riferimento alle tragedie del de la Motte che pure in quei giorni il Bodmer gli aveva spedito (ivi, p. 119). All’inizio del 1731 l’opera è finalmente conclusa e Calepio scrive al sodale per manifestare il suo intento di dedicarglielo e di avere un suo giudizio prima di mandarlo in stampa: «Circa questa, risponderò brevemente che il mio paragone tra la poesia tragica d’Italia e quella di Francia apparirà diretto a voi, giacché voi ne siete stato il promotore, persuadendomi a raccogliere insieme ordinatamente quelle osservazioni che già tempo aveva fatto sopra tale argomento. Quando avrò finito di ricopiarlo, saravvi dunque mandato, ed io attenderò che mi palesiate con più fondamento il vostro giudizio» (ivi, p. 122). La spedizione del manoscritto avviene il 9 aprile del 1731 (ivi, p. 124), poco prima che il Bodmer gli spedisse la copia della Bibliothèque Italique contente la Descrizione de’ costumi italiani. Dopo la rilettura dello svizzero, che esprime peraltro al Calepio alcune perplessità — egli ad esempio è convinto che la compassione e il terrore non siano gli unici mezzi utili a purgare le passioni (ivi, p. 132) —, ma nel complesso le risposte del bergamasco soddisfano il Bodmer, il quale chiede a Calepio il permesso di stampare il Paragone. La risposta di Calepio, del 10 settembre 1731, è positiva: «Circa la permissione richiestami di stampare il mio Critico paragone, non so che rispondervi se non che questo è opera donata a voi e però la rimetto alla vostra disposizione. Tuttoché sia il medesimo cosa assai imperfetta, ho almeno questa lusinga: che, imprimendosi sotto i vostri occhi, non sarà maggiormente guasto come suole occorrere ne’ libri che si stampano lungi dall’autore» (ivi, p. 148). L’opera viene quindi stampata, sebbene anonima, come già era accaduto, per scrupolo del Calepio, con la lettera sui costumi italiani, e l’identità dell’autore sarà definitivamente palesato soltanto nel 1738, con la pubblicazione della recensione del Paragone da parte del Maffei nelle Osservazioni letterarie. Nello stesso 1738 il Salìo da parte sua si diceva convinto che il Paragone fosse stato scritto da uno svizzero o da un tragediografo italiano di scarsa fama. Quanto allo specifico contenuto della dedica sarà necessario sottolineare due elementi fondamentali: da una parte l’intento, che anima l’operazione calepiana, di dimostrare che la letteratura italiana non era inferiore a quella francese neppure nel genere tragico, in cui tradizionalmente i Francesi si consideravano di gran lunga superiori; dall’altra il precoce confronto con il Teatro Italiano del Maffei: l’antologia del veronese con la sua lunga prefazione di carattere storiografico si poneva, agli occhi dell’autore, come il principale testo di riferimento di ambito critico teatrale da prendere a modello ma anche da superare, attraverso una trattazione più esauriente e meticolosa.
[Ded.2] Viene qui dichiarato all’autore l’argomento del trattato e chiarita la suddivisione dell’opera, che tratterà in primo luogo della qualità della favola — e quindi della scelta dell’intreccio su cui si fondano le varie tragedie antiche, italiane e francesi —, quindi le caratteristiche delle peripezie e l’introduzione, nonché la gestione, degli episodi. Nel quarto capo saranno esaminati alcuni elementi drammaturgici, dall’uso dei tempi scenici all’impiego di soliloqui e a parte; nel quinto il costume; nel sesto l’elocutio; nell’ultimo la versificazione.
Capo I.
S’esaminan le favole tragiche nella lor proprietà principale.
Articolo I.
[1.1.1] L’esordio del Paragone è segnato da una speculazione sul fine della poesia e sul compito del poeta; Calepio, rifacendosi ad un’ampia tradizione, che si cercherà brevemente di illustrare di seguito, assegna alla letteratura una funzione strettamente morale e pedagogica: sebbene sia stata creata soltanto per il divertimento del popolo, essa ha precocemente assunto una diversa missione, ossia quella di guidare i cittadini all’esercizio della virtù attraverso il diletto. Secondo il bergamasco già Omero e i tragici greci, così come Aristotele e Orazio, davano del fine della poesia questa interpretazione. Tuttavia Aristotele riconduceva l’origine dell’arte poetica al piacere connaturato al processo imitativo (Poetica, 1448b 1-20), confinando il discorso sull’utile alla descrizione degli effetti della catarsi; l’Ars Poetica di Orazio procede invece a quella fusione di «utile dulci» coniando una formula celeberrima che accompagnerà la riflessione sulla finalità della poesia tra Cinque e Settecento («Centuriae seniorum agitant expertia frugis;/ celsi praetereunt austera poemata Ramnes:/ omne tulit punctum qui miscuit utile dulci/ lectorem delectando pariterque monendo», Ars Poetica, vv. 341-344). Nel Cinquecento si insisterà molto sull’utilità della letteratura, proprio a partire dai versi oraziani, ma non mancano posizioni divergenti, anche in margine ai dibattiti sulla Poetica di Aristotele. Castelvetro, ad esempio, nella sua Poetica volgarizzata, assegna alla poesia il fine di dilettare e sottolinea che il diletto proprio della tragedia non è diretto — ossia dettato dal compiacimento per la vittoria dei buoni sui malvagi, tipico dell’epica — ma «obliquo», e consiste nel provare compassione di fronte ai miseri casi occorsi ai protagonisti, e quindi nello scoprirsi moralmente retti («Ma ci dobbiamo ricordare di quello, che è stato detto di sopra che il fine della poesia è il diletto e che il diletto si divide in due parti, l’una è diletto oblico, e l’altra è diletto diritto. Il diletto oblico è proprio della tragedia, il quale si sente quando in tragedia si rappresenta uno avenimento fortunoso, per lo quale una persona da bene cade di felicità in miseria, et pare esser generato dalla compassione, et dallo spavento», Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. II, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1979, p. 367).
Lo stesso Torquato Tasso rivendicava nei Discorsi dell’arte poetica la natura essenzialmente edonistica del fare poetico («Concedo io quel che vero stimo, e che molti negarebbono, cioè che ’l diletto sia il fine della poesia», Torquato Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964, p. 34), salvo poi limare significativamente questo primo assunto nei Discorsi del poema eroico, in cui tentava di saldare la ricerca del diletto a quella del giovamento («volendo ritener il giovamento, si dee drizzar il piacere a questo fine; e per aventura il diletto è fine della poesia, e fine ordinato al giovamento», ivi, p. 67; su questo parziale ravvedimento dell’estetica letteraria tassiana si rimanda a Claudio Gigante, Tasso, Roma, Salerno, 2007, p. 337).
Il dibattito sul reale oggetto della poesia non si esaurisce nel Seicento: anzi, proprio dall’esigenza di mettere ordine fra le opinioni contrastanti che avevano espresso, non soltanto i moderni, quanto soprattutto gli antichi, nascevano i Discorsi Poetici (1600) di Faustino Summo. Eppure nel diciassettesimo secolo prevale la concezione edonistica del fine della poesia, sulla scorta della lettura di Castelvetro; Sforza Pallavicino, riprendendo i termini impiegati dal Tasso, degradava deliberatamente il «giovamento» al cospetto della «dilettazione» («Il fine intrinseco e prossimo del Poeta non è il giovamento, come alcun tenne, ma la dilettazione degl’intelletti comunali», Pietro Sforza Pallavicino, Trattato dello stile e del dialogo (1662), Modena, Mucchi, 1990, pp. 207-208).
Nella Francia del Seicento si guardava con grande attenzione al dibattito italiano: sul fronte teorico si segnala una netta preferenza per la posizione del Castelvetro — largamente citato per questo tipo di considerazioni da Corneille —, anteposto anche a Giulio Cesare Scaligero, il cui commento alla Poetica aveva avuto una grande fortuna nella Francia seicentesca, soprattutto per le riflessioni attorno alla centralità dello stile e della sentenza. Tuttavia su questo preciso punto lo Scaligero sosteneva una nozione pedagogica di poesia non riducibile alla pratica dell’imitazione, ma moralisticamente diretta ad insegnare («Propterea quod non est poetices finis, imitatio: sec doctrina iucunda, qua mores animorum deducantur ad rectum rationem: ut ex iis consequatur homo perfectam actionem, quae nominatur Beatitudo. […] Non ab imitatione; non enim omne poema imitatio: non, qui imitatur, omnis est poeta. […] Poetae finem esse docere cum iucunditate», Iulii Caesaris Scaligeri Viri Clarissimi Poetices libri septem, Apud Antonium Vincentium, 1561, p. 347). A Castelvetro più che a Scaligero parrebbe attingere anche uno dei maggiori teorici del classicismo francese, Daniel Heinsius, il quale, nel De constitutione tragœdiæ, sottolineava il valore della «voluptas» connaturata all’imitazione poetica (cfr. a proposito Anne Duprat, «Introduction», in Daniel Heinsius, De Constitutione Tragœdiæ, dite «La Poétique d’Heinsius», édition, traduction et notes par Anne Duprat, Genève, Droz, 2001, pp. 35-37).
La fortuna di un’interpretazione edonistica della funzione del poeta si propaga nella Francia dell’epoca, soprattutto in rapporto all’affermarsi del genere, ancora di importazione italiana, della tragicommedia; François Ogier, uno degli ingegni più brillanti del primo Seicento francese, nella prefazione al Tyr et Sydon (1628) di Jean de Schélandre, enunciava le ragioni di una poesia teatrale fondata esclusivamente sul piacere ed intesa alla ricreazione del pubblico («La poésie, et particulièrement celle qui est composée pour le théâtre, n’est faite que pour le plaisir et le divertissement, et ce plaisir ne peut procéder que de la variété des événements qui s’y représentent», François Ogier, «Préface», in Jean de Schélandre, Tyr et Sydon, ou Les funestes amours de Belcar et Meliane, tragédie, et Tyr et Sydon, tragicomédie divisée en deux journées, éd. préparée par Joseph W. Baker, Paris, Nizet, 1974, p. 153), e in termini simili si esprimeva più tardi André Mareschal nel prologo alla sua tragicommedia La Généreuse Allemande (1631). La teoria drammaturgica francese del pieno Seicento riprende queste posizioni, e i vari Corneille («Le but du poète est de plaire selon les règles de son art», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 171), Molière («Je voudrais bien savoir si la grand règle de toutes les règles n’est pas de plaire», Molière, Œuvres complètes, t. I, édition dirigée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 2010, p. 507) e Boileau («Le secret est d’abord de plaire et de toucher:/ Inventez des ressorts qui puissent m’attacher», Boileau, L’Art poétique, in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 169), sottolineano a più riprese come l’opera del poeta debba dirigersi alla ricerca del piacere del pubblico teatrale. Questa tradizione è coronata nel Settecento da un esponente di grande rilievo dell’estetica francese, quale Jean-Baptiste Du Bos, deciso fin dalle prime battute delle sue Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture (1719), ad indagare la natura di quel «plaisir» che ci irretisce nell’ammirare quadri o nell’udire versi tragici.
Al contrario, nel Settecento italiano si ragionerà molto più frequentemente sull’utile che innerva e legittima ogni operazione poetica, sia questo inteso in senso genericamente morale, oppure anche politico. Questo recupero del «giovamento» che procede dalla poesia è condotto anche grazie al richiamo ad alcune auctoritates cinquecentesche; senz’altro una particolare importanza assume in questo senso il Discorso del cipriota Iason De’ Nores, insegnante all’Università di Padova e accanito avversario del Guarini nella querelle attorno alla liceità del genere tragicomico, il quale fissava già i passaggi principali di una storia teleologica dell’origine della poesia che Calepio recupera nel principio della sua opera maggiore: «ebbero dunque elle [la commedia, la tragedia e il poema eroico] due nascimenti: l’uno, quando que’ primi senza avertimento le componevano a caso, a lor beneplacito e le rappresentavano solamente per dilettar; l’altro poi che gli uomini di nobile e di sublime ingegno cominciarono, rendendole loro cagioni, a ridurle sotto regole e principi universali et a dirizzarle anco al beneficio et alla utilità pubblica, alla quale per ragione e per sentenza de’ savii deono aver la mira tutte le arti e profession d’uomini che vivono accostumatamente nelle città. Quello si può chiamar principio naturale e questo si può chiamar principio artificioso» (Iason De’ Nores, Discorso di Iason De’ Nores intorno a que’ principii, cause et accrescimenti che la comedia, la tragedia et il poema heroico ricevono dalla Filosophia Morale e Civile, e da’ Governatori delle Republiche; onde si raccoglie la diffinizione e distinzione della poesia nelle predette tre sue parti e la descrizione particolare di ciascheduna, in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, vol. III, a cura di Bernard Weinberg, Bari, Laterza, 1972, p. 375).
Gravina recuperava questo stesso schema nel Della tragedia, mostrando come gli autori greci avessero riplasmato in chiave pedagogica quegli strumenti letterari che il popolo aveva inventato esclusivamente per il proprio diletto («I primi autori della vita civile furono costretti avvalersi, ad insegnamento del popolo, di quegli esercizi che egli aveva per proprio diletto inventati. Onde conoscendo eglino che la soavità del canto rapiva dolcemente i cuori umani, e che ’l discorso da certe leggi misurato portava più agevolmente per via degli orecchi dentro l’animo la medicina delle passioni, racchiusero gl’insegnamenti in verso, cioè in discorso armonioso, e l’armonia del verso accoppiarono con l’armonia ed ordinazione della voce, che musica appellarono», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Bari, Laterza, 1973, p. 507).
Anche il Crescimbeni concepiva la poesia come un’indissolubile combinazione di diletto e utile, intendendo quest’ultimo come un surrogato di scienze teologiche, filosofiche e politiche che doveva essere distillato all’interno di sonetti e canzoni («Da’ passati ragionamenti io cavo, che l’essenza del componimento sia la bellezza, la quale non meno esternamente, che internamente debba considerarsi; perciocché, siccome dall’esterna bellezza ne viene il diletto, così ne deriva l’utile dall’interna, senza il concorso delle quali due cose la composizione è manchevole, ed imperfetta. I fonti poi dell’utilità, abbiam detto, che sono gl’insegnamenti che sotto il velame Poetico si contengono, i quali da ogni scienza possono esserne porti: ma spezialmente dalla Teologia, dalla Metafiscia, dalla Fisica, dalla Politica e dall’Etica», Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, pp. 50-51).
Sul diletto unito all’utile puntava anche Muratori nel Della perfetta poesia italiana, ritenendo la tragedia il genere più adatto a sostenere una simile commistione: «Nelle ben regolate città, non v’ha dubbio, debbonsi concedere al popolo alcuni onesti intertenimenti, che servano di sollievo alle fatiche, e col diletto restituiscano a gli animi annojati dalle faccende la vivacità primiera. Ma qual ricreazione può mai compararsi a quella di una Commedia, e Tragedia ben fatta? Non il solo diletto, ma l’utile ancora da queste si ricava, o mirando gli esempi altrui come uno specchio delle nostre azioni, e fortune, o imparando a correggere i propri costumi dal contemplar quei della scena, o bevendo molti bei ricordi morali, onde vanno i migliori Poeti spruzzando i loro componimenti» (Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, pp. 587-588).
Sulla teoria elaborata da Castelvetro del «diletto oblico» si vedano i contributi di Pier Cesare Rivoltella, «Il piacere obliquo statu nascenti. La riflessione estetica di Lodovico Castelvetro», in Teatri barocchi. Tragedie, commedie, pastorali nella drammaturgia europea fra Cinque e Seicento, a cura di Silvia Carandini, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 13-28; Valeria Merola, «Il piacere obliquo e la meraviglia. Sulla Poetica di Lodovico Castelvetro», in Lodovico Castelvetro: filologia e ascesi, a cura di Roberto Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 305-318.
Sui Discorsi Poetici di Faustino Summo, documento assai interessante della ricerca poetica svolta in seno al cenacolo dell’Accademia dei Ricovrati di Padova, su cui influiva la rilevante figura di Sperone Speroni, si veda il contributo di Elisabetta Selmi («I Discorsi Poetici di Faustino Summo: teorie letterarie e “ordine” del sapere nell’opera di un Accademico Ricovrato», in Dall’Accademia dei Ricovrati all’Accademia Galileiana, Atti del Convegno storico per il IV centenario della fondazione (1599-1999), Padova, 11-12 aprile 2000, Padova, Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti, 2001, pp. 505-534), volto a dimostrare come il trattato, lungi dall’essere una mera compilazione, assume un carattere marcatamente militante nel difendere una oncezione di poesia volta all’utile.
Sulla rilevanza della nozione di «plaisir» nella formazione della critica teatrale seicentesca in Francia si rimanda all’acuto saggio di Georges Forestier, «Du côté du plaisir: la naissance de la critique dramatique moderne au xviie siècle», in Storiografia della critica francese nel Seicento, Bari-Paris, Adriatica-Nizet, 1986, pp. 13-29. Sulla fortuna delle poetiche di Scaligero e soprattutto Heinsius nella formazione del «classicisme français», si veda invece il classico René Bray, La Formation de la doctrine classique en France [1927], Paris, Nizet, 1957, pp. 38-39.
[1.1.2] Calepio ripercorre le tappe fondamentali della formazione della tragedia italiana, inaugurata dalla Sofonisba (1524) di Gian Giorgio Trissino, mosso dal desiderio di imitare i tragici greci; il bergamasco ricorda poi le prove di Giovanni Rucellai (La Rosmunda; L’Oreste, 1525), di Sperone Speroni (Canace, 1546) e di Giambattista Giraldi Cinzio (Orbecche; Altila; Cleopatra; Didone, 1541-1543; Antivalomeni, 1549; Arrenopia, 1563). La nascita di questa forma drammaturgica nel Cinquecento è imputata da Calepio al desiderio di imitare l’antecedente greco, senza distinzione fra tragedie aderenti al modello greco, come quelle di Trissino, Speroni e Rucellai, e drammi plasmati sul prototipo senecano, come quelli di Giraldi.
Gli albori della tragedia francese sono invece legati alla nascita della scuola poetica classicistica della Pléiade, fondata da Pierre Ronsard attorno alla metà del sedicesimo secolo. La prima tragedia «regolare» fu la Cléopâtre captive (1553) di Étienne Jodelle, membro de La Pléiade e vicino a Ronsard; dopo di lui altri poeti, memori della lezione di Ronsard, tentarono di introdurre la poesia tragica in Francia, come ad esempio Jacques Grévin e Robert Garnier. Calepio cita fra i primi autori tragici francesi, oltre a Jodelle, anche lo stesso Pierre de Ronsard, il quale fu piuttosto caposcuola che drammaturgo. La confusione del bergamasco è peraltro ereditata da storici del teatro successivi: Gian Rinaldo Carli nel Dell’indole del teatro tragico (1744) ripete la coppia di nomi citata da Calepio, attribuendo a Ronsard una Didone (Gian Rinaldo Carli, Dell’indole del teatro tragico, in Id., Opere, XVII, Milano, 1787, p. 46), che forse andrà identificata come la Didon se sacrifiant (1558) di Jodelle.
Calepio mette in luce la derivazione italiana della prima tragedia francese, sebbene tale filiazione potrebbe essere più facilmente misurata, più che nelle tragedie di Jodelle, nella vasta fortuna del soggetto di Sofonisba che caratterizza gli esordi del teatro tragico d’oltralpe, producendo due traduzioni del dramma di Trissino ad opera di Mellin de Saint-Gelais (1556) e Claude Mermet (1583), e una riscrittura indipendente di Jean Mairet (1634). Anche la storiografia teatrale francese ottocentesca riconosce l’impronta italiana, oltre alla matrice classica, nelle prime prove drammatiche dei propri connazionali: nella sua Histoire de l’art dramatique Auguste Baron, sottolineando i debiti contratti da Saint-Gelais nei confronti del Trissino, scrive: «Melin, ainsi que beaucoup des poètes ses contemporains, joint d’ailleurs à l’étude des classiques celle des modèles que lui présente l’Italie, l’Italie dont l’influence domine alors la politique non moins que la littérature française» (Auguste Baron, Histoire de l’art dramatique, Bruxelles, Jamar, 1840, p. 141). Ancor più categorico il giudizio di Émile Lefranc, il quale, fra le tragedie del Cinquecento francese, giudica originale soltanto La Soltane di Gabriel Bounin, incentrata su un soggetto tratto dalla storia contemporanea: «À l’exception de la Sultane, tragédie de Bounin, qui la tira de l’histoire turque, le drame français ne fut qu’un calque du drame ancien ou italien» (Émile Lefranc, Histoire élementaire et critique de la littérature, Paris-Lyon, Périsse, 1840, p. 96). Calepio citava Jodelle e Ronzard tra i capostipiti della tragedia francese anche nella sua Apologia di Sofocle, in cui imputava il loro fallimento dal punto di vista scenico come causa prima del malanimo dei francesi nei confronti delle tragedie greche, ultimamente espresso appunto da Voltaire nella sua critica all’Edipo Re (Mario Scotti, «L’“Apologia di Sofocle” di P. de’ Conti Calepio», Giornale storico della letteratura italiana, CXXXIX, 427, 1962, pp. 392-423, pp. 401-402).
Sulle origini e sugli sviluppi della tragedia cinquecentesca cfr. Ferdinando Neri, La tragedia italiana del Cinquecento, Firenze, Galletti e Cocci, 1904; Carmelo Musumarra, La poesia tragica italiana nel Rinascimento, Firenze, Olschki, 1972; Marco Ariani, Tra classicismo e manierismo: il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974; Marzia Pieri, «La Rosmunda del Rucellai e la tragedia fiorentina del Cinquecento», Quaderni di Teatro, II, 7, 1980, pp. 96-113; Paola Mastrocola, L’idea del tragico: teorie della tragedia nel Cinquecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998; Paola Cosentino, Cercando Melpomene: esperimenti tragici nella Firenze del primo Cinquecento, Manziana, Vecchiarelli, 2003; Valentina Gallo, Da Trissino a Giraldi: miti e topica tragica, Manziana, Vecchiarelli, 2005; Marzia Pieri, «La tragedia in Italia», in Le rinascite della tragedia: origini classiche e tradizioni europee, a cura di Gianni Guastella, Roma, Carocci, 2006, pp. 167-206. I testi di queste tragedie si possono leggere nell’edizione del Teatro del Cinquecento, a cura di Renzo Cremante, Milano-Napoli, Ricciardi, 1997. In generale, un’agile ma acuta introduzione alla forma-tragedia si può leggere in Stefano Verdino, Tragedia, Napoli, Guida, 2012.
Sulla drammaturgia di Jodelle cfr. Enea Balmas, Un poeta del Rinascimento francese: Étienne Jodelle: la sua vita, il suo tempo, Firenze, Olschki, 1962; Françoise Charpentier, Pour une lecture de la tragédie humaniste: Jodelle, Garnier, Montchrestien, Saint-Étienne, Université de Saint-Etienne, 1979. Sulla fortuna del soggetto di Sophonisbe si vedano: Charles Ricci, Sophonisbe dans la tragédie classique italienne et française, Torino, Paravia, 1904; Pierre Mellin, «La traduction de la Sophonisbe de Trissino par Melin de Saint-Gelais», Meta: journal des traducteurs, XXIX, 2, 1984, pp. 224-226.
[1.1.3] Lo scarso successo della tragedia rinascimentale francese è dovuto, secondo Calepio, non tanto alla pedissequa imitazione della tragedia greca, quanto alla scarsa perizia degli autori e all’immaturità della letteratura francese. Nel Seicento tuttavia alcuni drammi francesi, come quelli di Philippe Quinault — autore di varie tragedie e tragicommedie nonché ideatore, in collaborazione col compositore di origine italiana Jean-Baptiste Lully, della tragédie en musique — riuscirono a conquistare il favore del pubblico, pur tradendo deliberatamente i dettami aristotelici. Di maggior spessore sono tuttavia considerate le tragedie di Pierre Corneille, capaci, più di quelle di Quinault, di ergersi a modello per gli autori francesi del Seicento e del primo Settecento.
Sulla capacità di Quinault di compiacere il pubblico contemporaneo con i propri libretti molto si è insistito; Alain Viala lo giudica un borghese che aveva intravisto una possibilità di ricco mantenimento attraverso il teatro e ha di conseguenza sfruttato le proprie competenze al fine di ottenere una promozione sociale adottando una strategia di successo che si fondava sull’impiego di pratiche effimere ma spettacolari, molto gradite al pubblico parigino (Alain Viala, Naissance de l’écrivain: sociologie de la littérature à l’âge classique, Paris, Minuit, 1985, p. 224). Le sue prove drammatiche erano particolarmente apprezzate per la capacità di fondere armoniosamente la piacevolezza della musica alla gravità della tragedia, sapientemente stemperata grazie al ricorso ad un tono pastorale che ben supportava quell’estetica della galanteria che la corte di Luigi XIV e il pubblico parigino amavano (cfr. Georgia J. Cowart, The Triumph of Pleasure: Louis XIV and the Politics of Spectacle, London, The University of Chicago Press, 2008, pp. 120-160).
Sulla rappresentazione delle passioni nel teatro musicale di Quinault e nella librettistica coeva, e sulla presa di questo «linguaggio dell’amore» sul pubblico francese cfr. Catherine Gordon-Seifert, Music and the Language of Love: Seventeenth-Century French Airs, Bloomington, Indiana University Press, 2011. Sui libretti di Quinault e sulla loro fortuna si rimanda invece a: Buford Norman, Touched by the Graces: the Libretti of Philippe Quinault in the Context of French Classicism, Birmingham, Summa, 2001; William Brooks, Philippe Quinalt, Dramatist, Bern, Lang, 2009.
[1.1.4] Le tragedie di Pierre Corneille furono al centro, fin dalle prime rappresentazioni, di un ampio dibattito che vide protagonisti i maggiori letterati del secolo. Dopo un esordio all’insegna del teatro orrendo di marca senecana, con la Médée (1635), probabilmente ispirata all’Hercule mourant di Rotrou (cfr. Ronald W. Tobin, «Médée and the Hercules Tradition of the Early Seventeenth-Century», Romance Notes, VIII, 1, 1966, pp. 65-69), ottenne un clamoroso successo con il Cid (1636), oggetto di una famosa querelle, durante la quale furono rivolte al drammaturgo accuse di plagio — al quale Corneille rispose con l’Excuse à Ariste (1639) —, di trasgressione dei precetti aristotelici — rimproveratagli da Georges de Scudéry nelle sue Observations sur le Cid (1637) —, nonché di mancanza di decoro, come si evince dai Sentiments de l’Académie (1638) di Jean Chapelain che riflettevano le opinioni dei membri dell’Académie française. La diatriba attorno al teatro di Corneille non si spense con la Querelle du Cid: Corneille tentò di legittimare le proprie scelte drammaturgiche sulla base della Poetica aristotelica e dei suoi commenti cinquecenteschi: da questa aspirazione nacquero i discorsi (De l’utilité et des parties du poème dramatique; De la tragédie et des moyens de la traiter selon la vraisemblance, ou le nécessaire; Des trois unités: d’action, de jour et de lieu), posti in testa ai tre tomi dell’edizione completa delle sue opere (1660), ai quali fece seguito una dura requisitoria di alcune sue tragedie da parte dell’abate François Hédelin d’Aubignac, autore di quattro Dissertations contro la Sophonisbe, il Sertorius e l’Œdipe di Corneille (1663, recentemente ripubblicate in edizione commentata: François Hédelin d’Aubignac, Dissertations contre Corneille, edited by Nicholas Hammond and Michael Hawcroft, Exeter, University of Exeter Press, 1995), intervallate da uno scritto di Jean Donneau de Visé, giovane letterato e futuro drammaturgo, il quale, probabilmente per opportunismo, prese le difese di Corneille in due Defenses (1663; recentemente edite in Jean Donneau de Visé et la querelle de la Sophonisbe: écrits contre l’abbé d’Aubignac, édition critique par Bernard J Bourque, Tübingen, Narr Verlag, 2014).
Sul versante italiano le tragedie corneilliane godettero sin dalla metà del diciassettesimo secolo di grande fortuna: fra le opere riprese con maggiore insistenza vi è senz’altro il Cid, riprodotto con titoli differenti (Amore et Honore, 1675 e 1679, traduzione di Ferecida Elbeni Cremete; Onore contra Amore, 1691, traduzione di Giovanni Andrea Zanotti; Amore e dover, 1697, traduzione di Domenico David); non mancano tuttavia versioni italiane a stampa o rappresentazioni di altre tragedie come Rodogune, Horace, Cinna o Polyeucte.
Sulla fortuna del Cid in Italia: Marco Lombardi e Coral Garcia, Il gran Cid delle Spagne: materiales para el studio del tema del Cid en Italia, Firenze, Alinea, 1999. Sulle traduzioni italiane di Corneille tra Seicento e Settecento si vedano ancora i pur datati: Giulio Meregazzi, Le tragedie di Pierre Corneille nelle traduzioni e imitazioni italiane del secolo XVIII, Bergamo, Fagnani, 1906; Luigi Ferrari, Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII: saggio bibliografico, Paris, H. Champion, 1925; nonché i più recenti: Simonetta Ingegno Guidi, «Per la storia del teatro francese in Italia: L. A. Muratori, G. G. Orsi e P. J. Martello», La Rassegna della letteratura italiana, LXXVIII, 1-2, 1974, pp. 64-90; Tobia Zanon, La musa del traduttore: traduzioni settecentesche dei tragici classici francesi, Verona, Fiorini, 2009. Sulla pratica della traduzione teatrale come veicolo di scambio di idee nel Settecento, ma al contempo come spazio utile a rinsaldare un’identità letteraria nazionale, si sofferma Fabrizio Chirico, «Traduzioni e riforma teatrale del XVIII secolo», Comunicazioni sociali, XXVI, 2, 2004, pp. 170-183.
[1.1.5] Comincia qui un serrato confronto con i Trois discours sur le poème dramatique ai quali Corneille affida il proprio testamento poetico. La genesi di questi testi critici risiede in parte nel desiderio di riscatto dell’ormai anziano autore francese, reduce dal fallimento della tragedia Pertharite, incentrata sulla storia della regina longobarda Rodelinde vessata dall’usurpatore Grimoald, che fu rappresentata una sola volta nel 1651. Corneille, il cui malinconico sconforto è percepibile nell’avviso al lettore posto in testa all’edizione a stampa dell’opera del 1653 («La mauvaise réception que le public a faite à cet ouvrage m’avertit qu’il est temps que je sonne la retraite […]. Il vaut mieux que je prenne congé de moi-même que d’attendre qu’on me le donne tout à fait, et il est juste qu’après vingt années de travail je commence à m’apercevoir que je deviens trop vieux pour être encore à la mode», Pierre Corneille, Pertharite roi des Lombards. Tragédie, in Id., Œuvres complètes, t. II, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 715), si risolse così a ripercorre retrospettivamente la propria carriera drammaturgica, al fine di far luce sulle scelte poetiche e sulle soluzioni teoriche adottate. Il lavoro non procedeva tuttavia speditamente e forse non sarebbe stato condotto a termine se non fosse nel frattempo intervenuta la pubblicazione del fondamentale trattato di d’Aubignac La Pratique du théâtre, nel 1657. Sebbene il giudizio complessivo espresso nella Pratique nei confronti del teatro di Corneille fosse ampiamente lusinghiero, il drammaturgo si dimostra scontento del trattamento riservatogli dal critico, di cui non condivide diversi assunti. Proprio la volontà di rispondere al d’Aubignac sembra dare nuova linfa ai progetti apologetici di Corneille, il quale, nell’agosto del 1660, confessa per lettera all’abate Michel de Pure, erudito, traduttore e drammaturgo: «Je suis à la fin d’un travail fort pénible sur une matière fort délicate. J’ai traité en trois préfaces les principales questions de l’art poétique sur mes trois volumes de comédies. J’y ai fait quelques explications nouvelles d’Aristote, et avancé quelques propositions et quelques maximes inconnues à nos anciens. J’y réfute celles sur lesquelles l’Académie a fondé la condamnation du Cid, et ne suis pas d’accord avec M. d’Aubignac de tout le bien même qu’il a dit de moi» (Pierre Corneille, «Lettre à Monsieur l’Abbé de Pure», in Pierre Corneille, Œuvres complètes, t. III, cit., pp. 6-7 [lettre du 25 août 1660]). I Discours si profilano dunque come una risposta circostanziata, da una parte, ai già citati Sentiments de l’Académie sur le Cid, dall’altra, a La Pratique du théâtre di d’Aubignac; il costante riferimento di Corneille sarà tuttavia la Poetica di Aristotele, i cui precetti vengono puntualmente dibattuti nel tentativo di mostrare l’inadeguatezza di una tragedia moderna ossequiosamente ligia a mettere in pratica tutte le disposizioni aristoteliche.
In questo caso Calepio contesta lo sviluppo dell’argomentazione di Corneille nel secondo dei tre Discours (De la tragédie et des moyens de la traiter selon la vraisemblance, ou le nécessaire): il Francese infatti, dopo aver mostrato come Aristotele assegnasse alla tragedia il compito di muovere pietà e terrore, forza faziosamente il testo del filosofo greco al fine di far apparire che la sua teoria drammaturgica — profondamente divergente da quella di Aristotele quanto alla natura dei personaggi e alla considerazione delle passioni da smuovere negli spettatori — era perfettamente coerente con i dettami della Poetica.
La drammaturgia di Corneille aveva subito in Francia diversi attacchi nel corso del secondo Seicento, e Calepio doveva certamente avere cognizione, sebbene probabilmente indiretta e imperfetta, di queste accese querelles. In principio l’attenzione era stata rivolta soprattutto al Cid, oggetto di numerosi attacchi nella prima metà del secolo (cfr. Ubaldo Floris, «La “querelle du Cid”, o lo scandalo del vero», in Storiografia della critica francese nel Seicento, Bari-Paris, Adriatica, Nizet, 1986, pp. 85-128). La polemica era stata alimentata in particolare dal d’Aubigtnac, il quale, nelle Dissertations contre Corneille, incentrate sulla Sophonisbe, sul Sertorius e sull’Œdipe, accusava Corneille di non aver rispettato l’unità di luogo e messo in scena personaggi femminili inverosimilmente dediti ad una faconda oratoria politica (Sophonisbe), di aver sovraccaricato la scena di episodi e attori con uno stile ingiustificatamente ridondante (Sertorius) e di aver scelto soggetti inadatti trattandoli per di più in maniera inverosimile (Œdipe). In difesa di Corneille, oltre al già citato Jean Donneau de Visé, accorsero altri letterati che coinvolsero nella controversia anche Racine, istituendo il fortunato modello critico del Parallèle, che anima al fondo lo stesso Paragone di Calepio.
A questo copione si attiene l’Abbé de Villiers, autore di un Entretien sur les tragédies de ces temps, scritto in forma di dialogo e pubblicato nel 1675 (Paris, Michallet), nel quale si fronteggiano Timante, partigiano di Corneille, e Clearque, appassionato del teatro di Racine. A spuntarla è in questo caso Timante, il quale, convinto che la tragedia non debba comprendere la rappresentazione dell’amore, sembra in sostanza riprendere in maniera moderata le argomentazioni di Pierre Nicole e, più propriamente, del principe di Conti (Armand de Bourbon, prince de Conti, Traité de la comédie et des spectacles, selon la tradition de l’Eglise, tirée des Conciles et des Saints Peres, Paris, Billaine, 1667), rivolgendo contro Racine le stesse accuse che erano state mosse al predecessore.
Un vero e proprio parallèle è invece quello di Hilaire-Bernard de Longepierre — traduttore di poesia greca ed autore di alcune sfortunate tragedie —, stampato per la prima volta nel 1686 (Hilaire-Bernard de Longepierre, «Paralléle de Monsieur Corneille et de Monsieur Racine» [1686], in Recueil de dissertations sur plusieurs tragédies de Corneille et de Racine, [par François Granet], t. I, Paris, Gissey–Bordelet, 1740, pp. 47-69). Longepierre confrontava gli stili dei due drammaturghi: sontuoso ma talvolta affettato quello di Corneille, nelle cui pièce compaiono sovente ragionamenti più convenienti ad uno storico che ad un poeta; toccante, piacevole e più naturale quello di Racine, considerato un tragediografo indubbiamente migliore.
Ai Caractères (1688) di Jean de La Bruyère spettava la consacrazione di un giudizio critico che si rivelerà molto fortunato, in virtù proprio del suo superficiale schematismo: «Corneille nous assujettit à ses caractères et à ses idées, Racine se conforme aux nôtres; celui-là peint les hommes comme ils devraient être, celui-ci les peint tels qu’ils sont. Il y a plus dans le premier de ce que l’on admire, et de ce que l’on doit même imiter; il y a plus dans le second de ce que l’on reconnaît dans les autres, ou de ce que l’on éprouve dans soi-même. L’un élève, étonne, maîtrise, instruit; l’autre plaît, remue, touche, pénètre. Ce qu’il y a de plus beau, de plus noble et de plus impérieux dans la raison, est manié par le premier; et par l’autre, ce qu’il y a de plus flatteur et de plus délicat dans la passion» (La Bruyère, Œuvres complètes, texte établi par Julien Benda, Paris, Gallimard, 1951, pp. 103-105).
Maître Tafignon, semisconosciuto avvocato della Borgogna, aveva tentato di capovolgere il giudizio di La Bruyère a partire dalle medesime constatazioni dell’avversario (M. Tafignon, «Dissertation sur les Caractéres de Corneille et de Racine, contre le Sentiment de la Bruyere » [1705], in Recueil de dissertations sur plusieurs tragédies de Corneille et de Racine, t. I, cit. pp. 70-99), ma approdando ad un sostanziale apprezzamento per la naturalezza dello stile corneilliano e alla celebrazione dell’intento moralistico e pedagogico che muove molte delle tragedie di Corneille.
Nel mezzo si conta un’altra replica di Bernard Le Bovier de Fontenelle («Parallèle de Monsieur Corneille et de Monsieur Racine par M. de Fontenelle» [1693], in Parallèle des trois principaux poètes tragiques français, Corneille, Racine et Crebillon, précédé d’un Abrégé de leurs vies et d’un Catalogue raisonné de leurs Ouvrages, avec plusieurs extraits des Observations faites par les meilleurs Juges sur le caractère particulier de chacun d’eux: ouvrage qui peut servir de supplément à l’édition du Théâtre de Corneille par M. de Voltaire, et d’Introduction à la Lecture des Chefs-d’œuvre Tragiques de la scène française, Paris, Saillant, 1765, pp. 115-139), tesa a sottolineare la supremazia di Corneille sempre a partire da una concezione etica del fine della letteratura: «On remporte des pièces de l’un [Corneille], le désir d’être vertueux; des pièces de l’autre [Racine], le plaisir d’avoir des semblables dans ses faiblesses» (ivi, p. 116).
Sulla composizione dei Discours cfr. Louis Forestier, «Introduction», in Pierre Corneille, Trois discours sur le poème dramatique (texte de 1660), Paris, Société d’édition d’enseignement supérieur, 1963, pp. 5-31, e più di recente, con specifica attenzione alla complessiva configurazione di un’arte poetica negli scritti di Corneille: Deborah Blocker, «Corneille et l’“art poétique”: appropriations, déplacements, reconfigurations », in Pratiques de Corneille, sous la direction de Myriam Dufour-Maître, Rouen, Publications des Universités de Rouen et du Havre, 2012, pp. 387-400. Per i testi della Querelle du Cid, cfr. La Querelle du Cid (1637-1638), édition critique intégrale par Jean-Marc Civardi, Paris, H. Champion, 2004. Sulla querelle seicentesca per il primato drammaturgico si rimanda alla raccolta curata e introdotta da François Granet degli opuscoli critici che animarono la vicenda: Recueil de dissertations sur plusieurs tragédies de Corneille et de Racine, [par François Granet], t. I, Paris, Gissey et Bordelet, 1740, nonché ad alcuni contributi moderni: Corneille and Racine: Parallels and Contrasts, edited by Robert James Nelson, New Jersey, Prentice Hall, 1966; Arnaldo Pizzorusso, Teorie letterarie in Francia: ricerche sei-settecentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1968; Gordon Pocock, Corneille and Racine: Problems of Tragic Form, Cambridge, Cambridge University Press, 1973; Henry Thomas Barnwell, The Tragic Drama of Corneille and Racine: An Old Parallel Revisited, Oxford, Clarendon Press, 1982; Georges Forestier, Essai de génetique théatrale, Paris, Klincksieck, 1996; Christian Biet, La Tragédie, Paris, Colin, 1997; Jean-Marc Civardi, «Bibliographie critique des querelles théâtrales en France au xviie siècle», Littératures classiques, LIX, 1, 2006, pp. 193-221.
[1.1.6] Calepio si riferisce ad un passaggio preciso del Discours de la tragédie di Corneille, nel quale l’autore, dopo aver illustrato con chiarezza le prescrizioni della Poetica circa la scelta del protagonista della tragedia in relazione al raggiungimento della catarsi («Pour nous faciliter les moyens de faire naître cette pitié et cette crainte où Aristote semble nous obliger, il nous aide à choisir les personnes et les événements qui peuvent exciter l’une et l’autre. Sur quoi je suppose, ce qui est très véritable, que notre auditoire n’est composé ni de méchants, ni de saints, mais de gens d’une probité commune, et qui ne sont pas si sévèrement retranchés dans l’exacte vertu, qu’ils ne soient susceptibles des passions et capables des périls où elles engagent ceux qui leur déférent trop», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 144), mette in dubbio l’effettiva aderenza dei modelli additati da Aristotele, ossia Edipo e Tieste, ai precetti esposti dal greco. Edipo gli appare infatti come un giusto, un uomo d’onore, il quale non commette alcun fallo — la sua colpa sarebbe al massimo riconducibile alla «méconnaissance», ma Corneille dubita che una qualche purgazione possa procedere da tale causa fortuita —, mentre Tieste si configura come un personaggio ambiguo, troppo malvagio nell’antefatto ed esageratamente buono sulla scena, incapace di smuovere la compassione del pubblico tanto per l’orribilità del misfatto precedentemente compiuto, quanto per la lievità della colpa rappresentata nella pièce («Si nous le regardons avant la tragédie qui porte son nom, c’est un incestueux qui abuse de la femme de son frère: si nous le considérons dans la tragédie, c’est un homme de bonne foi qui s’assure sur la parole de son frère, avec qui il s’est réconcilié. En ce premier état, il est très criminel; en ce dernier, très homme de bien. Si nous attribuons son malheur à son inceste, c’est un crime dont l’auditoire n’est point capable, et la pitié qu’il prendra de lui n’ira point jusqu’à cette crainte qui purge, parce qu’il ne lui rassemble point. Si nous imputons son désastre à sa bonne foi, quelque crainte pourra suivre la pitié que nous en aurons; mais elle ne purgera qu’un facilité de confiance sur la parole d’un ennemi réconcilié, qui est plutôt une qualité d’honnête homme qu’une vicieuse habitude; et cette purgation ne fera que bannir la sincérité des réconciliations», ivi, p. 145).
A partire da questa analisi Corneille giunge ad interrogarsi sulla reale entità del processo catartico descritto da Aristotele, della cui esistenza è portato a dubitare («Si la purgation des passions se fait dans la tragédie, je tiens qu’elle se doit faire de la manière que je l’explique mais je doute si elle s’y fait jamais, et dans celles-là même qui ont les conditions que demande Aristote», ivi, p. 145), affermando che l’introduzione della teoria della catarsi era dovuta alla volontà di preservare l’utilità della tragedia — che Platone aveva messo in discussione — e che il filosofo greco ignorava l’utilità di sentenze e discorsi didattici, considerati inessenziali nella Poetica: «Comme il écrivait pour le [Platone] contredire, et montrer qu’il n’est pas à propos de les bannir des états bien policés, il a voulu trouver cette utilité dans ces agitations de l’âme, pour les rendre recommandables par la raison même sur qui l’autre se fonde pour les bannir. Le fruit qui peut naître des impressions que fait la force de l’exemple lui manquait; la punition des méchantes actions, et la récompense des bonnes, n’étaient pas de l’usage de son siècle, comme nous les avons rendues de celui du notre; et n’y pouvant trouver une utilité solide, hors celle des sentences et des discours didactiques, dont la tragédie se peut passer selon son avis, il en a substitué une, qui peut-être n’est qu’imaginaire», ivi, p. 146.
L’idea secondo cui l’elaborazione del concetto di catarsi aristotelica si doveva ad un tentativo di ribattere alla sentenza platonica proferita nella Repubblica era stata originariamente espressa dal Castelvetro, che viene ripreso in questo passaggio puntualmente dal francese (Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1979, pp. 160-163).
Sulla posizione di Corneille in merito alla presunta colpevolezza di Edipo, nonché sull’ampia discussione cinque-settecentesca riguardo la colpa tragica del protagonista tragico, talvolta interpretata come amartìa (errore fatale), talaltra come atùchema (colpa predestinata) si rimanda all’ottimo intervento di Enrico Mattioda, «La discussione della colpa tragica nelle interpretazioni della Poetica di Aristotele tra XVI e XVIII secolo», Horizonte, XII, 2010-2011, pp. 33-50.
[1.1.7] In questo caso il riferimento calepiano va al seguente passaggio del Discours di Corneille: «Cependant, quelque difficulté qu’il y ait à trouver cette purgation effective et sensible des passions par le moyen de la pitié et de la crainte, il est aisé de nous accommoder avec Aristote. Nous n’avons qu’à dire que par cette façon de s’énoncer il n’a pas entendu que ces deux moyens y servissent toujours ensemble; et qu’il suffit selon lui de l’un des deux pour faire cette purgation», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 147. Corneille prosegue mostrando come, ad esempio, il pubblico possa provare pietà per Antiochus, protagonista della Rodogune, figlio della perfida Cléopâtre e innamorato della principessa Rodogune che la madre gli impone di uccidere, oppure per Nicomède, eroe eponimo di un’altra tragedia corneilliana, osteggiato da Arsinoe, seconda moglie del re suo padre, Prusias, al quale vorrebbe succedesse il proprio figlio Attale. Tuttavia gli spettatori non potranno temere di cadere in una situazione simile a quella dei due giovani eroi sopraccitati, così lontana dalla loro vita quotidiana. Allo stesso modo invece questi non proveranno alcuna compassione per la crudele Cléopâtre, ma la paura di incorrere in un pericolo simile, benché più tenue, spingerà una madre a moderare l’arbitraria benevolenza nei confronti del proprio figlio, un marito a non essere troppo deferente nei confronti di una moglie di secondo letto, e il pubblico intero a non tentare di sottrarre ricchezze od onori a terzi attraverso l’uso della forza (ivi, p. 147). Il soggetto di Edipo di per sè si mostrerebbe, secondo Corneille, capace soltanto di suscitare pietà, in quanto nessuno di coloro che assistono alla rappresentazione potrebbe temere di uccidere inavvertitamente il padre e di giacere accidentalmente con la madre.
Non potendo dunque concentrare in un unico protagonista la facoltà di provocare nell’uditorio pietà e terrore — ciò accadrebbe soltanto eccezionalmente, come ad esempio nel Cid —, il Francese propone due diverse soluzioni: dare adito alla purgazione inserendo alcuni personaggi minori volti a catalizzare il sentimento che il protagonista non riesce da solo a veicolare — e addita il modello della Rodogune —, oppure rinunciare ad una catarsi completa, insistendo soltanto su uno dei due elementi della formula aristotelica, come accade nel Polyeucte.
L’intento del Francese di venire a patti con Aristotele, proponendone tutt’al più una lettura in chiave moderata — sempre ammesso che si voglia ancora persistere nell’attribuire una qualche utilità etico-drammaturgica alla Poetica —, risulta in questo brano evidente. A Calepio non poteva certo piacere la conclusione del ragionamento di Corneille (ivi, p. 149), riportata a testo, che dimostra la scarsa stima del francese nei confronti dell’operazione critica che da secoli si conduceva in margine al testo di Aristotele, alla quale viene preferita senza mezzi termini una interpretazione molto libera ed arbitraria, guidata da un discrimine puramente spettacolare come quello della riuscita della rappresentazione teatrale.
Sullo sviluppo di una poetica francese che predilige la libertà dell’autore, in riferimento a modelli eterogenei che comprendono tanto Guarini quanto Lope de Vega, si veda il prezioso contributo di Giovanni Dotoli, «Temps de préfaces. Critique théâtrale et unité de l’histoire de 1625 au “Cid”», in Storiografia della critica francese nel Seicento, Bari-Paris, Adriatica-Nizet, 1986, pp. 45-83. Sulla materia politica del Nicomède e sulla continuità delle riflessioni di Corneille sul rapporto fra grandi e piccoli stati con quelle di Grozio, Hotman e Bodin, cfr. Timothy Hampton, Fictions of Embassy: Literature and Diplomacy in Early Modern Europe, Ithaca-London, Cornell University Press, 2009, pp. 122-132.
[1.1.8] La sentenza riportata a testo (Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, pp. 152-153) censura un passaggio della Poetica (1453b 38-39) in cui Aristotele negava la tragicità di alcune vicende incentrate sul tentativo non riuscito di uccidere persone note e familiari, prendendo ad esempio l’Antigone di Sofocle, in cui Emone, venuto a sapere della morte di Antigone, fallisce il colpo che avrebbe dovuto uccidere Creonte e rivolge l’arma contro se stesso. Corneille contraddice l’asserzione di Aristotele, che inficerebbe la bontà non soltanto del Cid — dove Chimena tenta invano di vendicare la morte del padre esigendo l’uccisione del Cid, di cui è pur sempre innamorata —, ma anche di diversi altri suoi drammi. Per questo motivo propone una spiegazione alternativa: non dovranno essere apprezzati i soggetti in cui i tentativi di assassinare una persona conosciuta falliscono per una semplice e capricciosa mutazione di volontà, senza che tale cambiamento sia causato da episodi rilevanti o dall’impossibilità di portare a compimento il proprio piano.
Le considerazioni di Corneille appaiono ancora una volta appiattite su un dato empirico che tende a voler giustificare la consonanza della propria drammaturgia con le regole aristoteliche forzando la lettura di alcuni passaggi del testo greco o addirittura negandone la validità.
[1.1.9] Forte della citazione di alcuni brani dell’apologia corneilliana che manifestano l’arbitrarietà dell’operazione esegetica condotta dal francese, Calepio formula un perentorio giudizio nei confronti dei Discours, considerati il frutto dell’adeguamento della Poetica al teatro di Corneille, piuttosto che un equilibrato esame della conformità delle tragedie del francese ai dettami del trattato greco. Inoltre la modalità con cui Corneille presenta le proprie tesi appare a Calepio inconsistente: se anche Cinna — protagonista dell’omonima tragedia incentrata sulla cospirazione del nipote di Pompeo contro Augusto — avesse abbandonato i piani di congiura in seguito ad un repentino pentimento, piuttosto che a causa dell’impossibilità di eseguire la propria vendetta, la favola non sarebbe certo risultata meno tragica. Al di là di tali vane sottigliezze, ciò che Calepio rinfaccia a Corneille è la pregiudiziale rinuncia al perseguimento dell’utilità attraverso la tragedia, al quale il francese sostituirebbe l’esclusiva ricerca del piacere dello spettatore.
La lettura del bergamasco è tuttavia a sua volta faziosa: Corneille insiste a più riprese sulla validità moralistica e pedagogica del teatro, ma deputa allo svolgimento di questa funzione le sentenze e i discorsi didattici che egli mette spesso in bocca ai propri personaggi. Al ridimensionamento della catarsi, controverso e «immaginario» strumento di purgazione della cultura pagana, corrispondeva il rilancio di una morale cristiana che prevedeva la punizione dei malvagi e il trionfo — talora sublimato nel momento del martirio — dei buoni (Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 146). Nei parallèles che si diffondono tra fine Seicento e inizio Settecento e misurano le differenze tra la drammaturgia di Corneille e di Racine è peraltro costante l’assegnazione a Corneille di un tono moralistico e pedagogico che viene di volta in volta apprezzato o respinto. Sulla convergenza di questa strategia corneilliana con quella del teatro gesuitico seicentesco si veda il magistrale contributo di Marc Fumaroli, Héros et orateurs: rhétorique et dramaturgie cornéliennes, Genève, Droz, 1990.
[1.1.10] Calepio riporta il giudizio espresso da Dacier nella conclusione della sua prefazione alla Poetica, dove il francese, ripercorrendo le tappe fondamentali della storia della poesia tragica, ammette: «Après la mort d’Alexandre elle [la tragédie] retomba dans sa premiere langueur, et ne reprit toutes ses forces que sous le regne d’Auguste, sous lequel on renouvella les regles de ce Philosophe. Depuis la mort d’Auguste on la veue toûjours plus foible pendant plus de seize cens ans jusqu’à ce dernier siecle où Monsieur Corneille et Monsieur Racine, soutenus par ces regles d’Aristote, l’ont fait revenir de cette longue défaillance» (André Dacier, «Préface», in La Poëtique d’Aristote. Traduite en Français avec des remarques, Paris, Barbin, 1692, p. xxiii). Il giudizio di Dacier su Corneille non è tuttavia incondizionatamente positivo — forse questo punto è anzi l’unico in cui si spende in un elogio dei tragici moderni. Nella stessa introduzione Corneille era stato biasimato proprio per essersi arbitrariamente allontanato dalle regole di Aristotele: «Monsieur Corneille a lui-même en peut-être un exemple. Tout ce qu’il a voulu établir de nouveau dans ses discours du poème dramatique est moins fondé sur la nature que sur son propre intérêt. Il paraît par ses propres termes que la seule vue de défendre ce qu’il avait hasardé dans ses pièces l’a obligé à s’éloigner du sentiment d’Aristote, pour établir des règles qui lui fussent plus favorables» (ivi, p. xix).
[1.1.11] L’accenno di Calepio va in questo caso ai prodromi della filosofia cartesiana, ben radicata in tutto il mondo delle lettere francese sei-settecentesco: dalla ripresa, talvolta semplicistica, del Discours de la méthode di Cartesio procedeva una profonda messa in discussione delle auctoritates nella convinzione dell’indipendenza del giudizio da tutto ciò che non era la ragione individuale, correttamente esercitata.
Il Traité du poème épique di Le Bossu, che costituisce uno degli obbiettivi polemici maggiormente tenuti in considerazione da Calepio nel Paragone, si presentava come un esame dei fondamenti della poesia epica, condotto in margine alla riflessione di Aristotele e Orazio, e con la scorta, sul versante poetico, delle opere di Omero e Virgilio. Il testo fu pubblicato per la prima volta nel 1675 e venne lodato da Chapelain e dall’Académie Française, ottenendo una grande risonanza sia nazionale che internazionale (cfr. Tanya Caldwell, Virgile Made English: The Decline of Classical Authority, New York, Palgrave, 2008, pp. 8-9).
Sulla fondazione tardo-seicentesca del concetto di «moderno», chiaramente dipendente dalla ricezione della filosofia cartesiana ed in particolare dello scetticismo che veniva teorizzato nel Discours sur la méthode, cfr. Marc Fumaroli, La Querelle des Anciens et des Modernes: xviie -xviiie siècles; précédé de Les abeilles et les araignées, établi par Anne-Marie Lecoq Paris, Gallimard, 2001; Gianni Paganini, Skepsis: le débat des modernes sur le scepticisme, Paris, Vrin, 2008; Écrire et penser en Moderne (1687-1750), sous la direction de Christelle Bahier-Porte et Claudine Pouloin, Paris, H. Champion, 2015. Utile anche, in proposito, il profilo storico sui diversi significati assunti dal termine «classico» offerto da Silvia Tatti, Classico: storia di una parola, Roma, Carocci, 2015.
[1.1.12] L’autore riconosce la validità dell’approccio cartesiano, attribuendo a Descartes il merito di aver perfezionato la critica degli antichi, e si premura di mostrarsi un giudice moderato che non propende pregiudizialmente per il partito dei classici. Tuttavia non approva la critica pretestuosa degli autori greci e latini, condotta allo scopo di esaltare incondizionatamente i moderni: questo è, a suo parere, l’atteggiamento che molti autori avevano tenuto nel corso della famosa Querelle des Anciens et des Modernes, protrattasi dagli anni Ottanta del Seicento ai primi decenni del Settecento.
La Querelle, le cui radici andranno ritrovate nella Francia degli anni Venti-Trenta e poi più tardi nell’Italia del pieno Seicento, ed in particolare in autori quali il Tassoni, il Beni e il Boccalini, ma concretamente inaugurata da Charles Perrault ne Le Siècle de Louis le Grand (1687) e dal più rilevante Parallèle des Anciens et des Modernes (1688-1697), porta alle sue conseguenze talvolta più estreme l’applicazione del metodo critico cartesiano, secondo una prospettiva pre-positivistica che coinvolge tanto le scienze quanto la letteratura e le arti. Uno dei momenti di maggiore attrito della Querelle va individuata nella ben nota questione omerica: la disputa, che vedeva contrapporsi i detrattori del poeta epico greco — tra i quali eccelleva Houdar de La Motte, autore di una riduzione dell’Iliade che gareggiava polemicamente con la traduzione dell’Iliade proposta nel 1699 da Madame Dacier — agli strenui sostenitori della supremazia di Omero e della poesia classica — questo partito annoverava, oltre a Madame Dacier, letterati quali Fénelon, Jean Bovin e infine Du Bos. Probabilmente Calepio allude proprio a questo tardo prodromo della polemica (1714-1716), di certo il più acceso, quando stigmatizza la censura cavillosa degli autori antichi. Sulla questione omerica, e in particolare sulle ripercussioni che essa ebbe nella cultura francese, su cui pesava l’originario giudizio dello Scaligero, poco benevolo nei confronti di Omero, si veda Luigi Ferrari, La questione omerica tra Cinque e Settecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007, pp. 113-164.
Calepio rivendica infine la propria moderazione nel giudizio, precisando che, nel corso del Paragone, farà ricorso alle autorità dei classici soltanto quando si accordino con i principi della ragione. Quando nel 1738 sarà pubblicato l’Esame critico di padovano Giuseppe Salìo — allievo di Domenico Lazzarini ed autore di tragedie composte sul modello greco —, in cui Calepio viene accusato di essere un partigiano dei moderni, incapace di scorgere i pregi di Omero e dei grandi autori classici, il bergamasco si difenderà ancora ribadendo la propria moderazione, la propria capacità di mediare in modo equilibrato tra l’esercizio di una ragione individualistica e l’ammirazione per i documenti antichi. Nella Confutazione di molti sentimenti, compresa nell’edizione del Paragone del 1770 e volta a ribattere punto per punto alle accuse rivoltegli dal Salìo, egli scrive infatti: «Tutte queste espressioni scuoprono un uomo troppo pregiudicato dalla prevenzione, e che per la passione, con cui vorrebbe sostenere l’opere sue, non vuole riconoscere in me quella moderazione, con la quale ho manifestato di apprezzare gli Antichi Poeti senza rinunciare all’uso della ragione, che ci fa conoscere sì li falli loro, che li miglioramenti, che alla Poesia Tragica si potevano aggiungere» (Pietro Calepio, Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, e sua difesa, con l’apologia di Sofocle del signor conte Pietro de’ Conti di Calepio di Bergamo, Venezia, Zatta, 1770, pp. 288-289).
Sulla Querelle des Anciens et des Modernes cfr. Giacinto Margiotta, Le origini italiane de la Querelle des anciens et des modernes, Roma, Studium, 1953; La disputa sei-settecentesca sugli antichi e sui moderni, a cura di Maria Teresa Marcialis, Milano, Principato, 1970; Joseph M. Levine, The Battle of the Books: History and Literature in the Augustan Age, Ithaca-London, Cornell University Press, 1991; Marc Fumaroli, La Querelle des Anciens et des Modernes: xviie -xviiie siècles; précédé de Les abeilles et les araignées, établi par Anne-Marie Lecoq Paris, Gallimard, 2001; Marc-André Bernier, Parallèle des Anciens et des Modernes: rhétorique, histoire et esthétique au siècle des Lumières, Lévis, Presses universitaires de Laval, 2006.
Sulla penetrazione delle idee cartesiane in Italia si vedano almeno Eugenio Garin, «Cartesio e l’Italia», Giornale critico della filosofia italiana, IV, 1950, pp. 385-405, e Maurizio Torrini, «Cartesio e l’Italia: tentativo di un bilancio», in Descartes e l’eredità cartesiana nell’Europa sei-settecentesca, a cura di Maria Teresa Marcialis e Francesca Maria Crasta, Lecce, Conte, 2002, pp. 245-260.
Articolo II.
[1.2.1] Viene immediatamente presentato, nell’esordio di questo articolo, un elemento fondamentale nella poetica tragica di Calepio, ossia quella catarsi che garantisce l’utilità della poesia e giustifica retrospettivamente la discussione avviata nella sezione precedente. Il luogo della Poetica citato in apertura da Calepio è il celeberrimo 1449b 27, nel quale Aristotele descrive il fine della tragedia, la quale «per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di siffatte passioni». Fu assai dibattuta, a partire dai commenti cinquecenteschi, l’entità delle passioni oggetto di questa purgazione; Calepio, ammettendo che essa «si possa estendere al regolamento d’ogni passione», si schiera con decisione dalla parte di coloro che intendevano quel «τὴν τῶν τοιούτων παθημάτων κάθαρσιν» con «la catarsi di tutte le passioni» — scorgendo nella definizione aristotelica della tragedia un afflato prioritariamente morale —, piuttosto che con «la purgazione di quelle stesse passioni», ossia pietà e terrore.
La linea che abbraccia Calepio è quella maggioritaria, frutto di una lettura controriformistica cinquecentesca che proiettava sul testo greco la nozione dell’utile dulci contenuta nell’Ars Poetica oraziana, e proficuamente rilanciata, fra l’altro, all’interno della visione neostoica seicentesca, rappresentata in primis dallo stesso Corneille (cfr. Jacques Maurens, La Tragédie sans tragique: le néo-stoïcisme dans l’œuvre de Pierre Corneille, Paris, Armand Colin, 1966).
In origine la traduzione del passo offerta dal Robortello («per misericordiam vero atque terrorem perturbationem huiusmodi purgans», Francesco Robortello , In librum Aristotelis de Arte Poetica explicationes [1548], rist. anast., München, Fink, 1968, p. 52) attestava la capacità della tragedia di purificare gli spettatori dai sentimenti di pietà e terrore: la consuetudine con la rappresentazione di eventi tragici avrebbe permesso di corroborare il cuore degli ateniesi, rendendoli più forti nell’affrontare le calamità che nel corso della vita si sarebbero loro presentate.
Vincenzo Maggi, riproducendo la medesima traduzione del passaggio nel 1550, offriva un’interpretazione affatto diversa; a suo parere Aristotele non avrebbe potuto prescrivere che la tragedia estirpasse la pietà dal cuore degli spettatori, in quanto così facendo avrebbe imposto agli ateniesi di proscrivere moltissimi atti lodevoli che procedono dalla carità e dalla misericordia: le passioni da purgare erano piuttosto tutte le altre. Elisabetta Selmi nota molto appropriatamente che il Maggi «introduce, con una nota di inaspettato dantismo, la convinzione in apparenza eccentrica, ma nel suo sistema coerente con un’idea di utilità sociale, che essa [la catarsi] sia preposta non all’estirpamento di eleos e phobos, ma che proprio attraverso l’esercizio di tali affetti tragici serva a liberare l’animo dai tre vizi capitali dell’ira, dell’avarizia e della lussuria» (Elisabetta Selmi, «Maggi, Vincenzo», in Dizionario biografico degli Italiani, LXVII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia, 2007, ad vocem).
L’interpretazione di Maggi viene riproposta con qualche differenza da diversi letterati: Alessandro Piccolomini insiste sulla capacità della tragedia di temperare le passioni garantendo all’uomo di raggiungere la tranquillità dell’animo («Venendo dunque alla tragedia, di cui siamo in proposito, ella parimente tiene l’occhio principalmente a giovar all’huomo. Per la qual cosa haviam da sapere, che non potendo l’huomo gustare, e conseguir maggior’utilità, che in posseder’una vera tranquillità dell’animo, da cui non può star separata la virtuosa vita sua; e d’altronde non potendo ricever macchia questa tranquillità, se non per colpa delle passioni dell’animo; di qui è, ch’in cosa alcuna non si son tanto affatigati i Filosofi per render tranquillo l’animo, quanto in cercar di purgarlo da questi affetti», Alessandro Piccolomini, Annotationi nel libro della Poetica d’Aristotele, Venezia, Guarisco, 1575, p. 101); Battista Guarini sottolinea l’estraneità alla morale cristiana di una concezione della tragedia come liberazione dalla santa virtù della pietà («Tutto quello che in ciò fa dubbi di non lieve importanza, pare a me che si riduca a duo punit. L’uno, per qual ragione voglia Aristotile che l’huom si privi della compassione, che è cosa, come dice il Boccaccio, cotanto humana. E ’n verità, che ’l terrore s’habbia a purgar come affetto disordinato, che corrompe la virtù della fortezza, ha molto del ragionevole, o per dir meglio, del necessario. Ma spogliarsi della pietà chi può farlo, senza spogliarsi dell’humanità? Per modo che la Tragedia per questo solo meriterebbe di essere, come fiero, e scandaloso spettacolo abborrita», Battista Guarini, Compendio della poesia tragicomica, in Id., Opere, III, Verona, Tumermani, 1737, p. 408), avallando una fruizione edonistica del testo poetico che già era stata suggerita da Castelvetro («E per venire all’età nostra, che bisogno abbiamo oggidì di purgare il terrore e la commiserazione con le tragiche viste, avendo i precetti santissimi della nostra religione, che ce l’insegna con la parola evangelica? E però quegli orribili e truculenti spettacoli son soverchi, né pare a me che oggi si debbia introdurre azion tragica ad altro fine che per averne diletto», ivi, p. 420; su questo punto cfr. anche Elisabetta Selmi, «Classici e moderni» nell’officina del Pastor Fido, Alessandria, edizioni dell’Orso, 2001, pp. 42-43, e Stefano Verdino, Il Re Torrismondoe altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 32-39); Angelo Ingegneri nella Prefazione della sua Tomiri affermava che la tragedia doveva fungere da preventiva difesa contro «i danni, che possono procedere dalla Superbia, dall’Ira, e dall’Ostinatione, ed insieme d’alcun’altra incontinenza» (cfr. su questo punto Roberto Puggioni, «Sulla dedicatoria della “Tomiri” (1607) di Angelo Ingegneri», in La letteratura degli Italiani 4. I letterati e la scena, Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Paola Pecci, Ester Pietrobon e Franco Tomasi, Roma, Adi editore, 2014). Molto minore è la fortuna della lettura robortelliana, che pure viene ripresa, seppure con debiti cambiamenti, da Lorenzo Giacomini, il quale, all’interno di un discorso sulla purgazione tragica pronunciato in seno all’Accademia degli Alterati, attesta, attingendo anche dalla storia della medicina classica, che «per mezzo de’ medicamenti purganti per la naturale simpatia e convenienza che hanno co’ l’umore da purgarsi, si muove e sfoga il detto umore, così ne l’anima gravida di concetti mesti, di timore e di compassione, per mezzo de la pietà e de lo spavento si muovono e si purgano concetti tali» (Lorenzo Giacomini, De la purgazione de la tragedia, in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, vol. III, a cura di Bernard Weinberg, Bari, Laterza, 1972, p. 361).
Nel Settecento Scipione Maffei riproponeva autorevolmente la lettura del Maggi e dell’Ingegneri — esplicitamente citato —, nella convinzione che l’effetto catartico dovesse essere allargato a tutte le passioni dell’animo umano: «Chi potrebbe mai credere che quel grand’uomo [Aristotele] tenesse a non doversi indirizzar la Tragedia a correggere le passioni in genere, ma due sole? E che dovendone prender due di mira, non l’ambizione, non l’invidia, non l’ira, non la libidine, ma volesse che lo scopo fosse di correggere la compassione e il timore, quali son le men peccanti […] Ben disse Angelo Ingegneri nel Proemio alla sua Tomiri, che questo sarebbe un voler “curare il freddo col freddo, e il caldo col caldo”, e ch’egli all’incontro aveva cercato nella sua Tragedia di preservar lo spettatore “da i danni che possono procedere dalla superbia, dall’ira, dall’ostinazione, e d’alcuna altra incontinenza”, e di far vedere come il cadere di Personaggi grandi da felicità in miseria “insegna a non far fondamento nelle umane prosperità, ed a moderare le troppo violente affezioni”» (Scipione Maffei, «Proemio alla Merope», in Id., De’ teatri antichi e moderni, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, pp. 78-79). Prima di lui già Martello confermava un interesse nei confronti del processo catartico dichiaratamente eterodosso rispetto ai dettami di Aristotele, assegnando alla tragedia lo scopo di purgare gli «affetti disordinati» («La tragedia per mezzo del terrore, e della pietà solleva lo spettatore da queste stesse passioni, facendo ch’ei si scarichi sovra oggetti finti della tristezza che lo divora. Nella maniera che una musica malinconica solleva e toglie la nostra malinconia. Questo è il vero senso del testo, ma io senza dipendere da quanto ho scritto, posso ora interpretare quella espressione diversamente da ciò, che allora sentii. Gli affetti nostri ci portano all’ambizione, alla prepotenza, alla crudeltà: col terrore si purgano i primi due affetti, e con la compassione si purga il terzo, ma non si purgano veracemente gli affetti, si purga l’animo dagli affetti disordinati», Pier Jacopo Martello, «Della tragedia antica e moderna», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 238). Anche il Muratori concepiva la catarsi tragica come uno strumento di purificazione degli affetti del popolo, attribuendole una funzione massimamente etica («Nella Tragedia si hanno da studiare le varietà dell’umane vicende; e col terrore, e colla compassione purgar gli affetti del popolo; e spaventare i potenti dal mal fare coll’esempio de gli altri caduti in estrema miseria», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, pp. 548-549) che sopravvive ancora nelle tarde riflessioni del Lessing, per il quale la catarsi permetteva la conversione delle passioni in «disposizioni virtuose» (Gotthold Ephraim Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, a cura di Paolo Chiarini, Roma, Bulzoni, 1975, p. 340; su questo punto, in ottica di un proficuo confronto con la posizione del Maffei si veda Paolo Scotton, «La poetica della Merope nella Drammaturgia Amburghese di Lessing. Pubblico e catarsi», in «Mai non mi diero i Dei senza un egual disastro una ventura». La Merope di Scipione Maffei nel terzo centenario (1713-2013), a cura di Enrico Zucchi, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 149-166).
Diversa, e alquanto isolata, è la posizione del Gravina, il quale recupera la lettura più fedele al testo greco di Robortello (GianVincenzo Gravina, Della tragedia, cit., p. 511). Un altro grecista convinto come il maceratese Domenico Lazzarini, nei Frammenti dell’arte poetica, valorizzava al contrario non tanto la capacità della tragedia di assuefare il pubblico alla pietà e al terrore, rendendolo immune alle mollezze che proponevano ad esempio i drammi incentrati sul soggetto amoroso, quanto piuttosto, rifacendosi alla Politica piuttosto che alla Poetica, l’ufficio curativo della musica, capace di agire negli spettatori come una potenza medicamentosa che ne lenisce gli affanni (su questo mi permetto di rimandare al mio «L’“irragionevolezza” della Merope nelle Osservazioni di Domenico Lazzarini», in «Mai non mi diero i Dei senza un egual disastro una ventura», cit., pp. 215-234), inaugurando un’interpretazione propriamente medica della catarsi che avrà successo soprattutto nell’Ottocento.
Sulla nozione aristotelica di catarsi e sulla fortuna della Poetica nel Cinquecento cfr. Enrico Flores, «La catarsi aristotelica dalla Politica alla Poetica», in Poetica e Politica fra Platone e Aristotele, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984, pp. 37-49; La Poetica d’Aristotele e la sua storia, a cura di Diego Lanza, Pisa, ETS, 2002. Fra le più acute ricostruzioni del dibattito cinquecentesco intorno al concetto di catarsi si segnalano invece: Baxter Harthaway, The Age of Criticism: The Late Renaissance in Italy, New York, Cornell University Press, 1962, pp. 205-300; Donato Loscalzo, «Catarsi tragica», Quaderni urbinati di cultura classica, III, 2003, pp. 67-84; Teresa Chevrolet, «“Che cosa è questo purgare?”: la catharsis tragique d’Aristote chez les poéticiens italiens de la Renaissance», Études Épistémè, XIII, 2008, pp. 37-68.
[1.2.2] Nel proseguire il suo personale corpo a corpo con la Poetica, Calepio prende in esame il passaggio in cui Aristotele descrive le proprietà necessarie al protagonista ideale per raggiungere il fine della tragedia (1542b 34-1543a 11), ritraendolo come un personaggio mezzano, lontano dagli estremi della bontà eccessiva («non si debbono mostrare uomini dabbene che passino dalla fortuna alla sfortuna, perché questa è cosa che non desta né terrore né pietà, ma ripugnanza») e dell’assoluta pravità («ma nemmeno deve essere un uomo mlto malvagio a cadere dalla fortuna nella sfortuna, perché una simile composizione avrebbe sì la simpatia umana, ma non il terrore né la pietà»): Edipo e Tieste sono additati ad esempio dal filosofo greco, in quanto sono ritenuti uomini illustri che cadono in disGrazia non a causa del vizio o della consuetudine malvagia, ma in virtù di qualche errore. Rispetto alla disamina aristotelica che prescrive un protagonista «che non si distingue per virtù, né per giustizia», Calepio propende invece per un eroe sostanzialmente virtuoso, ma non privo di una qualche imperfezione, scostandosi quindi dalla proposta dell’impeccabile héros malheureux di Corneille.
D’altra parte Corneille riportava, nell’Examen sur Polyeucte, tragedia caratterizzata della messa in scena della figura del martire, un elenco di autorità che avevano avallato la messa al bando del personaggio di mediocre bontà, o per lo meno ritenuto lecita la rappresentazione di protagonisti integralmente virtuosi. Fra questi vengono citati: il De poeta di Minturno, nel quale un capitolo affrontava il problema della rappresentabilità di Gesù Cristo e dei martiri nella tragedia, risolvendosi per la liceità di questa soluzione; il De constitutione tragœdiæ di Heinsius, traduttore ed esegeta di Aristotele ritenuto in Francia fra i più autorevoli; le misconosciute tragedie del giurista e filosofo olandese Ugo Grozio, autore di una tragedia sulla passione di Cristo e una sul personaggio biblico di Giuseppe; le tragedie sacre dell’umanista George Buchanan (Pierre Corneille, «Examen de Polyeucte», in Id., Œuvres complètes, I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 979). A questi nomi, a ben vedere scarsi e non tutti prestigiosi, andrà forse aggiunto anche Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, autore di una fortunata Poétique pubblicata nel 1639, nella quale si spingeva a licenziare la figura del martire sotto l’egida di Aristotele, al quale imputava questa sentenza, invero tutt’altro che autentica: «il [Aristote] dit expressément Que nous mourons de compassion quand nous voyons souffrir quelqu’un sans qu’il ait fait aucune faute» (Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, p. 26).
Nel parziale allontanamento da Aristotele operato da Corneille dovrà scorgersi la cognizione della profonda diversità del teatro greco da quello cristiano: non si tratta più di illustrare la fatale parabola discendente di sovrani ed eroi, secondo la modalità classicistica del De casibus, ma piuttosto di rappresentare cristianamente la fragilità dell’essere umano, mai al riparo, per quanto virtuoso, dalla tentazione e dal peccato. Anche per questa concezione del Cristianesimo, che appare per la verità attraversato da alcune suggestioni protestanti che a Calepio potevano forse giungere sia dalla vicina Svizzera che dalla nutrita schiera di giansenisti lombardi, il bergamasco rifugge dalla tragedia del martire gesuitico che aveva avuto in Corneille il suo massimo esponente. Resta significativo, inoltre, il fatto che il bergamasco, discorrendo sulle qualità richieste al personaggio esemplare, anche in questo caso non si richiami semplicemente all’autorità di Aristotele, ma insista sulla ragionevolezza dello statuto («ogni ragione vuole»), mantenendosi fedele al proposito enunciato in apertura, laddove dichiarava di voler seguire Aristotele e i classici soltanto nella misura in cui le loro regole erano suffragate dal consenso della ragione.
Sarà infine da registrare anche il consenso di Calepio in merito alla tragedia basata sulla figura del martire, presente in quelle Giunte pubblicate postume nell’edizione del Paragone del 1770, che testimoniano un attivo processo di riscrittura e modifica del trattato che il bergamasco doveva aver intrapreso fra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo, testimoniata da un consistente numero di fogli di appunti conservati nell’Archivio Calepio della Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo. In questa sede, pur ribadendo la condanna nei confronti del «dramma eroico» di Corneille, l’autore ammette la rappresentazione di vicende incentrate sul martirio dei santi in quanto queste «quantunque non abbiano il requisito di correggere nel modo considerato nelle Tragedie dell’ordine primiero, partecipano dell’indole tragica in quanto muovono chi ha buona religione a confidare ne’ beni celesti, ed inducono a vincere le passioni, che hanno per li terreni» (Pietro Calepio, «Giunte postume attinenti al Paragone», in Id., Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, e sua Difesa, con l’Apologia di Sofocle, Venezia, Zatta, 1770, p. 165). Anche in questo caso, tuttavia, si noti, l’approvazione di Calepio non nasce dalla condivisione di una nozione di santità eroica da esibire agli spettatori per suscitarne l’ammirazione, come accadeva in Corneille, quanto piuttosto dalla convinzione nel beneficio che il pubblico può trarre dall’osservazione di una favola dietro alla quale aleggia la presenza del Deus absconditus: drammi in cui si rappresentano le calimità degli innocenti possono giovare infatti in quanto insegnerebbero «che la giustizia di Dio è incensurabile, e che mai non mancano a lui ragioni di farci provare i suoi flagelli, e che questi sono sovente motivi di merito in coloro, che intende di maggiormente beneficare. Laonde può derivare agli Spettatori il frutto di comprendere quanto sieno caduche le umane prosperità, e che la vera felicità non dee in terra sperarsi» (ivi, p. 166). A partire da questa posizione Calepio ritrova nel Thémistocle (1729) del padre gesuita Melchior Folard — forse conosciuto da Calepio nella traduzione italiana del 1745, fatta per una messa in scena al Collegio dei Nobili di Milano (cfr. Stefano Locatelli, Edizioni teatrali nella Milano del Settecento. Per un dizionario bio-bibliografico dei librai e degli stampatori milanesi e annali tipografici dei testi drammatici pubblicati a Milano nel XVIII secolo, Milano, I.S.U., 2007, p. 449) — maggiore validità di quanta ne meritasse qualora lo si fosse considerato, come fa il suo autore, insistendo ingiustificatamente sulla colpevolezza del protagonista, una tragedia canonica atta ad ispirare pietà e terrore (Pietro Calepio, «Giunte postume attinenti al Paragone», cit., p. 166). Ciò non toglie che il bergamasco si mostri ancora, anche a quest’altezza, risolutamente contrario alla soluzione che prevede il trionfo dei malvagi. Questa opzione, sostenuta dal Conti nella prefazione del Druso, anche sulla base del pronunciamento di Castelvetro («Secondo i principj più volte inculcati dal Castelvetro, la miseria dell’innocente, e l’esaltazion del malvagio generano in noi un certo piacer obliquo, che è molto più efficace del piacer diretto che nasce dalla felicità dell’innocente e dall’abbassamento del malvagio», Antonio Conti, «Prefazione al Druso», in Id., Le quattro tragedie, Firenze, Bonducci, 1751, p. 460), viene respinta da Calepio, il quale ammetteva che il rappresentare caratteri odiosi per farli aborrire al pubblico non era di nessuna utilità («La Tragedia non ha per fine d’indurre la gente all’odio, ed all’orrore delle grandi malvagità, sì perché queste non sono comuni, sì perché sono generalmente odiate senza bisogno d’arte, che le faccia abbracciare», Pietro Calepio, «Giunte postume attinenti al Paragone», cit., p. 167), e che al diletto obliquo rimaneva di gran lunga superiore quello “diretto”, «consistente nel secondare l’umanità nostra, che ci muove a compatire gli altrui mali per la somiglianza, che abbiamo con chi patisce, la qual ci muove ad amarne il sollievo» (ibid.). Questa affermazione rieccheggia quella, fondamentale nel computo della poetica proposta da Calepio, già espressa in Paragone III, 1, [1], al cui commento si rimanda per ulteriori approfondimenti.
Sulle origini della discussione in merito alla rappresentazione tragica dell’eroe innocente si veda Mauro Sarnelli, «Riflessioni preliminari sulla problematica dell’eroe innocente», in I luoghi dell’Immaginario barocco, a cura di Lucia Strappini, Atti del convegno di Siena (21-23 ottobre 1999), Napoli, Liguori, 2001, pp. 81-94.
[1.2.3] Rifacendosi al medesimo passo appena commentato da Calepio (1542b 34-1543a 11), Corneille assumeva una posizione fortemente critica nei confronti di Aristotele. In prima battuta egli non comprendeva l’esemplarità di Edipo e Tieste come protagonisti della perfetta tragedia, in quanto i due non parevano corrispondere al profilo teorico tracciato: se infatti Edipo gli sembra totalmente innocente e quindi inadatto a far scattare il meccanismo di purgazione («Le premier [Œdipe] me semble ne faire aucune faute, bien qu’il tue son père, parce qu’il ne le connaît pas, et qu’il ne fait que disputer le chemin en homme de cœur contre un inconnu qui l’attaque avec avantage», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 145), Tieste è interamente malvagio nell’antefatto, in quanto incestuoso, e uomo dabbene nella tragedia, in cui è ingiustificatamente punito con una pena tremenda per aver confidato troppo nel fratello con cui si era riappacificato. Più adatto a suscitare la purgazione delle passioni di cui parla Aristotele — e della cui effettiva consistenza, va ricordato, Corneille si dice perplesso («Si la purgation de passions se fait dans la tragédie, je tiens qu’elle se doit faire de la manière que je l’explique; mais je doute si elle s’y fait jamais», ibid.) — gli sembra invece il suo Cid, ritenuto perfettamente consono ai dettami aristotelici circa il carattere dei protagonisti.
Secondo Corneille, infatti, Rodrigue e Chimène sono intrinsecamente virtuosi, e la loro probità vacilla soltanto a causa del fuoco della passione che li investe: è la loro debolezza, tanto ordinaria da suscitare nello spettatore la compassione per gli amanti e la paura di ricadere a propria volta nello stesso destino, che li conduce all’infelicità («Rodrigue et Chimène y ont cette probité sujette aux passions, et les passions font leur malheur, puisqu’ils ne sont malheureux qu’autant qu’ils sont passionnés l’un pour l’autre. Ils tombent dans l’infélicité par cette faiblesse humaine dont nous sommes capables comme eux; leur malheur fait pitié […]. Cette pitié nous doit donner une crainte de tomber dans un pareil malheur, et purger en nous ce trop d’amour qui cause leur infortune et nous les fait plaindre», ivi, pp. 145-146).
Tuttavia, pur avendo tutte le condizioni richieste da Aristotele, a Corneille non sembra che il suo Cid porti ad alcuna purgazione delle passioni («mais je ne sais si elle nous la donne, ni si elle le purge, et j’ai bien peur que le raisonnement d’Aristote sur ce point ne soit qu’une belle idée, qui n’ait jamais son effet dans la vérité», ibid.); il frutto più dolce che si può raccoglieredal teatro, sul versante dell’utile, consisterebbe invece, a suo parere, nello scorgere la punizione delle cattive azioni e la ricompensa per quelle buone.
In ambito italiano considerazioni simili si ritrovano nella Bellezza della volgar poesia di Crescimbeni, nella quale l’idea di catarsi viene fondamentalmente bandita perché reputata contraria ai principi cristiani, in favore di una tragedia di lieto fine che permette di contemplare l’attuazione di un disegno provvidenziale che premia sempre i buoni e punisce i cattivi: «Ma ne’ nostri tempi, secondo quel che a me ne pare, diversamente dee giudicarsi, perché il fine della Tragedia non è, né può essere, l’assuefar gli uomini a non compatire le miserie altrui, e a non temere di provarle in se stessi: disconveniendo affatto un fine così empio a noi, che siamo Cattolici, e obbligati ad osservare il Vangelo, come quello, che distruggerebbe il timor delle pene, e de’ gastighi de’ falli, e la compassione verso il nostro prossimo ridotto a miseria. Quello, che veramente può per mio avviso, e debbe essere il fine della Tragedia de’ nostri tempi, si è l’assuefarci ad operar bene col mezzo della vista de’ gastighi a’ quali soggiacciono anche i grandi, e potenti Principi, e Monarchi, se mai falliscono; e a non temere, essendo innocenti, d’esser mai condannati, col mezzo della considerazione del favore, e della difesa, che all’innocenza viene dal Cielo. E perché il Protagonista delle ottime Tragedie debbe essere di mezzana bontà; però la Tragedia moderna, se sarà diretta col lieto fine, che è l’istesso, che dire, col riconoscimento dell’ingiustizia della pena, dovrà sempre giudicarsi migliore; perché oltre al destar ne’ nostri animi il timor del gastigo de’ falli, ci farà conseguire anche l’altro utile provegnente dalla considerazione, che il Cielo è protettore dell’innocenza, e vegghia alla difesa di quella; e per conseguenza godremo de gli effetti d’ambedue le parti del fine, al quale noi stimiamo dirette le moderne Tragedie» (Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, p. 157).
[1.2.4] Entrando nel merito dell’autocommento corneilliano, Calepio trova fuorviante l’individuazione del nodo tragico del Cid nell’amore tra Rodrigue e Chimène. La peripezia del dramma di Corneille scaturirebbe infatti dalle gesta di Rodrigue, delegato dal padre a vendicare il torto che questi aveva subito da Don Gomez, genitore di Chimène, il quale lo aveva schiaffeggiato pubblicamente. A partire da questo episodio si svilupperebbe dunque il nodo tragico, che consiste nel conflitto tra la legge positiva — che vieta di farsi giustizia da soli — e la legge dell’onore — che impone invece di difendere in ogni modo la propria dignità. Se Rodrigo rispettasse l’ordine giuridico costituito, perderebbe la stima del padre, dei nobili e della stessa Chimène, qualificandosi ai loro occhi come un vigliacco, e per questa ragione preferisce spingersi oltre ciò che la giustizia consente, anche a rischio di oltraggiare l’amata. Calepio non si sofferma tanto sul dilemma affettivo che assilla Rodrigue, chiamato a scegliere se preservare l’onore del padre o l’amore di Chimène, quanto piuttosto sul dissidio tra il perseguimento della vocazione eroica e la volontà di rimanere «uomo dabbene», cittadino rispettoso delle leggi e dell’autorità; in questo senso egli giudica impropria l’affermazione con cui Chimène legittima l’azione dell’innamorato («Je sais ce que l’honneur, après un tel outrage,/ Demandait à l’ardeur d’un généreux courage:/ Tu n’as fait le devoir que d’un homme de bien», III, 4, vv. 908-910), poiché confonde due piani che devono rimanere distinti: proprio oltrepassando i limiti prescritti dal diritto positivo, e difendendo il leso onore del padre, il Cid avrebbe violato la condizione di uomo dabbene, elevandosi ad una dimensione eroica che appunto Calepio respingeva. Secondo l’autore del Paragone quindi il Cid, concepito come tragedia della vendetta e non dell’amore frustrato — l’unico protagonista è infatti Rodrigue, mentre Chimène riveste la funzione di personaggio secondario, utile ad esaltare il conflitto interiore dell’eroe —, potrebbe concedere una qualche purgazione, benché incompleta, a causa del finale lieto che ne guasta in gran parte la riuscita.
[1.2.5] Nel considerare l’Edipo sofocleo un eroe innocente ingiustamente punito (Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 145, cfr. supra) Corneille commetterebbe, secondo Calepio, un grave errore di valutazione, indotto probabilmente dal Castelvetro. Nel passo in questione della Poetica (1453a 9-10) Aristotele prescriveva che l’eroe tragico non fosse colui che cade in disGrazia a causa della malvagità (κακίαν) e del vizio abituale (μοχθηρίαν), ma a causa di qualche errore (ἁμαρτίαν), come accadeva al protagonista della tragedia sofoclea. I commenti cinquecenteschi, dal Robortello al Maggi, insistevano sul fatto che la sventura di Edipo, personaggio non avvezzo a compiere azioni prave, procedesse dall’imprudenza e dall’ignoranza. Pier Vettori, ritenendo che l’agire per ignorationem non costituisse di per sé un peccato, accentuava la colpa di Edipo, considerandolo un iracondo che aveva ucciso Laio in un accesso di rabbia. Castelvetro, al contrario, nel suo commento, sottolinea la condotta innocente di Edipo (cfr. Valeria Merola, «Il piacere obliquo e la meraviglia. Sulla Poetica di Lodovico Castelvetro», in Lodovico Castelvetro: filologia e ascesi, a cura di Roberto Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 315-316), dando spunto alle critiche che nel Seicento verranno mosse alla mediocrità di Edipo in ambito francese. Corneille in effetti parrebbe proiettare su Edipo il carattere eroico del suo stesso Rodrigue del Cid quando afferma che il protagonista della tragedia sofoclea non si macchia di una vera e propria colpa («il me semble ne faire aucune faute») uccidendo, in qualità di «homme de cœur», lo sconosciuto che questiona con lui per ottenere la precedenza: come il Cid, anche Edipo sarebbe giustificato a compiere l’omicidio per preservare il proprio onore. Non a caso infatti nella sua riscrittura dell’Edipo il drammaturgo francese introduce un intrigo amoroso che sposta l’asse della tragedia, allontanandolo dallo scottante tema della predestinazione che avrebbe potuto far paventare il contatto con le idee gianseniste. Anche l’abate Terrasson, poco oltre censurato aspramente da Calepio, riprenderà la concezione corneilliana dell’innocenza di Edipo, mentre Dacier rilanciava con forza l’interpretazione del Vettori la cui eco si ritrova ancora nelle Osservazioni sopra la Rodoguna di Scipione Maffei (su questo punto rimando al mio «L’“irragionevolezza” della Merope nelle Osservazioni di Domenico Lazzarini», in «Mai non mi diero i Dei senza un egual disastro una ventura». La Merope di Scipione Maffei nel terzo centenario (1713-2013), a cura di Enrico Zucchi, Milano, Mimesis, 2015, pp. 215-234: 229-230). Una dettagliata rassegna di questa disputa è offerta da Enrico Mattioda, il quale ha lucidamente messo in luce come la sopravvivenza dell’opera tragica nel contesto cristiano del Rinascimento e la sua potenzialità ri-produttiva sia dovuta propriamente all’interpretazione cinquecentesca del termine ἁμαρτίαν come errore saltuario, distinto dalla μοχθηρία, ossia, per dirla con Calepio, «l’abito vizioso», e soprattutto dalla ἀτύχημα, colpa predestinata dal fato: «L’eliminazione della colpa destinata dal fato dall’interpretazione della tragedia greca, e la sua sostituzione con l’errore dalle conseguenze impreviste, ebbe come effetto principale la possibilità e l’ammissibilità del genere tragico nel mondo cristiano, o almeno in quello cattolico della controriforma» (Enrico Mattioda, «La discussione sulla colpa tragica nelle interpretazioni della Poetica di Aristotele tra XVI e XVIII secolo», Horizonte, XII, 2010-2011, pp. 33-50: 35; sul rapporto fra colpa e punizione nella teoria tragica settecentesca si veda in generale: Id., Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi, 1994, pp. 149-198). Peraltro Calepio nella sua giovanile Apologia di Sofocle, in cui difendeva l’Edipo Re dagli attacchi di Voltaire, non accennava al problema della colpevolezza di Edipo né alla mediocrità del suo carattere, soffermandosi piuttosto sui difetti della traduzione francese del testo sofocleo e sull’improprietà delle critiche voltairiane alla verosimiglianza della tragedia. Ciò peraltro dimostra che l’attenzione rivolta da Calepio alla tragedia di Sofocle è in prima battuta legata alla sua formazione classicistica e al suo interesse filologico e linguistico nei confronti del testo greco, come dimostrano i numerosi rilievi mossi alle traduzioni italiane e francesi di Anguillara e Dacier.
Sulle critiche mosse da Voltaire alla tragedia di Sofocle e sulle implicazioni melodrammatiche dell’Œdipe dell’autore francese si rimanda a Maddalena Mazzocut-Mis, «L’Œdipe di Voltaire tra tragedia e dramma», Itinera, VII, 2014, pp. 113-148.
[1.2.6] Per chiarire il significato di μοχθερία Calepio rimanda ad un passo dell’Etica Nicomachea (Libro VII, capo I, 1145b 35) in cui Aristotele contrappone appunto questo tipo di bestialità alla virtù eroica e divina. I due miti presi a modello dal filosofo greco per esemplificare il personaggio ideale della tragedia sarebbero, secondo Calepio, coerenti con l’argomentazione precedentemente sviluppata; al contrario di quanto faceva Corneille, infatti, il bergamasco non si addentra nella discussione sull’entità del delitto compiuto dai protagonisti, ma accerta semplicemente la loro colpevolezza. Come Tieste fu incestuoso — e in questo caso Calepio concorda con Corneille, prendendo le distanze da Dacier, il quale giustificava Aristotele («C’est donc la colére de Thyeste qui le porta à prendre cette vengeance de son frere; ainsi voilà Aristote justifié, et le caractére de Thyeste conforme à sa regle», André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 185) —, anche Edipo non è innocente, dal momento che si fa travolgere dall’ira in seguito ad una modesta provocazione. Calepio riprende quindi l’interpretazione di Vettori, riproposta tra fine Seicento ed inizio Settecento da Dacier e dal Maffei (Paragone I, 1, [5]).
Il problema della colpevolezza di Edipo costituisce d’altra parte un’annosa questione per drammaturghi e commentatori tra Cinque e Settecento. Il ritratto dell’Œdipus imprudens che aveva tratteggiato il Robortello era destinato ad essere messo alacremente in discussione nel clima culturale della Controriforma: se già il Tasso, nel passaggio dai Discorsi dell’arte poetica ai Discorsi del poema eroico dà sfogo a nuove perplessità sul rapporto fra colpa e punizione (cfr. Stefano Verdino, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 44-46), fu Battista Guarini a produrre una decisa sferzata interpretativa nel Verrato secondo, additando Edipo a prototipo dell’innocent malheureux. Guarini insorge infatti contro la raffigurazione di Edipo come un tiranno insofferente di fronte alle accuse di Tiresia e Creonte, veicolata dal volgarizzamento dell’Edipo Re dell’Anguillara e avallata dal punto di vista teorico dal Nores, il quale considerava la tragedia come una scuola alla quale il popolo doveva imparare ad aborrire i tiranni («Come fia dunque, che la rappresentazione delle Tragedie cagioni abborrimento della vita tirannica, se i soggetti da lei prodotti non deono essere sì scelerati, che la lor mala fortuna non ci muova a compassione? O come si osserverebbe il precetto Aristotelico d’introdurre nella favola Tragica soggetti non iscelerati, se introdurre i tiranni vi si dovessero? […] E quel ch’è più sconvenevole, la Tragedia dell’Edipo, tanto celebre e sì perfetta, che di lei si serve Aristotele per idea, non sarebbe buona tragedia, perciocché il suo soggetto non è tirannica operazione, il suo fine non è di gastigare il tiranno, la sua persona pure non è tirannica, rappresenta piuttosto il costume d’ottimo Principe, ed ella che porta il titolo di Tiranno, niuna cosa ha in sé di tirannico», Battista Guarini, Verrato Secondo, in Id., Opere, III, Verona, Tumermani, 1738, p. 312). L’autore del Pastor Fido, rigettando l’archetipo della “mezza colpevolezza” di Edipo apre di fatto la strada per una nuova interpretazione dell’eroe tragico, l’innocente sciagurato, il martire figura Christi, che sarà alla base della tragedia gesuitica seicentesca e del dramma corneilliano (su questa parabola guariniana indispensabile è il rimando ad Elisabetta Selmi, «Classici e moderni» nell’officina del Pastor Fido, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 36-40).
La posizione di Guarini, rilanciata da Corneille, godrà nel Settecento di una notevole fortuna: Gravina accoglie l’ipotesi dell’innocenza di Edipo, scorgendo nella tragedia di Sofocle «il ritratto della necessità fatale» che portava ad incorrere nel danno per le stesse vie che si imboccavano per scansarlo (Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 511-514); Giuseppe Gorini Corio si dice a sua volta convinto dell’innocenza di Edipo e della sua incapacità di suggestionare il pubblico moderno (Giuseppe Gorini Corio, Otone e Milene. Tragedie, Firenze, Moucke, 1766, p. 14); lo stesso Metastasio, nel suo Estratto dell’arte poetica, condivide le perplessità espresse dal francese in merito alla colpevolezza di Edipo e commenta con ironia la presa di posizione di Dacier e dei critici fedeli ad Aristotele: «Ma fra le altre sventure del povero Edipo dovea esservi ancor questa: cioè che non potesse la bontà sua conciliarsi con l’infallibilità d’Aristotele. Per sostener cotesta infallibilità non ha dubitato Plutarco, e su le sue tracce una folla di critici, di metter nel numero de’ delitti e lo sdegno contro i calunniatori e la curiosità, anzi l’impazienza di ubbidire agli ordini del Cielo. Dio ci guardi dalla invincibile ostinazione de’ dotti, innamorati de’ loro sistemi, anche assurdi, irragionevoli e stravaganti», Pietro Metastasio, Estratto dell’Arte Poetica, a cura di Elisabetta Selmi, Palermo, Aesthetica, 1998, pp. 117-118. Anche sul versante della drammaturgia francese prevale la concezione di un Sofocle maldestro — in quanto concentra ossessivamente la tragedia sul tema del destino, dando vita ad un dramma considerato poco complesso e bisognoso di quelle aggiunte di personaggi ed episodi che Corneille aveva a ragione apportato — e di un Edipo innocente: Voltaire presenta un Edipo innocente che maledice gli dei che lo puniscono e la virtù che ha seguito inutilmente («Le voila donc rempli cet oracle exécrable/ Dont ma crainte a pressé l’effet inévitable;/ Et je me vois enfin par un mélange affreux/ Inceste, et parricide, et pourtant vertueux./ Misérable vertu, nom stérile et funeste,/ Toi par qui j’ai réglé des jours que je déteste,/ A mon noir ascendant tu n’as pu résister,/ Je tombais dans le piège en voulant l’éviter», Voltaire, Œdipe, in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, p. 249); Melchior Folard nel suo Œdipe si sforza di caricare di qualche colpa il protagonista per discolpare gli dei che lo avevano punito («J’ai fait Œdipe assez vertueux pour nous intéresser dans ses malheurs, mais en même temps assez coupable pour absoudre les Dieux qui le punissent», Melchior Folard, Œdipe. Tragédie, Paris, Josse, 1722, p. xi). Diverso il discorso per Houdar de La Motte, autore di un Œdipe (1726) tenuto in maggior considerazione da Calepio, nel quale, rappresentando il protagonista come colpevole per eccesso di ambizione e di fatto autore del proprio destino infausto, tenta di prendere le distanze dall’antecedente sofocleo che gli pare mettere in scena una «fatalité tyrannique» irrappresentabile ad un pubblico cristiano («Je voulais d’abord qu’Œdipe fût coupable; et le sujet, tel que Sophocle nous l’a laissé, m’a toujours paru vicieux par cette fatalité tyrannique qui entraîne un homme dans des malheurs qu’il ne s’est point attirés par sa faute. Une pareille idée ne pourrait que jeter les hommes dans le désespoir; et loin qu’il fût raisonnable de leur insinuer cette erreur, il aurait fallu leur cacher à jamais une si triste vérité, si nous étions assez malheureux, pour que c’en fût une», Antoine Houdar de La Motte, «Quatrième discours à l’occasion de la tragédie d’Œdipe», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 669).
Per una riflessione sulla figura di Edipo nella tragedia francese del Sei-Settecento cfr. Christian Biet, Œdipe en monarchie: tragédie et théorie juridique a l’âge classique, Paris, Klincksieck, 1994; Jean-Marie Winkler, «Destin, liberté, nécessité: réécriture d’Œdipe Roi au temps de Voltaire et Goethe», Travaux et documents hispaniques, IV, 2012, pp. 81-90.
[1.2.7] Dopo aver puntualizzato, in risposta alle critiche mosse da Corneille al soggetto di Tieste, che l’azione colpevole da cui scaturisce il destino tragico del protagonista può anche non essere rappresentata sulla scena, purché sia chiaro che tutta la vicenda è dipendente da quell’errore, Calepio prende in esame la giustificazione che dava Dacier della colpevolezza di Edipo. Il grecista francese nel suo commento alla Poetica di Aristotele condannava l’introduzione degli amori di Dirce e Teseo nell’Œdipe di Corneille in quanto guastavano l’unità dell’azione predisposta da Sofocle (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 140) e accusava il drammaturgo di non aver compreso il termine ἁμάρτεμα — anticipando la stessa critica che Calepio muoverà nel Paragone al drammaturgo francese. La colpevolezza di Edipo consta principalmente, per Dacier, dell’incapacità di moderare la collera, ma effettivamente la descrizione che egli offre del re tebano per suffragare la sua mediocrità e la conseguente ottemperanza ai dettami aristotelici figura Edipo come un violento e un orgoglioso, imprudente e temerario («Sophocle lui [Œdipe] a donné partout des mœurs si conformes à cette action, et qui répondent si parfaitement aux règles d’Aristote, qu’on voit partout un homme qui n’est ni bon ni méchant, et qui est mêlé de vertus et de vices; ses vices sont l’orgueil, la violence et l’emportement, la témérité et l’imprudence», ivi, p. 184). Questo gravame di vizi che Dacier accolla ad Edipo per affrancarlo dalla taccia di innocenza che gli imputava Corneille anziché scusare Sofocle, agli occhi di Calepio, lo rende reo di aver rappresentato un eroe malvagio per consuetudine. Il bergamasco invece, considerando Edipo un uomo che «fece un temerario risentimento d’un lieve affronto, trucidando quattro persone», sottolinea come la cultura greca contemplasse la possibilità che anche una colpa involontaria contaminasse l’intera città. Di conseguenza viene condannata l’opinione di Terrasson che segnalava come, nello stimolare il terrore, le tragedie potessero risultare assai perniciose, allegando l’esempio dell’Edipo Re di Sofocle, nel quale sarebbe illustrata la l’impossibilità di fuggire da una colpa ineluttabilmente assegnata dal fato, evocando pericolose convergenze con il pensiero protestante sul rapporto tra predestinazione e libero arbitrio («il y a très-peu de cas où la compassion en particulier soit vitieuse et où il faille la purger: il n’en est pas tout-à-fait ainsi de la terreur, et celle par exemple qu’excite l’Edipe de Sophocle est pernicieuse, parce qu’elle porte les Spectateurs à regarder comme inévitables les crimes ausquels plusieurs Payens croyoient que les hommes avoient été destinez par les Dieux», Jean Terrasson, Dissertation critique sur l’Iliade d’Homere, où à l’occasion de ce Poëme on cherche les regles d’une Poëtique fondée sur la raison, et sur les exemples des Anciens et des Modernes, par Monsieur l’Abbé Terrasson, de l’Academie Royale des Sciences, Paris, Fournier-Coustelier, 1715, t. I, p. 175). La contestazione della validità delle letture di coloro che vedevano in Edipo un innocente ingiustamente punito, e il tentativo di bilanciare virtù e vizi del protagonista della tragedia sofoclea sono funzionali, per Calepio, a legittimare la validità di una tragedia incentrata sull’eroe di virtù mediocre e finalizzata a purgare le passioni e non a destare ammirazione.
[1.2.8] Calepio procede ad un sondaggio sulla presenza nelle tragedie greche di protagonisti conformi ai dettami della Poetica. Fra le tragedie di Eschilo, ritenute generalmente rispettose della norma aristotelica, il Prometeo incatenato, i Persiani e le Eumenidi sono ritenute precisamente aderenti alla raccomandazione di Aristotele circa lo statuto dell’eroe tragico e la sua capacità di dar luogo alla purgazione. Prometeo è infatti un personaggio che genera compassione in quanto, disubbidendo indisciplinatamente a Zeus, si macchia di una colpa comune al genere umano che egli favorisce attraverso il dono del fuoco rubato e per questo furto viene aspramente punito, provocando nel pubblico anche il terrore della crudele punizione. L’appunto che Calepio muove alla tragedia in questione è legato al fatto che in essa non vi sia rappresentata la caduta dalla fortuna alla miseria — tratto che renderebbe perfettamente esemplare il soggetto —, ma soltanto lo stato di cattività forzata di Prometeo, incatenato fin dalla prima scena. Nei Persiani, dove invece la catastrofe non è presente fin dalla prima scena — per quanto il racconto iniziale dell’incubo della regina carichi già dall’esordio l’atmosfera di presagi funesti —, Serse pecca a causa dell’impeto giovanile che lo spinge ad avventurarsi in un’impresa che non ha le forze di sostenere. Il protagonista, macchiandosi di una colpa così comune fra gli uomini, risulta anche in questo caso efficace nel destare sia la compassione che il terrore. Il terzo esempio proposto è quello di Oreste nelle Eumenidi; questi, tormentato dalle Erinni dopo aver compiuto l’assassinio della madre commissionatogli da Apollo, risulta agli occhi di Calepio un uomo generalmente virtuoso, che pecca per paura delle ripercussioni che avrebbe comportato la mancata obbedienza all’oracolo di Delfi; di questa stessa opinione si mostrava il Dacier, il quale considerava Oreste un personaggio che si macchia del terzo tipo di colpa contemplata da Aristotele: non è imprudente come Edipo, né si lascia vincere da una passione troppo forte come Tieste, ma pecca a causa di «une force majeure et exterieure, pour executer des ordres ausquels on n’a pû ni dû desobeïr» (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 183). Peraltro già Tasso nel suo Discorso sopra il poema eroico aveva stimato Oreste, assieme ad Elettra e Giocasta, come un personaggio tragico esemplari per la sua mediocrità (Torquato Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964, pp. 102-103). Al contrario, nei Discorsi del vicentino Niccolò Rossi, Oreste veniva considerato un personaggio radicalmente buono e le Eumenidi una tragedia doppia in cui alle persone buone era destinata una fine felice e alle cattive una infelice (Nicolò Rossi, Discorsi intorno alla tragedia, Vicenza, Greco, 1590, pp. 15v-20r).
Sulla fortuna di Eschilo nel Settecento, misurata sulla base delle traduzioni delle tragedie del drammaturgo greco cfr. Ettore Garioni, «Le traduzioni dei tragici greci nel Settecento italiano. La “riscoperta” di Euripide e la fortuna dell’Ecuba», Comunicazioni sociali, II, 2, 2004, pp. 184-259: 197-203. In generale, sul Fortleben delle tragedie di Eschilo nel Rinascimento si veda: Monique Mund-Dopchie, La Survie d’Eschyle à la Renaissance: éditions, traductions, commentaires et imitations, Louvain, Peeters, 1984.
[1.2.9] Gli eroi di alcune tragedie eschilee non soddisfano invece a pieno le caratteristiche del perfetto protagonista illustrate da Aristotele e condivise da Calepio, ma sono comunque funzionali ad ottenere la purgazione del pubblico. È questo il caso dell’Agamennone, nel quale il protagonista, sebbene appaia a Calepio senza macchia, sconterebbe in realtà le colpe del padre Atreo. Il bergamasco segue anche in questo caso la lettura di Dacier che nominava Agamennone tra i protagonisti migliori delle tragedie antiche, considerandolo più buono che cattivo (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 188). Entrambi tuttavia tacciono il sacrificio di Ifigenia che in realtà costituisce il vero motore dell’azione, in quanto Clitemnestra uccide il marito proprio per vendicare questo delitto.
Anche nei Sette contro Tebe i personaggi rispondono parzialmente alle caratteristiche necessarie alla messa in scena degli eroi tragici, dal momento che la loro disGrazia è fatta derivare dal mancato rispetto dell’oracolo di Apollo da parte del nonno Laio. Come nel caso dell’Edipo Re Calepio rifiuta di riconoscere una tragedia politica nell’antecedente greco, vedendo piuttosto agire nelle trame di Eschilo il concetto di ereditarietà della colpa che di fatto è alla base del ciclo tebano.
L’argomentazione di Calepio circa la natura del protagonista nelle tragedie di Eschilo sarà ripresa diligentemente da Francesco Saverio Quadrio, il quale nel suo Della storia e della ragione d’ogni poesia, a partire dal principio che con «ἁμάρτεμα» non si intenda «un semplice error d’intelletto, ma un volontario accidental mancamento», salva, fra le favole di Eschilo, proprio le tre che indicava Calepio, adducendo le medesime ragioni: «Se noi gli occhi gitteremo primieramente sopra Eschilo, troveremo, che tre per lo manco di sue Tragedie hanno il Protagonista, che immediatamente produrre può l’effetto, dalla Tragedia per fine inteso, di purgar con le calamità, incontrate per fallo scusabile, le passioni dell’animo. Tale è la Favole delle Eumenidi, nella quale è rappresentato Oreste punito, perché uccisore della madre Clitemnestra, e di Egisto; ma nondimeno di scusa degno, e di compatimento, per li mali minacciatigli dall’oracolo di Lossia, se non vendicava la morte del padre, e per l’altre miserie, a cui soggiaceva, per cagion della madre stessa. Tale è quella de’ Persiani, in cui Serse si rappresenta caduto in calamità per avere, spinto da giovanile ardire di soggiogar l’Ellesponto, come espone l’Ombra di Dario, seguito il consiglio degli Amici, e intrapresa contra i Greci la Guerra. Tale è altresì quella di Prometeo, nella quale questi si scorge punito d’una colpa compatibile da tutto il genere umano, che fu da esso beneficato; ancorché sia quella Tragedia difettuosa per altri capi» (Francesco Saverio Quadrio, Della storia, e della ragione di ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 241).
[1.2.10] Calepio rinnova il diffuso giudizio secondo cui Euripide era ritenuto inferiore rispetto ai due grandi tragici che lo avevano preceduto in quanto meno rispettoso delle regole prescritte nella Poetica, benché spesso considerato maggiormente capace di destare emozioni più vive («Qui più che altrove s’ha da mettere in opera la grand’Arte di svegliar gli affetti; nel che parmi, ch’Euripide sia superiore a gli altri antichi Tragici», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 589). Quanto alla qualità del personaggio principale, il bergamasco salva soltanto l’Oreste, l’Ippolito e lo Ione, senza soffermarsi sulle caratteristiche dei protagonisti euripidei, che tuttavia non paiono sempre soddisfare le caratteristiche richieste da Aristotele: Oreste è infatti un uomo sempre in bilico tra pazzia e lucidità che, una volta rinsavito, persevera nel delitto rapendo Ermione per vendicarsi di Menelao; Creusa potrebbe essere considerata un personaggio mediocre all’inizio della vicenda, quando, ingravidata suo malgrado da Apollo, abbandona il figlioletto in una grotta per evitare che il marito Xuto lo venga a sapere. Ma quando progetta di uccidere quello stesso figlio, Ione, non riconoscendolo, per evitare che Xuto lasci il trono ad un ragazzo che non proviene dal suo grembo, appare piuttosto mossa da un’ambizione che sfocia nella malvagità. D’altra parte lo Ione era lodato per l’intreccio ammirevole dallo stesso Dacier, che pure non risparmiava critiche alla mancata osservanza di molte altre regole aristoteliche (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 211).
Secondo Calepio nell’Ippolito, approvato da questo punto di vista anche da Dacier (ivi, p. 188), è più facile scorgere un personaggio abitualmente virtuoso caduto in disGrazia che genera compassione e terrore, in quanto egli si mostra troppo vanagloriosamente orgoglioso della propria virginità, tanto da suscitare le ire di Venere che mette così in moto il meccanismo tragico.Viene poi citata anche l’Andromaca, probabilmente confusa almeno in parte con l’Andromaque di Racine. La moglie di Ettore viene infatti ritenuta un personaggio valido in quanto accetta empiamente di sposare il figlio di Achille, Neottolemo — Pirro nella versione raciniana. Tuttavia nel dramma euripideo Andromaca rimane sempre schiava del re acheo senza che si parli di nozze, e la vicenda ruota attorno alla gelosia di Ermione e alle macchinazioni di Oreste; all’opposto nella tragedia di Racine Andromaca accetta la proposta di matrimonio che le rivolge Pirro verso la fine della vicenda, macchiandosi della colpa che Calepio attribuisce al personaggio euripideo.
In merito alla natura dei protagonisti delle tragedie di Euripide diversa era la posizione espressa nella sua Rinovazione dell’antica Tragedia da Tarquinio Galluzzi, sostenitore della tragedia del martire cristiano e difensore di Bernardino Stefonio. Il Galluzzi contestava lo statuto mezzano degli eroi euripidei, con particolare riferimento all’Oreste, in cui l’eroe eponimo sarebbe inescusabile e non mezzano in quanto matricida, e all’Ippolito, che invece presenterebbe un protagonista innocente. A suo parere Aristotele avrebbe prescritto con la sua regola del personaggio mezzano una tragedia diversa da quella fino ad allora praticata (Tarquinio Galluzzi, Rinovazione dell’antica Tragedia e difesa del Crispo. Discorsi del p. Tarquinio Galluzzi, Roma, Stamperia Vaticana, 1633, pp. 53-56).
Se nel Seicento — soprattutto in ambito gesuitico — Euripide veniva quindi considerato un radicale avversario di Aristotele, maestro per una tragedia che ne ignorava le regole per riuscire più utile, il recupero settecentesco del drammaturgo greco è spesso legato ad una sua consonanza con i dettami aristotelici, o per lo meno al rispetto del fine della tragedia statuito nella Poetica: secondo Michelangelo Carmeli, traduttore delle Tragedie di Euripide tra il 1743 e il 1753, asseriva che i drammi euripidei riuscivano più degli altri a generare compassione e timore e dovevano quindi, sulla base della stessa opera di Aristotele, essere considerati i migliori (Michelangelo Carmeli, Tragedie di Euripide intere XIX. Frammenti ed epistole, greco-italiane in versi. Opera del P. Carmeli, accademico di Padova, Padova, Nella Stamperia del Seminario, 1743, pp. xxxvii-xil).
Da segnalare è ancora una volta la ripresa puntuale da parte del Quadrio che riproduce apertamente il punto di vista calepiano: «Euripide ha usata più libertà, e men che gli altri, nell’invenzione delle sue favole ha posto a questa regola mente. L’Ione, l’Oreste, e l’Ippolito, son quelle sole, che abbiano questa qualità nel protagonista richiesta» (Francesco Saverio Quadrio, Della storia, e della ragione di ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 241).
Sulla diffusione delle tragedie euripidee già nel Cinquecento si rimanda ad Agostino Perusi, «Il ritorno alle fonti del teatro greco classico: Euripide nell’Umanesimo e nel Rinascimento», Byzantion, XXXIII, 1963, pp. 391-426. Sulla fortuna settecentesca del drammaturgo in Italia si rimanda ancora ad Ettore Garioni, «Le traduzioni dei tragici greci nel Settecento italiano. La “riscoperta” di Euripide e la fortuna dell’Ecuba», Comunicazioni sociali, II, 2, 2004, pp. 184-259.
[1.2.11] A partire dalla pubblicazione della Phèdre di Racine si profilano immediatamente dei paralleli tra l’opera del francese e la tragedia di Euripide, peraltro stimolati dalla stessa Préface del drammaturgo francese. In questa sede Racine aveva lodato la scelta euripidea del soggetto, dal momento che esso possiede tutte le caratteristiche richieste da Aristotele, presentando un eroe come Fedra, «ni tout coupable, ni tout-à-fait innocente», in quanto la passione illegittima è mossa in lei dagli dei, ma viene assecondata colpevolmente (Jean Racine, Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 817). L’allusione di Calepio va in questo caso probabilmente alla anonima Dissertation sur les tragédies de Phèdre et Hippolyte, pubblicata nel 1677, in cui l’autore accusava Racine — l’intento di questo scritto non era certo quello di «accrescere la gloria» della Fedra moderna — di aver contaminato l’innocenza di Ippolito, a suo parere testimoniata da una plurisecolare tradizione letteraria. Il bergamasco sottolinea in questo caso la causa originaria della punizione attribuita da Venere a Ippolito, scostandosi dall’opinione dell’anonimo autore, che veniva comunque stigmatizzata già da Adrien Baillet (Jugements des savans sur les principaux ouvrages des auteurs, t. V, Paris, 1722, p. 444) e poi da Brumoy («Reflexions sur l’Hyppolite d’Euripide, et sur la Phedre de Racine», in Id., Le Théâtre des Grecs, t. I, Paris, Rollin, Coignard et Rollin fils, 1730, pp. 383-390), propenso a riconoscere la superiorità della Phèdre di Racine, ottenuta grazie alle due innovazioni già annunciate dall’autore nella Préface, ossia l’introduzione di un amante per Ippolito e l’assenza dell’accusa esplicita da parte di Fedra che ne avrebbe inquinato la nobiltà.
[1.2.12] In apertura di capo Calepio specificava che il protagonista della tragedia doveva generalmente essere una «persona virtuosa, o non mal costumata, che per qualche umano trasporto di felicità cada in miseria», ma contemplava anche, a dispetto di Aristotele, la possibilità di mettere in scena un uomo di gran virtù, purché non esente da qualche difetto. Fra le tragedie di Euripide egli ne scorge molte di questa seconda natura — forse allude ad opere quali l’Alcesti, l’Ifigenia in Aulide, o l’Ifigenia in Tauride, ma non si può dirlo con certezza —, e non manca di sottolineare come ve ne siano alcune che, anziché suscitare pietà e terrore, si limitano ad illustrare la caduta da uno stato di felicità ad uno di infelicità con l’intento esclusivo di ammonire gli uomini affinché non si inorgogliscano perché un tale mutamento di stato non sarebbe improbabile.
[1.2.13] Le tragedie esemplari dal punto di vista del protagonista rimangono anche per Calepio quelle sofoclee, a partire dall’Edipo Re, di cui il bergamasco ha già discusso. Fra i personaggi migliori in questa prospettiva egli elenca Aiace, condottiero onorevole e giusto che si spinge, accecato dall’ira, a commettere un delitto; Deianira, la quale nelle Trachinie si configura come una sposa ardentemente innamorata del marito, incauta nel mandare ad Eracle una tunica regalatale dall’infido Nesso; ed infine Antigone, rispettosa dei vincoli familiari al punto da sfidare la legge di Creonte pur di donare sepoltura al fratello Polinice. In questo caso viene biasimata la posizione di Terrasson, il quale aveva sostenuto che Antigone fosse un personaggio assolutamente virtuoso, legittimata ad opporsi al tirannico editto di Creonte per motivi religiosi (Jean Terrasson, Dissertation critique sur l’Iliade d’Homere, cit. t. II, p. 196). Calepio è invece convinto della mediocrità del personaggio di Antigone, troppo rigida nel perseverare con il suo progetto, nonostante il pericolo di morte.
L’Elettra — e di conseguenza le Coefore di Eschilo, che trattavano il medesimo soggetto — risulta invece debole agli occhi di Calepio, in quanto mette in scena una di quelle tragedie che Aristotele definiva «doppie», poiché prevedevano un doppio esito, felice per i buoni e nefasto per i cattivi, in contrapposizione a quelle «semplici» come l’Edipo Re, considerate migliori dal filosofo greco. Calepio condanna anche in questo caso un modello drammaturgico che si discosta da quello del protagonista mezzano, reputando distanti dal vero fine tragico quelle tragedie che mirano soltanto a mostrare premiati gli oppressi (Elettra) e puniti i malvagi (Clitemnestra ed Egisto).
L’Edipo Re e l’Elettra di Sofocle erano state considerate da Dacier, il quale aveva pubblicato nel 1692 una traduzione di entrambe le pièces, i prototipi perfetti rispettivamente della tragedia semplice e di quella doppia. Nella Préface alla sua versione il classicista francese aveva scritto che l’obiettivo di Sofocle era di far vedere che, benché gli Dei differissero talvolta la punizione dei malvagi, questi ultimi erano comunque destinati ad incontrare la vendetta della giustizia divina ([André Dacier], L’Œdipe et l’Electre de Sophocle. Tragedies grecques. Traduites en François avec des Remarques, Paris, Barbin, 1692, pp. 252-253). Calepio si mostra d’accordo con questa lettura, benché non ritrovi, come invece fa il Francese («on n’instruit pas moins les hommes en leur remettant devant les yeux les choses qu’il faut fuir, qu’en leur montrant celles qu’il faut suivre», ivi, p. 252), alcuna utilità morale nella tipologia delle tragedie doppie, alla quale venivano ascritti molti drammi di Corneille. Brumoy, al contrario, nel suo Théâtre des Grecs confutava il giudizio aristotelico considerando l’Elettra una tragedia molto confacente al gusto del pubblico proprio perché, a differenza dell’Edipo, apparteneva a quel tipo di drammi che non si concludevano con una catastrofe occorsa al protagonista (Brumoy, Le Théâtre des Grecs, t. I, Paris, Rollin, Coignard et Rollin fils, 1730, pp. 195-196). Nel dibattito sulla concessione della preferenza all’Edipo oppure all’Elettra si intravede chiaramente il riflesso delle discussioni intorno alla tragedia corneilliana. Infine Calepio disapprova anche il Filottete, già citato da Dacier come esempio dell’eccentricità di alcune tragedie di Sofocle rispetto al modello edipico (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 190).
Sulla fortuna italiana della tragedia sofoclea in epoca moderna si rimanda al contributo di Elie Borza, Sophocles redivivus: la survie de Sophocle en Italie au debut du xvie siècle. Éditions grecques, traductions latines et vernaculaires, Bari, Levante, 2007.
Articolo III.
[1.3.1] Nella trattazione di Calepio la tragedia italiana si configura fin dall’esordio come più regolare e maggiormente rispettosa dei dettami poetici classici. In questo terzo articolo il bergamasco sonda a tal proposito la perizia delle tragedie italiane nell’impiego di protagonisti atti a suscitare pietà e terrore, menzionando come primo esempio di ottimo dramma la Sofonisba di Trissino, definita da Voltaire la prima tragedia regolare della modernità. Il soggetto, tratto da Livio, è imperniato sulla vicenda della principessa cartaginese figlia di Asdrubale, concessa in sposa al re numida Siface, in cambio di un’alleanza contro i romani che tuttavia non riesce ad impedire la rapida avanzata dell’esercito guidato da Lucio Cornelio Scipione. Una volta imprigionato Siface, Sofonisba si rinchiude nel palazzo di Cirta chiedendo a Massinissa, alleato africano dei romani, di non consegnarla nelle mani degli acerrimi rivali, per non subire l’umiliazione della schiavitù. Massinissa, segretamente innamorato della donna, acconsente alla richiesta e decide di sposarsi immantinente con Sofonisba, provocando la rabbia di Scipione, deciso a catturare gli amanti. Prima dell’ingresso dei romani nella reggia il nuovo marito concede alla protagonista il veleno con la quale essa si darà la morte. Calepio in poche righe riassume il nucleo centrale della vicenda, individuando in Sofonisba il prototipo del personaggio mezzano adatto ad essere rappresentato nella tragedia. Costei, infatti, sbaglia nel cedere alle seconde nozze con Massinissa, mentre è ancora in atto il matrimonio con Siface, ma lo fa soltanto per evitare di essere condotta a Roma come schiava: la sua colpa è quindi mitigata da questa scusante, che garantisce alla protagonista uno statuto commiserevole.
Lo stesso Trissino, d’altra parte, ne La quinta e la sesta divisione della Poetica, proponeva una lettura molto ortodossa del passaggio della Poetica di Aristotele riguardante il fine catartico della tragedia: «Essa Tragedia non per enuntiatione, ma per misericordia, e per tema purga ne i spettatori queste tali perturbationi» (Gian Giorgio Trissino, La quinta e la sesta divisione della Poetica del Trissino, Venezia, Arrivabene, 1563, p. 8r). Tasso, come ha notato Stefano Verdino, sorvola su questa dichiarazione di intenti nelle sue postille, avallando ancora una volta un progetto tragico lontano dal concetto di purgazione così centrale invece per Calepio (Stefano Verdino, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 34-35).
La critica teatrale, fin dal Cinquecento, riconosce la Sofonisba come una delle migliori tragedie italiane, benché venga spesso meno la riflessione in merito alla qualità della protagonista. Ci si limita generalmente a citare semplicemnte l’opera del Trissino — senza altra specificazione — come tragedia esemplare del canone italiano; così fa ad esempio Guarini, annoverando la Sofonisba, con l’Orbecche di Giraldi, la Canace di Speroni, la Merope e il Tancredi di Filippo Asinari, Conte di Camerano, tra le prove più riuscite della drammaturgia patria (Battista Guarini, Il Verrato secondo, in Id., Opere, vol. III, Verona, Tumermani, 1738, pp. 333-334).
Nella storiografia settecentesca non si manca di riconoscere la bontà della tragedia del Trissino, anche se talora se ne palesano alcuni limiti. Crescimbeni la loda fra le più riuscite prove da contrapporre alla drammaturgia francese, assieme alla Tullia del Martelli, all’Orbecche del Giraldi, alla Rosmunda di Rucellai, all’Adriana del Cieco d’Adria, alla Canace dello Speroni, al Torrismondo del Tasso, all’Acripanda di Decio da Horte e al Corradino del Caracci (Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, p. 124).
Gravina, nel Della ragion poetica (II, 20), lodava la Sofonisba, insieme ad alcune altre tragedie cinquecentesche, per la vicinanza agli antecedenti greci («Imperocché le nostre tragedie sono ad imitazione delle greche inventate, ed espresse con simili simplicità di stile, gravità di sentenze, e movimento d’affetti, o miserabili, o atroci, come nelle più principali si può riconoscere, le quali a parer mio sono la Sofonisba del Trissino, la Canace dello Speroni, la Rosmunda del Rucellai, e tra molte altre del Giraldi l’Orbecche, la Tullia del Martelli, il Torrismondo del Tasso» (Gian Vincenzo Gravina, «Della ragion poetica», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Bari, Laterza, 1973, p. 316).
Maffei, nel Teatro Italiano, ne lodava la fattura, pur ammettendo la presenza di alcuni elementi bassi, tipici delle tragedie greche, ma palesemente contrari al senso del decoro settecentesco («Chiunque non abbia, come in molti accade, il gusto del tutto guasto da certe Romanzate straniere, non potrà certamente non sentirsi meravigliosamente commuovere dalle bellezze di questa Tragedia, e da’ passi tenerissimi e singolari, che in essa sono. Certe azioni o detti, che si paiono in personaggi grandi aver talvolta troppo del famigliare, non danno disgusto a chi ha cognizione de’ Tragici Greci, e pratica de’ costumi antichi», Scipione Maffei, Teatro Italiano, o sia scelta di tragedie per la scena, t. I, Verona, Vallarsi, 1723, p. n.n.). Infine, il Riccoboni, nell’Histoire du théâtre italien, loda l’espressione e la peripezia della Sofonisba, considerandola addirittura perfetta, benché non esente da problemi relativi al decoro e alla verosimiglianza («Notre auteur dans la diction de sa Tragedie pense noblement et s’exprime avec douceur: la peripetie y est parfaite, rien de plus triste que la situation de Sophonisbe, lors qu’au second Acte elle se trouve esclave des Romains: rien de plus consolant pour elle que les promesses de Massinisse et son mariage avec lui […]. Selon moi je trouve cette Tragedie parfaite, et si nos Tragiques du seiziéme siécle avoient écrit dans le goût du Trissino, nous n’aurions d’autre peine à présent que de marquer les Scenes et les Actes, comme j’ai fait lorsque j’en ai donné la représentation, et l’Italie auroit succédé heureusement à la Grece», Luigi Riccoboni, Histoire du Theatre Italien, depuis la decadence de la Comedie Latine […] par Louis Riccoboni, dit Lelio, t. II, Paris, Cailleau, 1731, pp. 10-11).
[1.3.2] Oltre alla Sofonisba del Trissino, Calepio considera ottima, per quanto riguarda la natura del protagonista, la Rosmonda del Rucellai. In questa tragedia, di argomento medievale e non più classico — per Calepio evidentemente non è l’aderenza ai modelli greci nella scelta dei soggetti che determina la bontà del dramma —, la protagonista viene catturata mentre vaga nel campo nemico per seppellire il corpo del padre, secondo una riproposizione moderna — e dal finale più truculento — della storia di Antigone. La sua avventatezza è sicuramente una colpa, che si rivela tuttavia degna di molta pietà in quanto la giovane era stata spinta ad addentrarsi fra gli accampamenti longobardi per un motivo religioso assai giusto. Sulla scorta di un’affermazione di Lilio Gregorio Giraldi, il quale, nel suo De poetis nostrorum temporum, notava una manifesta ripresa, da parte del Rucellai, della favola dell’Ecuba di Euripide («Fuit et praeclari ingenii prope haec nostra tempora Io(annes) Oricellarius nobilis Florentinus, cuius tragoedia Rosimunda conscripta legitur, qua fabula manifeste videtur Euripidis aemulator, dum Hecubam illius imitatur», Lilii Gregorii Gyraldi Ferrariensis Dialogi duo de Poetis nostrorum temporum, Firenze, 1551, p. 98), si instaura un primo paragone fra una tragedia antica ed una moderna, risolto tutto a favore dei moderni, in quanto la Rosmonda appare a Calepio molto più «ordinata per lo proprio fine», ossia acconcia a destare pietà e terrore, rispetto all’Ecuba. Probabilmente il bergamasco non vedeva in Ecuba, contro la quale si accanisce in maniera ingiustificata il fato, alcuna colpa tale da giustificare la catastrofe, che invece per Rosmonda è cagionata proprio dall’eccessiva temerarietà della ragazza. Pur considerandola probabilmente meno perfetta rispetto alla Rosmonda, Calepio apprezza anche l’Oreste del Rucellai, tragedia a lieto fine antologizzata dal Maffei nel Teatro Italiano, nella quale il protagonista si vede ancora una volta giustamente punito a causa dell’uccisione della madre adultera e del di lei amante, secondo uno schema interpretativo che il bergamasco aveva già precedentemente proposto per l’Orestea di Eschilo.
Sulla Rosmonda di Rucellai, e più in generale sulla tragedia fiorentina cinquecentesca e sulla ripresa del modello euripideo si vedano: Marzia Pieri, «La Rosmunda del Rucellai e la tragedia fiorentina del Cinquecento», Quaderni di Teatro, II, 7, 1980, pp. 96-113, e Paola Cosentino, Cercando Melpomene: esperimenti tragici nella Firenze del primo Cinquecento, Manziana, Vecchiarelli, 2003.
[1.3.3] Alle tragedie di Giambattista Giraldi Cinzio, ignorato dal Maffei nel suo Teatro Italiano, Calepio riserva molte lodi circa la qualità dell’eroe tragico, celebrando oltre all’Orbecche, considerata la migliore delle prove giraldiane, anche la Didone, gli Antivalomeni e la Cleopatra. Della teoria drammaturgica elaborata dal Giraldi, in molti punti eccentrica e meno fedele ai classici e ad Aristotele rispetto alla variante trissiniana, Calepio apprezza particolarmente l’insistito ricorso al protagonista mezzano, imprescindibile elemento tanto della teoria che della pratica scenica del letterato ferrarese.
Nel suo tentativo di appianare, almeno in parte, le differenze fra tragico e comico, Giraldi sostiene l’idea di una tragedia a lieto fine e preferisce la struttura doppia — con diversa fine per i buoni e per i cattivi — a quella semplice, prediletta da Aristotele. Eppure la sua riflessione teorica affronta continuamente il nodo dell’edificazione attraverso il ricorso ad un personaggio colpevole di qualche errore — benché essenzialmente buono —, in grado di dar luogo nel pubblico ai sentimenti di pietà e terrore. Sia nel Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie che nella polemica con lo Speroni e la sua Canace — i cui protagonisti sono reputati interamente malvagi —, egli rivendica la natura mezzana del protagonista tragico come una delle caratteristiche peculiari del genere letterario in questione. Proprio in virtù di questa speculazione, la qualità dei personaggi delle tragedie giraldiane doveva fatalmente andare a genio a Calepio. Nell’Orbecche egli poteva vedere una donna colpevole di aver voluto seguire il proprio cuore, sposando Oronte, senza mettere a parte del matrimonio il padre, Sulmone, il quale viene a scoprire il fatto soltanto anni dopo, quando decide di concedere la figlia in sposa ad un principe pretendente. Nella Didone scorgeva una principessa che affidava avventatamente se stessa — e soprattutto il proprio regno — ad uno straniero, travolta dalla passione; nella Cleopatra una regina che, «da femminil paura spinta» (I, 1), abbandonava il campo di battaglia, causando la distrazione e la sconfitta dell’amato Marco Antonio. Calepio non apprezza soltanto la natura del protagonista di queste tragedie che finiscono con una catastrofe, ma approva anche due delle pièces giraldiane concluse con un lieto fine, ossia l’Altile, dove la protagonista si macchia, come nel caso dell’Orbecche, della colpa di aver sposato segretamente il proprio amato Norrino, e gli Antivalomeni, in cui i figli di Nicio scontano il prezzo della malvagità del padre, il quale aveva tradito la fiducia del re Loteringo, che in punto di morte gli aveva affidato la figlia in moglie.
Fra le tragedie lodevoli per la mediocrità del protagonista, Calepio cita poi la Canace di Sperone Speroni, dove si raccontano le tristi vicende dei fratelli incestuosi Canace e Macareo. Come accennato, questa tragedia era stata oggetto di una vibrante polemica proprio in merito alla qualità dei personaggi principali, considerati dal Giraldi integralmente «iniqui e scellerati» (Giovan Battista Giraldi, Scritti contro la Canace, Giudizio ed Epistola latina, a cura di Christina Roaf, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982, p. 104), mentre lo Speroni li riteneva invece — e questa è la lettura evidentemente avallata dal Calepio — rei di un peccato di giovinezza, dal momento che erano caduti in un errore comune indotto dal sentimento ardente che provavano l’uno per l’altra (ivi, p. 191).
Viene poi menzionata l’Orazia (1546) di Pietro Aretino, nella quale l’eroe romano, tornato vittorioso dal duello in cui ha ucciso i Curiazi in un duello che aveva determinato la salvezza di Roma, si scontra con l’ostinato dolore della sorella Celia, segretamente innamorata di uno degli avversari. Frustrato dall’afflizione della sorella, egli decide di ucciderla, causando le ire del popolo che indurrà i giudici a condannarlo a morte. Celia risulta in questo caso un personaggio mezzano, in quanto colpevole di aver assecondato un amore che la sua condizione imponeva di rinnegare.
Anche nella Gismonda di Girolamo Razzi, rivisitazione drammaturgica molto fedele della novella boccaciana di Tancredi e Ghismunda (IV, 1), compare un’eroina che si fa trasportare dalla passione amorosa, concedendosi ad un uomo di condizione inferiore a lei e al di fuori del matrimonio. Per l’Elisa del messinese Fabio Closio la colpa della protagonista è invece ancora una volta l’aver convolato a nozze senza il permesso del padre, il quale l’aveva destinata ad un altro matrimonio.
Nel Torrismondo del Tasso il protagonista, inviato dall’amico Germondo a prendere con l’inganno la bella Alvida che quest’ultimo desiderava sposare, tradisce la fiducia del sodale, congiungendosi con la principessa che lo credeva lo sposo a lei destinato. Da questa debolezza scaturisce una catastrofe di immani proporzioni, dal momento che le varie agnizioni presenti nel testo rivelano a Torrismondo che la donna con cui ha giaciuto proditoriamente è in verità sua sorella.
Vengono quindi prese in considerazione le tragedie di Pomponio Torelli, del quale Maffei aveva recentemente ripubblicato la Merope nel Teatro Italiano. Calepio si mostra disposto a riconoscere la maggiore spettacolarità della Merope, adatta ad essere rappresentata con grande concorso di pubblico per la natura del soggetto, risolto da favolose agnizioni, ma rileva una pecca nella costruzione doppia: a Merope e al figlio finalmente riconosciuto è riservato infatti un esito felice, mentre il malvagio tiranno Polifonte va incontro da solo alla catastrofe. Tuttavia il bergamasco, come è stato a più riprese sottolineato, preferisce di gran lunga la più regolare favola semplice, e quindi ritiene in questo senso più apprezzabile il Tancredi, che ancora insiste sul soggetto prescelto da Razzi.
La panoramica sui personaggi della tragedia cinque-seicentesca prosegue con il Nino protagonista della Semiramide di Muzio Manfredi e colpevole di un incesto involontario, e con le ingenue Trasilla e Pirindra, ossia Le gemelle capovane della tragedia di soggetto punico di Ansaldo Cebà, entrambe ingannate sotto promessa di matrimonio da Annibale. Nel Solimano di Prospero Bonarelli l’eroe eponimo crede troppo facilmente alle accuse mosse a tradimento dalla Regina nei confronti del figlio Mustafà, mentre nell’Aristodemo di Carlo de’ Dottori il sovrano dei Messeni destina ad un sacrificio non necessario la figlia Merope, mosso in prima battuta dall’ambizione politica.
In questo primo sondaggio sulla tradizione tragica italiana del Cinque e del Seicento, Calepio dialoga chiaramente con il Maffei, il quale aveva appunto allestito l’antologia del Teatro Italiano (1723-1725) per promuovere la riscoperta delle più valide pièces italiane; se la scelta del veronese era stata tuttavia dettata da motivi più prettamente teatrali — la capacità dei vari drammi di reggere sulla scena di fronte ad un pubblico moderno, anche attraverso alcuni tagli e sfrondamenti —, oppure eruditi — il desiderio di pubblicare tragedie inedite o sconosciute —, nel Calepio emerge in prima battuta l’attenzione alla qualità del protagonista, elemento chiave per innescare quel processo catartico che il bergamasco ritiene fondamentale per la tragedia. Venendo al confronto fra questo primo canone calepiano e quello stilato dal Maffei si dovranno riconoscere alcune differenze: quanto al primo Cinquecento, Calepio non cita l’Edipo tradotto da Orsatto Giustiniani e dà la preminenza alla Rosmonda del Rucellai — che però al Maffei doveva sembrare troppo simile alla Sofonisba — piuttosto che all’Oreste, così come ritiene il Tancredi di Torelli migliore della Merope. I due concordano invece, oltre che sulla tragedia trissiniana, sul Torrismondo, sulla Semiramide di Manfredi, sulle Gemelle capuane di Cebà, sul Solimano di Bonarelli e sull’Aristodemo del Dottori, benché, come si vedrà nel proseguio, l’autore non risparmierà severe critiche a queste stesse opere. Mancano invece, nella rassegna di Calepio, riferimenti all’Astianatte di Bongianni Gratarolo — nel quale il protagonista era un bambino innocente che si suicidava gettandosi dalla rupe piuttosto di soccombere per mano achea, soggetto dunque poco compatibile con l’idea della mediocrità del protagonista — e alla Cleopatra di Giovanni Delfino, autore citato come esemplare da Crescimbeni ma pubblicato solo grazie al Maffei, che Calepio probabilmente conosceva, come dimostrano successivi passaggi del Paragone, anche in virtù della notevole fortuna della tradizione manoscritta di questi testi.
Sarà interessante notare invece, fra le tragedie menzionate da Calepio e non dal veronese, la massiccia presenza delle opere giraldiane, oltre alla Canace dello Speroni, spesso considerata scandalosa a causa dell’intreccio basato sull’incesto, e di altre tragedie semisconosciute come quella del Closio o del Razzi, che rivelano lo sguardo dell’erudito. Se nel sondaggio sul Cinquecento Calepio rivela qualche originalità rispetto al Teatro Italiano, citando per il Seicento Cebà, Bonarelli, Dottori, egli mostra la sua totale dipendenza dalla scelta del veronese.
Sembra interessante rilevare infine anche le somiglianze e le differenze con un altro ipotesto storiografico, conosciuto già dal Maffei prima che da Calepio, ossia il sesto dialogo della Bellezza della volgar poesia di Crescimbeni, che affastella questo sommario elenco di «tragedie nobilissime» da opporre alle dirimpettaie francesi: Sofonisba del Trissino, Tullia del Martelli, Orbecche del Giraldi, Rosmunda del Rucellai, Adriana del Cieco d’Adria, Canace di Speroni, Torrismondo del Tasso, Acripanda del Decio e Corradino di Caraccio (Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, p. 124). Collazionando questo canone, che tiene in giusto conto Giraldi, e una successiva giunta crescimbeniana pubblicata nei Commentari, nel quale si inventariano i titoli di numerose altre tragedie cinquecentesche, fra le quali l’Idalba di Venier e l’Elisa del Closio (Giovan Mario Crescimbeni, L’istoria della volgar poesia, in Id., Dell’istoria della volgar poesia, vol. I, Venezia, Basegio, 1731, pp. 307-310), si può ricostruire un sommario quadro di riferimento per il catalogo calepiano, il quale, tuttavia non si configura tanto come un documento patriottico di critica antifrancese — questo accadeva invece nelle opere critiche di Crescimbeni (cfr. Franco Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, ETS, 2002, p. 43) —, ma assume piuttosto la forma di un sondaggio sulla capacità delle prove italiane di destare eleos kai phobos.
Sulla riflessione di Giraldi in merito alla mezza colpevolezza e in generale sulla teoria drammaturgica del ferrarese cfr. Marco Ariani, Tra classicismo e manierismo: il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974, pp. 115-178; Valentina Gallo, Da Trissino a Giraldi: miti e topica tragica, Manziana, Vecchiarelli, 2005; Maria Maślanka-Soro, «Il tragico nell’Orbecche di Giambattista Giraldi-Cinzio», Romanica Cracoviensia, X, 2010, pp. 174-185; Susanna Villari, «Giraldi e la teoria del personaggio “mezzano” tra drammaturgia e novellistica », Critica Letteraria, CLIX-CLX, 2-3, 2013, pp. 401-425; Rosanna Morace, «La teoria del tragico nel Giraldi (con incursioni nell’epico)», in Il mito, il sacro e la storia nella tragedia e nella riflessione teorica sul tragico, Atti del Convegno di Studi (Salerno, 15-16 Novembre 2012), introduzione di Rosa Giulio, Napoli, Liguori, 2014, pp. 169-185.
Sulla Cleopatra del Delfino si veda Laura Drogheo, «Le varianti della Cleopatra di Giovanni Delfino», in La letteratura degli Italiani 4. I letterati e la scena, Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Paola Pecci, Ester Pietrobon e Franco Tomasi, Roma, Adi editore, 2014; sulla fortuna delle tragedie di Delfino nel Settecento cfr. Ead., «Sulle Tragedie di Giovanni Delfino: le prime edizioni a stampa e una lettera di Metastasio», in Lettere sul teatro: percorsi dell’epistolografia scenica europea tra XVI e XIX secolo, a cura di Roberto Puggioni, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 89-106.
Sulle modalità di composizione ed edizione del Teatro Italiano di Maffei si veda: Stefano Verdino, «Alla ricerca di un canone tragico italiano», in Id., Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 181-229; Valentina Varano, «Il Seicento nel Teatro Italiano di Scipione Maffei», in Miscellanea seicentesca, a cura di Roberto Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2011, pp. 213-250.
[1.3.4] Passando alla contemporaneità, Calepio esamina ora la natura dei protagonisti delle tragedie settecentesche, a partire dalle Tragedie Cinque di Gian Vincenzo Gravina, pubblicate a Napoli nel 1712 su invito di Scipione Maffei, il quale le giudicava, in una lettera al Muratori «troppo belle e troppo lontane dal genio corrente» (Scipione Maffei, Epistolario, a cura di Cesare Garibotto, Milano, Giuffré, 1955, pp. 52-54). Nelle sue tragedie Gravina tenta di restaurare i fasti dell’antica Grecia, recuperando alcuni stilemi tipici della drammaturgia classica, a partire dall’introduzione del Coro, fino alla versificazione stravagante, basata sul massiccio ricorso ai versi sdruccioli. Il suo esperimento fu immediatamente bocciato dai letterati settecenteschi, oggetto di molteplici gustose parodie e di recensioni estremamente negative (cfr. l’introduzione di Enrico Mattioda a Gian Vincenzo Gravina, Servio Tullio, in Tragedie del Settecento, vol. I, a cura di Enrico Mattioda, Modena, Mucchi, 1998, pp. 85-93). Anche Calepio disapprova la soluzione graviniana, accusando il drammaturgo roggianese di aver imitato scioccamente le tragedie greche, riprendendone tanto i pregi quanto i difetti: l’innegabile erudizione del Gravina veniva scalfita dalla scarsissima ispirazione poetica e dall’incapacità di acconciare la propria opera al gusto teatrale moderno, secondo un topos critico che avrà lunga durata e che si ritrova ancora nelle pagine di Giuseppe Urbano Pagani Cesa, il quale infierisce sul divario tra l’erudizione graviniana in fatto di poetica e la sua inettitudine in qualità di poeta: «Ma chi men dovea vaneggiare, e vaneggiò più di tutti, fu l’Aristotile moderno, il Gravina: quell’istesso, che diede per unici esemplari di gusto squisito cinque sue Tragedie […]; delle quali Tragedie non sarà discaro il conoscere almen qualche squarcio, onde restar convinti di un fenomeno (che si dà pur troppo) il quale associa sapere e imbecillità in un sol cervello, nel tempo stesso, in una stessa materia» (Giuseppe Urbano Pagani Cesa, Sovra il teatro tragico italiano, Firenze, Magheri, 1825, pp. 152-153).
Calepio riconosce in particolare un contrasto insanabile fra la riproduzione di elementi logori della tragedia greca, che sfiguravano sulla scena moderna — egli pensa probabilmente al ripristino del Coro, che avrà altrove modo di criticare aspramente —, e la premessa teorica graviniana, affidata al Prologo delle Tragedie, citato a testo al bergamasco, con cui Gravina pretendeva di aver liberato la scrittura tragica, «con Spirito Platonico», dall’opprimente osservanza di poco perspicue norme aristoteliche (di qui la condanna della Tragedia, prosopopea parlante nel prologo, contro «quei che fin’ora il nostro Autor condannano/ sol con le leggi impresse lor nell’animo/ del greco, e del latin dall’ignoranzia,/ e dalla povertà di raziocinio:/ a cui l’autorità sostituiscono/ di quegli Autori, ch’io mando in esilio/ sì con le gonfie, e stolte lor Tragedie,/ come con le contese, e vane critiche/ tratte da false, e pedantesche regole,/ che non s’incontran mai co’ prisci esempi./ E tratte dalle glose d’Aristotile/ che reti, e lacci agl’ingegni tesserono,/ indegne dello Spirito Platonico,/ da cui con volo generoso, e libero/ il novello scrittor delle Tragedie/ portato è fuori del confine etereo», Gian Vincenzo Gravina, «Prologo», in Id., Tragedie Cinque, Napoli, Mosca, 1712, p. n.n.). Questo prologo, di marcato carattere autocelebrativo, non era andato a genio a molti, come testimoniano anche le righe con le quali la pubblicazione delle Tragedie Cinque viene annunciata nel Giornale de’ Letterati, XII, art. xiii, 1712, pp. 421-422.
Ciò che in questa sede in particolare Calepio rimprovera a Gravina, è il perseguimento di una tragedia del martire — quel sapiente di cui è stata ampiamente indagata la figura (cfr. soprattutto Amedeo Quondam, Cultura e ideologia di Gian Vincenzo Gravina, Milano, Mursia, 1968, pp. 311-378) —, che si discosta dall’impianto catartico del dramma con protagonista mezzano. Questa soluzione, sostenuta dal Gravina anche nel successivo trattato Della tragedia, viene trasposta fedelmente nel Palamede, dove l’eroe eponimo è un giusto benefattore del popolo, accusato a tradimento di connivenza col nemico grazie all’intervento congiunto dei rappresentanti del potere politico (Ulisse e Agamennone) e di quello religioso (Calcante); nel Servio Tullio, in cui il probo re di Roma viene ucciso dal perfido e tirannico Tarquinio con l’aiuto della crudele Tullia, figlia degenere di Servio e Tarquinia; nell’Appio Claudio, prima di una folta serie di riprese settecentesche del racconto liviano dell’innocente Virginia, vittima sacrificale delle turpi brame del dispotico magistrato romano; infine nell’Andromeda, nella quale il sapiente Fineo è costretto ad abbandonare l’amata per il bene di tutti (ma su questa complessa tragedia, apparentemente a lieto fine, mi permetto di rimandare al mio «“Or che sta sotto il pericolo/ quanto è dolce la Reina!” Una proposta di lettura dell’Andromeda di Gravina», Atti e memorie dell’Accademia d’Arcadia, n. s., IV, 2015, pp. 155-187). Calepio ravvisa invece nel Papiniano — che pure è scritto secondo il medesimo orientamento delle altre tragedie, dal momento che vede come protagonista un uomo integralmente probo, Papiniano, ingiustamente rovinato dal fratricida Caracalla che questi si era rifiutato di difendere —, le caratteristiche del personaggio mezzano che sconta le conseguenze di un proprio errore, ossia la dissimulazione. Nonostante lo sforzo calepiano di ritrovare ovunque possa l’idea di tragedia che egli considera perfetta, certamente Gravina non voleva rappresentare con Papiniano un uomo per metà colpevole, quanto piuttosto un’altra figura di martire ingiustamente perseguito. Basti qui ricordare per esteso il passaggio del Della tragedia a cui sopra si accennava, circa la qualità dell’eroe tragico perfetto, il cui prototipo sarebbe per Gravina Cristo stesso: «Qual autorità, qual precetto può torre al poeta la facoltà di cogliere il bene, dove l’incontra? Adunque, perché un martire è un personaggio perfetto, e Cristo è la perfezione medesima; non si ha da rappresentare la toleranza d’un uomo divino, e l’infinita virtù dello stesso Dio: e si ha da togliere agli occhi del popolo sì maraviglioso esempio d’imitazione, ed un’immagine di tanto profitto, per compiacere a’ servili seguaci d’Aristotele, che vogliono il protagonista di virtù mediocre?» (Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1971, p. 517). Su questo punto si veda il contributo di Beatrice Alfonzetti, «Voci del tragico nel viceregno austriaco: Gravina, Marchese, Pansuti», Atti e memorie dell’Accademia d’Arcadia, n. s., III, 2014, pp. 209-241: 221-222. Dal canto suo anche il Quadrio, che condivideva la posizione di Calepio circa la qualità del protagonista tragico — dimostrandosi tuttavia, più del bergamasco, un estimatore delle tragedie con eroi innocenti —, aveva rimproverato il Gravina per l’introduzione di personaggi abietti e radicalmente malvagi, incapaci di destare pietà e terrore (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 228).
Sulla tragedia di Gravina, oltre all’imprescindibile volume di Amedeo Quondam, Cultura e ideologia di Gian Vincenzo Gravina, Milano, Mursia, 1968; si vedano anche: Paola Luciani, «La passione sapiente: le Tragedie Cinque di Vincenzo Gravina», in Ead., Le passioni e gli affetti: studi sul teatro tragico del Settecento, Ospitaletto, Pacini, 1999, pp. 11-70; Camilla Guaita, Per una nuova estetica del teatro: l’Arcadia di Gravina e Crescimbeni, Roma, Bulzoni, 2009; Enrico Zucchi, «Tirannide e stato di natura: sul rifiuto dell’assolutismo giusnaturalista nelle Tragedie Cinque di Gian Vincenzo Gravina», in Prima e dopo il Leviatano, a cura di Merio Scattola e Paolo Scotton, Padova, Cleup, 2014, pp. 193-226.
[1.3.5] Neppure le tragedie di Pier Jacopo Martello convincono Calepio sotto il profilo dei protagonisti messi in scena. Anche il Martello, autore di numerose tragedie religiose, nonché grande ammiratore del teatro di Corneille e di Racine — egli era stato a sua volta traduttore di tragedie francesi e membro rilevante della cerchia felsinea-modenese che si era adoperata alla trasposizione di questi drammi sulla scena italiana tra Sei e Settecento —, considerava plausibile la tragedia del martire, benché non facilmente rappresentabile, in quanto gli sembrava molto difficile sceneggiare la complessa natura del sentimento divino (cfr. in proposito Ilaria Magnani Campanacci, Un Bolognese nella Repubblica delle Lettere: Pier Jacopo Martello, Modena, Mucchi, 1994, pp. 202-206). Il Procolo, citato da Calepio, è il risultato ambiguo di un doppio movimento: da una parte il Martello sentiva il fascino della figura del martire, mostrandosi propenso a raccontare la storia di un santo emiliano, Procolo, vissuto al tempo di Diocleziano; dall’altra esprimeva alcune riserve nei confronti di un meccanismo tragico che avesse al proprio centro la raffigurazione di un eroe senza macchia, scegliendo di raccontare la storia di un martire «mosso da zelo non men Cristiano, che Cittadino» (Pier Jacopo Martello, Procolo, in Id., Teatro, vol. II, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1981, p. 367), intento ad uccidere un tiranno che vessava la sua città. Di qui un risultato appunto ambiguo, che Calepio non manca di registrare.
Calepio cita successivamente due tragedie come il Cicerone e I Taimingi, nei cui proemi l’autore aveva riflettuto proprio sulla natura mediocre dei protagonisti. Il Cicerone rappresenta le vicende di un uomo che «fra mille virtuti, delle quali ha lasciato al mondo memoria, scoperse anche qualche vizio, che mescolato con esse ci mette avanti un uomo di mezzana bontà, quale per l’appunto si vuole a muovere negli uditori il terrore, e la compassione di sue non meritate sciagure» (Pier Jacopo Martello, Il M. Tullio Cicerone, in Id., Teatro, vol. III, cit., p. 3). Nel Proemio de I Taimingi, tragedia sulla fine di una potente famiglia reale cinese sceneggiata sulla scorta dei libri di viaggio gesuitici, Martello sottolinea che «il protagonista di questa tragedia è composto di una intera famiglia, onde è bisognato formare tutti i caratteri de’ Taimingi di una mezzana bontà, lo che non è riuscito di poca briga, per isfuggire l’odiosa uniformità de’ costumi, mercè dell’immaginare virtù e vizi diversi, su’ quali si potesse stabilire la ricercata mezzanità» (Pier Jacopo Martello, I Taimingi, in Id., Teatro, vol. II, cit., p. 687). Infine, nel Quinto Fabio, viene messa in scena la storia del maestro di cavalieri Quinto Fabio Rutiliano, il quale, contravvenendo all’ordine del dittatore Lucio Papirio, si scaglia alla guida del proprio esercito contro i Sanniti, ottenendo una vittoria esaltante, non senza incorrere nell’ira invidiosa del magistrato. Di questa tragedia, benché a lieto fine, viene lodato il protagonista, il quale pecca per uno scusabile eccesso di foga e di coraggio tipico della gioventù.
Sul Procolo si veda il contributo di Ilaria Magnani Campanacci, «Il Procolo di Pier Jacopo Martello fra dramma gesuitico e “tragédie chrétienne” (Dal Polyeucte al Procolo: la crisi di una forma)», Studi e problemi di critica testuale, XXXIII, 1986, pp. 55-96. Sulle perplessità di Martello in merito alla tragedia del martire si sofferma Paola Luciani, Le passioni e gli affetti: studi sul teatro tragico del Settecento, Pisa, Pacini, 1999, p. 78-79.
[1.3.6] Se Calepio citava poche tragedie seicentesche come esemplari per lo statuto mediocre del protagonista, sono numerose le opere settecentesche — comprendendo fra queste anche la tragedia dell’arcade Caraccio, pubblicata nel 1694 — che soddisfano tale criterio. L’elenco è appunto inaugurato dal Corradino di Antonio Caraccio, tragedia considerata a più riprese da Crescimbeni il prototipo della rinnovata e purgata drammaturgia moderna (Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, p. 2; Id., Commentarj del Canonico Gio. Mario Crescimbeni custode d’Arcadia, intorno alla sua Istoria della volgar poesia, vol. I, Roma, De’ Rossi, 1702, p. 33). Il Corradino è una tragedia ambientata nel Regno di Napoli durante le guerre tra ghibellini, rappresentati da Corradino, discendente diretto di Federico II di Svevia, e guelfi, capeggiati da Carlo d’Angiò, investito del titolo di Re di Napoli. Il personaggio che muove pietà e terrore è in questo caso Beatrice, già moglie di Enrico, primogenito di Federico II, ed ora sposa di Carlo d’Angiò. Come spiega l’ombra di Federico nel Prologo, gli dei infernali mirano a rinfocolare nel cuore di Beatrice l’antico odio contro la casata sveva, in modo che questa convinca Carlo, che detiene Corradino prigioniero in una torre, a sciogliere i patti ai quali era venuto con i reali tedeschi e a dare la morte a tradimento al giovane rampollo.
Del napoletano Annibale Marchese non vengono citati il Crispo — soggetto caro al teatro gesuitico — né le Tragedie Sacre, costruite attorno alla figura del martire, ma ovviamente la Polissena (1715), nella quale la protagonista compie il fatale errore di innamorarsi del nemico Pirro, al quale verrà richiesto dal fantasma del padre di troncare la vita dell’amata.
Viene ritenuto mezzano anche il protagonista dell’Ulisse il giovane (1720), tragedia grecheggiante che aveva goduto di una certa fortuna, tanto editoriale quanto scenica, nel primo Settecento, e che era stata oggetto di feroci critiche da parte di Scipione Maffei, punto sul vivo da uno scritto postumo del Lazzarini che faceva le pulci alla sua Merope. A differenza di Calepio, il veronese giudicava il protagonista dell’Ulisse un innocente ingiustificatamente colpito da una tragedia enorme (su tutto l’episodio, ed in particolare su questa riflessione in merito alla natura del personaggio, cfr. Enrico Zucchi, «L’“irragionevolezza” della Merope nelle Osservazioni di Domenico Lazzarini», in «Mai non mi diero i Dei senza un egual disastro una ventura». La Merope di Scipione Maffei nel terzo centenario (1713-2013), Milano, Mimesis, 2015, pp. 215-234). L’intreccio della tragedia del Lazzarini consta di una fedele riproduzione dell’Edipo Re di Sofocle, in cui il protagonista uccide il proprio figlio e giace con la figlia senza riconoscerli — prima della cupa agnizione finale — per scontare una colpa dell’Ulisse maggiore, antenato del “giovane” che prende parte al dramma. Come già altre volte si è visto, per Calepio il peso di una colpa degli antenati è ragione sufficiente per considerare l’eroe colpevole a metà, di qui la sua risoluzione, nettamente in contrasto con quella del Maffei della Confutazione della critica ultimamente stampata con il titolo di Osservazioni sopra la Merope (Scipione Maffei, La Merope. Tragedia con Annotazioni dell’Autore, e con la Sua Risposta alla Lettera del Sig. di Voltaire. Aggiungesi per altramano la Version Francese del Sig. Freret, e la Inglese del Sig. Ayre, con una Confutazione della Critica ultimamente stampata, Verona, Ramanzini, 1745, pp. 356-376).
La Didone (1718) del bolognese GiamPietro Zanotti ripropone fedelmente i tormenti amorosi della regina virgiliana, come già avveniva per la tragedia di Giraldi approvata da Calepio sotto il profilo del personaggio principale. La Temisto (1728) del padovano Giuseppe Salìo, allievo di Domenico Lazzarini e a sua volta fautore di una drammaturgia grecheggiante, è tratta invece dalle Favole di Igino, e si sofferma sulle vicende di Temisto — sposa in seconde nozze di Atamante — che uccide i propri figli credendoli prole di Ino, prima moglie del re tebano. Salìo parrebbe qui riscrivere, in maniera più ortodossa rispetto al canone classico — quindi ad esempio reintroducendo la catastrofe finale —, quella stessa Merope di Maffei che aveva all’epoca avuto un grande successo, e che, come si è visto, era stata criticata dal Lazzarini. La rassegna è finalmente chiusa dall’Achille in Troja (1728) del veronese Alfonso Montanari, ammiratore del Maffei, incentrata sulla storia di Achille, innamorato della troiana Polissena — e quindi per metà colpevole, in quanto amante di una nemica —, a causa della quale cade ingenuamente in una trappola che lo porterà alla morte. Come si vede l’attenzione di Calepio si sofferma anche su pièces recentissime, in quanto il suo interesse nei confronti della drammaturgia non è tanto di natura archeologica, quanto piuttosto militante e fortemente radicato nella sua passione per la scena contemporanea e nella volontà di intervenire con il suo trattato per ottimizzare la perfettibile scrittura tragica italiana.
In conclusione il bergamasco sottolinea che il giudizio benevolo su queste tragedie recenti è tutt’altro che complessivo e riguarda specificamente le qualità del protagonista. Le tragedie appena citate avrebbero in realtà numerosi difetti, tanto che la Merope del Maffei — che pure, significativamente, non compare nell’elenco in quanto è una favola doppia, nella quale si dimostra «come sia favorita alfin da Dio la virtù, e punita l’usurpazione», secondo quanto scriveva Calepio nella lettera inviata al veronese in seguito alla pubblicazione della recensione del Paragone sulle Osservazioni letterarie (cfr. Laura Sannia Nowé, «La risposta del Calepio alle riflessioni del Maffei sul Paragone della tragica poesia», La Rassegna della letteratura italiana, LXXVI, 1, 1972, pp. 53-70) — riscuoteva a ragione molto più successo delle altre sopracitate. A differenza di Calepio, Sebastiano Paoli, promotore dell’edizione napoletana della Merope del 1719, sottolineava proprio l’ortodossia maffeiana nel riproporre, attraverso il personaggio di Merope, l’autentico carattere del protagonista di mediocre bontà («Rappresentandoci però la Merope, che fa in questa Tragedia le parti di Protagonista; ce la rappresenta virtuosa sì, che destano compassione i suoi amanti, e forza a lagrimare il Teatro nell’Inviluppato de’ suoi inganni: ma mostrasi temperata questa somma virtù colla soverchia passione per la vendetta dell’uccisore, dalla quale fu poi quasi condutta allo spaventoso eccesso di svenare il proprio Figlio. Ebbe l’occhio l’Autore all’insegnamento d’Aristotele, che vuole il Protagonista di bontà mediocre: acciocché rappresentato di bontà somma, non muova, dic’egli, maggiore indignazione contro il destino, che pietà verso dell’infelice; e se di estrema malvagità, non rechi la sua disGrazia diletto, e piacere», Sebastiano Paoli, «Ragionamento del P. Sebastiano Pauli della Congregazione della Madre di Dio sopra la Merope, altre volte stampato sotto nome pastorale di Tedalgo Penejo», in La Merope, tragedia del Signor Marchese Scipione Maffei giusta la prima edizione di Moderna del 1713. Con le varie lezioni, tratte dalle due ultime Edizioni di Verona, insieme con alcune Operette, colle quali si critica, si difende e s’illustra la detta Tragedia, compilate e raccolte per D. Vincenzo Cavallucci perugino, Venezia, Bassaglia, 1747, p. xx).
La puntualizzazione con cui Calepio chiude il paragrafo era dispiaciuta a Giuseppe Salìo, il quale aveva accusato il bergamasco di oscurità e trascuratezza, convinto che la riprovazione espressa si indirizzasse in realtà soltanto contro la sua Temisto, di cui più oltre vengono censurati diversi passaggi: «Qui pertanto mi accade di osservar una cosa, ed è che l’Autore, non distinguendo, quali sieno fra le mentovate Tragedie le debolissime, e che nulla o poco hanno di pregevole, toltone la qualità del Protagonista, né provando ciò con alcuna ragione, non solamente riesce oscuro, lasciando in dubbio chi legge con aggravio di quelli che le meno cattive composero, ma eziandio inutile, non insegnando cosa alcuna a coloro che bramano d’imparare. […] Egli è però vero, che siccome nel decorso del suo Libretto l’Autore, oltre alla scelta del tragico soggetto, va lodando per alcun’altro pregio e il Lazzarini, e ’l Zanotti, e ’l Marchesi, e ’l Montanari, e ’l Caracci; così resto io solo da lui riprovato, come scrittore della più debile e imperfetta tragedia, non facendo egli menzione mai di cosa che in essa di lode sia degna» (Giuseppe Salìo, Esame critico di Giuseppe Salìo padovano, già Segretario perpetuo dell’Accademia de’ Ricovrati, intorno a varie sentenze d’alcuni rinomati scrittori di cose poetiche, e in particolare dell’Autore del Paragone della Poesia Tragica d’Italia con quella di Francia, Padova, Comino, 1738, pp. 174-175). Calepio si giustificava nella Confutazione, pubblicata postuma, ma pronunciata in forma di orazione di fronte agli accademici bergamaschi, asserendo che il suo obiettivo non era quello di esaminare le particolarità delle singole tragedie — e se lo avesse fatto nella Temisto avrebbe trovato moltissimi difetti da criticare —, quanto piuttosto «il trattare delle proprietà comuni si all’Italiana Nazione, che alla Francese» (Pietro Calepio, «Confutazione di molti sentimenti disposti da Giuseppe Salìo nel libro intitolato “Esame Critico…”», in Id., Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, Venezia, Zatta, 1770, pp. 229-231).
Articolo IV.
[1.4.1] Calepio inaugura il quarto articolo del primo capo affermando che la tragedia francese è inferiore rispetto a quella italiana per quanto riguarda la qualità del protagonista, elemento ritenuto essenziale dall’autore per conseguire pietà e terrore, vero obiettivo della composizione tragica. Riprendendo i ragionamenti svolti in margine al Cid di Corneille nel secondo articolo di questo medesimo capo, il bergamasco inizia la propria requisitoria contro il teatro francese, reo di aver trasformato, sotto l’egida di Corneille, la tragedia in un dramma eroico. Questa pecca essenziale procederebbe invero dal tradimento dell’importante prescrizione aristotelica circa la virtù mediocre del protagonista: tanto Corneille quanto Racine avrebbero fallito nel destare sentimenti utili negli spettatori, dal momento che avevano introdotto nelle loro tragedie personaggi impropri o episodi fuorvianti. Come già ricordato dallo stesso Calepio in precedenza, Corneille aveva affermato che la catarsi, se mai doveva compiersi all’interno di una tragedia lo faceva senz’altro nel suo Cid (Paragone I, 2, [3]), nel quale Rodrigue e Chimène figurano come due personaggi di mediocre bontà, caduti in miseria per aver assecondato la propria passione, debolezza umana molto comune («Si la purgation des passions se fait dans la tragédie, je tiens qu’elle se doit faire de la manière que je l’explique; mais je doute si elle s’y fait jamais, et dans celles-là même qui ont les conditions que demande Aristote. Elles se rencontrent dans le Cid, et en ont causé le grand succès. Rodrigue et Chimène y ont cette probité sujette aux passions, et ces passions font leur malheur, puisqu’ils ne sont malheureux qu’autant qu’ils sont passionnés l’un pour l’autre. Ils tombent dans l’infélicité par cette faiblesse humaine dont nous sommes capables comme eux», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, pp. 145-146). Qualche pagina più avanti Corneille citava, oltre al Cid, anche la Théodore come tragedia esemplare per destare pietà e terrore («Pour recueillir ce discours, avant que de passer à une autre matière, établissons pour maxime que la perfection de la tragédie consiste bien à exciter de la pitié et de la crainte par le moyen d’un premier acteur, comme peut faire Rodrigue dans le Cid, et Placide dans Théodore», ivi, p. 149). Calepio, nei successivi paragrafi si impegnerà a dimostrare la falsità di questa opinione.
Dal canto suo Racine mostrava una maggiore considerazione del meccanismo catartico e respingeva le accuse rivolte alla sua Andromaque, nella prima Préface che accompagnava la tragedia, rivendicando il rispetto del dettato aristotelico secondo cui gli eroi tragici non dovevano essere perfetti, bensì mediocri («Et Aristote, bien éloigné de nous demander des héros parfaits, veut au contraire que les personnages tragiques, c’est-à-dire ceux dont le malheur fait la catastrophe de la tragédie, ne soient ni tout à fait bons, ni tout à fait méchants. Il ne veut pas qu’ils soient extrêmement bons, parce que la punition d’un homme de bien exciterait plutôt l’indignation que la pitié du spectateur; ni qu’ils soient méchants avec excès, parce qu’on n’a point pitié d’un scélérat. Il faut donc qu’ils aient une bonté médiocre, c’est-à-dire une vertu capable de faiblesse, et qu’ils tombent dans le malheur par quelque faute qui les fasse plaindre sans les faire détester», Jean Racine, Andromaque, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 260). In questo senso Calepio si dimostra molto più vicino alla posizione di Racine, che avrebbe sottoscritto pienamente, piuttosto che a quella di Corneille.
[1.4.2] Secondo Calepio la vicenda di Rodrigue nel Cid non suscita il timore di incorrere nella medesima sorte del protagonista, il quale agisce deliberatamente uccidendo il padre di Chimène, non tanto perché travolto da una passione irrefrenabile, o perché trasportato da qualche peculiare difetto, ma in quanto desideroso di vendicare il proprio genitore secondo un progetto che mette freddamente in atto. Il duello che ne segue non genera pietà e dà luogo ad un timore che si dirige erroneamente alla sorte di Rodrigue, per cui il pubblico simpatizza. Neppure la storia d’amore tra Rodrigue e Chimène giova a sviluppare il processo catartico, dal momento che l’ascoltatore rimane in balìa di una sterile curiosità che niente ha a che fare con l’utile a cui la tragedia dovrebbe mirare. Il protagonista riesce compassionevole solo in qualità di amante rifiutato, ma questa è ben poca cosa, se confrontata all’obiettivo della tragedia basata sulla catarsi che propone Calepio. Inoltre il lieto ricongiungimento finale degli amanti compromette definitivamente la portata della purgazione, come già il bergamasco aveva sostenuto (Paragone I, 4, [2]).
La premura con cui Calepio condanna la tragedia corneilliana, che avrà appunto modo di definire più avanti «dramma eroico», è vincolata a precise preoccupazioni di ordine morale. La rappresentazione di un eroe perfetto, incline alla santità, vieta qualsiasi possibilità di immedesimazione per lo spettatore, che si interesserà delle vicende dei personaggi soltanto per il gusto di «sapere come va a finire»: il teatro tragico diventerebbe così puro intrattenimento, perdendo la carica etica e formativa garantita dal procedimento di pietosa identificazione con il protagonista, che può avvenire soltanto se questi risulta essere un uomo fallibile, in cui lo spettatore riconosce se stesso; soltanto a quel punto egli potrà provare pietà per la miserevole sorte dell’attore, e paura di cadere a sua volta nelle medesime disgrazie.
Corneille, dal canto suo, nell’Examen del Cid (1660) riconosceva nella sua Chimène una donna tormentata dalle più vigorose passioni, la quale, benché non si attagliasse ai dettami aristotelici, risultava sul teatro molto più convincente di tutti gli eroi di virtù mezzana del passato: «Une maîtresse que son devoir force à poursuivre la mort de son amant, qu’elle tremble d’obtenir, a les passions plus vives et plus allumées, que tout ce qui peut se passer entre un mari et une femme, une mère et un fils, un frère et une sœur; et la haute vertu dans un naturel sensible à ses passions qu’elle dompte sans les affaiblir et à qui elle laisse toute leur force pour en triompher plus glorieusement, a quelque chose de plus touchant, de plus élevé, et de plus aimable que cette médiocre bonté, capable d’une faiblesse et même d’un crime, où nos anciens étaient contraints d’arrêter le caractère le plus parfait des rois et des princes» (Pierre Corneille, «Examen du Cid», in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 700).
Nella contrapposizione fra Corneille e Calepio sono in gioco prospettive differenti, dovute ad una concezione della tragedia affatto diversa: entrambi individuano nello spettatore il vero ed unico destinatario dell’opera teatrale, ma se il bergamasco si cura della sua maturazione etica, al Francese interessa principalmente procurargli un godimento. Sulla critica mossa da Calepio a Corneille rimando per completezza al mio «Il “diletto tragico” e l’“ammirazione accessoria”. In margine alle critiche della tragedia corneilliana mosse nel Paragone di Pietro Calepio», Critica letteraria, XLIV, 170, 2016, pp. 92-112.
[1.4.3] Si passa quindi alla Théodore, in cui secondo Corneille agiva un altro protagonista di bontà mediocre, ossia Placide, figlio del governatore d’Antiochia Valens, e innamorato della vergine cristiana Théodore, la quale gli preferisce però Didyme. Nella pièce Théodore è forzata a rompere il proprio voto di castità a causa di un editto che vieta la permanenza delle giovani in stato verginale per porre riparo al calo di popolazione. Alla ragazza viene data un’alternativa: o sposare Placide, il quale nel frattempo a causa dell’infatuazione per Théodore aveva rotto il fidanzamento con Flavie, oppure la prostituzione; rifiutato il matrimonio, la futura santa è portata in un lupanare, dove viene salvata da Didyme. Entrambi verranno condannati al martirio che viene eseguito senza alcuna pietà da Marcelle, moglie di Valens e madre della tradita Flavie. Placide riveste ancora una volta il ruolo di amante disgraziato, che si mostra incapace di convincere il padre e la matrigna a risparmiare l’amata; nel finale egli compie un gesto estremo, uccidendosi per fare dispetto a Valens, incapace di imporsi con Marcelle per esaudire il desiderio del figlio. Calepio reputa, diversamente da Corneille, molto infelice il personaggio di Placide. Se il drammaturgo francese ne apprezzava la forza e il carattere passionale, l’autore del Paragone ritiene che questi, essendo un attore secondario, non muova a compassione quanto i veri protagonisti del dramma, Teodora e Didimo. Il bergamasco inoltre reputa indecoroso l’ultimo discorso al padre, in cui Placide rivela di essersi ucciso per farlo soffrire, mostrando un carattere sadico e crudele che lo rende scarsamente capace di generare pietà e terrore («Pour ne point violer les droits de la naissance,/ Il fallait que mon bras s’en mît dans l’impuissance:/ C’est par là seulement qu’il s’est pu retenir,/ Et je me suis puni de peur de te punir./ Je te punis pourtant: c’est ton sang que je verse;/ Si tu m’aimes encore, c’est ton sein que je perce;/ Et c’est pour te punir que je viens en ces lieux,/ Pour le moins en mourant te blesser par les yeux», Théodore, V, 9, vv. 1867-1874). Peraltro Calepio non è neppure convinto della bontà della scena finale, in cui la morte di Placide interviene in maniera troppo frettolosa per riuscire davvero patetica.
Una certa improprietà nello sviluppo dei caratteri della tragedia corneilliana era stata notata anche da Pierre Nicole, teologo giansenista fermamente ostile all’arte teatrale, autore di un Traité de la comédie (1667) nel quale veniva censurata in generale la tragedia religiosa ed in particolare la Théodore. Corneille, per rendere vivace la propria composizione, aveva infatti messo in bocca a dei santi discorsi più pertinenti ad eroi dell’antica Roma o ad amanti appassionati (Pierre Nicole, Sulla commedia, a cura di Domenico Bosco, Milano, Bompiani, 2003, p. 104). Diversamente da Calepio, d’Aubignac aveva invece lodato la Théodore proprio per la natura del soggetto, di cui giudicava brillante l’intreccio e ingegnosa la costruzione («La Theodore de Monsieur Corneille par cette même raison n’a pas eu tout le succez ni toute l’approbation qu’elle méritoit. C’est une Piéce dont la constitution est très-ingénieuse, où l’Intrigue est bien conduite et bien variée, où ce que l’Histoire donne, est fort bien manié, où les changemens sont fort judicieux, où les mouvements et les vers sont dignes du nom de l’Auteur», François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, p. 66 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, pp. 156-157]).
[1.4.4] Calepio aveva già mostrato come il soggetto del duello fra Orazi e Curiazi si prestasse a destare pietà e terrore citando l’Orazia dell’Aretino fra le tragedie italiane meglio costruite in quanto a qualità del protagonista (Paragone I, 3, [3]). Tuttavia la versione di Corneille trascura lo sviluppo della vicenda interiore di Orazio, insistendo invece sui dolori di Sabine, innamorata di Orazio e sorella di Curiazio, e di Camille — qui chiamata Cornelia —, sorella di Orazio e amante di Curiazio. Proprio in virtù di questo diverso trattamento della fabula i primi atti, nei quali si rappresentano i tormenti delle due donne, sembrano a Calepio molto più intensi degli ultimi, nei quali la vicenda di Orazio giunge al suo termine. L’Orazia di Aretino, in cui compariva come personaggio femminile soltanto Celia, sorella di Orazio e amante di Curiazio, viene reputata inferiore a quella di Corneille sotto diversi aspetti: presenta passioni meno forti soprattutto negli episodi secondari ed è meno delicata nell’espressione dei sentimenti, eppure risulta migliore agli occhi del bergamasco in quanto la materia tragica è distribuita in maniera molto meno disomogenea e l’attenzione quasi esclusiva data alla vicenda del protagonista rende l’Orazia capace di far nascere pietà e terrore.
Sui rapporti testuali e drammaturgici tra l’Orazia di Aretino e la tragedia di Corneille si veda: Michael Lettieri, «Imitazioni e influenze dell’Orazia dell’Aretino e dell’Horace del Corneille», Romance Languages Annual, II, 1990, pp. 236-242.
[1.4.5] Come già mostrato analizzando le pièces di Sofocle e di Trissino, Calepio considera Edipo e Sofonisba soggetti molto adatti alla scrittura tragica. Tuttavia Corneille non ne avrebbe fatto buon uso, snaturandone l’impianto. Nell’Œdipe infatti Corneille, per evitare di scandalizzare le dame francesi che si recavano a teatro con la sola rappresentazione del crudelissimo fato di quello che considera un héros malheureux, introduce un cospicuo episodio secondario incentrato sull’amore di Thésee e Dircé («Je reconnus que ce qui avait passé pour merveilleux en leurs siècles, pourrait sembler horrible au nôtre; que cette éloquente et sérieuse description de la manière dont ce malheureux prince se crève les yeux, qui occupe tout leur cinquième acte, ferait soulever la délicatesse de nos dames, dont le dégoût attire aisément celui du reste de l’auditoire; et qu’enfin l’amour n’ayant point de part en cette tragédie, elle était dénuée des principaux agréments, qui sont en possession de gagner la voix publique», Pierre Corneille, «Examen de l’Œdipe», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 20).
Secondo Calepio tuttavia l’inserimento di questa sottotrama amorosa rovina la bellezza di una tragedia che già trovava naturalmente nella peripezia e nella serie di agnizioni finali la sua perfezione. Gli amori di Teseo e Dircea occuperebbero uno spazio decisamente eccessivo nella tragedia, tanto da rendere le disavventure di Edipo un episodio dell’intreccio secondario. André Dacier aveva stigmatizzato l’introduzione di questo episodio, considerato inopportuno e inefficace: «Quoyque l’Edipe soit une pièce implexe, et qu’il y eût, par consequent assez de matiére pour n’avoir pas recours à des Episodes étrangers, M. Corneille n’a pas laissé de tomber dans ce défaut, où la sécheresse des sujets simples a quelquefois précipité les Poëtes. L’amour de Thesée et de Dircé est le plus vicieux de tous les Episodes; car non seulement il n’est point partie de l’action; mais il fait seul une action si parfaite et si entiere, que la pièce seroit plus supportable si cet amour étoit l’action principale, et que l’action d’Edipe, ne fût que l’Episode de cette action, c’est pourtant cet amour que M. Corneille appelle un heureux Episode» (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 140).
Anche Voltaire, nei suoi Remarques all’opera di Corneille sottolineava la debolezza di questa tragedia e la scarsa utilità dell’immissione dell’ampio episodio amoroso, che commentava in questi termini: «Rien ne serait plus froid, même dans un sujet galant; à plus forte raison dans le sujet le plus terrible de l’antiquité. Y a-t-il une plus forte preuve de la nécessité où étaient les auteurs d’introduire toujours l’amour dans leurs pièces, que cet épisode de Thésée et de Dircé, dont Corneille même a le malheur de s’applaudire dans son Examen d’Œdipe? Encore si, au lieu d’un amour galant et raisonneur, il eût peint une passion aussi funeste que la désolation où Thèbes était plongée; si cette passion eût été théâtrale, si elle avait été liée au sujet! Mais un amour qui n’est imaginé que pour remplir le vide d’un ouvrage trop long n’est pas supportable» (Voltaire, «Remarques sur Œdipe», in Œdipe. Corneille et Voltaire, textes établis et annotés par Denis Reynaud et Laurent Thirouin, Saint-Etienne, Publication de l’Université de Saint-Étienne, 2004, pp. 212-213).
Il procedimento secondo cui Corneille tenta di distogliere l’attenzione dalla catastrofe di Edipo è dovuto, oltre che al desiderio di accondiscendere ai desideri del pubblico — e di riempire uno spazio drammaturgico che appariva troppo capace per potersi appagare della sola esigua favola greca (cfr. Georges Forestier, Essai de génétique théâtrale: Corneille à l’œuvre, Paris, Klincksieck, 1996, pp. 332-334) —, anche dall’attuazione di un processo di cristianizzazione di un soggetto che poteva apparire a molti blasfemo, se rappresentato in uno stato cristiano. Sui problemi che poneva in questo senso il soggetto di Edipo e sul modo in cui i vari drammaturghi dell’età moderna si confrontano con tali questioni si veda Daniela Dalla Valle, Il mito cristianizzato: Fedra/Ippolito e Edipo nel teatro francese del Seicento, Bern-Berlin, Lang, 2006. Anche d’Aubignac riteneva inadatta la ripresa del soggetto di Edipo nel teatro moderno («Il me semble aussi que M. Corneille devait considérer qu’il mettait son Œdipe sur le Théâtre français, et que ce n’est pas là qu’il faut manifester les grands malheurs des familles royales, quand ils sont mêlés d’actions détestables et honteuses, et que les sujets se trouvent enveloppés dans le châtiment que le Ciel en impose à la Terre», François Hédelin d’Aubignac, Dissertations contre Corneille, edited by Nicholas Hammond and Michael Hawcroft, Exeter, University of Exeter Press, 1995, p. 89). Recentemente la critica ha sottolineato, da una parte, il fatto che la vicenda di Dircé e Thesée costituisce una favola diversa da quella di Edipo, utile a dilatare l’effetto patetico della storia (Marc Escola et Bénédicte Louvat, «Le statut de l’épisode dans la tragédie classique: Œdipe de Corneille ou le complexe de Dircé», XVIIe siècle, L, 1998, pp. 453-470), dall’altra ha letto il personaggio stesso di Dircé in chiave squisitamente politica: Hélène Bilis ha affermato infatti, a partire dall’analisi della retorica di Dircé e di Œdipe, che Dircé rappresenta, nella tragedia corneilliana, la voce dell’assolutismo ortodosso, che difende il principio del diritto di sangue nella successione, contrastando la visione di Edipo, il quale incarna la concezione dell’eroe corneilliano secondo cui il sovrano è tale in quanto dimostra la propria superiorità rispetto ai sudditi per mezzo di azioni eroiche (Hélène E. Bilis, «Corneille’s Œdipe and the Politics of Seventeenth-Century Royal Succession», Modern Language Notes, CXXV, 2010, pp. 873-894).
Sull’aspetto politico del teatro francese seicentesco e sulla delicatezza nella scelta dei soggetti tragici che implicavano la rappresentazione di una monarchia abbattuta cfr. L’Invraisemblance du pouvoir: mises en scène de la souveraineté au xviie siècle, textes réunis par Jean-Vincent Blanchard et Hélène Visentin, Bari-Paris, Schena-Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, 2005; Deborah Blocker, Instituer un «art»: politiques du théâtre dans la France du premier xviie siècle, Paris, H. Champion, 2009. Rispettivamente al sostrato politico della vicenda di Edipo è d’obbligo il rimando a Christian Biet, Œdipe en monarchie: tragédie et théorie juridique à l’âge classique, Paris, Klincksieck, 1994.
[1.4.6] Il carattere di Sofonisba risulta molto vigoroso e virile nella tragedia di Corneille, il quale tenta di differenziare la propria pièce da quelle di Mairet e di Trissino. Lo stesso drammaturgo si mostra pienamente cosciente del carattere virile impresso alla sua eroina, come mostra l’Avertissement au lecteur, in cui ammette: «J’aime mieux qu’on me reproche d’avoir fait mes femmes trop héroïnes, par une ignorante et basse affectation de les faire ressembler aux originaux qui en sont venus jusqu’à nous, que de m’entendre louer d’avoir efféminé mes héros par une docte et sublime complaisance au goût de nos délicats, qui veulent de l’amour partout» (Pierre Corneille, Sophonisbe, in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 384). Anche d’Aubignac aveva rimproverato a Corneille l’eccessiva ed affettata durezza del personaggio di Sophonisbe, donna alla quale veniva attribuita una poca decorosa (e verosimile) abilità oratoria nei discorsi politici («on ne souffre pas volontiers des Femmes faire ainsi les Catons, et l’on souhaiteroit qu’elles fissent un peu plus les Femmes», François Hédelin d’Aubignac, Dissertations contre Corneille, edited by Nicholas Hammond and Michael Hawcroft, Exeter, University of Exeter Press, 1995, p. 10). La critica di Calepio è sostanzialmente concorde a quella del d’Aubignac, sebbene un po’ più articolata. Anch’egli nota nella principessa una severità smisurata che la rende poco capace di attrarre la compassione. Fin dalla prima scena, quando Bocchar va a conferire con Sophonisbe per annunciarle che Syphax sta per concludere la pace imminente e da lui tanto desiderata — in quanto così potrebbe finalmente dismettere i panni bellici e godersi l’unione con Sofonisba —, ella risponde sibillina: «Le Roi m’honore trop d’une amour si parfaite,/ Dites-lui que j’aspire à la paix qu’il souhaite,/ Mais que je le conjure en cet illustre jour/ de penser à sa gloire encore plus qu’à l’amour» (I, 1). Il fatto che la protagonista sia disposta a sacrificare senza scrupoli il marito per tentare di preservare la libertà di Cartagine, a cui Roma offre una pace vantaggiosa, dispiace profondamente al Calepio, il quale nota con disappunto la torsione del soggetto dalla tragedia interiore delle passioni ad una tragedia esclusivamente politica. Non a caso egli esalta l’antecedente trissiniano, dove Sofonisba, pur rimanendo desiderosa di salvare l’autonomia della propria patria, appariva turbata dai sensi di colpa nel tramare alle spalle del marito. Anche Pietro Napoli Signorelli confidava di preferire di gran lunga il personaggio di Sofonisba nella versione trissiniana che in quella di Corneille (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, t. V, Napoli, Orsino, 1813, p. 32).
Sui rapporti di Corneille con le sue fonti e il suo tentativo di comporre una tragedia diversa da quella di Trissino e Mairet cfr. Nina Ekstein, «Sophonisbe’s Seduction: Corneille Writing against Mairet», EMF: Studies in Early Modern France, VIII, 2002, pp. 104-117; Rainer Zaiser, «Corneille héritier de Trissino: Sophonisbe et la naissance de la tragédie moderne», Papers on Seventeenth Century French Literature, XXXV, 68, 2008, pp. 89-102; Charles Mazouer, «Sophonisbe de Trissino à Voltaire», in Contatti, passaggi, metamorfosi: studi di letteratura francese e comparata in onore di Daniela Dalla Valle, a cura di Gabriella Bosco, Monica Pavesio, Laura Rescia, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2010, pp. 81-92. Sulla costruzione dell’eroina corneilliana si rimanda invece a Myriam Dufour-Maître, «“La pompe d’un courroux”. Éclat et mesure des émotions chez les héroïnes tragiques de Corneille», Littératures classiques, LXVIII, 1, 2009, pp. 255-270.
[1.4.7] Le restanti tragedie di Corneille sono ritenute da Calepio ancor più difettose sotto l’aspetto della qualità del protagonista e della capacità di destare pietà e terrore. Corneille avrebbe infatti privilegiato alla costituzione di tragedie pietose, la composizione di drammi politici, oppure di pièces incentrate sulla rappresentazione di eroi straordinari ingiustamente vessati, e i generale si sarebbe impegnato ad introdurre ovunque episodi amorosi per compiacere il gusto del pubblico parigino. Nella Préface del Sertorius, tragedia sulla guerra civile spagnola in epoca romana che Calepio chiama in causa in questo frangente, indicandola come il manifesto della tragedia politica corneilliana, il drammaturgo avvertiva in questi termini il lettore: «Ne cherchez point dans cette tragédie les agréments qui sont en possession de faire réussir au théâtre les poèmes de cette nature; vous n’y trouverez ni tendresses d’amour, ni emportements de passion, ni descriptions pompeuses, ni narrations pathétiques» (Pierre Corneille, Sertorius, in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 309).
Voltaire stesso non aveva lodato la torsione politica del teatro corneilliano, e confessava di riconoscere a stento l’autore del Cid in quel drammaturgo che, rinunciando a muovere le passioni, aveva scritto più che altro dialoghi sulla politica alla maniera di Tacito e Tito Livio («En effet, Sertorius et toutes les pièces suivantes sont plutôt des dialogues sur la politique, et des pensées dans le goût et non dans le style de Tacite, que des pièces du théâtre», Voltaire, Commentaires sur Corneille, t. III, in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 55, critical edition by David Williams, Genève, Institut et Musée Voltaire, 1975, p. 841).
Sulla tragedia politica di Corneille cfr. Georges Couton, Corneille et la tragédie politique, Paris, Presses universitaires de France, 1984; Georges Forestier, Essai de généthique théâtrale: Corneille à l’œuvre, Paris, Klincksieck, 1996.
[1.4.8] Racine non appare a Calepio meno irregolare di Corneille rispetto alla costruzione del protagonista tragico, benché sicuramente venga apprezzato più del predecessore in quanto, anziché dubitare della portata reale della catarsi, si sforza a riflettere sul meccanismo della purgazione per quanto in maniera del tutto tradizionale, come dimostrano la già citata Préface all’Andromaque e i suoi appunti alla Poetica di Aristotele pubblicata da Vinaver (cfr. Jean Racine, Principes de la tragédie en marge de la Poétique d’Aristote, texte établi et commenté par Eugène Vinaver, Manchester-Paris, Éditions de l’Université de Manchester, 1968). Secondo Calepio non mancano infatti, fra le tragedie raciniane, opere adatte a destare pietà e terrore attraverso l’introduzione di un protagonista medicore, come egli confessa riferendosi alla Phèdre e al Britannicus. La Phèdre, incentrata sul tema della sconvolgente passione di Fedra per il figlioccio Ippolito, è la prima tragedia ad essere considerata da Calepio migliore di un corrispettivo italiano — benché il contendente sia la modestissima Fedra di Francesco Bozza —, dopo che il bergamasco aveva riconosciuto la superiorità delle prove di Aretino e Trissino rispetto all’Horace e alla Sophonisbe di Corneille. La straordinaria bellezza della tragedia raciniana in questione era stata già avvertita da numerosi lettori sei-settecenteschi, primo fra tutti quel Nicolas Boileau che aveva lodato la costruzione della sventurata protagonista, «malgré soy perfide, incestueuse», ritenuta, al pari dell’Edipo di Sofocle, un carattere eccellente per suscitare pietà e terrore (Nicolas Boileau, Épître VII à Monsieur Racine, in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 129). Diversa era la gerarchia delle tragedie raciniane approntata da Antonio Conti, il quale reputava l’Athalie, la quale «non fu mai rappresentata nella minorità di Luigi XV, o nel Palagio delle Tuillerie, o sul Teatro Francese, che non traesse abbondanti lagrime dagli occhi degli spettatori, e non li costringesse a confessare che il Racine con un Sacerdote e con un fanciullo avea saputo meglio sorprendere ed intenerire gli animi che co’ trasporti di Fedra, con le tenerezze d’Andromaca, e con la morte di Brittanico» (Antonio Conti, Prose e poesie, t. I, Venezia, Pasquali, 1739, p. clvii). Il Martello si era dal canto suo detto perplesso circa la qualità dell’amore rappresentato in Phèdre (Pier Jacopo Martello, «Della tragedia antica e moderna», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 231 e 235).
Il Britannicus è invece tratto dal racconto di Tacito circa le vicende occorse nei primi tempi dell’impero di Nerone, quando già Agrippina presagiva la crudeltà del figlio e Britannico reclamava senza fortuna il trono che gli sarebbe spettato di diritto. Nella Préface Racine rifletteva sul carattere dei personaggi, mostrando di aver rappresentato Nerone — forse in osservanza ai dettami di Aristotele — come un cattivo in potenza, nel quale già si mostravano i segni della futura pazzia, piuttosto che come un tiranno malvagio e senza rimorsi («Je ne le représente pas non plus comme un homme vertueux; car il ne l’a jamais été. Il n’a pas encore tué sa mère, sa femme, ses gouverneurs; mais il a en lui les semences de tous ces crimes. Il commence à vouloir secouer le joug. […] En un mot, c’est ici un monstre naissant, mais qui n’ose encore se déclarer, et qui cherche de couleurs à ses méchantes actions», Jean Racine, Britannicus, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 408). Il Terrasson aveva criticato la costruzione del Britannicus, considerato non all’altezza della Phèdre, dal momento che in essa Britannico non si macchierebbe di alcuna colpa tale da causarne la disgraziata fine («Au reste Britannicus pris comme il est, n’est à proprement parler d’aucun genre, mais il étoit aisé de l’amener au premier que Mr Racine paroît n’avoir connu qu’à Phedre; il eût fallu seulement prendre pour objet moral les Arrests suprêmes de la providence sur les fortunes humaines, et conduire Britannicus à sa perte pour y avoir voulu résister par des entreprises criminelles», Jean Terrasson, Dissertation critique sur l’Iliade d’Homere, Paris, Fournier-Coustelier, 1715, t. I, pp. 205-206). In risposta a queste parole Calepio afferma invece che Britannico non è del tutto innocente, poiché elabora a sua volta dei piani criminali per recuperare quel trono che le macchinazioni di Agrippina gli avevano sottratto; inoltre il protagonista della tragedia raciniana potrebbe essere catalogato come un uomo di mediocre bontà, piuttosto che come un innocente, per altri piccoli difetti, come ad esempio l’amore per Giunia e la sua giovinezza impetuosa che lo rendono imprudente e incapace di muoversi con circospezione in un ambiente politico assai insidioso, come dimostra ad esempio la scena del colloquio con Narcisse, confidente di Nerone, al quale Britannico confessa incautamente tutti i propri pensieri e progetti (I, 4).
Sulla fortuna del mito di Fedra in epoca moderna cfr. Rosa Giulio, Di Fedra il cieco furor: passione e potere nella tragedia del Settecento, Salerno, Edisud, 2000; Daniela Dalla Valle, Il mito cristianizzato: Fedra/Ippolito e Edipo nel teatro francese del Seicento, Bern, Lang, 2006.
[1.4.9] Le altre tragedie di Racine risultano, secondo Calepio, molto difettose sul piano della qualità dei protagonisti. L’Iphigénie, giudicata come una sorta di centone dell’antecedente euripideo, fallirebbe principalmente nel muovere la compassione attraverso il personaggio di Ériphile, schiava di Achille. Se infatti Euripide nell’Ifigenia in Aulide salvava la protagonista per mezzo di una metamorfosi occorsa per intercessione di Artemide, Racine arriva allo stesso fine facendo sacrificare al posto della figlia di Agamennone proprio Ériphile, la quale, in virtù dell’agnizione risolutiva, si scopre essere la figlia di Teseo ed Elena originariamente chiamata Ifigenia. Oltre alla mancanza della catastrofe finale, viene rimproverata alla tragedia di Racine la mancata messa in scena di un personaggio mediocre. Se infatti Ifigenia era un’innocente, inadatta al ruolo di eroina tragica, anche Ériphile non è da meno in rapporto alla sua condanna. Nonostante infatti questa si macchi di una precisa colpa, denunciando a Calcante il ripensamento di Agamennone che progettava di mettere in salvo moglie e figlia, facendole partire dall’Aulide (IV, 11), essa non cade in disGrazia a causa di quest’azione delatoria, ma in ragione dell’originario oracolo di Calcante, secondo cui una fanciulla di nome Ifigenia doveva essere sacrificata. In quel frangente, laddove quindi prendeva le mosse il meccanismo tragico, Ériphile era assolutamente innocente, e per questo motivo il processo di purgazione non poteva avere luogo in maniera esaustiva.
Racine, come di consueto, aveva affrontato nella Préface la questione del carattere dei personaggi in rapporto alle raccomandazioni aristoteliche, affermando di aver deciso di intraprendere la drammatizzazione di un soggetto così spinoso soltanto in virtù dell’introduzione di questa Ériphile, della quale Pausania dava notizia, grazie alla quale avrebbe potuto evitare tanto di far condannare un’innocente, quanto scansare la macchinosa soluzione euripidea del deus ex machina. Ammette il drammaturgo francese: «J’ai rapporté tous ces avis si différents, et surtout le passage de Pausanias, parce que c’est à cet auteur que je dois l’heureux personnage d’Ériphile, sans lequel je n’aurais jamais osé entreprendre cette tragédie. Quelle apparence que j’eusse souillé la scène par le meurtre horrible d’une personne aussi vertueuse et aussi aimable qu’il fallait représenter Iphigénie? Et quelle apparence encore de dénouer ma tragédie par le secours d’une déesse et d’une machine, et par une métamorphose, qui pouvait bien trouver quelque créance du temps d’Euripide, mais qui serait trop absurde et trop incroyable parmi nous? Je puis dire donc que j’ai été très heureux de trouver dans les anciens cette autre Iphigénie, que j’ai pu représenter telle qu’il m’a plu, et qui tombant dans le malheur où cette amante jalouse voulait précipiter sa rivale, mérite en quelque façon d’être punie, sans être pourtant tout à fait indigne de compassion» (Jean Racine, Iphigénie en Aulide, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 688).
Calepio è evidentemente un lettore attento anche dei paratesti delle tragedie raciniane e in questo passaggio, come farà più tardi con l’Andromaque, mostra di voler demolire puntualmente le argomentazioni del tragico transalpino dall’alto di un più attento esame delle caratteristiche richieste ai protagonisti tragici nella Poetica di Aristotele. Ad ogni modo la soluzione di Racine aveva goduto di una certa fortuna, come dimostra l’Ifigenia in Aulide di Apostolo Zeno (1718) che ne mutua la struttura sostituendo al personaggio di Ériphile quello di Elisena. Sulla costruzione dei personaggi di Racine in rapporto alla norma aristotelica della virtù mezzana si veda Olivier Pot, «Racine: théâtre de la culpabilité ou culpabilité du théâtre», Travaux de littérature, VIII, 1995, pp. 125-149.
[1.4.10] In Alexandre le Grand, tragedia di Racine al tempo molto criticata, Calepio non vede agire alcun tentativo di destare pietà e terrore: la composizione è ridotta alla stregua di un romanzo epico-cavalleresco in cui si narrano le vicende eroiche ed amorose di un eroe che non combatte tanto per l’onore, quanto per il possesso di Cléophile. Nella prima Préface alla tragedia Racine rispondeva polemicamente alle accuse rivolte alla sua opera, mostrando come le varie censure si contraddicessero l’una con l’altra. Nella seconda, egli, ribattendo puntualmente alle critiche che gli erano state mosse, documentava la sua stretta osservanza dei dati storici, rivendicava di aver conferito ad Alessandro un carattere più illustre di quello assegnato a Poro e ribadiva la subalternità dell’intreccio amoroso rispetto alla trama eroica. Tuttavia non faceva riferimento alla qualità catartica del protagonista, come invece accade in altre Préfaces (sui paratesti della tragedia si rimanda a Jean Racine, Préface de 1675 de l’Alexandre le Grand, éditée par Georges Forestier et Sylvain Garnier, site IdT — Les Idées du théâtre).
[1.4.11] Della Thébaïde (1664), prima tragedia scritta da Racine, Calepio si limita a notare l’acerbità, per passare poi all’esame dell’Andromaque che veniva reputata da Racine una tragedia fedelmente rispettosa della qualità mediocre del protagonista, come egli mostrava nella Préface del 1667: « Quoi qu’il en soit, le public m’a été trop favorable pour m’embarrasser du chagrin particulier de deux ou trois personnes qui voudraient qu’on réformât tous les héros de l’antiquité pour en faire des héros parfaits. Je trouve leur intention fort bonne de vouloir qu’on ne mette sur la scène que des hommes impeccables. Mais je les prie de se souvenir que ce n’est point à moi de changer les règles du théâtre. Horace nous recommande de peindre Achille farouche, inexorable, violent, tel qu’il était, et tel qu’on dépeint son fils. Aristote, bien éloigné de nous demander des héros parfaits, veut au contraire que les personnages tragiques, c’est-à-dire ceux dont le malheur fait la catastrophe de la tragédie, ne soient ni tout à fait bons, ni tout à fait méchants. Il ne veut pas qu’ils soient extrêmement bons, parce que la punition d’un homme de bien exciterait plus l’indignation que la pitié du spectateur; ni qu’ils soient méchants avec excès, parce qu’on n’a point pitié d’un scélérat. Il faut donc qu’ils aient une bonté médiocre, c’est-à-dire une vertu capable de faiblesse, et qu’ils tombent dans le malheur par quelque faute qui les fasse plaindre sans les faire détester» (Jean Racine, Andromaque, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 260).
Calepio giudica vane queste considerazioni, dal momento che nell’Andromaque il protagonista non sarebbe in realtà Andromaca, la quale acconsente infine a sposare il nemico Pirro pur di salvare il figlio Astianatte, ma Oreste, assassino di Pirro per volontà dell’impetuosa Ermione, molto più presente in scena, soprattutto in momenti strategicamente importanti quali l’esordio e la conclusione. Il personaggio di Andromaque, non è peraltro ritenuto mediocre da Calepio, il quale la considera irreprensibile e senza colpe.
[1.4.12] Anche nella Bérénice Calepio vede agire una protagonista innocente contro la quale si scaglia immotivatamente una sorte crudele. La regina di Palestina, oggetto dell’amore di Tito e di Antioco, ricambia il primo, ma è costretta a separarsi da lui perché questi non vuole imporre al popolo romano un’imperatrice straniera. Per Calepio questo soggetto non è adatto a mettere in moto il meccanismo catartico; quand’anche Bérénice risultasse pietosa, infatti, di certo non avrebbe luogo alcun guadagno da parte dello spettatore. Ridicolo gli parrebbe infatti che lo spettatore decidesse di non innamorarsi per paura di incorrere nella sventura della protagonista. Al fondo di questa osservazione si coglie ancora una volta la convinzione secondo cui l’amore di per sè non era una passione adatta ad innescare la catarsi.
[1.4.13] Mithridate è giudicato da Calepio un personaggio eccessivamente malvagio, capace di eccitare soltanto timore e non pietà, mentre risulta compassionevole Monime, giovane donna costretta a sposare Mithridate, benché sia innamorata di suo figlio Xiphares. Nel corso della tragedia Mithridate non appare all’autore abbastanza pietoso nei confronti del figlio e della donna — di cui conosce il recondito innamoramento per Xiphares — e conclude, sulla scorta di un verso dell’Ars Poetica (v. 102), che un personaggio incapace di provare pietà non può far nascere nel pubblico un sentimento medesimo.
[1.4.14] Il Bajazet è una tragedia incentrata sulla recente storia turca, dove il protagonista eponimo è incarcerato per volontà del fratello Amurat che lo ha condannato a morte. Bajazet, pur essendo innamorato di Atalide, simula di amare Roxane per uscire di prigione, ma quando la finzione si scopre è proprio Roxane a far eseguire la condanna a morte nei confronti di Bajazet. Calepio in prima battuta riferisce le censure che la critica francese aveva mosso alla tragedia di Racine: molti esponenti del «partito» corneilliano come Donneau de Visé e Mme de Sévigné avevano rimproverato all’autore del Bajazet di aver reso troppo galanti quei turchi che metteva in scena, offendendo la verosimiglianza nella rappresentazione dei diversi caratteri nazionali, aspetto nel quale invece Corneille era stato eccellente (cfr. a proposito la Notice curata da Georges Forestier e Céline Fourniel, site IdT — Les Idées du théâtre). Il bergamasco acconsente con la difesa svolta da Racine nella seconda Préface della tragedia, ritenendo l’amore del protagonista plausibile e passibile di compassione, a patto che sia questo a scatenare la catastrofe, cosa che non succede nel dramma in questione, dal momento che Bajazet sarebbe condannato esclusivamente dalla crudeltà del fratello.
Infine Calepio accenna all’Athalie, tragedia religiosa tradotta e lodata da Antonio Conti in quanto capace di far rivivere la poesia biblica. Anche in questo caso il giudizio in merito alla qualità del protagonista non può essere positivo, dal momento che il protagonista è l’innocente Eliacin, figlio del re Joad, contro cui si scaglia la terribile ira della malvagia Athalie. Per quanto la tragedia sia apprezzabile in quanto è incentrata sul tema della fede in Dio, essa non è atta a generare pietà e terrore.
[1.4.15] L’analisi di Calepio si limita alle tragedie dei due maggiori tragici francesi, Corneille e Racine. Le opere di alcuni degli altri che cita, ossia Jean Mairet, Jean Rotrou, Thomas Corneille, Jacques Pradon, Prosper Jolyot de Crébillon, Antoine de La Fosse, Joseph-François Duché, tutte inferiori, saranno menzionate nel corso del Paragone. Sarà bene specificare che sulle tragedie minori dei francesi e sui loro difetti strutturali il bergamasco si soffermava nelle Giunte postume, rilevando come spesso i drammi francesi «pajono diretti puramente a trattenere gli spettatori in divertimenti che lusinghino le passioni, non a promuovere la compassione, o alcun giovevole sentimento» (Pietro Calepio, «Giunte postume attinenti al Paragone», in Id., Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, e sua Difesa, con l’Apologia di Sofocle, Venezia, Zatta, 1770, p. 173). Calepio se la prende in particolare con l’Adherbal (1697) di François-Joseph de Lagrange-Chancel, allievo di Racine, il quale nella sua tragedia, mettendo l’eroe protagonista nella situazione di scegliere fra riottenere il regno perduto rinunciando all’amore, e morire, gli fa scegliere questa seconda opzione. Secondo Calepio ciò è dettato dal fatto che «l’oggetto del Poeta sia stato quello d’adulare le Dame di Parigi, con mostrar loro un Sovrano, che per amore dà in pazzia, essendo li suoi sentimenti più proprj d’un Cavaliere errante che ha guasta la fantasia, che di uno, che si concilj la benevolenza e la compassione» (ibid.). Vengono censurate quindi anche l’Alzire (1736) e la Zaïre (1732) di Voltaire. La prima tragedia, ambientata in America e incentrata su di un conflitto politico-religioso fra indigeni e cristiani, nonché sul complicato triangolo che coinvolge l’americano Zamore, il principe spagnolo Gusman e la bella Alzire, amante di Zamore — al quale era promessa sposa prima che questi sparisse, creduto morto — e destinata a convolare a nozze con Gusman per pacificare i due popoli. La vicenda, che si conclude con l’esercizio di una meccanica clemenza, sulla scorta di quanto accadeva in alcuni drammi per musica di Metastasio, verterebbe in realtà, secondo Calepio, non tanto sullo scontro fra natura e religione, come vorrebbe Voltaire, quanto piuttosto squisitamente sull’amore di Alzire («Certamente l’azione d’essa non consiste in altro, che in mostrare una tenerissima passione d’amore, che siccome la rendeva aversa ad altro Matrimonio, così le accrebbe la pena, dopo che seppe esser vivo lo sposo primiero, sin che poi ha la felice sorte di ottenerlo», ivi, p. 174). Nella Zaïre, variazione sul tema dell’Othello shakesperiano, Voltaire avrebbe voluto costituire il prototipo di un’eroina tragica capace di destare compassione attraverso la punizione che subisce per non essersi convertita al cristianesimo, ma visto l’avvicinamento progressivo della protagonista alla religione del vero padre, il cristiano Lusignan, l’uccisione della ragazza da parte del geloso sultano Orosmane appare a Calepio una punizione eccessiva che fa dubitare della provvidenza: «La morte, che poi succede senza che [Zaïre] possa alterare il pio intento pare che tenda piuttosto a raffredare negli animi la fiducia, che debbesi avere in Dio, che a farla concepire per gastigo dovuto alla sua reità» (ibid.). «Alieno dal vero scopo della tragedia» sarebbe anche il Caton d’Utique di Deschamps, criticato pure in Paragone V, 2, [11] e ritenuto inferiore pure al Cato di Addison, dramma ritenuto a sua volta non impeccabile e conosciuto probabilmente attraverso la traduzione italiana che ne aveva offerto Anton Maria Salvini nel 1725. Infine, il bergamasco compara il Cesare di Conti con La Mort de César di Voltaire, giudicando il primo infinitamente più proprio a purgare del secondo, che rappresentando Cesare come un tiranno appaga, con la riuscita della congiura finale, il gusto del pubblico di vedere punito il malvagio, ma non dà luogo ad alcun tipo di compassione: «In una favola in cui Cesare è protagonista non dovevasi quegli far morire a guisa di que’ tiranni che nell’altre di lieto fine si rendono puniti a sollievo de’ personaggi principali, che sono oppressi, ma conveniva renderlo idoneo di quella pietà, che richiede la tragedia» (ivi, pp. 175-176).
Sulla versione voltairiana del soggetto di Cesare si veda Beatrice Alfonzetti, Il corpo di Cesare: percorsi di una catastrofe nella tragedia del Settecento, Modena, Mucchi, 1989, pp. 9-79.
[1.4.16] Calepio tira a questo punto le somme delle considerazioni fatte in questo primo capo, nel quale ha osservato come gli italiani siano più ortodossi rispetto alla norma aristotelica secondo cui i protagonisti tragici devono possedere una bontà mediocre. Essendo questa caratteristica fondamentale per produrre pietà e terrore nello spettatore, fine ultimo della tragedia, la tragedia italiana risulta meglio strutturata rispetto a quella francese in rapporto al raggiungimento dell’«utile» più proprio della composizione tragica. Il bergamasco, tuttavia, si guarda bene dal celebrare in tutto e per tutto il modello tragico italiano, di cui noterà nei capi successivi molti difetti. Aggiunge inoltre, sempre per non sembrare parziale, che i Francesi, benché meno regolari nella costruzione della favola, riescono a creare personaggi più abili a muovere compassione nel pubblico contemporaneo, sebbene spesso pecchino nel rispetto della storia proprio per produrre più efficacemente la commozione. Sul rapporto tra storia e poesia si riflette peraltro con continuità tra Seicento e Settecento: se sul fronte italiano saranno importanti le annotazioni di Muratori e di altri sodali come l’Orsi, i quali rivendicano la libertà della poesia rispetto alla storia («Secondo il sistema della Natura umana, non può dilettarsi l’Intelletto nostro, se non dalla cognizion del Vero, o dalla simiglianza e sembianza del Vero. Adunque convien dire che la Poesia anch’essa diletti col Vero, o pur colla sembianza, e simiglianza d’esso. E perche il Vero non suol dilettarci senza esser Bello, ancorla Poesia, e perconseguente obbligata ad usare, e rappresentar’il Vero, che sia Bello», Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. I, a cura di A. Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, pp. 101-102), in Francia prevaleva, soprattutto fra i seguaci di Corneille, una comune concezione di storia e poesia all’insegna della rappresentazione delle passioni, come si vede negli scritti di Saint-Évremond («Ils ont cru qu’un récit exact des événements suffisait pour nous instruire, sans considérer que les affaires se font par des hommes que la passion emporte plus souvent que la politique ne les conduit. La prudence gouverne les sages, mais il en est peu; et les plus sages ne le sont pas en tout temps: la passion fait agir presque tout le monde, et presque toujours», Saint-Évremond, «Sur les Historiens François», in Id., Œuvres meslées, t. VII, Paris, Barbin, 1684, p. 57). Non mancavano peraltro, sia in Francia che in Italia, lettori che misuravano la bontà della tragedia sulla base del rispetto della storia: contro questi Racine interviene spesso nelle proprie Préfaces. La questione verrà nuovamente trattata dal Calepio nel quarto capo.
Sull’incrocio fra storia e teatro tra Seicento e Settecento si veda: Beatrice Alfonzetti, Congiure: dal poeta della botte all’eloquente giacobino (1701-1801), Roma, Bulzoni, 2001, pp. 13-34; Ead., Dramma e storia: da Trissino a Pellico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013.
[1.4.17] Corneille e Racine sono, tra i drammaturghi francesi, coloro che si sono rivelati maggiormente abili nel dipingere gli affetti in modo così vivo e coinvolgente che difficilmente le tragedie italiane potrebbero stare al pari con loro. Questa considerazione fatta da Calepio dovrà essere catalogata fra le invero non troppo numerose ammissioni dell’inferiorità delle tragedie italiane nel reggere la rappresentazione: gli stessi limiti venivano riconosciuti, sebbene non così apertamente, anche da Scipione Maffei, che proprio per questo motivo collaborava con Riccoboni alla rinascita di un’arte rappresentativa tragica e collazionava, scorciandole e modificandole, le migliori tragedie italiane cinque-seicentesche, attirandosi peraltro le sarcastiche critiche di qualche contemporaneo («Il raccoglitore di tragedie italiane stampate si fa lecito di recidere dalle medesime qualche parte, la quale, quanto egli stima importar poco alla Favola, altrettanto giudica nuocere alla Rappresentazione; il che essendo, o la parte tagliata poteva senza nocumento sottrarsi, e la Tragedia di superfluità, se non d’infermità s’accusava; o non potevasi, senza che quel Corpo poetico verun danno ne risentisse, e il Tagliatore di corrotto, e non sano giudizio si convincea. Se il primo; perché ostentare queste Tragedie, come ben’organizzate, e perfette? Se il secondo, perché troncarne?», Pier Jacopo Martello, L’Euripide lacerato, in Id., Teatro, vol. I, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1980, p. 424.
Anche questa nota di Calepio è accompagnata dal riconoscimento di un parziale demerito dei Francesi: essi infatti, nel curare la costruzione degli affetti e dei personaggi tenendo conto dell’applauso del pubblico, sono spesso mancati nel raggiungimento del vero fine tragico, ossia suscitare pietà e terrore. Calepio si spinge ad ascrivere le loro prove ad un genere letterario diverso da quello tragico, considerando — in particolare le tragedie di Corneille — dei drammi eroici, perché costruiti sulla figura del martire o più in generale sul protagonista virtuoso: questo tipo di personaggio sarebbe perfetto all’interno di un poema epico, in quanto desterebbe di certo l’ammirazione, vero fine della composizione eroica, ma nella tragedia non riesce a produrre l’effetto proprio di questo genere letterario.
[1.4.18] In chiusura, Calepio, muove un’ulteriore critica alla tragedia italiana, rea di aver messo talvolta in scena soggetti del tutto fittizi. Questo tipo di tragedia, come ricordato appena più avanti, erano teoricamente approvate da Aristotele, che citava come esempio di questa specie di composizione il Fiore di Agatone, tragedia che contemplava personaggi non mitologici, ma inventati. Tuttavia in un contesto moderno come quello settecentesco queste libertà non sarebbero più ammissibili, tanto più che la storia — aggiunge Calepio — è ricchissima di personaggi adatti a fornire l’intreccio per tante eccellenti tragedie. Affinché la tragedia giunga al suo effetto — ossia destare pietà e timore — essa deve infatti appoggiarsi su solide basi storiche che garantiscano la verosimiglianza della favola e facciano sì che lo spettatore creda plausibili le vicende rappresentate.
Calepio non si riferisce in questo caso alla disputa fra tragedia di argomento storico o mitologico, che aveva rivissuto nel Settecento, risolvendosi a tutto favore della storia, quanto piuttosto, se non si fraintende, alle tante tragedie e drammi per musica di argomento pastorale che erano fiorite in Italia nel Seicento e che la fondazione dell’Accademia d’Arcadia aveva riportato in auge.
Queste pastorali prevedevano invero, dal Pastor Fido di Guarini all’Elvio di Crescimbeni, l’impiego di personaggi d’invenzione, i cui nomi erano tratti dalla tradizione bucolica antica e moderna. Non è un mistero che, almeno a partire dalle note querelles seicentesche che si svolgono in margine alla pubblicazione del Pastor Fido, la tragicommedia pastorale — pur differenziandosi dal genere tragico per l’introduzione del lieto fine, nonché per la qualità dei protagonisti —, reclamasse pari dignità della tragedia, alla quale era ritenuta superiore dal punto di vista rappresentativo.
L’Arcadia di Crescimbeni, nella quale il codice pastorale era stato fatto oggetto di un rilancio ideologico oltre che poetico, corona questa aspirazione della pastorale, ritenuta proprio dal Custode una tragedia a tutti gli effetti. Nella Bellezza della volgar poesia egli canonizza il suo Elvio (1694), facendone il prototipo della tragedia moderna in virtù dello stile alto, capace di trattare in modo “eroico” il sentimento amoroso, e soprattutto della struttura classicheggiante (prologo, cinque atti, cori in fine di ogni atto) che legittimava il salto di qualità della pastorale anche da un punto di vista esteriore (Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, pp. 78-103). In questo genere di pastorale tragica si erano cimentati, tra gli anni Novanta del Seicento e gli anni Venti del Settecento, numerosi autori tra i quali, oltre al Crescimbeni, andrà ricordato almeno una figura fondamentale della Roma tardo-seicentesca come il Cardinal Pietro Ottoboni, oltre che al padovano Girolamo Frigimelica Roberti. In area veneta si era dedicato alla pastorale lo stesso Scipione Maffei, autore di un dramma per musica, La fida ninfa, stampato nel 1730 e rappresentato al Teatro Filarmonico di Verona nel 1732 con la musica di Vivaldi. Accanto a queste tragedie il bergamasco situava probabilmente anche quelle il cui argomento non era solidamente radicato in una storia conosciuta, come ad esempio il Torrismondo di Tasso o l’Orbecche di Giraldi, che come “finte” sono catalogate dal Muratori, il quale pure ammette la liceità anche di soggetti inventati (Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. I, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 129). Su questo specifico punto Calepio tornerà in Paragone V, 6, [4].
Come molti altri suoi contemporanei Calepio, il quale pure era stato a sua volta un Arcade, confidava nella superiorità delle tragedie di argomento storico, adducendo le stesse ragioni che riportava ad esempio Antonio Conti in margine al suo Cesare, quando ammetteva che il diletto della poesia derivava esclusivamente dall’imitazione del vero, giustificando la scelta di un soggetto tratto dalla storia romana: «Onde proviene il diletto, che in noi produce Poesia, o sia l’imitazione? Egli nasce da quell’azione che fa l’anima nel rapportare l’imitazione alla cosa imitata, o sia nel comparare l’originale alla copia. L’anima comparando ragiona, e ragionando sente la propria forza, e la propria bellezza, e ne gode. Ora, se comparando, non altro in un termine della comparazione ritrova, che il capriccio e l’immaginazion dell’autore; potrà ella non disprezzarlo come cosa, che nulla contribuisce a soddisfare quel desiderio, o fissar per un tempo quell’inquietudine, che l’agita continuamente per la ricerca del vero?» (Antonio Conti, «Lettera a Sua Eminenza il signor Cardinale Bentivoglio d’Aragona», in Id., Il Cesare, Faenza, Archi, 1726, p. 8). Simili ragioni, contornate da un’accesa polemica nei confronti della pastorale, e segnatamente del Pastor Fido, si potevano ritrovare nel Della tragedia di Gravina (Gian Vincenzo Gravina, Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 510-514).
Sull’aspirazione tragica ed eroica della pastorale arcadica cfr. Enrico Zucchi, «Eroi pastori: forme e storia della pastorale eroica da Crescimbeni a Metastasio», in Cantieri dell’italianistica: ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del XVIII congresso dell’ADI — Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon, Roma, Adi editore, 2016, pp. 1-9. Sull’Elvio e sulle sue novità cfr. Giuseppe Coluccia, L’Elvio di G. M. Crescimbeni: alle origini della poetica arcadica, Roma, IBN, 1994; nonché il contributo di Annalisa Nacinovich, la quale vede agire in questa pastorale la proposta crescimbeniana di una tragedia allegoricamente politica e storica, che si contrapponeva a quella filosofica del Guidi (Annalisa Nacinovich, «L’Elvio di Crescimbeni: le origini pastorali della prima polemica arcadica», in La tradizione della favola pastorale in Italia: modelli e percorsi, a cura di Alberto Beniscelli. Myriam Chiarla, Simona Morando, Bologna, Clueb, 2013, pp. 477-492).
[1.4.19] Agatone era l’autore della perduta tragedia Il fiore, lodata da Aristotele (Poetica, 1451b 21-25) come esempio di tragedia costruita su personaggi inventati e conclusa in modo lieto. Fra le tragedie costruite invece sull’evidenza del fatto orribile, Calepio considera frutto di invenzione la Medea di Euripide, nella quale la protagonista è rappresentata come colpevole di infanticidio, benché lo storico Eliano, vissuto nel II secolo dopo Cristo, riporti nella sua Storia varia (V, 21) una differente versione del mito di Medea, secondo cui ad uccidere i figli furono i Corinzi. Il racconto di Eliano era diffuso all’epoca: oltre a Calepio anche Giovanni Antonio Volpi (Rime del signor G. Antonio Volpi, Padova, Comino, 1741, p. 243) e Gian Rinaldo Carli (Della spedizione degli Argonauti in Colco, Venezia, Recurti, 1745, p. 97) davano credito, forse non indipendentemente dal bergamasco, al racconto di questo storiografo.
Capo II.
Osservazioni intorno le circostanze che rendono efficaci le peripezie.
Articolo I.
[2.1.1] Calepio ricapitola i difetti fondamentali delle tragedie francesi che era andato elencando nel primo capo. I tre punti sui quali si concentra il suo rimprovero alla drammaturgia transalpina sono la qualità del protagonista, spesso eccellente anziché mediocre, la scelta poco perspicua dei soggetti, nonché il mancato perseguimento del fine ultimo della tragedia, ossia destare timore e compassione, in favore dell’ammirazione, nuovo obbiettivo del poeta tragico a partire dal teatro di Corneille. Si passerà dunque a questo punto all’esame del valore della peripezia, ossia il rivolgimento dei fatti verso il loro contrario, che costituisce secondo Aristotele la bellezza principale del poema tragico (1452a 20).
Il filosofo greco elencava in effetti tre caratteristiche che davano pregio al racconto (1452a-b), ossia peripezia (περιπέτεια), agnizione (ἀναγνώρισις) e fatto orrendo (πάθος), trasposte da Calepio in meraviglia, riconoscenza e passione. Questa suddivisione non si discosta dalla classica tripartizione che vigeva nelle poetiche cinquecentesche, a partire da quella di Castelvetro che parlava di «rivolgimento» — ma come si vedrà la meraviglia di cui parla Calepio è appunto legata alla peripezia —, «riconoscenza» e «passione» (Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1979, p. 336). Nella sua Poétique La Mesnardière parlava di «Péripétie», «Reconnaissance» e «Trouble, ou mouvement des Passions» (Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, pp. 54-55).
[2.1.2] Aristotele parla di meraviglioso soltanto in uno degli ultimi capitoli, dedicato al rapporto fra epica e tragedia; in questo frangente il filosofo greco ammette che tanto la tragedia quanto l’epica debbono produrre il meraviglioso (θαυμαστόν) per dilettare il pubblico, benché il meraviglioso — spinto fino all’irrazionale — abbia un luogo più proprio nel poema eroico (1460a 10-14). Questa allusione di Aristotele al meraviglioso e alla sua capacità di dilettare il pubblico era ritenuta fondamentale nelle poetiche cinque-seicentesche per garantire alla tragedia quella piacevolezza che era caratteristica necessaria per poter conseguire anche l’utile proprio di questa forma di poesia che non poteva andare scisso dal dilettevole. Utili in questo senso sono le riflessioni di Minturno (Antonio Sebastiano Minturno, L’arte poetica [1564], rist. anast., München, Fink, 1971, p. 40), di Castelvetro (Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta [1570], vol. II, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1979, pp. 161-183; cfr. in proposito anche il saggio di Valeria Merola, «Il piacere obliquo e la meraviglia. Sulla Poetica di Lodovico Castelvetro», in Lodovico Castelvetro: filologia e ascesi, a cura di Roberto Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 305-318) e di Torelli (Pomponio Torelli, Trattato della poesia lirica, in Trattati e Poetiche del Cinquecento, vol. IV, a cura di Bernard Weinberg, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 242-243). Nel Seicento il concetto di «meraviglioso» assumerà un valore determinante per l’elaborazione di una poetica dell’argutezza e del dilettevole, dove la meraviglia era situata primariamente nella costruzione retorica e stilistica; particolarmente significativo in questo caso è la riflessione teorica di Emanuele Tesauro.
Calepio, con la scorta di Castelvetro, che già aveva condotto la medesima operazione nella sua Poetica (Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, cit., pp. 306-312), sovrappone il concetto del meraviglioso alla nozione di peripezia, intendendo con meraviglia una peripezia — ossia un rivolgimento dal bene verso il male o il contrario — che si compie in maniera inaspettata e quindi piacevole. Più la peripezia è generata da motivi imprevisti, più questo rivolgimento risulterà piacevole; nella Poetica veniva additato a modello la peripezia dell’Edipo Re di Sofocle (1452a 21-28), perché giungeva del tutto a sorpresa, dal momento che il messo arrivava per rallegrare Edipo e liberarlo dai suoi turbamenti, ma il suo annuncio riusciva invece terribilmente funesto. Anche la considerazione sul fatto che la peripezia risulti più riuscita nel caso in cui i fatti orrendi occorrano tra consanguinei è ricavata da Aristotele (1453b 15-25).
L’autore del Paragone si tiene qui lontano dalla concezione barocca della «meraviglia», risolta tutta a livello di elocutio, ma propende per una caratterizzazione del meraviglioso che si esplica sul piano dell’inventio e della dispositio: la meraviglia consiste nella buona esecuzione della peripezia, secondo una prospettiva che identifica il dilettevole della letteratura nell’intreccio piuttosto che nell’orpello dello stile.
Sulla poetica di Tesauro ed in particolare sul ruolo svolto dalla «meraviglia» si vedano: PierAntonio Frare, «Per istraforo di perspettiva». Il Cannocchiale aristotelico e la poesia del Seicento, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001; Valeria Merola, La messinscena delle idee: Emanuele Tesauro e il «teatro delle meraviglie», Manziana, Vecchiarelli, 2007. Per quanto riguarda la situazione della tragedia e della tragicommedia tra diciassettesimo e diciottesimo secolo si rimanda invece al contributo di Mauro Sarnelli, «Col discreto pennel d’alta eloquenza». «Meraviglioso» e classico nella tragedia e tragicommedia italiana del Cinque-Seicento, Roma, Aracne, 1999. Sul concetto di «meraviglia» come motore della filosofia aristotelica e più generalmente della Grecia antica si rimanda ad Enrico Berti, In principio era la meraviglia: le grandi questioni della filosofia antica, Bari, Laterza, 2007.
[2.1.3] Il riferimento del discorso di Calepio va ancora in prima battuta al passaggio di Aristotele nel quale si rilevava che la meraviglia, per quanto non debba venire esclusa dalla tragedia, è una peculiarità del poema eroico («Se è vero che nella tragedia si debba produrre il meraviglioso, nell’epopea è possibile rappresentare perfino l’irrazionale, da cui soprattutto deriva il meraviglioso, per il fatto che nell’epopea agiscono persone che non si vedono», Poetica, 1460a 10-14). Nella poetica moderna la riflessione sul meraviglioso si era appunto inserita all’interno del dibattito sul fine della letteratura, identificato talvolta nell’utile, talaltra nel diletto. Il riferimento di Aristotele alla piacevolezza della «meraviglia» faceva propendere i letterati dell’epoca per questa seconda opzione. Prendendo posizione contro Castelvetro, il quale assegnava alla meraviglia il solo compito di destare diletto, Tasso rivendicava l’utilità del poema epico fondato sull’esercizio di quella stessa meraviglia: «Io dico che il poema eroico è una imitazione d’azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, a fine di giovar dilettando […]. Ma ’l giovar dilettando è per aventura di tutte le poesie: perché giova dilettando la tragedia, e giova dilettando la comedia. Ma il fine di ciascuna dovrebbe esser proprio, perché sì come altro fine ha l’arte de’ freni, altro quella del far l’alabarde (tutto che l’una e l’altra sia subordinata a l’arte de la guerra e dirizzata a quel fine ch’ella si propone), così altro fine dovrebbe aver la tragedia, altro la comedia, altro la epopeia, o altra operazione. […]. Dee dunque ancora l’epopeia aver il suo proprio diletto co’ la sua propria operazione; e questa per aventura è il mover maraviglia» (Torquato Tasso, «Discorsi del poema eroico», in Id., Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964, pp. 71-72).
Crescimbeni, nella Bellezza della volgar poesia Crescimbeni, riprende il discorso tassiano, arrivando a sostenere che il poema eroico è, in virtù della meraviglia, il genere letterario maggiormente capace di raggiungere l’utile per mezzo del dilettevole: «Egli è adunque l’Epopeia, per quel, che io ne sento, imitazione d’azione illustre, grande, e perfetta, fatta narrando con temperato stile, secondo il mio parere […] per muovere gli animi col diletto, e colla maraviglia a conoscere, e seguitare il meglio. […] Dico per muovere gli animi col diletto, e colla maraviglia a conoscere, e seguitare il meglio; perché, essendo proprio dell’Epica più, che di qualunque altra sorta di Poesia, toccare il sommo d’ogni virtù, e d’ogni vizio, e dipinger gli uomini tutti, non come sono, ma come dovrebbono essere, ciò sarebbe soverchio, se non vi fosse il fine di far conoscere, e seguitare il meglio a chi legge, con risvigliare nella sua mente pensieri generosi, e vestirgli l’animo di desideri nobili, e invaghirlo della perfezione; e questo è l’utile, che si ritrae dal Poema Eroico, il quale tant’è maggiore dell’utile, che si riceve da gli altri Poemi, quanto il tutto è maggiore di ciascuna sua parte» (Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, pp. 133-134).
Calepio, nel rimarcare con insistenza le differenze fra poema eroico e tragedia, parrebbe al contrario propendere per un’interpretazione diversa: a suo parere la ricerca dell’utile è propria della tragedia, mentre l’epica punta prevalentemente al diletto, come dimostrano le sue considerazioni sul dramma eroico di Corneille, tragedia fallita in quanto guarda più ad ottenere l’applauso dello spettatore che non a destarne la pietà. Al contrario di quanto scrivevano Tasso e Crescimbeni quindi, per Calepio, il largo impiego della meraviglia è uno degli elementi che indirizza il poema eroico verso il perseguimento del diletto piuttosto che di un beneficio etico per il lettore.
[2.1.4] Calepio rileva una meraviglia propria della tragedia, consistente appunto nella sorpresa piacevole offerta dallo sviluppo inaspettato della peripezia, e la distingue fermamente dal meraviglioso epico, tendente, secondo Aristotele, all’irrazionale. I Francesi, anziché ricercare quella meraviglia esclusiva della tragedia, avrebbero a suo dire intrapreso una strada differente, contaminando la tragedia con l’epica. Corneille, preferendo che i suoi drammi risultassero piacevoli piuttosto che utili, ha infatti introdotto nella tragedia protagonisti eroici, incapaci di destare pietà e terrore. Questi eroi eccellenti, come già aveva ammesso Calepio nel primo capo, muovono gli spettatori a provare ammirazione, passione per eccellenza secondo il trattato Les Passions de l’âme di Cartesio («Lorsque la première rencontre de quelque objet nous surprend, et que nous le jugeons être nouveau, ou fort différent de ce que nous connaissons auparavant ou bien de ce que nous supposions qu’il devait être, cela fait que nous l’admirons et en sommes étonnés. Et parce que cela peut arriver que nous connaissions aucunement si cet objet nous est convenable ou s’il ne l’est pas, il me semble que l’admiration est la première de toutes les passion», Descartes, Les Passions de l’âme, in Id., Œuvres et lettres, édité par André Bridoux, Paris, Gallimard, 1949, pp. 584-585), ed eletta da Corneille a nuovo e più perfetto strumento per innescare la purgazione («Ce héros de ma façon sort un peu des règles de la tragédie, en ce qu’il ne cherche point à faire pitié par l’excès de ses infortunes: mais le succès a montré que la fermeté des grands cœurs, qui n’excite que de l’admiration dans l’âme du spectateur, est quelquefois aussi agréable que la compassion que notre art nous ordonne d’y produire par la représentation de leurs malheurs. […] Dans l’admiration qu’on a pour sa vertu, je trouve une manière de purger les passion, dont n’a point parlé Aristote, et qui est peut-être plus sûre que celle qu’il a prescrit à la tragédie par le moyen de la pitié et de la crainte», Pierre Corneille, «Examen de Nicomède», in Id., Œuvres complètes, t. II, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 643).
Sulla centralità dell’ammirazione nel sistema delle passioni francese seicentesco e sulle ragioni della critica calepiana cfr. Enrico Zucchi, «Il “diletto tragico” e l’“ammirazione accessoria”. In margine alle critiche della tragedia corneilliana mosse nel Paragone di Pietro Calepio», Critica letteraria, XLIV, 170, 2016, pp. 92-112.
[2.1.5] Come già anticipato nel primo capo, Calepio ritiene che la tragedia francese sia sbilanciata sul versante dell’epica, in quanto impiega personaggi eroici. Ciò depotenzia la portata catartica di questo genere letterario, dal momento che un protagonista eccessivamente virtuoso impedisce di fatto la possibilità per lo spettatore di provare compassione e terrore. Questa diversione rispetto al fine autentico della tragedia implicherebbe secondo Calepio una deresponsabilizzazione della letteratura tragica e un conseguente traviamento dello spettatore, portato a seguire l’intreccio in maniera superficiale per il puro gusto di essere intrattenuto.
[2.1.6] Calepio aveva già avuto modo di esprimere il proprio giudizio in merito alle due Sofonisbe di Trissino e Corneille (Paragone I, 4 [6]). In questa sezione ritorna sull’argomento, sottolineando come la caratterizzazione eroica dell’inflessibile Sophonisbe corneilliana penalizzi la riuscita della tragedia, che non è in grado di conseguire pietà e terrore. Nel discutere questo passaggio viene richiamata la Dissertation sur l’Iliade di Terrasson, trattato sul poema eroico in cui tuttavia non mancavano riflessioni sullo statuto poetico della tragedia: la prospettiva adottata da Terrasson, ancora legata ad un’ottica seicentesca e molto lontana da quella di Calepio, porta l’autore a privilegiare una concezione sincretica della letteratura che tende a rendere assai labili, quando non ad azzerare, i confini che separano i diversi generi letterari.
Il libro di Terrasson si inserisce peraltro in una florida tradizione di poetiche francesi del Seicento impegnate — sempre sotto l’egida cartesiana — nell’operazione apologetica di legittimare la bontà di tragedie e poemi contemporanei, quand’anche questi si allontanassero dalla norma aristotelica o dalla riflessione del Tasso, il quale nei Discorsi del poema eroico stabiliva al contrario precise linee di demarcazione che distinguevano l’epica dalla tragedia. Fra questi si segnalava il Traité du poème épique di Le Bossu; costui, rifacendosi al passo aristotelico precedentemente citato, nel quale si riconosceva la meraviglia come propria più dell’epica che della tragedia (Poetica, 1460a 12-14), aveva preso il Cid ad esempio del perfetto utilizzo dell’ammirazione — valore eminentemente epico e contrapposto alla verosimiglianza —, all’interno del contesto drammaturgico (Père Le Bossu, Traité du Poëme Epique, Paris, Le Petit, 1675, pp. 340-344). Sempre additando a modello Corneille anche Jean Terrasson, in polemica con Dacier, asseriva che la tragedia poteva ispirare l’ammirazione, così come l’epopea poteva rappresentare passioni tragiche quali compassione e terrore: «c’est ce qui a engagé le grand Corneille à regarder l’admiration comme une des passions que la Tragedie peut exciter, en quoi il a eu très-grande raison, quoi qu’en dise Mr D[acier], car si […] le Poême épique emprunte quelquefois de la Tragedie la compassion et la terreur, pourquoi la Tragedie n’empruntera-t-elle pas aussi quelquefois l’admiration qui convient au Poême épique?» (Jean Terrasson, Dissertation critique sur l’Iliade d’Homere, Paris, Fournier-Coustelier, 1715, t. I, pp. 203-204). D’altra parte, Terrasson considerava appunto la tragedia un sottogenere del poema eroico: «LA TRAGEDIE est un Poëme Héroïque où l’on expose un malheur qui tombe, ou qui est prêt à tomber sur des Personnages que l’on fait parler eux-mêmes d’une maniere conforme à leur rang et à leur caractère; et qui étant représenté avec dignité, et soûtenu des ornemens et des accompagnemens convenables, excite la compassion et la terreur, et enseigne aux hommes à reprimer leurs passions et à corriger leurs vices» (ivi, pp. 176-177). Calepio si oppone alla lettura di Terrasson, insistendo ancora una volta sulle differenze fra poema eroico — legittimato, in quanto rappresentazione generale della vita umana, a contenere l’imitazione di «ogni affetto» — e tragedia, «poesia più limitata, e dilicatissima nel ricevere pregiudizio da forastieri accrescimenti».
Sullo sviluppo delle discussioni poetiche in merito allo statuto dell’epica nel Seicento francese si veda: Terrence Miles Pratt, «The French Revolution in Neoclassical Epic», French Studies, XLII, 2, 1978, pp. 145-162; Ludivine Goupillaud, De l’or de Virgile aux ors de Versailles: métamorphoses de l’épopée dans la seconde moitié du xviie siècle en France, Genève, Droz, 2005.
[2.1.7] Aristotele contrapponeva nella Poetica due tipi di favola: quella semplice, strutturata sul rivolgimento dei casi di un protagonista caduto in disgrazia, e quella doppia, che contemplava un duplice esito, felice per i buoni e nefasto per i cattivi (1453a). Tra queste Aristotele si dichiarava partigiano del primo tipo, praticato a suo dire da Euripide, ingiustamente biasimato da molti contemporanei per il fatto che le sue tragedie si concludevano spesso con la catastrofe. L’esempio proposto per il secondo tipo di favola è invece quello dell’Odissea, risoltasi con la strage dei Proci e il trionfo di Ulisse. Il filosofo greco non mancava di sottolineare come la fortuna della tragedia doppia si dovesse alla debolezza del pubblico, il quale preferiva assistere all’affermazione dei protagonisti valorosi e alla sconfitta dei malvagi, piuttosto che attendere ad una conclusione integralmente tragica. Tuttavia, sentenzia Aristotele, «questo non è il piacere che deriva dalla tragedia, piuttosto quello proprio della commedia: perché in quest’ultima anche quelli che nel mito sono nemicissimi tra loro, come Oreste ed Egisto, alla fine se ne escono divenuti amici e nessuno muore ad opera di nessuno» (Poetica, 1453a 35). Riproponendo i medesimi argomenti, Calepio rivendica la proprietà tragica della favola semplice a conclusione infausta, mostrandosi riluttante a riconoscere la bontà della tragedia doppia, che storicamente si era affermata, da una parte — come egli scriverà subito dopo — in virtù della lettura di Castelvetro; dall’altra grazie allo spostamento della tragedia verso il modello tragicomico che, come illustrano chiaramente i paratesti del Pastor Fido, si fondava proprio sulla favola doppia e sull’inserimento del lieto fine (cfr. in proposito gli strali della ben nota polemica con il Nores su questo punto: Battista Guarini, Risposta dell’Attizzato contra l’Apologia del Nores, in Id., Opere, t. III, cit., pp. 219-222). Nel Compendio della poesia tragicomica viene inoltre rilevata l’ambigua ma sostanziale vicinanza della tragicommedia alla tragedia doppia: «Quanto poi alla diversità delle parti, confesso, che nella doppia di Aristotile, non è il riso della favola Tragicomica; non concedo però, che così l’una come l’altra non sia mista di parti Tragiche e Comiche: e questo basta per farla simile alla doppia legittima del Filosofo, la quale non può negarsi, che non sia fatta di parti Tragiche e comiche», Battista Guarini, Compendio della poesia tragicomica, in Id., Opere, t. III, Verona, Tumermani, 1737, pp. 436-437).
Sulla forma poetica della tragicommedia e sulle sue contaminazioni con la tragedia cfr. Dalla tragedia rinascimentale alla tragicommedia barocca: esperienze teatrali a confronto in Italia e in Francia, a cura di Elio Mosele, Fasano, Schena, 1993; Marco Lombardi, Processo al teatro: la tragicommedia barocca e i suoi mostri, Pisa, Pacini, 1995; Hélène Baby, La tragi-comédie de Corneille à Quinault, Paris, Klincksieck, 2001; Roberto Gigliucci, «Tragicomico e melodramma (Rinuccini, Rospigliosi, Vittori e Metastasio)», in Sacro e/o profano nel teatro fra Rinascimento ed Età dei lumi, a cura di Stella Castellaneta e Francesco S. Minervini, Bari, Cacucci, 2009, pp. 389-425; Id., Tragicomico e melodramma: studi seicenteschi, Milano, Mimesis, 2012.
Sull’ampia discussione in merito alla conclusione luttuosa oppure lieta della tragedia si veda il volume I finali: letteratura e teatro, a cura di Beatrice Alfonzetti e Giulio Ferroni, Roma, Bulzoni, 2003, nonché il bel contributo di Enrica Zanin che affronta la questione secondo un’avvertita prospettiva comparatistica: Enrica Zanin, Fins tragiques: poétique et éthique du dénouement dans la tragédie de la première modernité (Italie, France, Espagne, Allemagne), Genève, Droz, 2014.
Non vale inoltre per Calepio la giustificazione, continuamente riproposta in età moderna, secondo cui le tragedie a lieto fine erano ammissibili in virtù del fatto che esse erano state praticate da numerosi tragici antichi: le contraddizioni della forma tragica dell’antichità erano dovute al fatto che ancora non si era stabilita una norma precisa e rigorosa prima della trattazione aristotelica.
[2.1.8] L’autore precisa che i Francesi non hanno la primazia nell’elaborazione teorica di un dramma basato non tanto sulla purgazione, quanto sulla punizione dei rei e sul trionfo dei buoni. Castelvetro, fonte di riferimento primario per Corneille nella sua contestazione della validità della catarsi, ammetteva un altro tipo di utilità peculiare della tragedia, oltre a quella che consisteva nel destare pietà e terrore; la tipologia della favola doppia si adatterebbe meglio alla cultura controriformistica, dal momento che in essa sarebbe facile notare l’azione benefica del disegno provvidenziale: «Senza che si ristringe ad una maniera sola d’utilità, che è il procacciare solamente la purgatione dello spavento, et della compassione. Et non dimeno se la utilità si dee considerare si dovrebbono anchora altre maniere di tragedie poter rappresentare come per cagione d’essempio, quelle che contengono la mutatione de’ buoni di miseria in felicità, o la mutatione de’ rei di felicità in miseria acciocché il popolo si confermasse certificandosi per gli essempi proposti in questa santa opinione che Dio habbia cura del mondo et providenza speziale de’ suoi difendendo loro, et confondendo i suoi e i loro nemici» (Lodovico Castelvetro, Poetica vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1978, p. 361).
[2.1.9] Calepio trova riscontri della sua interpretazione di un meraviglioso riferito alla risoluzione inattesa della peripezia nella tragedia italiana, ritenuta sotto questo profilo assai più efficace di quella francese. La Merope di Scipione Maffei, pur essendo una favola doppia, dal momento che i destini dei protagonisti Merope ed Egisto divergono da quelli del tiranno Polifonte, riesce particolarmente piacevole proprio in virtù del fatto che il rivolgimento dalla miseria alla felicità avvenga in maniera inaspettata e sorprendente in una scena (IV, 6) assai celebrata dai contemporanei (sulla fortuna della Merope cfr. «Mai non mi diero i Dei senza un egual disastro una ventura». La Merope di Scipione Maffei nel terzo centenario (1713-2015), a cura di Enrico Zucchi, Milano, Mimesis, 2015).
Articolo II.
[2.2.1] Il secondo caposaldo della composizione tragica citato da Calepio è la riconoscenza. Anche in questo caso il dibattito sei-settecentesco in merito all’utilità dell’impiego dell’agnizione nella tragedia era stato particolarmente acceso, sempre a causa di alcune affermazioni di Corneille, il quale screditava l’agnizione, ritenuta poco efficace ad esprimere le potenzialità patetiche del dramma, e condannava le molte tragedie italiane che si concludevano per mezzo di questi riconoscimenti: «Je sais que l’agnition est un grand ornement dans le tragédies: Aristote le dit; mais il est certain qu’elle a ses incommodités. Les Italiens l’affectent en la plupart de leurs poèmes, et perdent quelquefois, par l’attachement qu’ils y ont, beaucoup d’occasions de sentiments pathétiques qui auraient des beautés plus considérables» (Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 154). Il nodo della disputa ruota attorno al Costantino (1653) di Giovan Battista Ghirardelli, una tragedia in prosa che accese un’aspra contesa all’interno dell’Accademia degli Umoristi; essa infatti fu oggetto di una dura requisitoria da parte di Agostino Favoriti, il quale, con lo pseudonimo di Ippolito Schiribandolo, attaccò diversi punti dell’opera di Ghirardelli e in particolare la scelta della prosa. Ghirardelli si difese nell’edizione del ’53, prima di ricevere una nuova stroncatura da un altro Umorista, Giovan Battista Savaro del Pizzo, nel 1655 (sull’episodio si veda il resoconto dato in Giovan Mario Crescimbeni, Commentarj del Canonico Gio. Mario Crescimbeni custode d’Arcadia, intorno alla sua Istoria della volgar poesia, vol. III, in Id., Dell’istoria della volgar poesia, vol. IV, Venezia, Basegio, 1730, p. 207, nonché il moderno intervento di Uberto Limentani, «La satira dell’Invidia di Salvator Rosa e una polemica letteraria del Seicento», Giornale storico della letteratura italiana, CXXXIV, 1957, pp. 570-585). Nella sua Difesa il Ghirardelli invocava l’autorità di Corneille per difendersi dalle accuse di aver alterato la verità storica nello svolgimento del suo dramma, richiamando l’esempio dell’Héraclius, costruito su di una equivalente finzione: «Monsignor Pietro Cornelio (vero Alcide della Francia per l’eloquenza) che nell’anno presente colla meravigliosa Rappresentazione del Cid nella sua lingua natia ha destata ne i Teatri di Roma la maraviglia, finse ch’Eraclio, l’Imperadore nella Tragedia di questo nome fosse figlio, non d’un Pretore dell’Africa, com’asseriscon l’Istorie, ma di Maurizio l’Augusto. Ora s’è stato lecito a i Poeti di variare affatto le Relazioni, perché non deve esser lecito a me, non dico già di cangiarle, ma d’alterarle?», Giovanni Filippo Ghirardelli, Il Costantino. Tragedia, con la difesa della medesima, Roma, Andreoli, 16602, p. 108. Corneille probabilmente intercettò con piacere questa citazione e nei suoi Discours si ricordò dell’autore del Costantino, lodandolo fra i drammaturghi italiani come «un des leurs plus beaux esprits». Il Costantino, chiamato erroneamente da Corneille La Mort de Crispe, incorrerebbe tuttavia, secondo il francese, in uno dei più tipici difetti della tragedia italiana, preferendo la riconoscenza finale ad una costruzione più elaborata e orientata verso la preparazione di effetti patetici. Nella tragedia di Ghirardelli infatti Costantino riconosce il proprio figlio soltanto dopo averlo fatto uccidere; tuttavia questa condotta del dramma, tutta giocata sull’allestimento di una plausibile riconoscenza finale, priverebbe l’opera, secondo il francese, di molti ragionamenti appassionati e pietosi che avrebbero avuto luogo qualora Costantino fosse stato consapevole di mandare a morte il figlio («Les ressentiments, le trouble, l’irrésolution et les déplaisirs de Constantin auraient été bien autres à prononcer un arrêt de mort contre son fils que contre un soldat de fortune», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», cit., p. 155). Queste riflessioni sono senza dubbio funzionali, nella teoria di Corneille, a sostenere una poetica tragica che deroghi dal rispetto della verosimiglianza storica in favore di una maggiore aderenza alla resa del dato patetico, come giustamente nota John D. Lyons, Kingdom of Disorder: The Theory of Tragedy in Classical France, West Lafayette, Purdue University Press, 1999, pp. 101-103.
Le accuse di Corneille alla tragedia italiana, così sollecita nel fare ricorso all’agnizione, non passarono inosservate; Giovan Mario Crescimbeni, tra i più strenui avversari del drammaturgo e teorico francese, replicò in maniera veemente alle censure dell’avversario, difendendo le potenzialità patetiche della riconoscenza: «Pietro Cornelio […] ne taccia, perché facciamo troppo studio nell’uso dell’Agnizione: il che vuol dire, che noi pecchiamo, perché trattiamo colla maggiore eccellenza possibile la più bella cosa, che non solo Aristotile, ma la ragione richiegga nella perfetta Tragedia. Diciamo la ragione; perché consistendo la forza della Tragedia nel commuover gli affetti, qual più possente strumento potrà ella adoperare a questo fine, di quello d’una peripezia, che venga fatta risaltare da qualche inaspettata compassionevole agnizione?», Giovan Mario Crescimbeni, L’istoria della volgar poesia, in Id., Dell’istoria della volgar poesia, vol. I, cit., pp. 307-308 (cfr. su questo punto anche Franco Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, ETS, 2002, p. 43).
Crescimbeni non era ad ogni modo l’unico, sul fronte italiano, a rimarcare l’utilità dell’agnizione. Tanto Pier Jacopo Martello, sostenitore della necessità di introdurre nella tragedia un’agnizione sia fisica che “morale” («Ti confido due sorte di agnizioni, senza una almen delle quali, il tuo dramma non riporterà mai applauso; l’una è fisica, e quella te la perdono; l’altra è morale, e questa non è da trascurarsi per verun conto; nasce questa dallo scoprimento d’una passione in un animo, opposta a quella, che dianzi appariva», Pier Jacopo Martello, «Della tragedia antica e moderna», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannbal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 206-207), quanto Scipione Maffei, autore di una Merope che si basava, come ammette il veronese con vanto, su una doppia agnizione (Scipione Maffei, De’ teatri antichi e moderni e altri scritti teatrali, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, p. 82), ribadivano la validità della riconoscenza per destare pietà e terrore.
Proprio in margine alla Merope, la quale doveva gran parte del suo successo nel Settecento all’agnizione assai patetica con cui Merope riconosceva il figlio sul punto di ucciderlo — così sostengono nei paratesti delle molteplici edizioni della tragedia letterati noti quali Giovan Gioseffo Orsi e Sebastiano Paoli (cfr. a proposito il mio «L’“irragionevolezza” della Merope nelle Osservazioni di Domenico Lazzarini», in «Mai non mi diero i Dei senza un egual disastro una ventura». La Merope di Scipione Maffei nel terzo centenario (1713-2015), a cura di Enrico Zucchi, Milano, Mimesis, 2015, p. 220), si svilupperà un lungo dibattito europeo in merito al meccanismo tragico del riconoscimento. Se Voltaire loderà la Merope del Marchese, ritenuta superiore all’Athalie del Racine in virtù dell’agnizione, Lessing si mostrerà meno favorevole, cogliendo nelle parole con cui Ismene sottolineava l’eccezionalità del riconoscimento, un segnale che tradiva la natura fittizia della rappresentazione e distoglieva lo spettatore dall’illusione scenica (Cfr. Paolo Chiarini, «Le contraddizioni del moderno nella Hamburgische Dramaturgie di Lessing», in La città delle parole: lo sviluppo del moderno nella letteratura tedesca, a cura di Paolo Chiarini, Aldo Venturelli, Roberto Venuti, Napoli, Guida, 1993, pp. 33-49: 35). Ancora nel tardo Discorso intorno al teatro italiano Francesco Benedetti anteporrà la Merope di Scipione Maffei, pur imperfetta stilisticamente, a quella di Alfieri, in virtù della bellezza dell’agnizione contenuta nella tragedia del veronese (Francesco Benedetti, Discorso intorno al teatro italiano, Firenze, All’Insegna dell’Ancora, 1816, pp. 7-8).
Calepio, come si avrà modo di vedere, si mostra concorde con il “partito italiano” costituito da Crescimbeni, Martello e Maffei, difendendo a sua volta la bontà dell’agnizione di fronte alle accuse di Corneille. Sulla discussione settecentesca in merito all’agnizione è utile anche il contributo di Carmela Lombardi, La dipintura poetica: problemi di costruzione del racconto nei testi di teoria e critica della letteratura e di altre arti del primo Settecento, Chieti, Solfanelli, 1992, pp. 62-69 e pp. 75-76.
[2.2.2] Calepio ribatte alle critiche mosse da Corneille all’agnizione, sostenendo che essa non implica alcuna diminuzione dell’effetto patetico, che potrà aver luogo efficacemente anche qualora scaturisca nel momento stesso della catastrofe. Il drammaturgo francese considerava assai più toccanti, fra le sue tragedie, quelle che non impiegavano la riconoscenza, come il Cid o la Berenice, rispetto a quelle che, come l’Œdipe, sfruttavano questo artificio (Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 94). Il bergamasco obietta tuttavia che ciò deriva esclusivamente dal fatto che — come aveva già illustrato nel primo capo (Paragone I, 4 [5]) — l’Edipo di Corneille sia mal costruito, in quanto offre ampio spazio a un episodio secondario, l’amore di Teseo e Dirce, che distoglie l’attenzione dal fuoco principale dell’azione. L’esempio positivo dell’uso dell’agnizione che Calepio riporta è tratto dalla drammaturgia italiana seicentesca: nel Solimano di Prospero Bonarelli — esempio assai più confacente al gusto “regolare” di Calepio rispetto al Costantino in prosa di Ghirardelli — Regina si accorge finalmente che, spingendo Solimano ad uccidere Mustafà, per favorire colui che credeva suo figlio, aveva in realtà commissionato l’omicidio del proprio figlio naturale in favore del figliastro.
Sulla natura “trasgressiva” rispetto ai canoni accademici della tragedia del Bonarelli, che tuttavia riuscì in breve ad imporre un gusto e una prassi drammaturgica affatto diversa, sono preziose le riflessioni di Roberto Ciancarelli, Sistemi teatrali nel Seicento: strategie di comici e dilettanti nel teatro italiano del diciassettesimo secolo, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 103-106. Sul coinvolgimento della corte fiorentina nella vicenda editoriale del Solimano, in cui si celebrano i successi politici medicei, cfr. Maria Alberti, «Le parti “scannate” per il Solimano di Prospero Bonarelli», in Omaggio a Siro Ferrone, a cura di Stefano Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 180-189.
[2.2.3] In questo frangente Calepio controbatte ad una specifica considerazione di Corneille, secondo cui il riconoscimento di un personaggio post mortem non aveva un grande effetto sulla scena in quanto l’agnizione veniva assorbita e sminuita dalla catastrofe («Quand elle [l’agnizione] ne se fait qu’après la mort de l’inconnu, la compassion qu’excitent les déplaisirs de celui qui le fait périr ne peut avoir grande étendue, puisqu’elle est reculée et renfermée dans la catastrophe», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 94). A questa strategia il francese preferiva una gestione più lineare dell’intreccio, condotto «à visage découvert», nel quale ci si concentrava più sulla rappresentazione delle passioni dei protagonisti — secondo un sentire che già anticipa i fermenti raciniani —, che non sugli equivoci nati dalla mancata riconoscenza di determinati personaggi («lorsqu’on agit à visage découvert, et qu’on sait à qui on en veut, le combat des passions contre la nature, ou du devoir contre l’amour occupe la meilleure partie du poème», ibid.). Calepio è tuttavia convinto che in questa maniera si perda l’effetto catartico e stupefacente che la conclusione della tragedia dovrebbe contenere per riuscire a destare pietà e terrore. Tragedie incentrate soltanto sulle passioni che intercorrono fra personaggi noti, senza lo stravolgimento dell’agnizione, rischiano invece, a suo dire, di perdere progressivamente, nel corso del dramma, gran parte della loro efficacia, svuotando il quinto atto della sua peculiare importanza.
[2.2.4] L’autore torna ancora una volta sul nodo centrale della sua critica al teatro di Corneille, ossia che esso trascuri di produrre le passioni della tragedia, pietà e terrore, mettendo sulla scena dei protagonisti inadatti. Nel Cinna, ou La clémence d’Auguste, il protagonista è appunto Cinna, fedele collaboratore di Auguste e innamorato di Émilie, il quale si ritrova di fronte a un complesso dilemma. Émilie chiede infatti a Cinna di uccidere l’imperatore per vendicare il padre Toranius, mandato a morte da Augusto. I dubbi del protagonista, incapace di tradire Augusto ma anche desideroso di conservare l’amore della fanciulla, alimenta nel pubblico non tanto un sentimento di compassione — giacché, sottolinea Calepio, «qual pietà merita un traditore?» —, bensì un ben meno “utile” piacere nel vedere dipinte con grande perizia i dibattimenti interiori di un personaggio nel quale non può immedesimarsi.
[2.2.5] Per quanto anteponga l’agnizione alla rappresentazione di favole incapaci di destare compassione, Calepio precisa che il suo intento non è quello di prescrivere come necessaria la riconoscenza in ogni tragedia. Questa chiusa nasconde una polemica nei confronti di molte tragedie italiane che riproducevano in maniera inverosimile le più assurde riconoscenze soltanto per conformarsi al canonico modello dell’Edipo Re. Calepio riproduce le riflessioni del Gravina, il quale, nel Della Tragedia, dissentendo dalle opinioni di Crescimbeni sopra riportate, si lamentava dell’abuso dell’agnizione in molte opere contemporanee («Lagrimevole è l’industria de i novelli Tragici, li quali vanno sempre in traccia delle invenzioni più incredibili, e più lontane dal vero, e dalla natura, né credono aver tragica materia, senza qualche cosa perduta e poi ritrovata, e senza personaggio obbliato, e poi riconosciuto. Al qual errore son condotti dalla Poetica, opera non compita, di Aristotele, che per dare un esempio della Tragedia ravviluppata, e di evento più curioso, reca, e con ragione, l’Edipo di Sofocle, ove l’agnizione d’un figlio sconosciuto, e l’acquisto di cosa smarrita si contiene», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 511).
[2.2.6] L’agnizione, scrive Calepio, può essere trascurata più facilmente all’interno di favole doppie, dove si palesa immediatamente la diversa natura — e si profila il diverso destino — dei buoni e dei cattivi; in questo caso, così come nelle favole di lieto fine, la soluzione teorizzata da Corneille viene reputata ammissibile, in quanto non guasta l’efficacia della catastrofe. Nella sua Merope, andrà ricordato, il Maffei aveva giocato una partita completamente diversa, introducendo in maniera spettacolare una doppia agnizione che si saldava al rivolgimento della peripezia proprio all’interno di una favola doppia di fine lieto.
Il bergamasco precisa che tuttavia l’espediente dell’agnizione è raccomandabile in ogni sorta di tragedia, dal momento che risulta utile sia a mantenere viva l’attenzione dello spettatore, sia a giustificare la rappresentazione di delitti che altrimenti risulterebbero odiosi, e inoltre riesce a recare al dramma quella “meraviglia” che veniva descritta nell’articolo precedente. Essa è quindi ritenuta uno strumento indispensabile per raggiungere l’utile proprio della poesia tragica, e il fatto che venga trascurata e denigrata dalla maggior parte dei drammaturghi francesi conferma che la tragedia transalpina non persegue correttamente il fine prefisso alla tragedia.
Articolo III.
[2.3.1] Calepio viene quindi a trattare delle passioni, elemento fondamentale del sistema tragico sei-settecentesco, nel quale la rosa degli affetti rappresentabili diventa ben più ampia rispetto a quanto accadeva nella tragedia antica, anche in virtù dell’approfondimento condotto da filosofi e scienziati in merito alla natura dei sentimenti e degli affetti. Un saggio esemplare di questa attenzione moderna riservata alle passioni è indubbiamente il Traité des passions (1649) di Cartesio, ma pure nel contesto italiano si trovano testi assai rilevanti sulla questione, talvolta assai precoci, come ad esempio il Trattato delle passioni dell’animo di Pomponio Torelli. Di certo la rinnovata attenzione con cui, a partire dal Cinquecento, si guarda al complesso delle passioni umane è connessa al recupero della forma-tragedia e alla riflessione sulla rappresentazione delle passioni contenute nella Poetica di Aristotele.
Nel Seicento francese, sulla scorta di Cartesio la riflessione in merito alle passioni tragiche è particolarmente feconda, come dimostrano fra gli altri il trattato Sur les tragédies di Saint-Évremond e le Réflexions sur la Poétique d’Aristote (1674) di René Rapin; in campo italiano non mancano speculazioni di grande interesse, come quelle, oltre che di Torelli, di Gregorio Caloprese e Gian Vincenzo Gravina.
Calepio si propone in questo caso di analizzare i tre punti che ritiene fondamentali nella resa del pathos tragico, ossia la qualità delle passioni, le tecniche efficaci con cui predisporre la pietà nei confronti dei protagonisti, ed infine le modalità con cui rendere queste passioni più adatte ad attirare la commiserazione del pubblico.
Sarà bene precisare che nel discorso che segue il Bergamasco affronta il tema delle passioni da una prospettiva classicistica, intendendo con passione non tanto generalmente l’emozione rappresentata — sarà Du Bos, erede della ricca tradizione speculativa francese, a legittimare questa interpretazione del termine, insistendo sull’antinomia tra passione e sentimento (cfr. Elio Franzini, «Presentazione» a Jean-Baptiste Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, a cura di Maddalena Mazzocut-Mis e Paola Vincenzi, Palermo, Aesthetica, 2003, p. 16) —, quanto piuttosto l’atto del patire e precisamente la commozione che deriva dalla vista delle sciagure toccate in sorte al protagonista. La resa calepiana è dunque fedele all’interpretazione del termine greco «pathos», che talora andava a coincidere, nelle poetiche cinque-seicentesche, con il fatto orrendo. Ciò non toglie che nel Bergamasco siano presenti entrambe le accezioni del termine, come si è visto in precedenza, nel corso della requisitoria circa il sistema delle passioni che strutturava la tragedia di Corneille (cfr. Paragone I, 2).
Sul Trattato delle passioni dell’animo di Torelli cfr. Fabrizio Biondi, «Il trattato delle passioni umane: per una prima ricognizione», in Il debito delle lettere: Pomponio Torelli e la cultura farnesiana di fine Cinquecento, Atti del Convegno, Parma-Pontechiarugolo (13-14 novembre 2008), a cura di Alessandro Bianchi, Nicola Catelli e Andrea Torre, Milano, Unicopli, 2011, pp. 7-29.
Sul rapporto fra tragedia e passioni tra Sei e Settecento si vedano: Arnaldo Di Benedetto, Vittorio Alfieri: le passioni e il limite, Napoli, Liguori, 1987; Enrico Mattioda, «Le passioni tragiche», in Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi, 1994, pp. 17-74; Silvia Contarini, “Il mistero della macchina sensibile”: teoria delle passioni da Descartes a Alfieri, Pisa, Pacini, 1997; Paola Luciani, Le passioni e gli affetti: studi sul teatro tragico del Settecento, Pisa, Pacini, 1999; Georges Forestier, Passions tragiques et règles classiques: essai sur la tragédie française, Paris, Presses universitaires de France, 2003.
[2.3.2] La prima considerazione, circa «la qualità di ciò che si debbe patire», rileva una netta superiorità delle tragedie italiane rispetto a quelle francesi: se infatti le prime si sono dimostrate rispettose delle caratteristiche necessarie a destare la pietà del pubblico, predisponendo protagonisti mediocri e soggetti adatti a supportare l’intreccio tragico, altrettanto non si può dire, secondo Calepio, dei drammi francesi, in cui i personaggi principali sono spesso impropri (Paragone I, 1-2) e i soggetti trattati con meno decoro rispetto alle favole italiane (Paragone I, 3, [4]).
Sebbene molti teorici e drammaturghi francesi — e primo fra tutti Pierre Corneille — sostenessero che la tragedia d’oltralpe fosse capace di attirare la compassione nei confronti del protagonista della vicenda, Calepio ritiene che proprio su questo punto le pièces francesi siano senz’altro censurabili. Egli propone l’esempio de La Mort d’Achille (1674), tragedia di Thomas Corneille il cui soggetto è tratto dall’Iliade, nonché dalle tarde epitomi di Ditti Cretese e Darete Frigio. L’Achille che delinea Corneille è un personaggio torvo; egli è risoluto a frustrare le aspettative della devota concubina Briseis, con cui pure ha lietamente convissuto, ma alla quale preferisce la figlia di Priamo, Polixène. Anziché confessare a Briseis che i suoi sentimenti verso di lei sono mutati, egli la inganna facendole credere di essere ancora innamorato di lei (I, 2); costei, ingenua e profondamente generosa, nel frattempo si impegna con Polixène per ottenere una pace che dipende principalmente dal volere di Achille, suggerendo alla principessa troiana di assecondare la passione che Pyrrhus, figlio di Achille, prova per lei (I, 3). Proprio l’intercessione di Briseis è fondamentale per far sì che Polixène accetti di convolare a nozze con il rampollo acheo, il quale, entusiasta e sprovveduto a sua volta, racconta al padre del proprio amore per Polixène, chiedendo la licenza di sposare la giovane. Achille, al solito, dissimula sia con Pyrrhus che con Briseis, fingendo di avallare le nozze, salvo poi confessare di aver deciso di assecondare egoisticamente il proprio amore, piuttosto che la virtù che gli imponeva di rinunciare all’amata («Mon cœur qu’ont asservy des charmes si puissans/ Se range tout à coup du party de mes sens,/ et contre ces assauts mon courage inutile/ ne trouve plus en moy ce fier, ce fort Achille,/ Qui du sort des Troyens arbitre glorieux,/ maistrisoit la fortune, et tenoit teste aux Dieux./ Cedons, puis qu’il le faut, je suis lâche, infidelle,/ mais pour y renoncer, Polixène est trop belle», II, 5). Con queste intenzioni l’eroe greco si reca da Priamo a firmare la pace a due condizioni: che Elena sia restituita a Menelao, e che Polixène convoli a nozze con un acheo. Pyrrus si illude che il padre abbia agito a suo vantaggio, ma scopre amaramente che in realtà egli ha riservato Polixène per sé, causando tra l’altro la disperazione di Briseis. L’eroina troiana cerca di convincere Achille ad essere magnanimo e ad evitarle quel matrimonio odioso, ma lui la minaccia con la consueta meschinità: se non lo sposerà egli massacrerà i suoi concittadini. Ella si vede tristemente costretta ad acconsentire, ma viene nel finale salvata dal fato che guida Paride, il quale non sopporta la separazione da Elena impostagli dall’accordo di pace, ad uccidere Achille proprio durante la cerimonia nuziale.
Se la vicenda risente indubbiamente di una struttura di carattere pastorale che non apparteneva alle precedenti versioni («Thomas a donc fort éloigné le sujet de la légende originelle, pour en faire une chaîne amoureuse à quatre personnages, héritée de la pastorale. Le personnel dramatique se limite à ces quatre personnages et leurs confidents: la tragédie naît des passions des héros, et non pas d’un obstacle extérieur», Étienne Mahieux, «Introduction» a Thomas Corneille, La Mort d’Achille. Tragédie, Paris, Université Paris-IV Sorbonne, 2000, p. 23), indubbiamente il carattere cupo di Achille che vi campeggia denota la vicinanza a molti eroi del teatro di Pierre Corneille che non potevano incontrare il favore di Calepio. Il Bergamasco preferisce al dramma francese il ben più scialbo Achille in Troja (1728), tragedia scritta dal veronese Giovan Nicola Alfonso Montanari, sodale e ammiratore del Maffei, fondata su principi affatto diversi rispetto a quella di Corneille. Tra i personaggi della pièce italiana manca innanzitutto Briseide, mentre Priamo — che ne La Mort d’Achille non compariva direttamente — ha un ruolo decisamente importante, dal momento che influenza le decisioni della figlia. Polissena, infatti, in questa riscrittura del soggetto, è innamorata di Achille, personaggio tutto sommato positivo, e il dibattimento delle passioni riguarda piuttosto la principessa troiana, novella Chimene, combattuta fra il rispetto della memoria del fratello, ucciso da Achille, e l’amore che prova nei riguardi di colui che dovrebbe odiare.
Nell’ambito di un’analisi degli elementi stilistici attraverso cui Corneille lusinga il pubblico (sottintesi, ellissi, equivoci), si sofferma sulla natura ipocrita di Achille de La Mort d’Achille il contributo di Emmanuel Minel, «La “vivacité” dans le théâtre de Thomas Corneille: esprit d’un «cadet» du Grand Siècle entre le Siècle d’or et le Siècle des lumières», in Thomas Corneille (1625-1709): une dramaturgie virtuose, sous la direction de Myriam Dufour-Maître, Rouen, Presses universitaires de Rouen et du Havre, 2009, pp. 247-270: 266-267. Interessanti sono anche le considerazioni in merito a questo dramma fatte da Jean-Philippe Grosperrin, il quale insiste sulla rivisitazione in chiave galante e patetica del personaggio di Achille nel teatro medio e tardo-seicentesco, rilevando lo svuotamento del significato epico del mito che presiede anche alla scrittura del romanzo di Fénelon Les Aventures de Télémaque e alla traduzione dell’Iliade condotta da La Motte (Jean-Philippe Grosperrin, «L’épique mitigé. De l’art d’accommoder les fureurs d’Achille sous le règne de Louis XIV», in Palimpsestes épiques: récritures et interférences génériques, études réunies par Dominique Boutet et Camille Esmein-Sarrazin, Paris, PUPS, 2006, pp. 45-62: 48-49).
[2.3.3] Un altro bersaglio della polemica di Calepio in merito all’incapacità dei Francesi di preparare il terreno per la compassione, proponendo protagonisti inadeguati è Antoine de La Fosse, la cui prima tragedia, Polixène (1686), insiste sempre sul medesimo argomento della tragedia di Thomas Corneille, ma con una variazione importante legata al finale della vicenda. Il de La Fosse, nel tentativo di addolcire un soggetto così terribile, ne stravolge la conclusione, rendendo involontario l’omicidio di Polissena compiuto da Pirro, il quale era innamorato di lei. Nella Préface (1696) alla tragedia, egli, difendendosi dalle critiche dei detrattori che gli rimproveravano di non aver rispettato la storia, facendo sì che Pirro non uccidesse deliberatamente la principessa troiana, rivendica il proprio ruolo di poeta, sostanzialmente diverso da quello dello storico: «Un poète est un poète, et non pas un historien, et selon les règles de l’art, j’ai droit de préferer à une verité choquante une vraisemblance agréable» (Antoine de La Fosse, Préface à la Polyxène, éditeur scientifique Carine Barbafieri, site IdT — Les Idées du théâtre). Richiamandosi in parte ad Aristotele (1451a 36), in parte a Pierre Corneille, l’autore celebra la bontà della propria soluzione, capace di rendere più piacevole ad un pubblico moderno un soggetto istruttivo, ma altrimenti troppo raccapricciante («Un poète est un poète, et non pas un historien, et selon les règles de l’art, j’ai droit de préférer à une vérité choquante une vraisemblance agréable. Ainsi l’enseigne Aristote, qui déclare expressément que “ce n’est pas le propre du poète de dire les choses comme elles sont arrivées, mais comme elles ont pu ou dû arriver, nécessairement ou vraisemblablement”. Ainsi l’ont pratiqué les plus célèbres auteurs, et c’est sur ce précepte que feu Monsieur Corneille dit, sur la mort de Clytemnestre, que “pour rectifier ce sujet à notre mode, il faudrait qu’Oreste n’eût dessein que contre Égisthe, que cette reine s’opiniâtrât à la défense de son adultère, et qu’elle se mît entre son fils et lui si malheureusement qu’elle reçût le coup que ce prince voudrait porter à cet assassin de son père”», ibid.). Calepio non contesta al de La Fosse l’inosservanza del dato storico, quanto piuttosto la scarsa efficacia, sul piano patetico, della soluzione adottata: secondo il Bergamasco l’autore della tragedia, rappresentando come involontario l’omicidio di Polissena, spreca la bellezza insita nel soggetto, che consisteva proprio nella possibilità di far ragionare pateticamente i due protagonisti, combattuti fra l’amore e la necessità di rispettare la legge.
Sulla rappresentazione di Polissena come archetipo della magnanimità eroica, usuale nel teatro francese del Seicento condizionato dalla drammaturgia corneilliana dell’ammirazione, si sofferma Bruno Garnier, Pour une poétique de la traduction: l’Hécube d’Euripide en France de la traduction humaniste à la tragédie, Paris, L’Harmattan, 1999. Sulla Préface della Polyxène e sul contesto delle Polissene francesi cfr. Carine Barbafieri, Atrée et Céladon: la galanterie dans le théâtre tragique de la France classique (1634-1702), Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2006, pp. 243-245.
[2.3.4] Nella Polissena (1715) di Annibale Marchese, diversamente da quanto accade in quella del Francese, Pirro uccide l’amata Polissena, ottemperando all’ordine degli dei. Apollo infatti aveva imposto che, per placare l’ombra adirata di Achille, una delle due figlie di Priamo — quella più cara all’eroe greco — venisse sacrificata. Pirro, sin dall’inizio, cerca di forzare l’interpretazione dell’oracolo, suggerendo che a morire debba essere Cassandra, e al contempo dissimula, senza troppo successo, il proprio amore per Polissena. Quando, nel quinto atto, la nutrice di Polissena palesa a tutti che Pirro è amante della principessa, i piani di fuga falliscono definitivamente: a Pirro non resta che compiere il sacrificio rituale e suicidarsi («Disperato ti sieguo, e ti prometto/ venir pur teco nelle Stigie arene», V, 4). Questa gestione degli affetti è secondo Calepio assai più patetica della condotta tragica adottata dal de La Fosse, dal momento che il Marchese riesce così ad accrescere il pathos aggiungendo alla pena dello spettatore per Polissena, la compassione per Pirro.
Ritornando alla Préface della Polyxène, Calepio considera inconsistente l’appello del drammaturgo all’auctoritas di Corneille (cfr. Paragone II, 3, [4], il quale, nel Discours de la tragédie, rifletteva sull’opportunità di introdurre un simile cambiamento nel rappresentare l’omicidio di Clitemnestra da parte di Oreste. Egli supponeva che sarebbe stato meglio mettere in scena un assassinio involontario, immaginando che Clitemnestra avrebbe potuto essere colpita dal figlio nel tentativo di difendere il marito Egisto [Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 159]). Calepio concorda con Corneille, dal momento che reputa odioso per uno spettatore moderno vedere inscenato un matricidio premeditato; tuttavia egli non mette la vicenda di Polissena e quella di Clitemnestra sullo stesso piano, dal momento che il delitto di Pirro non è compiuto per un empio desiderio di vendetta, ma per adempiere alla volontà divina, seppure a malincuore.
Articolo IV.
[2.4.1] Ciò che deve risaltare nel finale della tragedia, secondo Calepio, è il nucleo delle due passioni catartiche per eccellenza, pietà e terrore. Qualunque altro affetto che si inserisca in questo momento cruciale rischia di distrarre lo spettatore, facendo perdere alla rappresentazione quella preziosa utilità morale senza la quale essa non avrebbe senso di esistere. A partire da questa constatazione, l’autore giudica benevolmente le tragedie italiane, al confronto con quelle francesi, per il fatto che le prime non fanno quasi mai ricorso a personaggi integralmente pravi, cosa che invece accade nelle tragedie di Corneille (si pensi, ad esempio, al caso dell’assai dibattuta Rodogune) e di molti altri drammaturghi francesi. Nell’ottica del Bergamasco, l’introduzione di un antagonista malvagio costituirebbe una distrazione per l’uditorio, dal momento che, anziché disporre gli intervenuti a provare compassione per i miserevoli casi del protagonista sventurato, farebbe covare loro un sentimento di animosa ostilità nei confronti del cattivo: l’insorgere di questo slancio di indignazione ridurrebbe tuttavia notevolmente l’effetto della «purgazione». Calepio addita a modello, fra le tragedie italiane in cui non compaiono simili personaggi, la Sofonisba di Trissino, l’Oreste di Rucellai, il Solimano di Prospero Bonarelli, l’Aristodemo di Carlo de’ Dottori e l’Ulisse il giovane di Domenico Lazzarini. La Sofonisba e l’Oreste erano le due prime tragedie stampate da Scipione Maffei nella sua antologia del Teatro Italiano; entrambe giocano sul conflitto interiore del protagonista mediocre — Sofonisba, combattuta tra affetti privati e amor di patria, e Oreste, costretto ad agire in modo empio per ordine degli dei — e sono prive di personaggi malvagi. Nel Solimano di Bonarelli e nell’Aristodemo del Dottori, a loro volta antologizzate dal Maffei, compaiono ancora protagonisti mediocri che agiscono in preda all’ambitio regnandi, sacrificando intenzionalmente o meno i figli ad una causa politica. Fra le tragedie del Settecento Calepio non può ovviamente citare la Merope del Maffei, favola doppia in cui il malvagio tiranno Polifonte viene infine destituito; egli nomina quindi l’Ulisse del Lazzarini, in cui viene rigorosamente ripreso il modello dell’Edipo Re. Come in altri casi appare evidente che il Bergamasco tenti di delegittimare una tipologia drammaturgica contemplata da Aristotele, come la favola doppia. Infatti, rispetto al primo capo, dove Calepio contestava, in accordo col filosofo greco, il mancato rispetto della «mediocrità» del protagonista, in questo frangente si passa ad attaccare l’introduzione di personaggi secondari improntati al vizio e alla scelleratezza. Questo espediente era tuttavia costitutivo della favola doppia, in cui si prevedeva un diverso esito per le vicende dei buoni e dei cattivi.
[2.4.2] Vengono di seguito nominati due esempi di tragedie italiane in cui non è rispettato il consiglio di non inserire personaggi malvagi: nell’Orbecche di Giraldi Cinzio il cattivo è rappresentato da Sulmone, padre di Orbecche, ai danni della quale mette in atto un terribile piano di vendetta; nella Rosmonda del Rucellai, invece, all’innocente protagonista si oppone il crudele Alboino, che forza la principessa ad umiliarsi, denigrando le reliquie paterne. Questa parentesi non distoglie l’autore dal perseverare nella sua requisitoria contro i Francesi. Il tragico che viene maggiormente biasimato è ancora una volta Corneille, autore di molte tragedie in cui vengono delineati personaggi spietati, operanti esclusivamente al fine di nuocere. Il caso preso in esame da Calepio è quello della Rodogune, già censurata in questo senso dal Maffei nelle sue Osservazioni, proprio perché in questa tragedia campeggiava il carattere fieramente disumano della regina Cléopâtre, la quale, gelosa della principessa Rodogune, aveva costretto i due figli ad uccidere la ragazza, benché entrambi ne fossero stati innamorati e, in seguito al loro rifiuto, aveva tentato di ucciderli entrambi, riuscendo ad eliminare soltanto Séleucus. Per legittimare il ricorso a personaggi estremamente virtuosi o eccessivamente cattivi, Corneille ammetteva che «un homme de bien qui souffre excite plus de pitié pour lui que d’indignation contre celui qui le fait souffrir» (Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 149). Quindi, nel caso in cui un protagonista virtuoso divenisse il bersaglio dei progetti criminali di un malvagio e riuscisse a salvarsi dalle persecuzioni a cui va incontro, esso causerebbe nello spettatore una pietà ben maggiore dell’indignazione che produrrebbero le azioni del cattivo. Il caso di Antiochus nella Rodogune — il cui intreccio è mutato rispetto a ciò che narrava la storia proprio per far risaltare questo aspetto compassionevole (cfr. Pierre Corneille, Rodogune, in Id., Œuvres complètes, t. II, cit., p. 202) — è emblematico di questo procedimento. Scrive infatti Corneille, riferendosi oltre che al personaggio di Antiochus a Héraclius, Pulchérie e Martian, protagonisti dell’Héraclius: «Leur malheur y donne une pitié qui n’est point étouffée par l’aversion qu’on a pour ceux qui les tyrannisent, parce qu’on espère toujours que quelque heureuse révolution les empêchera de succomber» (Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», cit., p. 155). Calepio si impegnerà nel paragrafo successivo a confutare questa posizione. Si noti come il bergamasco riprenda con puntualità il testo di Corneille, del quale fornisce una sorta di traduzione; ciò conferma che sullo scrittoio del bergamasco non manca, lungo tutta la stesura del Paragone, una copia dei Discours, ai quali egli fa costantemente riferimento.
[2.4.3] Calepio rinfaccia a Corneille in prima battuta una mancanza di coerenza: se infatti, affinché si inneschi questa compassione che il francese ritiene equivalente a quella descritta da Aristotele, è necessario che l’innocente non perisca, questa stessa condizione è violata nella Rodogune, dal momento che, mentre Antiochus sopravvive, il fratello Séleucus, altrettanto virtuoso, viene pugnalato a morte dalla madre. Tale delitto è compiuto inoltre, secondo l’autore del Paragone, con un’efferatezza assai maggiore di quella che caratterizzava l’infanticida Medea, dal momento che, all’inizio dell’atto quinto, Cléopâtre, dopo aver mentito a Séleucus, simulando una rappacificazione per poi ucciderlo a tradimento, rientra in scena vantandosi degli atroci crimini commessi («Enfin, grâce aux dieux, j’ai moins d’un ennemi:/ La mort de Séleucus m’a vengée à demi;/ Son ombre, en attendant Rodogune et son frère,/ Peut déjà de ma part les promettre à son père;/ Ils le suivront de près, et j’ai tout préparé/ Pour réunir bientôt ce que j’ai séparé», Rodogune, V, 1, vv. 1497-1502). Inoltre Calepio, richiamandosi all’esercizio della ragione che riteneva fin dal primo capo un carattere distintivo del suo scritto, un criterio fondamentale al quale sottoporre la bontà di ogni invenzione, nega che questo meccanismo comporti una compassione pari o maggiore a quella che imponeva la tradizionale favola complessa, eletta a prototipo da Aristotele. A suo parere infatti la catastrofe finale è un elemento imprescindibile del dispositivo tragico, in quanto proprio la risoluzione nefasta causa nello spettatore i sentimenti più vivi di pietà e terrore. Se quindi, da una parte, la favola doppia della Rodogune, con il finale lieto riservato ad Antiochus e la morte della spietata Cléopatra, è intrinsecamente destinata a generare un effetto ridotto, il suicidio dell’antagonista non previene lo spettatore dal provare un profondo risentimento nei confronti di quella madre sciagurata, distogliendolo dal provare i sentimenti attraverso i quali dovrebbe purificarsi.
Il giudizio di cui godrà la Rodogune nel Settecento sarà per lo più il medesimo che pronuncia Calepio, sebbene per motivi diversi; se Voltaire, nei suoi Commentaires, rimproverava Corneille per non aver rispettato la verità storica degli eventi trattati e per aver versificato in modo assai scadente, ben più vicina alla posizione calepiana è la critica di Lessing. Questi, nella sua Hamburgische Dramaturgie, condanna aspramente l’immoralità del soggetto e del personaggio di Cléopâtre, che a differenza di quanto scrive il drammaturgo francese in un altro passo dei suoi Discours (Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 129), egli non considera minimamente degno d’ammirazione (Gotthold Ephraim Lessing, Hamburgische Dramaturgie, in Id., Werke, IV. Dramaturgische Schriften, hrsg. von Karl Eibl, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1996; trad. it. Drammaturgia d’Amburgo, a cura di Paolo Chiarini, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 152-156).
Sulla ricezione della Rodoguna nel Settecento si veda Domenico Mugnolo, «Ambizione di regina o gelosia di donna? Lessing, Maffei e Voltaire leggono Rodogune», in Settecento tedesco ed Europa romanza, a cura di Giulia Cantarutti, Bologna, Pàtron, 1995, pp. 29-50. Sul piacere tragico causato da un protagonista crudele come Cléopâtre, cfr. Jan Miernowski, «Le plaisir tragique de la haine. Rodogune de Corneille», Revue d’histoire littéraire de la France, CIII, 4, 2003, pp. 789-821.
[2.4.4] Neppure Racine viene risparmiato dalla critica di Calepio, il quale nota un problema simile a quello rilevato nella Rodogune di Corneille anche nell’Iphigénie raciniana. In questa tragedia, accanto alla virtuosa protagonista, si staglia un personaggio non totalmente positivo come quello di Eriphile, schiava di Achille, la quale, poco prima che avvenga il sacrificio della figlia di Agamennone, denuncia a Calchas i piani di fuga che prevedono il trasferimento di Ifigenia lontano dall’Aulide per farle scampare la morte («Ah! Je succombe enfin/ Je reconnais l’effet des tendresses d’Achille./ Je n’emporterai point une rage inutile:/ Plus de raisons, il faut ou la perdre ou périr…/ Viens, te dis-je. À Calchas je vais tout à découvrir», IV, 11). Il sacerdote, interrogando nuovamente gli dei, scopre poi che la vittima destinata al sacrificio non è l’Ifigenia destinata in sposa ad Achille, bensì proprio Eriphile, in realtà figlia di Elena e Teseo ed originariamente chiamata a sua volta Iphigénie. Proprio la natura vilmente delatoria dell’azione di Eriphile caratterizza il personaggio come un malvagio agli occhi di Calepio, negando di fatto il perfetto compimento della purgazione finale.
Su questo interessante finale raciniano si sono soffermati numerosi critici moderni, i quali hanno dato diverse interpretazioni di questo «dénouement»: alcuni hanno intravisto nell’uccisione di Eriphile l’attuazione di un piano divino che premia i buoni e punisce i cattivi, garantendo alla vicenda un finale lieto che di fatto inclina la tragedia verso la tragicommedia (Roland Barthes, Sur Racine, Paris, Éditions du Seuil, 1963, p. 115; Jean Emelina, Racine infiniment, Paris, Sedes, 1999, pp. 136-137); altri hanno attribuito all’eccesso di passioni della figlia di Elena la causa della calamità che la colpisce (Eléonore M. Zimmermann, La Liberté et le destin dans le théâtre de Jean Racine; suivi de deux essais sur le théâtre de Jean Racine [1982], Genève, Slatkine, 19992, pp. 77-78); si è inoltre spesso fatto ricorso a categorie di analisi proprie dell’antropologia girardiana nell’analizzare lo statuto sacrificale di Ifigenia ed Erifile, attraverso sondaggi che giungevano anche ad esiti assai divergenti: Defaux, ad esempio, sosteneva che l’identità della vittima sacrificale, fosse essa Eriphile oppure Iphigénie, era scarsamente rilevante (Gérard Defaux, «Violence et passion dans l’Iphigénie de Racine», French Forum, IX, 2, 1984, pp. 162-180), mentre Goodkin manifestava il suo sostanziale disaccordo, insistendo sull’importanza dello scambio fra le due ragazze (Richard E. Goodkin, The Tragic Middle: Racine, Aristotle, Euripides, Madison, Wisconsin University Press, 1991, p. 202). Calepio, dal canto suo, riconosce ancora una volta in questa tragedia la riprovata struttura della favola doppia e ritiene la soluzione raciniana assai meno pietosa di quella dell’Ifigenia in Aulide di Euripide, laddove la figlia di Agamennone veniva rapita e salvata dagli dei al momento del sacrificio senza che intervenisse alcun personaggio malvagio nell’intreccio.
Per una ricognizione del dibattito sulla struttura e sul finale dell’Iphigénie si rimanda anche a John Campbell, «Tragedy between “Optmism” and “Pessimism”», in Id., Questioning Racinian Tragedy, Chapel Hill, North Carolina University Press, 2005, pp. 133-149.
[2.4.5] Rispetto all’introduzione di crudeli antagonisti, capaci soltanto di distogliere la concentrazione dello spettatore dal nucleo emotivo della vicenda, Calepio ritiene assai più utile il ricorso a personaggi secondari che si soffermino sui casi miserandi dei protagonisti, disponendo gli spettatori alla misericordia. Il Bergamasco si fa così sostenitore del Coro della tragedia greca, atto a compatire gli eroi miseri, con una punta di ipocrisia, se vogliamo, dal momento che nei capi successivi demolirà ogni impiego del personaggio corale nella tragedia moderna. Oltre al Coro, il Bergamasco reputa adatti a svolgere questa funzione anche i messi e i nunzi. Queste affermazioni non paiono soltanto dettate dalla volontà di sostenere una strategia drammaturgica adottata dal teatro tragico italiano rinascimentale — si pensi soprattutto alla Sofonisba di Trissino — e in generale classicistico — anche le tragedie di Lazzarini e di Salìo presentano la medesima struttura —, ma anche a validare, secondo una prospettiva militante, la soluzione compositiva che lo stesso Calepio aveva perseguito, in qualità di autore, nelle sue due tragedie inedite, il Perdicca e il Seleuco. Nella prima di queste due pièces, egli aveva infatti introdotto un Coro largamente presente, sia nel mezzo che in conclusione degli atti, affidandogli appunto il compito di amplificare la miseria dei dolorosi casi occorsi ai protagonisti. In entrambi i drammi, più in generale, l’incarico di descrivere dettagliatamente i punti più delicati della vicenda, con dovizia di particolari lacrimevoli, atti a suscitare la compassione, era affidata ai nunzi, secondo una pratica che la drammaturgia italiana cinquecentesca aveva ripreso dalla tragedia greca, e che invece era stata generalmente trascurata nel teatro francese del Seicento.
[2.4.6] Lo scioglimento della tragedia dovrebbe essere, nell’ottica calepiana, il momento nel quale l’effetto patetico deve essere amplificato ed esaltato per muovere lo spettatore a compassione. Di conseguenza, alla descrizione minuziosa degli eventi tragici fatta da un nunzio, non si possono a suo parere riservare poche secche battute in cui si dà semplicemente notizia dell’accaduto. Egli censura quindi la conclusione della Théodore di Pierre Corneille, tragedia basata sulla storia di Santa Teodora, oggetto dell’amore casto e devoto di Didyme, quanto di quello di Placide, figlio del governatore di Antiochia, Valens, deciso a ripudiare la giovane Flavie, figlia di Marcelle, seconda moglie del padre, pur di conquistare la ragazza cristiana. Nel finale si scatena la furia di Marcelle, la quale, per vendicare la figlia, uccide Théodore, oggetto d’amore del figliastro e mancato genero, e con lei Dydime. Il gesto folle della donna è narrato a Valens dalla confidente Stéphanie in pochi versi ed in modo alquanto secco: «De l’escalier à peine elle [Marcelle] était descendue,/ Qu’elle aperçoit Placide aux portes du palais,/ Suivi d’un gros armé d’amis et de valets;/ Sur les bords du perron soudain elle s’avance,/ Et pressant sa fureur qu’accroît cette présence:/ “Viens”, dit-elle, “viens voir l’effet de ton secours”;/ Et sans perdre le temps en de plus longs discours,/ Ayant fait avancer l’une et l’autre victime,/ D’un côté Théodore, et de l’autre Didyme,/ Elle lève le bras, et de la même main/ Leur enfonce à tous deux un poignard dans le sein», V, 8, vv. 1796-1806. Ciò che interessa a Corneille non è tanto destare la commozione del pubblico attraverso un ragguaglio preciso dell’avvenimento che metta in risalto, con stile delicato e patetico, la forza d’animo di Teodora e l’eccezionale portata del sacrifico di Didimo, ma piuttosto il dibattimento interiore di Placide e soprattutto il sadico piacere provato da Marcelle nel vedere il giovane atterrito, nonché il gesto eroico con la quale la donna si toglie la vita, come illustra ampiamente il successivo e dettagliato resoconto fornito a Valens: «Cependant, triomphante entre ces deux mourants,/ Marcelle les contemple à ses pieds expirants,/ Jouit de sa vengeance, et d’un regard avide/ En cherche les douceurs jusqu’au coeur de Placide;/ Et tantôt se repaît de leurs derniers soupirs,/ Tantôt goûte à pleins yeux ses mortels déplaisirs,/ Y mesure sa joie, et trouve plus charmante/ La douleur de l’amant que la mort de l’amante,/ Nous témoigne un dépit qu’après ce coup fatal,/ Pour être trop sensible il sent trop peu son mal;/ En hait sa pâmoison qui la laisse impunie,/ Au péril de ses jours la souhaite finie./ Mais à peine il revit, qu’elle, haussant la voix:/ “Je n’ai pas résolu de mourir à ton choix,/ Dit-elle, ni d’attendre à rejoindre Flavie/ Que ta rage insolente ordonne de ma vie.”/ À ces mots, furieuse, et se perçant le flanc/ De ce même poignard fumant d’un autre sang,/ Elle ajoute: “Va, traître, à qui j’épargne un crime;/ Si tu veux te venger, cherche une autre victime./ Je meurs, mais j’ai de quoi rendre grâces aux dieux,/ Puisque je meurs vengée, et vengée à tes yeux.”», V, 8, vv. 1817-1838.
La critica di Calepio è mossa ancora una volta da una profonda divergenza di vedute rispetto al teatro di Corneille: se per il Bergamasco la tragedia deve rappresentare le disavventure dei miseri, spingendo lo spettatore a provare pietà per il proprio simile caduto in disgrazia, il Francese è interessato a dare vita alle forti passioni di personaggi eccezionali, capaci di produrre l’ammirazione, che ha luogo di fronte ad oggetti tanto positivi quanto negativi, purché grandi, come ricordava Cartesio (Descartes, Les Passions de l’âme, in Id., Œuvres et lettres, édité par André Bridoux, Paris, Gallimard, 1949, pp. 584-585). Nel suo Examen della tragedia, d’altra parte, il drammaturgo francese mostrava di essere ben conscio delle scarse potenzialità patetiche della Théodore, e criticava peraltro il personaggio della santa, troppo freddo ed incapace di muovere le passioni del pubblico. Al contrario, egli riteneva particolarmente riuscito il personaggio di Marcelle — ma d’altro canto egli amava particolarmente anche la Cléopâtre della Rodogune —, grande nella sua fierezza, al punto che sarebbe apparso inverosimile qualora il finale del dramma fosse stato diverso e meno crudo («J’avais peint des haines trop envenimées pour finir autrement; et j’eusse été ridicule si j’eusse fait faire au sang de ces martyrs le même effet sur les cœurs de Marcelle et de Placide, que fait celui de Polyeucte sur ceux de Félix et de Pauline», Pierre Corneille, Théodore vierge et martyre, in Id., Œuvres complètes, t. II, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 272).
Diversamente aveva agito, mettendo in scena lo stesso soggetto, Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX, nel suo dramma agiografico Santi Didimo e Teodora, in cui il martirio veniva descritto in una scena apposita da un nunzio (III, 10), e il patetismo della risoluzione veniva accresciuto dalle lamentazioni di Ostilia e Clearco che piangevano la perdita dei figli (III, 9-11; cfr. Argomento del dramma musicale de’ Santi Didimo e Teodora, Roma, Nella Stamperia della Rev. C. Apost., 1635).
Sulla drammaturgia di Rospigliosi, indagata diffusamente in anni recenti, si soffermano: Margaret Murata, «Rospigliosiana ovvero gli equivoci innocenti», Studi musicali, IV, 1975, pp. 131-143; Rosella Cristofori, «Le opere teatrali di Giulio Cesare Rospigliosi», Studi romani, XXVII, 3, 1979, pp. 302-316; Danilo Romei, «Il papa “comico”. Sui melodrammi di Giulio Rospigliosi (Clemente IX)», Paragone/Letteratura, XLI, n. s., 482, 20, 1990, pp. 43-62. Si vedano inoltre, per un inquadramento dell’opera di Rospigliosi nel contesto francese del Seicento, nonché per l’analisi di singoli melodrammi del “papa comico”, i molteplici studi di Arnaldo Morelli, Teresa Chirico e Simona Santacroce. Sul rapporto fra l’avantesto di Rospigliosi e la tragedia di Corneille si rimanda al classico contributo di Marc Fumaroli, Héros et orateurs: rhétorique et dramaturgie cornéliennes, Genève, Droz, 1996, in part. pp. 241-248.
[2.4.7] Oltre alla Théodore, anche il Polyeucte di Corneille viene biasimato da Calepio, in quanto il martirio finale dell’eroe non viene descritto puntualmente con il concorso di numerosi dettagli patetici, ma viene liquidato in pochi versi da Pauline nella scena in cui questa palesa la sua conversione al cristianesimo (V, 5) attraverso un monologo che fa riferimento al sacrificio di Polyeucte, precedentemente condannato da Felix (V, 3), in modo invero piuttosto scarno («Mon époux en mourant m’a laissé ses lumières;/ Son sang, dont tes bourreaux viennent de me couvrir,/ M’a dessillé les yeux, et me les vient d’ouvrir./ Je vois, je sais, je crois, je suis désabusée./ De ce bienheureux sang tu me vois baptisée», V, 5, vv. 1724-1728). Corneille si era soffermato su questo punto nell’Examen del 1660 — che Calepio dimostra di conoscere —, asserendo che in quel contesto la narrazione della morte di Polyeucte non sarebbe risultata efficace agli orecchi dei pagani che l’ascoltavano, e che per questo motivo, e per non svilire la dignità dell’azione principale, aveva preferito affidare un breve resoconto del martirio alle parole di Pauline: «Je n’ai point fait de narration de la mort de Polyeucte, parce que je n’avais personne pour le faire ni pour l’écouter, que des païens qui ne la pouvaient ni écouter, ni faire que comme ils avaient fait et écouté celle de Néarque, ce qui aurait été une répétition et marque de stérilité, et, en outre, n’aurait pas répondu à la dignité de l’action principale, qui est terminée par là. Ainsi j’ai mieux aimé la faire connaître par un saint emportement de Pauline, que cette mort a convertie, que par un récit qui n’eût point eu de grâce dans une bouche indigne de le prononcer» (Pierre Corneille, Polyeucte martyr, in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 982).
[2.4.8] In questo caso Calepio fa riferimento ad alcune battute della Lettre contenant la critique de l’Œdipe de Sophocle di Voltaire, già censurato nella giovanile Apologia di Sofocle. Voltaire giudicava allora, in contrasto con l’opinione di Dacier, che il quinto atto dell’Edipo Re di Sofocle fosse inefficace a causa del lungo racconto della morte di Giocasta e della catastrofe di Edipo che occupavano la scena di una vicenda che sarebbe risultata più valida qualora fosse terminata con il quarto atto. Il drammaturgo francese comprova questa convinzione con l’esperienza diretta del suo Œdipe; anch’egli infatti aveva concepito la sua favola, in ossequio all’autorità di Edipo e di Dacier, consacrando l’ultimo atto al resoconto patetico delle sventure dei protagonisti. Tuttavia quei lunghi discorsi non avevano retto in quel caso alla prova della scena, causando la noia degli spettatori («J’avais pris dans Sophocle une partie du récit de la mort de Jocaste et de la catastrophe d’Œdipe. J’ai senti que l’attention du spectateur diminuait avec son plaisir au récit de cette catastrophe; les esprits remplis de terreur au moment de la reconnaissance n’écoutaient plus qu’avec dégoût la fin de la pièce», Voltaire, «Lettre contenant la critique de l’Œdipe de Sophocle», in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, p. 347). Calepio, prendendo spunto da queste considerazioni, taccia il Francese di invidia nei confronti del più capace poeta greco, denunciando il motivo personalistico e meschino che sta alla base della critica voltairiana: la sua tragedia era risultata noiosa in quanto la peripezia veniva sdoppiata inutilmente, facendo diminuire l’attenzione del pubblico («Il fondamento, si può dire unico, di questa censura è la disapprovazione ch’ebbe la prima volta la tragedia di M. de Voltaire: e da questo egli ha preso motivo di sofisticare sopra l’asserzione di M. Dacier. Io non posso sapere tutte le cagioni per le quali fu disapprovata questa parte, ce da lui poscia è stata omessa, non avendola veduta. Una nondimeno io ne deduco dalla lettura delle cose precedenti della stessa sua tragedia; ed è che la peripezia del nuovo Edippo si compie in due volte, perché prima si ricconosce ch’egli è l’omicida ricercato; poi, ch’egli è figliuolo di Giocasta; la seconda fa molto minore impressione che nella tragedia di Sofocle, in cui si fa tutta la riccognizione e tutta la catastrofe in un sol punto; onde, tocco lo spettatore da più recente e da più grande sorprendimento, attende più vivamente gli effetti che son per seguire», Pietro Calepio, L’Apologia di Sofocle, in Mario Scotti, «L’“Apologia di Sofocle” di P. de’ Conti Calepio», Giornale storico della letteratura italiana, CXXXIX, 427, 1962, pp. 418-419).
Capo III.
Dell’uso che suol farsi degli Episodi.
Articolo I.
[3.1.1] Aristotele accenna nella Poetica al differente trattamento da riservare agli episodi nella tragedia e nell’epopea, specificando che, a differenza di quanto accade nei drammi, nei quali le digressioni che rallentano lo sviluppo dell’intreccio principale devono essere brevi, il poema epico si costruisce proprio sull’accumulo di episodi di media e cospicua lunghezza. Egli, commentando la fattura dell’Odissea, riflette su come l’argomento centrale del poema di Omero sia tutto sommato semplice e ridotto, ma l’introduzione di molti e talvolta corposi episodi allunga notevolmente l’estensione dell’opera (Poetica, 1455b 15-24).
A differenza di Aristotele, Calepio insiste sul diverso spazio assegnato agli episodi nella tragedia e nell’epopea, riaffermando ancora una volta uno dei principi chiave della sua opera, ossia la netta distinzione tra il fine della poesia epica, tesa a dilettare il lettore, e quello della poesia drammatica, deputata a giovare al pubblico attraverso la sollecitazione della pietà. Calepio propone, non diversamente da Corneille, una tragedia di stampo fortemente cristiano, ma a differenza del Francese, il quale sviluppava nelle sue tragedie una sorta di agiografia eroica, pienamente rispondente ai principi del gesuitismo cattolico, l’autore del Paragone insiste sulla definizione di personaggi fallibili, tutt’altro che eroici, e proprio per questo adatti a far nascere nello spettatore il sentimento della misericordia, secondo una sensibilità che parrebbe accogliere alcune spinte riformistiche gianseniste e pietiste nel valorizzare la manchevolezza dell’essere umano a partire da una prospettiva che richiedeva necessariamente, per la salvazione, l’intervento della Grazia divina.
Lo spettatore è portato a immedesimarsi nel protagonista e a compatirlo proprio in virtù del fatto che egli riscontra in lui i suoi medesimi difetti; la scena si configura come uno specchio nel quale il pubblico vede riflessi i propri vizi e le proprie imperfezioni, e vedendoli rappresentati non può che averne misericordia attraverso un’operazione che struttura la pietas cristiana.
Proprio per questo motivo egli rigetta l’ipotesi avanzata dal Castelvetro, secondo cui il piacere causato dalle rappresentazioni teatrali è di tipo «obliquo», in quanto porterebbe lo spettatore a compiacersi della propria umanità, certificata dal fatto che prova compassione nei confronti dei miseri («Ma ci dobbiamo ricordare di quello, che è stato detto di sopra che il fine della poesia è il diletto e che il diletto si divide in due parti, l’una è diletto oblico, e l’altra è diletto diritto. Il diletto oblico è proprio della tragedia, il quale si sente quando in tragedia si rappresenta uno avenimento fortunoso, per lo quale una persona da bene cade di felicità in miseria, et pare esser generato dalla compassione, et dallo spavento», Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1979, p. 367; su questo punto si rimanda a Paragone I, 1, [1]). Il piacere tragico per Calepio è al contrario diretto: è per l’appunto nella debolezza del protagonista — che il bergamasco ha così scrupolosamente notato nel primo capo, recensendo svariate tragedie italiane dal punto di vista della qualità del personaggio principale — che l’uditore riconosce se stesso e prova pietà secondo un meccanismo cristianamente catartico. Su questo nodo fondamentale della poetica tragica di Calepio cfr. Paragone I, 2, [2], nonché Enrico Zucchi, «Il “diletto tragico” e l’“ammirazione accessoria”. In margine alle critiche della tragedia corneilliana mosse nel Paragone di Pietro Calepio», Critica letteraria, XLIV, 170, 2016, pp. 92-112.
[3.1.2] Secondo la classica concezione settecentesca, Calepio individua nella tragedia greca il modello di semplicità drammaturgica a cui rifarsi. Nelle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide non si riscontrerebbero infatti prolissità a livello di intreccio — il discorso è più complesso a livello di stile, dal momento che molti letterati settecenteschi consideravano le tragedie greche o grecheggianti talvolta eccessivamente verbose, soprattutto in determinate zone topiche, e segnatamente nei cori, oppure nell’esposizione di antefatti o avvenimenti accaduti fuori scena, di solito ad opera di nunzi o messi. Il Bergamasco non si limita a trattare della tragedia, ma affronta anche il problema della commedia, la cui bellezza, al contrario, risiederebbe proprio nell’intreccio di episodi secondari e digressioni, come dimostra il caso di Terenzio, preferito a Menandro da Donato, grammatico del IV secolo, proprio per aver arricchito gli argomenti delle opere del drammaturgo greco. Le commedie di Terenzio, fortunatissime nel Medioevo e poi nel Rinascimento, venivano regolarmente pubblicate, fino al Settecento, con l’accessus e il commento di Donato, al quale Calepio poteva facilmente attingere. La tragedia non potrebbe invece, secondo lui, trarre giovamento dal concorso di molti episodi che distolgono lo spettatore dall’unico scopo per il quale egli si è recato a teatro, ossia essere mosso a compassione.
[3.1.3] Discutendo delle tragedie italiane a livello di intreccio, Calepio distingue due differenti tipologie di tragedia: una propriamente classicistica, una assai meno fedele alla semplicità dell’archetipo greco, praticata soprattutto nel Seicento, ad esempio dal Bonarelli e dal Dottori. Se nel primo caso è ovviamente rispettata la linearità della favola, nella quale non sono introdotti episodi secondari, potenzialmente capaci di distrarre il pubblico, nell’altro, in cui pure non mancano digressioni, egli riscontra una generale moderazione.
In realtà, nel caso dell’Aristodemo, il tragico sacrificio a cui va incontro Merope ha luogo soltanto in virtù dello sviluppo di una fitta trama di ingegnosi episodi ausiliari: prima viene individuata Arena come vittima sacrificale, poi quest’ultima fugge con il padre Licisco costringendo il popolo a designare una nuova martire; a quel punto interviene il rovello di Aristodemo, diviso fra amore paterno e ambizione politica, che prevale alfine, facendogli offrire la figlia Merope in olocausto; quindi si interpone lo stratagemma di Policare, il quale dichiara falsamente di aver giaciuto con Merope, nel tentativo di dipingerla come vittima inadatta, in quanto non più vergine. Tutte queste diversioni sembrano avviare in molteplici occasioni il dramma verso il lieto fine, ma in realtà indirizzano la vicenda all’ineluttabile catastrofe, secondo un dispositivo che Maria Panetta ha proficuamente letto in termini jaspersiani («il senso del tragico dell’Aristodemo si può condensare, appunto, proprio in questa difficoltà — che poi diviene impossibilità — di abbandonarsi alla fiducia nel cessare del “vento” (v. 66), in questo senso di attesa degli eventi e di trepidazione presaga di sventure, persino nel momento dell’annuncio della fine del pericolo», Maria Panetta, «“La mal sicura speme”. Il senso del tragico nell’Aristodemo di Carlo de’ Dottori», in Temi e letture, a cura di Cristiano Spila, «Studi (e testi) italiani», XVIII, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 131-141: 133).
Nel Solimano di Bonarelli — la cui struttura è notevolmente accresciuta rispetto alla tragedia francese cinquecentesca La Soltane di Gabriel Bounin, come dimostra la rosa dei personaggi parlanti, passati da sette a venti — il protagonista eponimo, seguendo il perfido consiglio della moglie Regina, la quale mira a porre sul trono suo figlio Selino, fa uccidere il proprio erede Mustafà, che poi si scopre essere in realtà figlio anche di Regina. In questo intreccio si incastonano elementi romanzeschi tipici della drammaturgia seicentesca, come la storia d’amore fra Despina, figlia del re di Persia celatasi in abiti maschili, e Mustafà, o l’introduzione del personaggio di Mulearbe, indovino del re.
La fabula di queste due tragedie, in entrambi i casi complicata da una sottotrama amorosa, era tutt’altro che semplice, ma non viene ritenuta censurabile dal Calepio, il quale pure parrebbe riconoscere in questi soggetti seicenteschi difetti non troppo dissimili da quelli che scorgeva nelle coeve tragedie francesi. Egli tuttavia, per perseguire con coerenza la propria strategia argomentativa, che procede dal riconoscimento di un primato italiano nella composizione della struttura tragica e di una supremazia francese nella resa teatrale, considera più gravi le carenze strutturali delle tragedie francesi — nelle quali condanna l’introduzione di episodi secondari a sfondo amoroso —, mentre biasima nelle italiane non tanto lo sviluppo dell’intreccio, quanto l’introduzione di episodiche sconvenevolezze stilistiche che risultano poco convenienti e noiose per il pubblico.
Sui rapporti fra il Solimano di Bonarelli e La Soltane di Bounin, cfr. Guy Le Thiec, «Le complot de Roxelane. La Soltane de Gabriel Bounin (1561) et Il Solimano de Prospero Bonarelli (1619): deux tragédies politiques à la cour de France et dans la Florence des Medicis», in Complots et conjurations dans l’Europe moderne, Actes du colloque international, Rome (30 septembre-2 octobre 1993), sous la direction de Yves-Marie Bercé et Elena Fasano Guarini, Roma, École française de Rome, 1996, pp. 137-161. Sulla composizione del Solimano si rimanda a Roberto Ciancarelli, Sistemi teatrali nel Seicento: strategie di comici e dilettanti nel teatro italiano del diciassettesimo secolo, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 81-106.
[3.1.4] Nonostante la generalizzata capacità di contenere la lunghezza e il numero degli episodi, tuttavia, anche i drammaturghi italiani si dilungano talvolta, secondo Calepio, in dissertazioni sterili su oggetti che non sono utili allo sviluppo della favola, né cooperano ad aumentare la verosimiglianza del contesto. Sulla necessità di eliminare le estese porzioni di testo che in molte tragedie italiane avevano soltanto valore esornativo o erudito, il Calepio si trova in pieno accordo con il Maffei, il quale nell’antologia del Teatro Italiano aveva in tal senso operato sulle tragedie cinquecentesche che andava rieditando. Le scene addotte dal Bergamasco ad esemplare tale episodica verbosità sono il racconto con cui Sofonisba narra ad Erminia della nascita di Cartagine (Gian Giorgio Trissino, Sofonisba, I, 1, vv. 22-39), la narrazione, fatta da Oreste, delle disavventure a lui occorse dopo la fine della guerra di Troia (Giovanni Rucellai, Oreste, in Scipione Maffei, Teatro Italiano, t. I, Verona, Vallarsi, 1723, pp. 101-104) ed infine la descrizione della tempesta fatta da Torrismondo all’inizio del dramma (Torquato Tasso, Re Torrismondo, I, 3, vv. 301-609). Nel caso della Sofonisba il brano in questione conteneva un esplicito e dotto richiamo all’Eneide, di cui il Trissino recuperava il soggetto per nobilitare la propria tragedia. Facendo seguito ad una premessa poco rassicurante («però vo ragionar più lungamente,/ e cominciar da largo le parole», Sofonisba, I, 1, vv. 18-19), Sofonisba si profondeva in un lungo riassunto delle vicende di Didone, Sicheo ed Enea per giustificare, secondo la consueta prospettiva eziologica, l’odio che intercorreva fra romani e cartaginesi. Il Maffei, nella sua nota sul «modo di recitare la presente tragedia», raccomandava proprio il taglio di questa ventina di versi (Scipione Maffei, Teatro Italiano, t. I, cit., p. 82).
Analoga la situazione dell’Oreste di Rucellai, nella quale il protagonista, dopo aver annunciato a Pilade la sua intenzione di narrarle «tutto da principio/ la storia con brevissime parole», espone le vicende riguardanti l’omicidio di Agamennone e l’aiuto ricevuto da Strofio, il quale lo aveva salvato dalle mani dei congiurati, allevandolo come un figlio, e gli aveva concesso in sposa proprio la figlia Pilade. Il Maffei, ripubblicando la tragedia, non tocca questi versi, limando soltanto quattro versi della battuta iniziale di Oreste.
Il passaggio incriminato del Torrismondo (III, 1) consta invece della lunga scena in cui il re dei Goti racconta dettagliatamente al Consigliero — con una battuta di ben 309 versi — l’antefatto. Forse il Calepio allude, con questa sua reprimenda, all’intero brano, oppure soltanto al momento finale in cui Torrismondo confida i turbamenti passionali di cui è oggetto durante il tempestoso viaggio in nave che fa approdare Alvida nel suo regno (vv. 477-570). Questa stessa scena era stata oggetto delle critiche di Pier Jacopo Martello, il quale, conscio della pesantezza dell’episodio — e intento a dimostrare la scarsa poeticità dell’endecasillabo sciolto —, aveva provato a riscrivere il racconto di Torrismondo in prosa (su questa riduzione prosastica si vedano: Grazia Distaso, «Una riscrittura settecentesca del “Torrismondo” e il trattato “Del verso tragico” di Pier Jacopo Martello», La Nuova Ricerca, XI, 2002, pp. 315-323; Stefano Verdino, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 148-153). Il Maffei, nel Teatro Italiano, imponeva a questa battuta un taglio di ben 42 versi e alcuni aggiustamenti per non guastare la coerenza del discorso (cfr. Scipione Maffei, Teatro Italiano, t. II, cit., pp. 141-142).
Nella sensibilità drammaturgica settecentesca, come mostrano gli esempi del Martello e del Maffei, oltre che del Calepio stesso, queste lunghe digressioni erano percepite come puramente esornative e problematicamente noiose; proprio a simili «pezzi» andava imputato lo scarso successo del teatro tragico italiano sulle scene contemporanee ed era di conseguenza ritenuto inevitabile un intervento «registico» che snellisse la struttura di questi (falsi) dialoghi. Sull’importanza del racconto della tempesta nel Torrismondo, anche in rapporto alla commedia shakespeariana The Tempest, si rimanda anche a Stefano Verdino, «Funzione drammatica e testo profondo: il racconto della tempesta nel Torrismondo del Tasso», Rivista italiana di drammaturgia, XV-XVI, 1980, pp. 39-66.
[3.1.5] In questo frangente emerge con chiarezza la conformità del progetto teatrale di Pietro Calepio con quello del Maffei della Merope e del Teatro Italiano, nonché, ancor prima e più significativamente, con quello dell’Abbé d’Aubignac, delineato nella sua Pratique du théâtre: la coerenza e, in qualche misura, anche la sobrietà della struttura drammatica che il bergamasco prescrive sono elementi fondamentali di una concezione della scrittura scenica che sia funzionale alla sua traduzione in termini rappresentativi.
Uno dei punti nei quali emerge maggiormente l’abituale assenza, nella tragedia italiana, di una precisa attenzione all’allestimento è l’introduzione del Coro, considerato da Calepio dannoso per la verosimiglianza del dramma, nonché difficilmente rappresentabile — sui difetti specifici del Coro e sui problemi rappresentativi che esso comporta l’autore si soffermerà in Paragone IV, 2, [2]. In questa sede egli si limita a riflettere su come, mentre nelle tragedie greche il Coro costituiva un episodio indispensabile ad ampliarne l’esile struttura, in quelle moderne, di misura ben più cospicua — soprattutto a causa dello stile pomposo e magniloquente —, esso diventa fonte di ulteriore prolissità. Il ragionamento di Calepio viene esemplificato con la citazione della Progne (1561) di Lodovico Domenichi, tragedia di soggetto ovidiano, frutto della traduzione dell’omonima composizione latina ad opera di Gregorio Correr. Nella Progne la dimensione del dialogo vero e proprio è quasi assente, dal momento che le battute, anche quando dovrebbero essere inserite in un contesto dialogico, hanno un’ampiezza tale da impedirne una produttiva resa scenica; allo stesso modo i Cori sono particolarmente lunghi e verbosi.
Sulla fortuna del mito di Progne nella drammaturgia cinquecentesca si rimanda a Elena E. Marcello, «Reescrituras teatrales del mito de Progne y Filomena en las tragedias renacentistas de G. Correr, L. Domenichi y G. Parabosco», in Reescrituras de los mitos en la literatura: estudios de mitocritica y de literatura comparada, edición preparada par Juan Herrero Cecilia y Montserrat Morales Peco, Cuenca, Ediciones de la Universidad de Castilla-La Mancha, 2008, pp. 151-166; nonché al recente intervento di Fabrizio Bondi, «“Cantate meco, Progne e Filomena”. Riscritture cinquecentesche di un mito ovidiano», Parole rubate, III, 2011, pp. 27-62.
[3.1.6] Calepio approva, come avrà modo di ribadire più diffusamente nel Capo quarto, la soluzione adottata dai drammaturghi francesi circa la questione del Coro, che prevede la sostituzione dell’inserto corale con l’aggiunta di qualche episodio secondario. Proprio in questi termini si esprimeva peraltro anche Pierre Corneille nel discorso De l’utilité et des parties du poème dramatique, affermando che «le retranchement que nous avons fait des chœurs nous oblige à remplir nos poèmes de plus d’épisodes qu’ils ne faisaient» (Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 134). Calepio si trova quindi sostanzialmente in accordo con il pur avversato Corneille, sebbene non manchi di aggiungere al suo discorso una postilla che getta un’ombra sulla reale capacità dei Francesi di introdurre episodi contenuti, tali da non distogliere l’attenzione dal soggetto principale. Da notare l’impiego calepiano di metafore che fanno riferimento al campo semantico del cibo («sovente parmi essere avvenuto a que’ poeti, come a quegli imbanditori di conviti che per far pompa di condimenti opprimono il sapor natio delle vivande»), che tornerà a più riprese nell’opera del Bergamasco, ad esempio nell’apertura della Confutazione dell’Esame del Salìo («Questa amarezza [del Salìo], è di quelle che procedono dallo sregolamento del palato, non da squisitezza di gusto: e se questo poeta avesse avuto la moderazione di contentarsi di quel pregio, che con verità potea convenire alle sue tragedie; non avrebbe certamente provato questo amaro», Pietro Calepio, «Confutazione di molti sentimenti disposti da Giuseppe Salìo nel libro intitolato “Esame Critico…”», in Id., Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, Venezia, Zatta, 1770, p. 226), quasi a rimarcare la predisposizione sensistica del suo atteggiamento estetico. Sulla sostituzione dei Cori con gli episodi nelle tragedie francesi si rimanda a Jacques Scherer, La Dramaturgie classique en France, Paris, Nizet, 1959, pp. 356-357
Articolo II.
[3.2.1] I drammaturghi francesi, ed in particolare Racine, hanno talvolta, secondo Calepio, introdotto digressioni ed episodi secondari con gusto e moderazione: egli loda in particolare la Phèdre di Racine, migliore, come già aveva avuto modo di scrivere, della Fedra di Seneca e di quella del Bozza. Accanto a questa tragedia egli loda il Britannicus, tragedia politica che narra le macchinazioni di Agrippina — a sua volta vittima dei propri raggiri — e di Nerone per escludere dal trono e poi uccidere il legittimo successore di Claudio, Britannicus. Racine inserisce in questo soggetto una sottotrama amorosa grazie al personaggio di Junie, amata da Nerone, ma innamorata di Britannicus, il quale la ricambia; l’imperatore impone a Junie di lasciare il rivale ed unirsi a lui, dietro minaccia di uccidere l’amante qualora lei non avesse accettato.
Calepio ritiene evidentemente questo episodio amoroso ben gestito e tale da non compromettere la priorità del soggetto politico. La Phèdre e il Britannicus erano ritenuti esemplari dal punto di vista dell’intreccio anche da Antonio Conti, il quale, nella Risposta al signor Martelli premessa all’edizione del Cesare, elogia la «varietà de’ sentimenti» del Britannicus e la sapienza di Racine nel mantenere le giuste proporzioni («Il punto o il fondo, su cui si tesse il carattere è ciò che ne fa l’unità; ma questo non toglie la varietà de’ sentimenti. Così in quadri differenti si ravvisa lo stesso volto, allorché il pittore ritenendo sempre le medesime proporzioni nelle fattezze, varia solo gli atteggiamenti e le tinte», Antonio Conti, «Risposta al Signor Jacopo Martelli, segretario del Senato di Bologna», in Id., Il Cesare. Con alcune cose concernenti l’opera medesima, Faenza, Archi, 1726, p. 72). Non altrettanto lusinghiero è invece il giudizio di Riccoboni, il quale, nel tardo De la réformation du théâtre (1743), critica fortemente il personaggio di Junie, ritenendolo fuori luogo, e si dice convinto che la tragedia riceverebbe giovamento dalla soppressione di questo ruolo e dal ridimensionamento dell’episodio amoroso: «Les amours de Junie, de Britannicus et de Néron, entrelassez avec les grands sentiments qu’Agrippine, Burrhus et Néron même font paroître dans cette Tragédie, la défigurent entierement. Pour moi je supprimerois en entier le rôle de Junie» (Luigi Riccoboni, De la réformation du théâtre, s. l., s. n., 1743, p. 179). Peraltro anche Calepio, con una punta di ambiguità, condannerà più avanti l’eccessiva galanteria di Ippolito, ingiustificabile sulla base della fama di cacciatore che al personaggio attribuiva il mito (cfr. Paragone V, 6, [2]).
[3.2.2] Corneille torna ad essere il bersaglio polemico privilegiato da Calepio, a causa della cattiva gestione degli episodi. Il Bergamasco aveva già illustrato come l’Horace, in virtù della grande attenzione riservata alle passioni di Camille e Sabine risultava «passionatissima» nei primi due atti, nei quali le due donne si dolevano della crudele sorte a cui andavano incontro, mentre gli ultimi atti, incentrati sulla battaglia e sul personaggio, male introdotto, di Horace, riuscivano «freddi ed inutili» (Paragone I, 4, [4]). Neppure la Demodice (1720), tragedia di Giovan Battista Recanati che mette in scena una variazione sulla vicenda degli Orazi e dei Curiazi ispirata alle Vite parallele di Plutarco, è ritenuta capace di fondere in maniera convincente gli episodi secondari alla favola principale. La tragedia del Recanati, letterato veneziano e accademico d’Arcadia, già curatore di un’antologia di poesie scritte da rimatrici contemporanee (Giovanni Battista Recanati, Poesie italiane di rimatrici viventi raccolte da Teleste Ciparassiano, Venezia, Coletti, 1716, sulla quale si veda Gilberto Pizzamiglio, «Poetesse d’Arcadia nel solco di Petrarca», Quaderni veneti, III, 2014, pp. 169-175), aveva goduto di un discreto successo in seguito alla sua prima pubblicazione, almeno sul piano editoriale: alla princeps del 1720 (Venezia, Rossetti), erano seguite un’edizione fiorentina, dedicata a Scipione Maffei e arricchita da una lunga prefazione elogiativa firmata da Girolamo Lioni, collaboratore del Giornale de’ Letterati d’Italia (Firenze, Manni, 1721), nonché una terza impressione (Londra, Tonson, 1721), curata da Nicola Francesco Haym, nella quale comparivano insieme la Merope e la Demodice, considerate in grado di mostrare al pubblico inglese «quanto i virtuosi Italiani si sieno inalzati presentemente alla perfezione» del genere tragico (ivi, p. 4).
Nella Demodice al conflitto tra Orazi e Curiazi si sostituisce quello, ambientato in Arcadia, tra Tegeati e Feneati. La vicenda prende le mosse da un episodio secondario: Critolao, figlio di Aspasia, dopo aver ucciso un leone, viene salvato da Eurindo, il suo migliore amico, nel conflitto con un mostro che lo stava per far soccombere. In virtù di questo evento Alcippo, re dei Tegeati, comprenderà l’oracolo che gli imponeva di scegliere come campione colui «che prima uccise, et indi ucciso/ quasi da belva fu» (II, 3) e voterà Critolao e i suoi fratelli alla difesa della patria nel duello risolutore che contrapponeva tre guerrieri dei Tegeati a tre dei Feneati. In questo intreccio si inserisce l’amore fra i due sposi, Demodice, sorella di Critolao, e Alceste, campione dei Feneati, nonché la passione fra Eurindo e Lagisca — migliore amica di Demodice — che convoleranno a nozze nella scena ultima, dopo che si sarà consumata l’uccisione di Alceste, da parte del vittorioso Critolao, e la violenta lite tra lo stesso Critolao e Demodice, conclusasi con l’omicidio di quest’ultima da parte del fratello.
L’intreccio era stato apprezzato in un primo momento dal Calepio, il quale nella Descrizione de’ costumi italiani, probabilmente senza aver letto con attenzione l’opera, censisce la Demodice fra le «buone tragedie uscite a’ nostri giorni» (Pietro Calepio, Descrizione de’ costumi italiani, a cura di Sergio Romagnoli, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1962, p. 43), forse anche sulla scorta delle affermazioni contenute nella prefazione alla tragedia di Girolamo Lioni, in cui vengono lodate la struttura semplice e il diligente rispetto dell’unità d’azione.
Questa incauta affermazione di Calepio agisce da cassa di risonanza per la fortuna della Demodice, alimentandone la fama, anche in virtù del commento in francese, redatto da Gabriel Seigneux de Correvon, che accompagna l’uscita della Descrizione sui tomi della rivista ginevrina Bibliothèque Italique. Nelle sue notule, spesso importune, alla lettera di Calepio (cfr. a proposito Inge Botteri, «Un commento “ideologico”: le annotazioni di Gabriel Seigneux de Correvon alla Descrizione de’ costumi italiani di Pietro Calepio (1727)», in Analecta brixiana II, a cura di Alfredo Valvo e Roberto Gazich, Milano, Vita e Pensiero, 2007, pp. 59-78), il Francese celebra la bellezza della Demodice, ai suoi occhi preferibile all’Horace di Corneille proprio grazie al maggior rispetto dell’unità d’azione: «[La] tragédie intitulée Demodice, est une des plus belles qui se soient faites; on la compare à l’Horace de Corneille, avec lequel elle a beaucoup de conformité pour le sujet; on l’a cru même plus parfaite que celle du poète français pour l’unité de l’action» (Gabriel Seigneux de Correvon, «Suite de la Lettre Manuscrite du Comte de *** sur le Caractere des Italiens», Bibliothèque Italique, t. VII, janvier-avril 1730, pp. 138-139).
Nel Paragone il Bergamasco ribalta il giudizio precedentemente espresso, attaccando precisamente quell’unità d’azione che era stata ritenuta il pregio del dramma. L’impianto della tragedia gli sembra ora macchinosa e i tanti episodi secondari gli paiono aggiunti in maniera posticcia. Questa seconda opinione sarà riprodotta da diversi storiografi del teatro settecenteschi, come il Quadrio (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 293) e il Napoli Signorelli («Lo sceneggiamento all’antica, lasciandosi spesso il teatro voto, qualche scena oziosa, un sogno di Demodice di sei tori e una giovenca tanto conforme al fatto di lei e de’ suoi campioni, i poco utili ed all’azione mal connessi episodii dell’amicizia di Eurindo e Critolao e del conflitto di costui col leone e degli amori di Lagisca ed Eurindo, offrono all’occhiuta critica materia da esercitarsi», Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, t. X, 1, Napoli, Orsino, 1813, p. 39).
In effetti la natura composita dell’opera scenica del Recanati è difficilmente negabile; si percepisce la volontà di fondere insieme modelli troppo eterogenei: alcuni elementi sono tipici della tragedia classicistica come l’oracolo che struttura la vicenda dell’amicizia tra Eurindo e Critolao; altri derivati specificamente dalla Merope di Maffei, alla quale è chiaramente ispirato il personaggio tragico della lacrimosa madre Aspasia, che come Merope è in procinto di uccidere il figlio prima di essere fermata dallo stesso Eurindo (V, 2); infine compare anche l’archetipo della tragicommedia arcadica — d’altra parte il nome arcade di Recanati, nonché l’imprimatur di Crescimbeni campeggiano in bella mostra sul frontespizio e subito dopo l’argomento, nella prima edizione — che rivive nell’episodio che vede protagonista la coppia fedele composta da Lagisca ed Eurindo.
Sarà infine utile notare come anche in questo caso nel suo Della storia e della ragione d’ogni poesia, il Quadrio riprenda palesemente le argomentazioni di Calepio nell’affrontare la questione del rapporto tra soggetto principale ed episodi secondari. Egli menziona infatti, fra gli esempi negativi, gli stessi testi che citava il Bergamasco, riutilizzando spesso le medesime tesi: «Vedesi intanto dalle cose fin qui dimostrate, quale stretto legame abbiano gli Episodi ad avere col fondo della principale Azione; e quanta debba essere la lor pertinenza alla stessa, perché sieno lodevoli. Bisogna confessare, che un bellissimo esempio di tale artifiziosa congiunziosa de’ medesimi è quello, che nell’Orazio del Cornelio si ha: dove le passioni di Sabina e di Cammilla, composte naturalmente con l’Azione, constituiscono una lodevolissima parte; benchè il rimanente non corrisponda. Anche la Fedra del Racine negli Episodii ha vantaggiato sopra l’antica: e il Britannico pure è di moderati e proprii Episodii vagamente fornito. Per contrario non senza ragione ricercherebbe alcuno, a qual proposito nel Secondo Atto del Torrismondo esca Rosmonda a moralizzare tra sè. Potrebbesi dire il medesimo della venuta di Miseno nel Terzo Atto dell’Astianatte del Gratarolo. Ma la Narrazione, che leggesi nella prima scena dell’Oreste del Rucellai, toccante le cose accadutegli dalla Guerra di Troja, la Storia che nella Sofonisba del Trissino, questa Principessa racconta ad Erminia fin dall’origine di Cartagine, sono tutti Episodii viziosi. La Demodice del Recanati è assai pure in questo fatto peccante» (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, cit., pp. 292-293).
[3.2.3] Calepio condanna l’introduzione nelle tragedie francesi di personaggi secondari sterili, alludendo sia a coloro che appaiono come comparse passive nel dramma — come l’«Infante» del Cid —, sia ai confidenti, funzionali soltanto a permettere ai protagonisti di sfogare le proprie passioni in forme meno inverosimili di quelle del monologo.
La taccia di inutilità rivolta al personaggio dell’Infanta nel Cid era un elemento topico della critica sei-settecentesca; lo stesso Corneille aveva riconosciuto nei Discours tale difetto, citando l’Infanta come carattere episodico non ben riuscito e giustificando la sua introduzione come un fio pagato alla compagnia teatrale che doveva rappresentare il dramma: «Aristote blâme fort les épisodes détachés, et dit “que les mauvais poètes en font par ignorance, et les bons en faveur des comédiens, pour leur donner de l’emploi”. L’Infante du Cid est de ce nombre, et on la pourra condamner, ou lui faire grâce par ce texte d’Aristote» (Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, pp. 139-140). Voltaire stesso sottolinea l’inefficacia dell’Infanta nelle sue Remarques, asserendo che «le Cid réussit malgré l’Infante, et non pas à cause de l’Infante» (Voltaire, Commentaires sur Corneille, t. III, in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 55, critical edition by David Williams, Genève, Institut et Musée Voltaire, 1975, p. 1039).
Corneille imputava una simile imperfezione anche alla Sabine dell’Horace, alla quale tuttavia riconosceva il merito di rinsaldare l’unità della pièce, permettendo un più efficace collegamento fra le scene («Elle [Sabine] ne sert pas davantage à l’action que l’Infante à celle du Cid, et ne fait que se laisser toucher diversement comme elle à la diversité des événements. Néanmoins on a généralement approuvé celle-ci, et condamné l’autre; j’en ai cherché la raison, et j’en ai trouvé deux. L’une est la liaison des scènes, qui semble, s’il m’est permis de parler ainsi, incorporer Sabine dans cette pièce, au lieu que, dans le Cid, toutes celles de l’Infante sont détachées et paraissent hors d’œuvre […]. L’autre, qu’ayant une fois posé Sabine pour femme d’Horace, il est nécessaire que tous les incidents de ce poème lui donnent les sentiments qu’elle en témoigne avoir», Pierre Corneille, «Examen d’Horace», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, presentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 841).
Al contrario, la perplessità circa l’introduzione di personaggi secondari quali i confidenti, assieme a quella riguardante l’abuso degli amori nella tragedia, era un luogo comune delle argomentazioni dei letterati italiani a detrimento del teatro francese. Dal punto di vista teorico la riprovazione di questa consuetudine è generalizzata; Antonio Conti riteneva la tragedia francese lontana dalla perfezione proprio a causa della soverchia presenza di amori e della «moltiplicità de’ confidenti» (Antonio Conti, «Lettera a Sua Eminenza il Signor Cardinale Bentivoglio d’Aragona», in Id., Il Cesare. Tragedia, Faenza, Archi, 1726, p. 31). Con particolare vigore vi insiste Riccoboni, il quale, nell’Histoire du théâtre italien, imputa proprio all’eccessiva rilevanza data agli affari amorosi — che impone alla tragedia una svolta romanzesca — la creazione del personaggio del confidente, chiamato a colmare il vuoto lasciato dalla soppressione dei Cori («Lorsque l’on reforma la Tragedie en France, on rétrancha les Chœurs et le Coriphée […]. Ils ont crû cette partie inutile à la Tragedie, et peu vrai semblable, et selon les Fables des Tragedies Françoises, ils peuvent avoir raison: car le plus grand nombre de leurs Tragedies ne traite que des affaires particulieres, et dans le cabinet d’un Roi […]. Avec ce retranchement du Chœur, et du Coriphée ils se sont trouvés embarrassés, et à la place du dernier, aïant recours aux Romans, ils ont pris dans le personnage des Ecuïers l’idée des Confidens soit mâles, ou femelles, qu’ils ont donnée à chaque Acteur principal», Luigi Riccoboni, «Dissertation sur la Tragedie Moderne», in Histoire du Theatre Italien, depuis la decadence de la Comedie Latine […], t. I, Paris, Cailleau, 1730, pp. 275-276). A questo attacco frontale rispose immediatamente il drammaturgo francese Jean-Baptiste Rousseau, rimarcando l’opportunità di ricorrere ai confidenti — necessari alla verisimiglianza della favola —, dei quali nobilitava l’origine, sostenendo che questi fossero già presenti nella tragedia greca e latina (Jean-Baptiste Rousseau, «Lettre de M. Rousseau à M. Riccoboni», in Luigi Riccoboni, Histoire du Theatre Italien, t. II, Paris, Cailleau, 1731, pp. xxvii-xxviii). Nell’ulteriore replica di questa piccola polemica (sulla quale brevemente si sofferma Massimo Natale, Il curatore ozioso: forme e funzioni del coro tragico in Italia, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 266-268), Riccoboni distingue tra confidenti che prendono anche parte all’azione, ammissibili e talvolta rintracciabili anche nelle tragedie antiche, e confidenti romanzeschi — intesi soltanto ad «écouter l’exposition du sujet» —, da bandire definitivamente (Luigi Riccoboni, «Réponse à la Lettre de M. Rousseau», in Id., Histoire du Theatre Italien, t. II, cit., pp. xlii-xliii). Queste posizioni verranno ribadite a più riprese lungo il Settecento, non soltanto dal solito Quadrio, che ancora una volta dipende chiaramente dal Calepio («Non dovranno quindi nell’Azione ammettersi, che quegli Agenti, che precisamente son necessarii per maneggiarla, e compirla. Quegli oziosi Personaggi, che i Francesi sovente introducono a dialogizzare nelle loro Tragedie, sono tutti contra le buone regole. Né per oziosi intendo solamente quelli che sembrano anzi Spettatori della Favola, che attori, com’è l’Infanta nel Cid; ma quell’ancora, che col nome di Confidenti vi sono in un gran numero d’esse introdotti», Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Milano, Agnelli, vol. III, 1743, p. 380).
Se dal punto di vista teorico appare netta la presa di distanza dall’impiego dei confidenti sul modello francese, di fatto la drammaturgia italiana sei-settecentesca procede ad un vero e proprio «infranciosamento» (cfr. a proposito Piero Weiss, «Teorie drammatiche e “infranciosamento”: motivi della “riforma” melodrammatica nel primo Settecento», in Antonio Vivaldi: teatro musicale, cultura e società, vol. II, a cura di Lorenzo Bianconi e Giovanni Morelli, Firenze, Olschki, 1982, pp. 273-296), almeno fino all’Alfieri, deciso a ripudiare una volta per tutte il contributo di questi personaggi secondari (sull’esclusione dei confidenti nelle tragedie del giovane Alfieri si rimanda a Giuseppe Antonio Camerino, «L’elaborazione tragica attraverso le varianti del Filippo», in Id., Alfieri e il linguaggio della tragedia: verso, stile, topoi, Napoli, Liguori, 1999, pp. 95-186).
Lo stesso Calepio, così rigido nella sua censura, non aveva fatto a meno dei confidenti nei suoi giovanili esperimenti tragici, specialmente nel suo Seleuco, laddove Ceneo e Memnone paiono introdotti appositamente per offrire a Berenice, Laodice e Seleuco la possibilità di confessare a qualcuno i propri progetti reconditi e di dare sfogo ai moti delle passioni.
[3.2.4] La Polyxène di Monsieur de La Fosse mette in scena il sacrificio della protagonista compiuto per volontà degli dei e su richiesta dell’ombra di Achille. Pyrrhus, figlio di Achille, essendo innamorato di Polyxène, tenta di fermare il sacrificio, ma è proprio la principessa troiana ad opporsi: lei stessa si sente colpevole di ricambiare l’amore del condottiero nemico e vede nella morte l’unica soluzione al suo tragico conflitto interiore. Nel dramma del de La Fosse Telephe interviene come personaggio secondario, innamorato di Polyxène, dando vita ad una sottotrama amorosa che serviva ad ampliare il quadro delle passioni rappresentate: Telephe si opponeva infatti a Pyrrhus come amante legittimo, ma destinato a non suscitare alcun sentimento nell’eroina.
Sulla Polyxène del de La Fosse e in generale sulle riscritture tragiche francesi cinque-seicenteschi del mito di Polissena si vedano: Bruno Garnier, Pour une poétique de la traduction: l’Hécube d’Euripide en France de la traduction humaniste à la tragédie classique, Paris, L’Harmattan, 1999; Tiphaine Karsenti, «Faut-il sacrifier Polyxène? Une dispute topique dans la tragédie française (1570-1696)», Arrêt sur scène focus, III, 2014, pp. 11-23.
[3.2.5] Corneille in effetti offriva una lettura faziosa del termine ἀναγκαῖον in Aristotele («Je dis donc que le nécessaire en ce qui regarde la poésie, n’est autre chose que le besoin du poète pour arriver à son but, ou pour y faire arriver ses acteurs. Cette définition a son fondement sur les diverses acceptions du mot grec ἀναγκαῖον qui ne signifie pas toujours ce qui est absolument nécessaire, mais aussi quelquefois ce qui est seulement utile à parvenir à quelque chose», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, presentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 170), al fine di legittimare la possibilità del drammaturgo di tradire la storia dalla quale traeva il soggetto per rispettare le unità di luogo e di tempo, fonti principali della verosimiglianza; egli affermava infatti che «pour plaire selon les règles de son art» il poeta «a besoin de renfermer son action dans l’unité de jour et de lieu, et comme cela est d’une nécessité absolue, il lui est beaucoup plus permis sur ces deux articles, que sur celui des embellissements» (ibid.).
A Calepio, al contrario, preme poco il rispetto dell’unità di tempo, qualora questa forzi il criterio della verosimiglianza. Su simili posizioni si attesterà anche, quasi un secolo più tardi, il Manzoni, il quale, nella Lettre à Monsieur Chauvet, contesterà l’ossequio al rigoroso principio delle unità aristoteliche in favore di una maggiore aderenza al vero.
Più deciso di Calepio nel criticare la prescrizione delle unità sarà, già sul finire del secolo, il Metastasio dell’Estratto dell’arte poetica: in questo importante documento critico egli — riprendendo in parte le tesi del Du Bos (Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, 7e éd., Paris, Pissot, 1770, t. I, pp. 450-457) — si oppone alla tradizione dei commentari aristotelici cinquecenteschi, da Scaligero a Castelvetro, che aveva introdotto le unità nella convinzione che l’obbiettivo della rappresentazione teatrale fosse l’illusione degli spettatori, confondendo il vero con il verosimile (Pietro Metastasio, Estratto dell’arte poetica d’Aristotile, a cura di Elisabetta Selmi, Palermo, Novecento, 1998, pp. 41-50).
[3.2.6] Viene qui ripresa una critica già più volte mossa ai Francesi da Calepio circa l’introduzione di episodi secondari che distolgono l’attenzione dal soggetto principale: tali sono secondo il Bergamasco i subplots che coinvolgono nell’Œdipe di Corneille Dircée e Thesée (cfr. Paragone I, 4, [5]), e nell’Andromaque di Racine Oreste ed Hermione (cfr. Paragone I, 4, [11]). Vengono inoltre criticate le tragedie che sollecitano emozioni secondarie diverse dalla pietà e dal terrore.
[3.2.7] L’ultima categoria di episodi censurati da Calepio è quella delle vicende che si introducono nella favola guastando l’unità d’azione. Se il Bergamasco si era dimostrato meno intransigente circa l’unità di tempo e di luogo egli non transige su questo ultimo punto, necessario a concentrare l’attenzione dello spettatore sull’intreccio che porterà, con la catastrofe, all’indispensabile purgazione. In questa prospettiva egli stigmatizza due tragedie francesi, l’Électre (1708) di Prosper Jolyot de Crébillon e il Corésus et Callirhoé (1704) di Antoine de La Fosse. Nella sua Électre Crebillon, vantandosi di non aver ripreso nulla dall’antecedente sofocleo, che qualifica del titolo di pseudo-tragedia, inserisce due amori nell’intreccio per complicare la situazione psicologica dei protagonisti: sia Électre che Oreste sono innamorati, rispettivamente di Itys e Iphianasse, entrambi figli di Égisthe, il compagno di Clytemnestre che i due puntano ad uccidere. Secondo Calepio l’arrivo nel terzo atto di Palamede — che aiuterà i due fratelli a compiere l’omicidio e a vendicare Agamennone —, così come l’amore tra Oreste ed Iphianasse, sono episodi romanzeschi superflui che non contribuiscono ad abbellire l’intreccio.
Nel Corésus et Callirhoé La Fosse riprende una favola narrata da Pausania nel Viaggio in Grecia, resa celebre dalla riscrittura di Guarini, il quale aveva plasmato l’antefatto del Pastor Fido (II, 2, vv. 383-474) proprio su questo episodio (cfr. Elisabetta Selmi, «Commento», a Battista Guarini, Il Pastor Fido, a cura di Elisabetta Selmi, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 303-304), causando fra l’altro uno strascico di polemiche che vedeva contrapposti il Malacreta (Giovanni Pietro Malacreta, «Considerazioni intorno al Pastor Fido», in Battista Guarini, Opere, IV, Verona, Tumermani, 1738, pp. 53-54) severo censore del Guarini, e Paolo Beni, che ne prendeva le difese (Paolo Beni, «Risposta al Malacreta», ivi, pp. 210-224).
Nella favola di Pausania Coreso, sacerdote di Bacco, arrabbiato per il fatto di essere continuamente respinto da Calliroe, di cui era profondamente innamorato, chiede l’aiuto della sua divinità tutelare: al fine di esaudire la preghiera dell’adepto, il dio avrebbe ricolmato tutti gli abitanti del paese di una perenne ebbrezza, privandoli dell’intelletto fino a che la giovane protagonista — o qualcuno disposto a morire per lei — non gli fosse stato sacrificato. Benché Calliroe abbia molti amanti, non riuscendo a trovare nessuno che accettasse di dare la vita per lei, decide di avviarsi al sacrificio che proprio Coreso doveva compiere in qualità di sacerdote-carnefice. Costui, tuttavia, una volta rivista l’amata, si risolve a sacrificare se stesso, immergendosi il pugnale nel petto, seguito immediatamente da Calliroe, la quale, dopo aver compreso la vera natura dell’amante, si suicida a propria volta cadendo morta sul corpo di Coreso.
Nella tragedia del de La Fosse Callirhoé non è soltanto insensibile, ma anche infedele e spergiura, come avveniva per la Lucrina del Pastor Fido, mal disposta verso il fido Aminta; tuttavia la sua vicenda amorosa con Corésus prende effettivamente le mosse a partire dal terzo atto, mentre nei primi due atti ha uno spazio maggiore l’episodio secondario della passione fra Agénor e Anaxile, che prepara gli eventi successivi, ma viene comunque ritenuta dall’autore del Paragone inefficace.
L’ultima accusa di Calepio, circa la qualità comune a tutte «le persone chiamate da’ Francesi episodiche», dovrà leggersi come una censura dell’eccessiva presenza degli amori nelle tragedie francesi, in cui le sottotrame sono quasi sempre di questa natura. Su tale questione il bergamasco si soffermerà nel paragrafo immediatamente successivo.
Articolo III.
[3.3.1] Corneille aveva sostenuto nel primo dei suoi tre Discours, che la tragedia, benché non dovesse fondarsi principalmente sulla drammatizzazione dell’amore, incapace di garantire a questa forma poetica la giusta dignità, risultasse poco piacevole qualora non accogliesse al proprio interno almeno un episodio di natura amorosa («Lorsqu’on met sur la scène une simple intrigue d’amour entre des rois, et qu’ils ne courent aucun péril, ni de leur vie, ni de leur état, je ne crois pas que bien que les personnes soient illustres, l’action le soit assez pour s’élever jusqu’à la tragédie. Sa dignité demande quelque grand intérêt d’état, ou quelque passion plus noble et plus mâle que l’amour, telles que sont l’ambition ou la vengeance, et veut donner à craindre des malheurs plus grands que la perte d’une maîtresse. Il est à propos d’y mêler l’amour, parce qu’il a toujours beaucoup d’agrément, et peut servir de fondement à ces intérêts, et à ces autres passions dont je parle; mais ils faut qu’il se contente du second rang dans le poème, et leur laisse le premier», Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 124). Saint-Évremond, critico afferente al partito corneilliano nell’accesa disputa che opponeva Corneille a Racine, riprendeva di fatto la posizione dell’autore del Cid affermando che la tragedia non si sosteneva decorosamente rappresentando dei principi totalmente devoti all’amore («Croyant faire les rois et les empereurs de parfaits amants, nous en faisons des princes ridicules; et à force de plaintes et de soupirs, où il n’y auroit ni à plaindre ni à soupirer, nous les rendons imbéciles comme amants et comme princes», Saint-Évremond, «De la Tragédie ancienne et moderne», in Id., Œuvres mêlées, introduzione, testo e nota al testo a cura di Luigi De Nardis, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1966, p. 291), non senza poi specificare che l’introduzione degli affetti amorosi era necessaria a rendere il pubblico ben disposto nei confronti del protagonista («Rejeter l’amour de nos tragédies comme indigne des héros, c’est ôter ce qui nous fait tenir encore à eux par un secret rapport; par je ne sais quelle liaison qui demeure encore entre leurs âmes et les nôtres: mais pour les vouloir ramener à nous par ce sentiment commun, ne les faisons pas descendre au dessous d’eux, ne ruinons pas ce qu’ils ont au-dessus des hommes. Avec cette retenue, j’avouerai qu’il n’y a point de sujets où une passion générale, que la nature a mêlée en tout, ne puisse entrer sans peine et sans violence», Saint-Évremond, «Dissertation sur la Tragédie de Racine, intitulée “Alexandre le Grand”», in Id., Œuvres mêlées, cit., pp. 195-196). Era in sostanza comune, nel Seicento francese, l’idea che l’amore — pur essendo degno di comparire magari soltanto negli episodi secondari — costituisse un tratto distintivo della tragedia moderna rispetto a quella antica e che la bravura del poeta consistesse nel farne uso con intelligenza e moderazione.
Sulla stessa linea critica si pone anche Voltaire nel suo Discours sur la tragédie à Milord Bolingbroke, in cui, dopo aver constatato che «on reproche à notre nation d’avoir amolli le théâtre par trop de tendresse», confessa che bandire l’amore dalla tragedia è altrettanto sbagliato dell’incentrare la composizione tragica sull’intrigo amoroso («Vouloir de l’amour dans tout les tragédies me paraît un goût efféminé; l’en proscrire toujours est une mauvaise humeur bien déraisonnable», Voltaire, «Discours sur la Tragédie à Mylord Bolingbroke», in Id., Le Brutus de Monsieur de Voltaire, avec un Discours sur cette Tragédie, 2e éd., Amsterdam, Ledet et Desbordes, 1731, p. 22). A suo dire, dal momento che l’amore è una delle più forti passioni umane, esso deve comparire sul teatro, pittura vivente delle passioni umane, e può essere criticato soltanto se trattato malamente («L’amour dans une tragédie n’est pas plus un défaut essentiel que dans l’Énéide; il n’est à reprendre que quand il est amené mal à propos, ou traité sans art», ibid.).
Il fronte francese non era tuttavia integralmente schierato a favore di Corneille e di una tragedia incline ad accogliere la rappresentazione della passione amorosa. Pierre Nicole, nel suo Traité de la comédie (1667) condannava in toto il teatro francese proprio perché in esso si rappresentava abitualmente la passione amorosa, che veniva peraltro resa amabile e dignitosa agli occhi degli spettatori, senza svelarne la natura al fondo immorale ed orribile che le era propria: «Comme la passion de l’amour est la plus forte impression que le péché ait fait sur nos âmes, ce qui paraît assez par les désordres horribles qu’elle a produit dans le monde, il n’y a rien de plus dangereux que de l’exciter, de la nourrir, et de détruire ce qui la tient en bride et qui en arrête le cours. Or […] rien ne diminue davantage cette horreur que la comédie et les romans, parce que cette passion y paraît avec honneur et d’une manière qui au lieu de la rendre horrible, est capable au contraire de la faire aimer», Pierre Nicole, Sulla commedia, a cura di Domenico Bosco, Milano, Bompiani, 2003, pp. 84-86.
Anche il gesuita René Rapin aveva condannato senza mezzi termini l’impiego dell’amore nel teatro nelle tragedie: «Mais n’est-ce point s’exposer à dégrader la tragédie de cet air de majesté qui luy est propre, que d’y mêler de l’amour, qui est d’un caractère toujours badin et peu conforme à la gravité dont elle fait profession? En effet les tragédies mêlées de galanteries ne font point ces impressions admirables sur les esprits, que faisoient autrefois les tragédies de Sophocle et d’Euripide» (René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 104 (come ha attentamente notato Corrado Viola, nella seconda edizione del 1675, si ha una parziale attenuazione di questo giudizio rispetto alla princeps del 1674; ciò testimonia la delicatezza della questione nella Francia tardo-seicentesca, cfr. Corrado Viola, Tradizioni letterarie a confronto. Italia e Francia nella polemica Orsi-Bouhours, Verona, Fiorini, 2001, p. 20).
Altrettanto negativa è l’opinione di André Dacier, il quale riflette — e da queste pagine si percepisce la vicinanza del Bergamasco alla posizione del Francese, che egli richiama indirettamente — sul fatto che una tragedia basata sugli amori trascura affetti più importanti e tralascia la preparazione del nodo catartico: «Nôtre Tragedie peut réussir assez dans la premiere partie, c’est-à-dire, qu’elle peut exciter et purger la terreur et la compassion. Mais elle parvient rarement à la derniere, qui est pourtant la plus utile, elle purge peu les autres passions, ou comme elle roule ordinairement sur des intrigues d’amour, si elle en purgeoit quelqu’une, ce seroit celle-là seule, et par là il est aisé de voir qu’elle ne fait que peu de fruit» (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 80).
La forte presenza degli amori nella tragedia francese era uno degli elementi più criticati dagli Italiani nel primo Settecento: il Gravina, nel Della tragedia, riprendeva le parole di Rapin e Dacier per biasimare non soltanto i drammaturghi francesi che facevano ricorso all’amore, ma anche gli Italiani, ed in generale tutti i «presenti tragici, che non hanno da rintracciare, né da esprimere altro carattere che quello di amante» (Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 530-532).
Il Muratori si mostrava altrettanto severo nel censurare l’uso degli amori tipico della tragedia francese, mettendo in ridicolo le caratteristiche dell’eroe amante che campeggiava nei drammi d’oltralpe («Su questi amori per l’ordinario si fonda, e intorno a questi s’aggira l’argomento delle Tragedie Franzesi; anzi non vi si rappresenta alcun Fatto preso dalle Storie, in cui non si fingano vari amori, e non s’attribuisca a questa passione la principale origine di tutte le azioni Tragiche. Nulla poi importa, se quegli Eroi o per testimonio de gli antichi, o per fama comune, operarono per altro fine, o se furono persone gravi, prudenti, e lontani da somiglianti leggerezze. Se vogliono que’ famosi personaggi comparir sul Teatro Franzese, bisogna che si vestano secondo il gusto, e il rito moderno, cioè che prendano costumi teneri, e galanti, rinunzino allo Stoicismo, che troppo era in credito a i tempi loro, e lascino la gravità che pure è dote propria delle anime nobili, e che rappresentata più gioverebbe a gli ascoltanti moderni», Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 592).
Se Gravina e Muratori concepivano la questione degli amori nella tragedia come un problema di ordine morale, il Maffei la osservava da una prospettiva estetica: nella Merope evitava deliberatamente la rappresentazione dell’amore sensuale, in antagonismo con le pièces francesi, preferendo l’amore di una madre nei confronti del figlio non tanto — o non soltanto — perché questo fosse reputato meno sconveniente, ma perché un simile sentimento si prestava a commuovere un maggior numero di spettatori, in virtù di una portata universalistica sconosciuta all’eros delle tragedie francesi: «Quell’amore che usi siamo d’intendere con tal nome, non da ognuno è compreso, e chi per esso si rammarica, più persone fa ridere di quelle che faccia piangere. Ma dell’amor di madre abbiamo idea tutti, essendo il più intimo della natura, e atteso che chi non è madre o padre, è però o fu figlio» (Scipione Maffei, «Proemio alla Merope (1745)», in Id., De’ teatri antichi e moderni e altri scritti teatrali, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, p. 79). Il Maffei così riprende, ribaltandolo, un ragionamento già espresso dal Du Bos in seno alle sue Réflexions critiques, laddove egli elogiava la scelta dei drammaturghi francesi di porre l’amore al centro delle proprie tragedie sulla base del fatto che «de toutes les passions, celle de l’amour est la plus générale: il n’est presque personne qui n’ait eu le malheur de la sentir du moins une fois en sa vie. C’en est assez pour s’interésser avec affection aux peines de ceux qu’elle tyrannise» (Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, 7e éd., Paris, Pissot, 1770, t. I, p. 136).
Sul rapporto tra Maffei e Muratori cfr. Gian Paolo Marchi, «Un confronto ineludibile: Scipione Maffei e Ludovico Antonio Muratori», in Scipione Maffei nell’Europa del Settecento, Atti del Convegno di Verona (23-25 settembre 1996), a cura di Gian Paolo Romagnani, Verona, Cierre, 1998, pp. 363-398; Gian Paolo Romagnani, Sotto la bandiera dell’istoria: eruditi e uomini di lettere nell’Italia del Settecento: Maffei, Muratori, Tartarotti, Sommacampagna, Cierre, 1999; Marco Corradini, «Introduzione» ad Ansaldo Cebà, Tragedie, a cura di Marco Corradini, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. xlii-xliii; Corrado Viola, «“Nella presente luce dell’erudizione”. Note sul carteggio tra Scipione Maffei e Ludovico Antonio Muratori», Studi sul Settecento e sull’Ottocento, VII, 2012, pp. 11-45; Paolo Ulvioni, «Muratori “pettinato”», in Id., «Battagliar con la penna»: le «Osservazioni letterarie» di Scipione Maffei, Verona, QuiEdit, 2014, pp. 23-44. Fondamentale è inoltre la lettura del carteggio Muratori-Maffei, recentemente edito da Corrado Viola nell’edizione nazionale del carteggio muratoriano: Ludovico Antonio Muratori, Carteggi con Mabillon …. Maittaire, a cura di Corrado Viola, Firenze, Olschki, 2016, pp. 84-185.
[3.3.2] Saint-Évremond, nel seguito del passo al quale sopra si riferiva Calepio, aggiungeva che le donne dovevano essere introdotte sulle scene a parlare d’amore, a suo dire la passione più naturale e propria del sesso femminile («D’ailleurs, comme les femmes sont aussi nécessaires pour la représentation que les hommes, il est à propos de les faire parler autant qu’on peut, de ce qui leur est le plus naturel, et dont elles parlent mieux que d’aucune chose. […] Presque tous leurs mouvements, comme leur discours, doivent etre des effets de leur passion: leurs joies, leurs tristesses, leurs craintes, leurs désirs doivent sentir un peu d’amour pour nous plaire», Saint-Évremond, «Dissertation sur la Tragédie de Racine, intitulée “Alexandre le Grand”», in Id., Œuvres mêlées, introduzione, testo e nota al testo a cura di Luigi De Nardis, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1966, p. 196). Il Francese affermava inoltre che i caratteri femminili che non fossero stati integralmente dediti a sospirare per qualche amante lontano, sarebbero risultati poco efficaci e scarsamente interessanti per il pubblico: in questo contesto egli si diceva in particolare sicuro che il personaggio di una madre, intenta a piangere le misere sorti del povero figlio, sarebbe riuscita ben più fredda di quello di una giovane donna che si lamenta per la morte dell’amante: «Introduisez une mère qui se réjouit du bonheur de son cher fils, ou s’afflige de l’infortune de sa pauvre fille, sa satisfaction ou sa peine fera peu d’impression sur l’âme des spectateurs. Pour être touchés des larmes et des plaintes de ce sexe, voyons une amante qui pleure la mort d’un amant, non pas une femme qui se désole à la perte d’un mari. La douleur des maîtresses tendre et précieuse nous touche bien plus que l’affliction d’une veuve artificieuse ou intéressée, et qui toute sincère qu’elle est quelquefois, nous donne toujours une idée noire des enterrements et de leur cérémonies lugubres» (ibid.).
Il Bergamasco riprende alla lettera le argomentazioni del Francese, la cui opera doveva certo avere sotto mano al momento della stesura del testo — al fine di contestarne la tesi. D’altra parte la tragedia italiana dei primi decenni del Settecento, così incentrata sulla figura forte di una madre che si duole delle sventure occorse al figlio, oppure che mostra la propria crudeltà nei suoi confronti — non solo la Merope di Maffei, ma anche la Temisto del Salìo, la Demodice del Recanati, e gli stessi Perdicca e Seleuco del Calepio ruotavano attorno ad una simile protagonista —, si sarebbe impegnata con vigore a smentire queste considerazioni.
La posizione del Saint-Évremond era peraltro condivisa all’interno del panorama critico francese: anche l’Abbé de Villiers credeva che l’introduzione di attrici e personaggi femminili a teatro imponesse l’inserimento di episodi amorosi, e chiosava, dal canto suo, che non essendo necessario l’amore alla tragedia, da essa si sarebbero potute tranquillamente escludere anche le donne («Pour moy, qui ne veux point d’amour dans les Tragedies il me semble que l’on peut n’y mettre point de femmes; car, excepté l’amour, toutes les autres passions peuvent se soutenir sans elles», [Pierre de Villiers], Entretien sur les tragédies de ce temps, Paris, Michallet, 1675, pp. 145-146). Rapin imputava addirittura l’abuso di amori nelle tragedie francesi contemporanee al fatto che le donne, sensibili soltanto alla passione amorose, avessero tanta parte nel giudicare la riuscita di queste composizioni («C’est ce qui oblige nos poètes à privilégier si fort la galanterie sur le théâtre, et à tourner tous leurs sujets sur des tendresses outrées, pour plaire davantage aux femmes, qui se sont érigées en arbitres de ces divertissemens, et qui ont usurpé le droit d’en décider», René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 103).
[3.3.3] In questo segmento Calepio espone un principio cruciale della propria teoria tragica: a suo parere, contrariamente a quanto sosteneva Saint-Évremond, l’amore non è l’unica cosa che garantisce un contatto con l’eroe protagonista delle tragedie. Se questo poteva effettivamente essere vero per le tragedie francesi, imperniate sulla figura di un eroe integerrimo con il quale lo spettatore non poteva avere in comune che questa debolezza sentimentale, nelle tragedie votate a far scaturire pietà e terrore attraverso l’impiego di un protagonista mezzano, il pubblico intrattiene con l’eroe un rapporto molto più intimo: agli astanti è permesso immedesimarsi nell’eroe sventurato in quanto scorgono in lui dei piccoli difetti ai quali essi stessi sono soggetti. Questo processo di identificazione con il protagonista è dovuto al fatto che lo spettatore riconosce nell’eroe disgraziato «la comunione della umana fragilità», e da ciò prende le mosse il procedimento catartico che lo porta a provare compassione nei confronti del suo simile e paura di incontrare la medesima sorte del misero.
Allo stesso tempo egli nega che l’osservazione degli sterili amori di un’eroina muova più del dolore provato da una madre in preda all’ansia per il futuro del figlio o da una vedova che ha recentemente perso l’amato: l’uomo sarebbe portato, per inclinazione naturale, ad interessarsi maggiormente a ciò che ne potrebbe causare la definitiva distruzione, piuttosto che a qualcosa che costituisce un impedimento temporaneo per soddisfare un desiderio.
A questo ragionamento farà eco il Quadrio, ancor più deciso nel contrapporsi all’opinione di Saint-Évremond, secondo cui le donne non potevano discutere se non d’amore. A suo dire le tragedie antiche costituivano la prova evidente che esse fossero adatte a tenere ben altri discorsi: «L’ordinario rifugio, a che essi [i Francesi] sogliono comunemente ridursi, posto è nelle Donne, delle quali la passion favorita, dicono essi, è l’amore. Quindi è, ch’essendo elleno alla Tragedia necessarie, non si può introdurle, che a ragionare d’amore; e riempendo esse in oggi i Teatri odierebbono quella Rappresentazione, ove non avesse gran parte la loro favorita passione. Qui però ancora si può opporre l’esempio de’ Greci. Essi introducevano certamente le Femmine nelle lor Favole […]. Ciò non ostante si astennero ognor quegli Antichi dagli Episodi Amorosi. Può essere, che non avessero eglino delle lor Donne questo concetto ingiurioso, che non sapessero esse, se non divertirsi d’amore» (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, pp. 301-302).
Sulle figure femminili nel teatro tragico sei-settecentesco si vedano: Paola Trivero, Tragiche donne: tipologie femminili nel teatro italiano del Settecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000; Paola Cosentino, «Tragiche eroine. Virtù femminili fra poesia drammatica e trattati sul comportamento», Italique, IX, 2006, pp. 65-99.
[3.3.4] Concordando con le opinioni, già illustrate, di molti critici e drammaturghi italiani, come il Gravina, il Maffei e il Muratori, i quali censuravano il largo impiego degli intrighi amorosi nelle tragedie francesi — meno netta era la posizione del Martello, che, sebbene mettesse in bocca una simile condanna al suo Impostore, acconsentiva con il Saint-Évremond sul fatto che sia bene introdurre gli amori per compiacere ed educare le donne del pubblico («Quindi è, che la donna, come violentemente a quest’affetto inclinata, e come quella, che rare volte da passioni più rilevanti preoccupata si trova, odierebbe quella rappresentazione, ove non avesse gran parte la sua passion favorita; e giacchè questa difficilmente può dal cuor suo sradicarsi, è almen necessario col rappresentare in scena gli amori, insegnarle a nodrirli con sobrietà», Pier Jacopo Martello, «Della tragedia antica e moderna», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 236) —, il Calepio afferma che non è necessario introdurre degli episodi amorosi nella tragedia per renderla più piacevole. Egli biasima in particolare quelle tragedie in cui l’amore non è la passione principale, ma anima delle sottotrame secondarie. Dal punto di vista della struttura, egli ritiene passabile l’Ariane (1672) di Thomas Corneille, tragedia incentrata sulla rivalità tra Arianna e la sorella Fedra per l’amore di Teseo — quest’ultima avrà finalmente la meglio: l’eroe partirà con lei alla volta di Atene, lasciando la sorella più vecchia a Nasso —, benché il soggetto, proprio a causa dell’esclusiva attenzione riservata al sentimento amoroso, gli paia indegno di una tragedia.
Maggiormente censurabili appaiono tuttavia a Calepio quelle tragedie che, pur trattando principalmente altre passioni, contemplano digressioni amorose, talora anche di notevole entità. Il Maffei, recensendo il Paragone nelle Osservazioni letterarie, come ha notato Laura Sannia Nowé (Laura Sannia Nowé, «La risposta del Calepio alle riflessioni del Maffei sul Paragone della tragica poesia», Rassegna della letteratura italiana, LXXVI, 1, 1972, pp. 53-70: 68-69), dimostra di non aver compreso a fondo la posizione del Bergamasco, al quale attribuisce l’opinione secondo cui le digressioni episodiche di argomento amoroso sarebbero più scusabili delle tragedie interamente consacrate a descrivere i tormenti di un amante. Maffei criticava così il Bergamasco scrivendo: «non mancherà chi, all’incontro, tenga qui appunto consister l’error: perché se un Tragico prenderà a rappresentar l’Amore, e a far conoscere l’inquietudine e i mali che da tal passione, quando è sregolata, procedono, e insieme la calamità e i funesti eventi, a cui talvolta conduce, adempirà ottimamente all’uffizio suo: ma se prenderà per soggetto una faccenda affatto diversa e nella quale altre passioni regnino, e non ostante vi vorrà introdurre amori, anzi assegnare a quelli il maggior luogo, come son soliti di fare i Francesi, questo sarà fallo inescusabile» (Scipione Maffei, «Recensione a P. Calepio, Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia», in Id., De’ teatri antichi e moderni, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, p. 54).
Il Maffei traeva questi argomenti, d’altra parte, direttamente da Voltaire, il quale, aveva espresso la medesima posizione nel suo Discours sur la tragédie à Mylord Bolingbroke («Pour que l’amour soit digne du théâtre tragique, il faut qu’il soit le nœud nécessaire de la pièce, et non qu’il soit amené par force pour remplire le vide de vos tragédies et des nôtres qui sont toutes trop longues», Voltaire, «Discours sur la Tragédie à Mylord Bolingbroke», in Id., Le Brutus de Monsieur de Voltaire, avec un Discours sur cette Tragédie, 2e éd., Amsterdam, Ledet et Desbordes, 1731, p. 24) ed era ritornato sulla questione nella lettera sulla Merope inviata al Veronese, in cui scagionava Racine dall’accusa di aver introdotto troppi amori nelle sue tragedie: l’autore del Candide lodava invece il Racine per l’uso della passione amorosa in scena, in quanto «jamais chez lui la passion de l’amour n’est épisodique; elle est le fondement de toutes ses pièces; elle en forme le principal intérèt» (Voltaire, «Lettre à Monsieur le Marquis Scipion Maffei auteur de la Merope italienne, et de beaucoup d’autres célébres Ouvrages», in Scipione Maffei, La Merope tragedia. Con Annotazioni dell’Autore e con la sua Risposta alla Lettera del Sig. di Voltaire, Verona, Ramanzini, 1745, p. 152).
Quanto al rimprovero di eccessiva galanteria rivolto ai Francesi — elemento che scagionerebbe almeno in parte la svenevolezza di certe tragedie amorose, perfettamente consone al carattere nazionale degli autori e del pubblico —, esso era comune nell’Europa del primo Settecento, tanto da diventare un topos ineludibile della nascente letteratura sugli usi e costumi delle varie nazioni, entro la quale dovrà essere annoverata anche la Descrizione de’ costumi italiani di Calepio, pubblicata sui tomi della Bibliothèque Italique.
All’interno di questa stessa rivista era stata pubblicata qualche anno prima la Lettre sur les Anglois et sur les François et sur les Voyages di Louis de Muralt, nella quale veniva condannata la stucchevole «galanterie» dei Francesi: «Mais quoique toute leur nation y prétende, cette fine galanterie demande quelque chose de plus que ce qui entre dans le caractère de toute une nation, et pour mille personnes qui plaisent par là, il s’en trouve en France dix mille qui déplaisent, en voulant les imiter; des gens qui vous ennuient par les insipides louanges qu’ils vous disent en face, et qui vous dégoûtent de la galanterie française», Béat Louis de Muralt, Lettre sur les Anglois et sur les François, et sur les Voiages, s. l. [Genève], s. n. [Fabri et Barillot], 1725, pp. 262-263.
Sull’Ariane di Corneille e sui suoi rapporti con la Phèdre di Racine si veda il contributo di Richard E. Goodkin, «Thomas Corneille’s Ariane and Racine’s Phèdre: The Older Sister Strikes Back», L’Esprit Créateur, XXXVIII, 2, 1998, pp. 60-71.
[3.3.5] Le digressioni amorose costituiscono per Calepio, come è già emerso altrove, un elemento disturbante non tanto dell’unità d’azione, quanto dell’esclusiva ricerca del perseguimento di pietà e terrore, passioni cardinali del genere tragico. Egli giudica di conseguenza freddo e sterile ogni episodio romanzesco che distolga l’attenzione dal fuoco catartico del dramma: di tal fatta considera, nella Sophonisbe di Pierre Corneille, la rivalità tra Eryxe e Sophonisbe, entrambe innamorate di Massinisse, a cui il drammaturgo francese dedica diverse scene (I, 3; II, 2-3; III, 3; V, 4).
Se i Francesi peccano spesso nell’introdurre episodi amorosi che attenuano l’attenzione dello spettatore verso gli accadimenti gravi e pietosi di cui consta l’intreccio, altrettanto, secondo Calepio, non si può dire degli Italiani. Egli si mostra giudice benevolo del Solimano di Bonarelli, dove l’amore tra Despina e Mustafa è fonte, nonché di una serie di brillanti equivoci drammaturgici, dell’accrescimento della pietà allorché entrambi gli amanti vengono fatti uccidere dalla crudele Regina; al contempo si mostra altrettanto indulgente con l’Aristodemo del Dottori, in cui l’amore tra Policare e Merope gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della vicenda, in quanto proprio Policare, nel tentativo disperato di salvare l’amata dal sacrifico, millanterà di fronte al padre di aver violato la verginità della figlia, rendendola di fatto inadatta a svolgere il ruolo di vittima sacrificale (IV, 1).
Quanto al Solimano, sulla natura del personaggio inventato e non storico di Despina, utile a introdurre questa sottotrama amorosa, si era soffermato lo stesso Bonarelli nella lettera ad Antonio Bruni con la quale difendeva l’ortodossia della propria tragedia rispetto ai criteri aristotelici: gli amori di Despina e Mustafà erano ammissibili sulla base della Poetica (1551b 33), in quanto davano luogo ad un episodio «appicco» alla trama, e non puramente esornativo («Non dovrà dunque né anche dar fastidio l’introduzione di Despina, ch’è la seconda tra le cose principali da me inventate, e variate dalla storia, sì per le ragioni suddette, si perché veramente ella ha pur non so che d’appicco alla storia, ed è un episodio congiunto, s’io non m’inganno, alla favola della maniera che c’insegna Aristotile dovere essere. Non è affatto spiccata dalla storia, perché leggendosi in quella, che dal Bassà dell’Amasia furono intercette alcune lettere, nelle quali era un non so che di maneggio di nozze tra Mustafà e la figliuola del re di Persia, le quali lettere appresentate dalla Rossa a Solimano, operarono l’effetto dal lei desiderato, io però da questo picciol seme istorico ho pensato poter far nascere la favolosa pianta de gli amori, e de gli altri effetti di Despina, innestandola in modo col tronco della favola principale, che l’una non possa reggersi, ne finir senza l’altra», cfr. Prospero Bonarelli, Lettera ad Antonio Bruni, a cura di Enrica Zanin, site IdT — Les Idées du théâtre).
La bontà del personaggio di Despina sarà sottolineata a più riprese nella critica settecentesca: prima da Gian Rinaldo Carli («Ma io non voglio andar esaminando in questo momento tutte le nostre Tragedie. Basti per tutte il Solimano del Bonarelli. Bella in quest’opera è la situazione di Despina con Mustafà nella scena VII dell’atto IV», Gian Rinaldo Carli, Dell’indole del teatro tragico, in Id., Opere, vol. XVII, Milano, Imperial Monistero di S. Ambrogio Maggiore, 1787, pp. 147-148), poi da Francesco Saverio Salfi, il quale, come aveva fatto Calepio, insiste sull’efficacia dell’episodio amoroso nell’amplificare l’effetto catartico della vicenda («Mustafà si mostra non solo innocente ma leale e magnanimo; ama Despina, e nel darle l’ultimo addio, giunge al colmo l’esaltazione della pietà e del terrore», Francesco Saverio Salfi, Compendio dell’istoria della letteratura italiana, Torino, Pomba, 1833, p. 211).
Anche il giudizio positivo sull’Aristodemo verrà condiviso nel Settecento: Napoli Signorelli sottolinea, ad esempio, come l’amore di Policare per Merope, «lungi dall’indebolire l’interesse della favola, accresce la compassione nello scioglimento» (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, t. IV, Napoli, Orsino, 1789, p. 115).
Si registra, infine, ancora una volta, la ripresa della riflessione di Calepio nel Della storia e della ragione d’ogni poesia del Quadrio, a sua volta incline a condannare «la gelosia introdotta nella Sofonisba tra questa Regina ed Erice», e pronto a riconoscere come al contrario, gli italiani a cui «piacque d’inserire nelle loro Favole alcun Episodio Amoroso, seppero più felicemente farlo servire alla principale Azione; e con più moderatezza trattarlo; come si può vedere nel Solimano del Bonarelli, e nell’Aristodemo del Dottori» (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 299).
Interessanti considerazioni sui risvolti politici della rivalità fra due modelli alternativi di sovrane, incarnate rispettivamente da Eryxe e Sophonisbe nella tragedia di Corneille sono fatte da Susan Read Baker, Dissonant Harmonies: Drama and Ideology in Five Neglected Plays of Pierre Corneille, Narr, Tübingen, 1990, pp. 99-107. In generale sull’amore nelle tragedie di Corneille si rimanda al classico contributo di Octave Nadal, Le Sentiment de l’amour dans l’œuvre de Pierre Corneille, Paris, Gallimard, 1948.
[3.3.6] Viene in questo frangente denunciata l’incoerenza di alcuni protagonisti della tragedia francese che sono invischiati all’interno di episodi amorosi: a causa di questa passione secondaria essi, secondo Calepio, proprio quando più dovrebbero mostrarsi gravemente assorti a riflettere sulla catastrofe a cui vanno incontro, vengono rappresentati intenti ad assecondare dei teneri pensieri amorosi. Una delle tragedie che rivelerebbe in modo eloquente questa contraddizione è l’Idoménée (1705), prima tragedia di Crébillon père, ancora scevra degli elementi cupi e truci che popoleranno le successive prove dell’autore, a partire dall’Atrée et Thyeste (1707). Nell’esordio dell’Idoménée vediamo il re cretese, protagonista eponimo, di ritorno in patria dalla vittoriosa guerra di Troia, che si lamenta per la sorte avversa: per salvarsi da una tempesta che lo minacciava, proprio sul punto di arrivare a Creta, aveva infatti promesso a Nettuno di sacrificare la prima persona che avesse incontrato dopo lo sbarco, e il destino aveva voluto che questi fosse proprio il figlio Idamante (I, 2). Idomeneo, disperato per questa sciagura, tenta di far fuggire il figlio a Samo, disposto a contravvenire all’ordine degli dei, ma cambia opinione quando scopre (III, 5) che Idamante è innamorato, come lui, di Erixéne, figlia di un antico nemico della loro casata. Calepio non trova coerente la figura di un Idomenée prima gravemente abbattuto per il sacrificio che è costretto a compiere, e subito dopo — il passaggio è repentino e avviene proprio nella scena centrale dell’opera (III, 5) — furente allorché viene a sapere che il figlio è suo rivale in amore. La tragedia di Crébillon, tradotta in italiano da Francesco Albergati Capacelli e Agostino Paradisi, aveva goduto al tempo di una discreta fortuna: essa è alla base del libretto di un’omonima tragédie en musique su libretto di Antoine Danchet (1712) e fungerà poi da ipotesto per un’altra tragedia — l’Idoménée di Antoine-Marin Le Mierre (1764) — e per il più celebre Idomeneo (1781) musicato da Mozart su testo di Giambattista Varesco. In tutte queste riprese è deliberatamente omesso l’intrigo amoroso.
Ancora una volta, infine, si ribadisce la critica rivolta all’Œdipe di Corneille e all’Andromaque di Racine, già rilevata in questo capo nel quarto punto dell’elenco stilato dall’autore, ma avanzata pure in precedenza: emerge in questa sede un tratto caratteristico del Paragone, che pare, proprio in virtù di questi segmenti ripetuti in diverse sezioni, un’opera scritta in un arco di tempo piuttosto lungo e che andava componendosi per progressive giunte che andavano ad aggregarsi attorno a pochi nuclei argomentativi ben definiti.
[3.3.7] Fra i drammaturghi francesi, l’unico a venire risparmiato delle critiche calepiane in quanto non aveva introdotto nelle sue tragedie digressioni amorose, era Joseph-François Duché de Vancy, considerato tuttavia reo di una cattiva gestione degli episodi nel Jonathas (1699) e nell’Absalon (1712). Nel Jonathas, tratta dal primo libro dei Re, si rappresenta la battaglia degli Ebrei, guidati da re Saul, padre del protagonista, contro i Filistei a Gabaa. Con l’aiuto di Dio l’esercito israelita sovrasta i nemici, tanto da spingere Saul a pronunciare un avventato giuramento: chiunque avesse mangiato prima di terminare il combattimento avrebbe dovuto morire. Jonathas, il quale già in diverse occasioni si era mostrato restio ad obbedire docilmente agli ordini del padre, mangia del miele, contravvenendo così al decreto paterno e andando incontro alla pena di morte. Tuttavia, il popolo, giubilante per la vittoria, ottenuta anche grazie al valore di Jonathas, impone a Saul di non punire il figlio. Calepio giudica in questo caso superflui i personaggi secondari di Achinoam, moglie di Saul, e di Mérob e Michol, sorelle di Jonathas. L’Absalon, incentrato su una vicenda narrata nel primo libro di Samuele, mette in scena invece le gesta dell’indocile figlio di Davide, il quale, dopo aver ucciso il fratello Amnon, ed essere rientrato nelle grazie del padre attraverso ingegnosi sotterfugi, congiura contro Davide e il suo regno, ma senza successo. Anche nell’Absalon, secondo Calepio, i caratteri femminili — segnatamente quelli di Maacha, moglie di David, e di Thàres, donna di Absalon — sono inutili allo sviluppo dell’azione. A chiudere questo elenco di tragedie francesi di soggetto religioso, figura l’Athalie di Racine, ben più celebre pièce, incentrata sulla maligna figura di Athalie, decisa a sterminare tutti i figli di Joad per imporre in Israele il culto del dio Baal.
Dopo un lungo elenco di tragedie francesi censurate perché zeppe di episodi amorosi che sviano l’attenzione dello spettatore o che indeboliscono la potenzialità catartica dell’intreccio, Calepio addita quindi a modelli positivi drammi tratti dalla Bibbia. La preferenza del bergamasco per questa seconda tipologia di opere, andrà ricordato, non è tanto di natura morale, quanto piuttosto di ordine estetico, in quanto gli amori che si frappongono nelle favole tragiche spesso, a suo parere, impediscono all’autore o al pubblico di concentrarsi sulla creazione di quelle condizioni necessarie a suscitare o a provare pietà e terrore. L’Athalie era stata peraltro eletta a modello di tragedia religiosa da Antonio Conti, che ne aveva anche fornito un’elegante traduzione italiana (Antonio Conti, «Atalia di Jean Racine», in Id., Versioni Poetiche, a cura di Giovanna Gronda, Bari, Laterza, 1966, pp. 103-200).
Capo IV.
De’ vantaggi ch’hanno li Francesi circa vari artifici toccanti l’ordine e la forma della tragica rappresentanza.
Articolo I.
[4.1.1] In apertura Calepio fuga i possibili sospetti di partigianeria che potrebbero sorgere in quei lettori che lo hanno osservato demolire la drammaturgia francese dal punto di vista della scelta del soggetto, della qualità del protagonista e della composizione degli episodi. Nel quarto capo l’autore passerà in rassegna i principali difetti delle tragedie italiane che concernono principalmente alle qualità rappresentative: se il teatro francese, come scritto in apertura, è apprezzabile per la sua capacità di affascinare lo spettatore, benché manchevole dal punto di vista della costruzione della favola, al contrario quello italiano appare sotto questo profilo molto più regolare, ma al contempo poco efficace alla prova della scena. Con una visione lungimirante, che apparteneva anche ad altri grandi letterati primo-settecenteschi, quali ad esempio Maffei e Martello, Calepio insiste sulla necessità di creare un contesto piacevole con il quale «ingannare» lo spettatore. Egli si propone di indagare separatamente quattro punti fondamentali per la riuscita della rappresentazione tragica, ossia l’incisività dell’esordio, l’introduzione dei personaggi in scena, l’adeguatezza delle battute pronunciate dai diversi attori ed infine la tenuta della partizione del dramma in atti e scene.
[4.1.2] L’esordio della tragedia è ritenuto da Calepio un momento particolarmente delicato della rappresentazione: in questo punto vanno fornite allo spettatore le notizie necessarie e sufficienti per comprendere lo sviluppo successivo dell’intreccio. Sarà bene precisare fin da subito che egli, pur avendo ben presente la rassegna dei diversi tipi di prologo che si praticavano nel teatro antico condotta da d’Aubignac nel suo La Pratique du théâtre (préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, pp. 159-179 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, pp. 143-153]), è mosso da un interesse ben diverso: non vuole tanto speculare, come faceva il Francese — Poetica di Aristotele alla mano —, sulla proprietà teorica di ogni diversa forma di prologo, ma è preoccupato di verificare la bontà scenica di un determinato tipo di esordio tragico, ossia quello che fornisce allo spettatore tutte le informazioni necessarie a comprendere lo sviluppo della pièce senza annoiarlo o dargli a vedere che lo sta istruendo. Di conseguenza, nei seguenti paragrafi prenderà a censura qualsiasi deroga rispetto a questo modello, che considera l’unico efficace dal punto di vista strettamente «teatrale».
Calepio giudica negativamente le tecniche di avvio della vicenda tragica sfruttate dai drammaturghi greci, sulla base di un paradigma evoluzionista che era stato già sfruttato ampiamente dai Modernes nella famosa querelle di cui il Bergamasco era stato non soltanto spettatore, come dimostra la sua Apologia di Sofocle, documento della militanza del giovane autore nelle file degli Anciens, al fianco dei classicisti. In questa sede l’autore condanna i prologhi delle tragedie greche, spesso recitati da divinità o prosopopee che ricostruivano l’argomento della favola, citando dapprima l’esempio biasimevole dell’Alcesti di Euripide, nella cui scena iniziale ha luogo un dialogo fra Apollo, desideroso di avere dalla Morte un’ulteriore dilazione, e Thanatos, decisa a pretendere il rispetto dei patti. In generale Euripide impiega spesso divinità e figure ultramondane nei suoi prologhi, come Poseidone nelle Troiane e l’ombra di Polidoro nell’Ecuba. L’autore ammette di prediligere la versione sofoclea, nei cui prologhi non compaiono figure di questo tipo: l’Antigone, ad esempio, è aperta dal dialogo fra la protagonista e Ismene; l’Aiace da quello fra Atena e Odisseo; l’Elettra dal colloquio fra Oreste e il pedagogo; il Filottete da una serie di sticomitie fra Odisseo e Neottolemo.
Al solito, dal punto di vista teorico, Euripide, benché risulti il drammaturgo più tradotto e apprezzato lungo tutto il diciottesimo secolo (cfr. Ettore Garioni, «La traduzione dei tragici greci nel Settecento italiano. La “riscoperta” di Euripide e la fortuna dell’“Ecuba”», Comunicazioni sociali, II, 2, 2004, pp. 184-259), è il bersaglio polemico privilegiato. Anche Gravina contestava la validità dei prologhi narrativi di Euripide, propendendo a sua volta per la soluzione sofoclea, capace di dare agli uditori le notizie necessarie per comprendere gli antefatti senza confinarle in un prologo appositamente adibito a questa funzione («La favola tragica sarà sempre più convenevole alla maestà del soggetto, quando senza figura di narrazione spargerà per entro il primo Atto tra i discorsi delle persone lumi tali, donde senza relazione espressa possa lo Spettatore da se raccorre il passato; come noi abbiamo fatto ad imitazion di Sofocle più che d’Euripide, il quale dà principio alle sue favole con figura narrativa» (Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1974, p. 576).
Questa condanna dei prologhi è funzionale, nell’ottica di Calepio, ad introdurre un rimprovero alle moderne tragedie classicistiche che riproducono un simile espediente; Gravina faceva invece seguire al suo discorso di rimprovero nei confronti di Euripide un altrettanto severo sentimento di riprovazione verso le tragedie moderne che esordivano in maniera troppo secca, presentando un incipit in medias res («Ma il Romanzesco genio de i Tragici presenti, volendosi con artificio affettato dall’apparente narrazione troppo scostare, dà fuori per lo più principi così rotti e tronchi, che gli Attori paiono affatto usciti di senno, quando si veggono al principio improvvisamente esclamare, senza che preceda notizia alcuna del motivo, che sveglia tanto rumore», ivi, pp. 576-577).
[4.1.3] A Calepio non paiono improprie soltanto le divinità che entrano in scena a raccontare gli antefatti, ma anche i protagonisti che prendono la parola in maniera confusa per rendere edotti gli spettatori delle vicende precedenti all’esordio della favola. Nella Tullia l’omonima protagonista entrava in scena alludendo al fatto che sua madre avesse ucciso il di lei padre, Tarquinio Prisco, per mettere sul trono il marito, Servio Tullio, togliendo ai discendenti di Tarquinio, fra cui suo marito Lucio, la giusta eredità che lei rivendica. Il lungo discorso di Tullia è in effetti particolarmente contorto («Tornami giorno, e notte nella mente,/ anzi v’è sempre, l’infelice caso/ del gran Prisco Tarquinio, e la sua morte/ che l’uno ordio, e l’altro a fine addusse./ Ei fu pur Padre, oimè, del mio Marito,/ e di mia Madre cruda, ch’ebbe il nome/ solo di figlia, e di nimica l’opre:/ che la sua Madre, e lui del Mondo tolse/ ch’era stata cagion, che Servio in alto/ era poggiato in le Romane menti,/ per portarne da lui questa mercede», Lodovico Martelli, Tullia, in Id., Rime, Lucca, Cappuri, 1730, pp. 240-241); tuttavia questa tragedia era considerata da Gravina — con cui Calepio intrattiene in queste pagine un lungo dialogo —, fra le migliori del panorama italiano («Imperocchè le nostre tragedie sono ad imitazion delle greche inventate, ed espresse con simil semplicità di stile, gravità di sentenze, e movimento di affetti, o miserabili, o atroci, come nelle più principali si può riconoscere, le quali al parer comune de’ nostri dotti, sono la Sofonisba del Trissino, la Canace dello Speroni, la Rosmunda del Ruccellai, e tra molte altre del Giraldi l’Orbecche, la Tullia del Martelli, il Torismondo del Tasso», Gian Vincenzo Gravina, «Della ragion poetica», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1974, p. 316). Non a caso egli aveva tratto ispirazione proprio da questa tragedia per la composizione del suo Servio Tullio.
[4.1.4] Sulla scorta dei tragici greci, molti drammaturghi cinquecenteschi avevano adibito la prima scena della tragedia ad informare il pubblico degli antefatti. Giraldi Cinzio aveva affidato questo prologo talora a personaggi coinvolti nella rappresentazione — come l’Emone degli Antivalomeni, entrato in scena a raccontare della morte di re Loteringo e dell’accordo stretto fra il sovrano morente e l’infingardo Nicio circa il futuro di moglie e figlia —, talaltra aveva investito di questo compito divinità: è il caso dell’Orbecche, dove dialogano Nemesi e le Furie, e della Didone, aperta dall’intervento di Giunone. Inoltre, nella Didone, Giraldi aveva inserito un altro personaggio sovrannaturale e inverosimile agli occhi dell’autore del Paragone, ossia la Fama, entrata in scena a palesare a tutti, contro la volontà di Didone, che la regina, «rotta la fede al cener di Sicheo», si era congiunta ad Enea in un atto lascivo che ella considera un matrimonio (III, 1). Calepio non approva simili stratagemmi, considerandoli probabilmente dannosi alla verosimiglianza e alla linearità della favola; egli elenca anche altre tragedie cinquecentesche che presentano il medesimo problema, ossia l’Astianatte e l’Altea di Bongianni Gratarolo e la Dalida del Groto. Nell’Altea del Gratarolo in effetti tutto il primo atto è imperniato sulla conversazione — utile a ricostruire gli antefatti e a presentare i protagonisti — delle divinità Diana, Nemesi e Invidia; nell’Astianatte viene riproposto il medesimo meccanismo, ma questa volta ad agire sono Iride e Giunone. Conscio di questo difetto il Maffei, pubblicando la tragedia nel Teatro Italiano, pregava di non considerare il prologo meccanico e antiquato, e di eliminarlo assieme all’epilogo al fine di ricreare una tragedia in tre atti («Chi metterà su la Scena questa Tragedia, affidandola a bravi Attori, conoscerà dall’effetto, che non a torto le si è dato luogo in questa Raccolta. Non si ributti alcuno per cagione del primo Atto, in cui a somiglianza degli antichi Prologhi, due Deità compariscono, quasi troppo si declini dall’uso delle odierne recite; perché in primo luogo nulla osta, che non possa anche il Prologo rappresentarsi, ed in secondo si addita nel fine il modo con cui può questo facilmente tralasciarsi senza danno (e tanto più, che non è la più bella parte di questo componimento) riducendo la Tragedia in tre Atti», Scipione Maffei, Teatro Italiano, t. II, Verona, Vallarsi, 1723, p. 147). Il Gratarolo si era comportato diversamente nella sua Polissena, dove nel primo atto aveva proposto un dialogo a tre voci fra i personaggi che poi sarebbero stati al centro della scena anche negli atti successivi, ossia Polissena, Cassandra ed Ecuba. Nella Dalida del Groto la prima scena era invece occupata dall’ombra di Moleonte che ricostruiva le vicende del suo regno illustrando al personaggio della Morte i suoi progetti di vendetta. Nella scena terza del primo atto interveniva inoltre anche la personificazione della Gelosia.
Andrà osservato come in questa sede Calepio non se la prenda con il «prologo separato», di natura più letterario-critica che teatrale, rilanciato nel teatro arcadico grazie a Crescimbeni e Gravina, i quali vi avevano fatto entrambi ricorso in qualità di drammaturghi; Crescimbeni, rifacendosi al modello della commedia latina, ma anche della tragedia di Giraldi, legittimava infatti a posteriori la scelta, adottata nell’Elvio, di introdurre un prologo distinto dal primo atto («Sebbene il Prologo nelle Tragedie generalmente non si separa dal primo Atto, nondimeno non è vietato il separarlo nella guisa, che fu separato d i Latini nelle Commedie, alle quali l’istesso metodo, che alle Tragedie, assegna Aristotile […]; e la separazione allora sarà maggiormente permessa, che il Prologo non conterrà alcuna parte riguardevole della Favola; e tanto più avrà luogo, quanto meno il suggetto della Tragedia sarà noto, come in proposito del Prologo fatto nella sua Orbecche dal Giraldi, che fu il primo introduttor de’ Prologhi separati nelle Toscane Tragedie», Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, pp. 91-92). Gravina aveva affidato al prologo, recitato dalla prosopopea della Tragedia, il compito di illustrare le novità della sua proposta tragica screditando le strade percorse dai predecessori e suscitando la costernazione del Martello nel dialogo fittizio con l’Aristotele del Della tragedia antica e moderna («A dirti il vero, o maestro — io soggiunsi — non posso negarti, che mi mortificasse il veder dopo un mio lavoro di più di vent’anni, venirmene un altro addosso di cinque Tragedie corteggiate non dirò dagli applausi de’ suoi scolari solamente, ma da quelli del loro medesimo maestro Giureconsulto, che nel suo bizzarro Prologo generale pronunzia assai francamente di aver per esse restituita la Greca tragedia al Teatro della quale appena un’ombra, dic’egli, apparisce in tutte le altre tragedie, o estere, o Italiane», Pier Jacopo Martello, «Della tragedia antica e moderna», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 201.
Calepio non si limita a criticare quei prologhi in cui compaiono prosopopee o personaggi ultramondani, ma se la prende anche con quelli in cui i protagonisti entrano in scena esclusivamente allo scopo di informare gli spettatori delle vicende avvenute fuori scena. Questo avveniva, a suo dire, principalmente nella Sofonisba di Trissino e nell’Oreste di Rucellai, il cui esordio era stato già precedentemente criticato (Paragone III, 1, [4]). Sulla questione aveva riflettuto anche il Muratori, il quale predicava molta attenzione al rispetto della verosimiglianza in simili circostanze: «Ha parimente bisogno di gran riguardo quel dover dare contezza agli Uditori delle cose dianzi avvenute, o pur de’ personaggi, che vengono in Scena. Non osservano i poco giudiziosi, quanto sia inverisimile, che una persona racconti ad un’altra ciò, che da ambedue o necessariamente, o probabilmente si dovea già sapere» (Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 591).
Sull’uso della prosopopea nei prologhi delle opere sceniche cinquecentesche si rimanda al contributo di Eugenio Refini, «Prologhi figurati. Appunti sull’uso della prosopopea nel prologo teatrale del Cinquecento», Italianistica, XXXV, 3, 2006, pp. 61-85.
I prologhi alle tragedie graviniane sono stati editi in Amedeo Quondam, «Addenda graviniana. I prologhi inediti alle Tragedie con alcune osservazioni sulla “visione tragica” delle stesse», Filologia e Letteratura, XVI, 1970, pp. 265-320. Di recente è intervenuta su questi prologhi Alviera Bussotti, in «Le “mute virtù” rigenerate: nota sui paratesti graviniani», in La letteratura degli Italiani. I letterati e la scena, Atti del XVI Convegno Nazionale dell’Adi (Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012), a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Paola Pecci, Ester Pietrobon, Franco Tomasi, Roma, Adi Editore, 2014. Il prologo dell’Elvio è stato edito da chi scrive, in versione commentata, site IdT — Les Idées du théâtre).
[4.1.5] Si passa a questo punto al fronte francese, affatto esente da simili brutture, ed in particolare non scevro di noiose e inessenziali narrazioni di cui, secondo Calepio, si potrebbe senz’altro fare a meno. Il drammaturgo col quale il bergamasco se la prende è ancora una volta Corneille, di cui vengono condannati il Cid, il Pompée e la Rodogune. Quanto al Cid, Calepio ribadisce la consueta critica nei confronti del personaggio dell’Infanta che interviene nel dramma diverse volte, secondo il bergamasco sempre in maniera inopportuna (cfr. Paragone III, 2, [3]). Costei entra in scena per la prima volta nel primo atto (I, 2) confessando di amare Rodrigue, cavaliere audace ma indegno di sposare una regina; per questo motivo si è imposta di resistere alla tentazione e, per facilitarsi l’impresa, ha spinto l’amato nelle braccia di Ximene. Nelle successive apparizioni (II, 3-5; IV, 2) l’Infanta tornerà in scena, vittima dell’indecisione, a esporre i propri tormenti sentimentali, fino a che, nel suo monologo finale, rimpiangerà di aver allontanato da sé l’uomo che amava (V, 2). Questa stessa taccia di personaggio inutile e mal riuscito era stata rivolto all’Infanta già da Chapelain (cfr. «Observations sur le Cid», in La Querelle du Cid (1637-1638), édition critique intégrale par Jean-Marc Civardi, Paris, H. Champion, 2004, p. 400) e poi da Voltaire, il quale nei Commentaires sur Corneille riproponeva la medesima accusa («On a condamné l’infante du Cid, non seulement parce qu’elle est inutile, mais parce qu’elle ne parle que de son amour pour Rodrigue», Voltaire, Commentaires sur Corneille, t. III, in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 55, critical edition by David Williams, Genève, Institut et Musée Voltaire, 1975, p. 726).
Un altro personaggio poco commendabile sarebbe la Cléopâtre de La mort de Pompée, la quale dibatte inizialmente con il fratello Ptolomée che le contendeva il potere (I, 3); quindi confessa a Charmion (II, 1) — è questa la scena sulla quale si appuntano i rilievi dei critici successivi — la simpatia che Cesare provava nei suoi confronti. La lunga narrazione permette a Corneille di caratterizzare Cléopâtre come una donna che usa l’amore in chiave strumentale per appagare la propria ambizione. Questo personaggio era stato accomunato all’Infanta dallo stesso Corneille, il quale nell’Examen del Polyeucte disquisiva sui mezzi attraverso i quali dare allo spettatore le informazioni necessarie a comprendere lo sviluppo della favola. In quella sede il Francese teorizzava la necessità di improntare alcuni dialoghi a questa funzione secondaria, anche a scapito della verosimiglianza dell’intreccio: i discorsi dell’Infante a Léonor nel Cid, e quelli di Cléopâtre a Charmion erano in questo senso esemplari, in quanto si imponevano come imprescindibili per rendere edotto il pubblico delle passioni delle due nobildonne, ma venivano riferiti a due ancelle assai intime delle regine, che dovevano logicamente conoscere quelle vicende sentimentali ben prima di quelle confessioni rappresentate sulla scena: «Ce sont choses dont il faut instruire le spectateur en les faisant apprendre par un des acteurs à l’autre; mais il faut prendre garde avec soin que celui à qui on les apprend ait eu lieu de les ignorer jusque-là aussi bien que le spectateur et que quelque occasion tirée du sujet oblige celui qui les récite à rompre enfin un silence qu’il a gardé si longtemps. L’Infante, dans le Cid, avoue à Léonor l’amour secret qu’elle a pour lui, et l’aurait pu faire un an ou six mois plus tôt. Cléopâtre dans Pompée, ne prend pas des mesures plus justes avec Charmion […]. Cependant, comme il ne paraît personne avec qui elle ait plus d’ouverture de cœur qu’avec cette Charmion, il y a grande apparence que c’etait elle-même dont cette reine se servait pour introduire ces courriers, et qu’ainsi elle devait savoir déjà tout ce commerce entre César et sa maîtresse» (Pierre Corneille, «Examen de Polyeucte», in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 981).
Questo difetto viene ancora una volta rimproverato a Corneille, oltre che dal solito Voltaire, pronto a censurare la freddezza del personaggio di Cléopâtre, la quale era solita esprimersi soltanto attraverso massime poco incisive («Ce sentiment de Cléopâtre est fort beau; mais on affaiblit toujours son propre sentiment, quand on l’exprime par des maximes générales», Voltaire, Commentaires sur Corneille, t. II, in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 54, critical edition by David Williams, cit., p. 407), anche dal Du Bos, il quale accomunava a sua volta il Cid e La Mort de Pompée, considerandole ambedue assai difettose dal punto di vista dei personaggi («Nous avons deux Tragédies du grand Corneille, dont la conduite et la plupart des caracteres sont très défectueux, le Cid, et la Mort de Pompée», Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, 7e éd., Paris, Pissot, 1770, t. I, p. 300]). Molto vicino al Calepio si mostrava in questo frangente anche Antonio Conti, che assegnava alla Cléopâtre del Pompée il titolo di «inutile» (Antonio Conti, «Lettera al Sig. Marchese Scipion Maffei, autore della Merope italiana e di molte altre celebri Opere», in Id., Versioni poetiche, a cura di Giovanna Gronda, Bari, Laterza, 1966, p. 208).
Viene infine censurato l’esordio della Rodogune, dove il dialogo fra Timagéne e Laodice (I, 1), teso ad informare il pubblico sugli antefatti, è considerato poco felice. Nonostante queste immancabili stoccate al teatro di Corneille, Calepio è però disposto a riconoscere la superiorità dei Francesi in materia di avvio della favola, dal momento che le loro tragedie solitamente scansano quei soggetti per i quali sono doverose lunghe digressioni narrative che mettano il pubblico al corrente dei trascorsi dei protagonisti, e inoltre, a differenza delle italiane, offrono nelle prime battute agli uditori tutte le informazioni di cui debbono disporre per comprendere lo sviluppo successivo degli eventi.
Sul fronte italiano ritroviamo ancora una volta il perfetto accordo di Francesco Saverio Quadrio, il quale riprende alla lettera le tesi di Calepio: «I loro successori [dei Greci] scoprendo l’imperfezione, che in ciò era, legarono i Prologi col rimanente della Tragedia; e queste notizie proccurarono, che per occasione, dallo stesso rappresenta mento offerta, venissero all’assistente popolo somministrate. I Tragici degli ultimi nostri secoli si fecero di questi Greci imitatori: ma non ebbero tutti, o almen non sempre, quell’accorgimento di fare, che tali Discorsi Narrativi cadessero naturali nel corpo della Tragedia; e lasciarono bene spesso conoscere, che gl’Interlocutori loro, quantunque interessati nell’Azione, apparivano però prima, più per rendere intellegibile la Favola, che per proprio interesse. Nella Sofonisba del Trissino, e nell’Oreste del Rucellai ciò è sì notabile, che non si può non vedere. Le Narrazioni dell’Infanta nel Cid, di Cleopatra nel Pompeo, il Dialogo di Laonice, e di Timagene nella Rodoguna, tutt’e tre Opere di Pietro Cornelio, sono di questo difetto medesimamente macchiate» (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 190).
[4.1.6] La pecca maggiore che Calepio imputa alle tragedie francesi, dal punto di vista dell’esposizione dei fatti avvenuti fuori scena che si rende necessaria allo spettatore per comprendere lo sviluppo della rappresentazione, è l’introduzione del confidente, impiegato come «spalla» atta a dar modo ai protagonisti di narrare alcuni significativi avvenimenti del passato, nonché funzionali a permettere a questi ultimi di ragionare intorno al proprio stato emotivo e di riferire al pubblico piani e progetti. Sebbene egli non si dica pregiudizialmente contrario a questo tipo di personaggio — al quale del resto aveva fatto ricorso a sua volta, in veste di drammaturgo, nel Perdicca e nel Seleuco —, ritrova nelle tragedie francesi un’eccessiva abbondanza di confidenti; in questo caso egli censura principalmente il teatro di Racine, nel quale i «confidents» erano pressoché indispensabili; l’unica pièce raciniana in cui egli non riconosce alcun confidente è il tardo Alexandre le Grand — mentre il Du Bos vi scorgeva un personaggio di tal fatta in Ephestion (Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, 7e éd., Paris, Pissot, 1770, t. I, p. 395) — tragedia peraltro a suo parere irregolare per molti altri motivi, fra i quali si possono immaginare la qualità eccellente del protagonista e la fine lieta.
Contro l’uso dei confidenti nella tragedia francese si erano espressi diversi storici e teorici del teatro italiana primo-settecentesco. Una delle prime condanne era venuta da Pier Jacopo Martello, il quale, nel Della tragedia antica e moderna, prendeva le distanze dalla moda francese dei confidenti, preferendo l’uso dei monologhi: «Pretendono i Franzesi, che sia da pazzo lungamente dialoghizzar con sé stesso; ed inventano attori, che chiamano confidenti, con cui interamente possa aprir l’animo suo un traditore, un’amante, una vergine, da che (dicon essi) nasce più verosimiglianza in chi rappresenta, e più diletto in chi ascolta. Io (poiché ho cominciato a parlar di me) seguendo in ciò l’esempio del Tasso, del Guarino, e di altri nostri Italiani, ho creduto dover regolarmi diversamento» (Pier Jacopo Martello, «Della tragedia antica e moderna», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 226). Lapidario era il giudizio di Luigi Riccoboni circa l’introduzione di questi personaggi: «souvent ce Confident ne vient sur la Scene, que pour entendre, ou pour faire l’exposition du Sujet, et demeure inutile dans tout le reste de la Piéce» (Luigi Riccoboni, Histoire du Theatre Italien, t. I, Paris, Cailleau, p. 277). Anche Antonio Conti si mostrava d’accordo con questa opinione, reputando l’uso dei confidenti uno dei principali difetti della tragedia francese, accanto al dialogo in rima e agli «eroi soverchiamente amorosi» (Antonio Conti, «Lettera a sua eminenza il signor Cardinale Bentivoglio d’Aragona», in Id., Le quattro tragedie, Firenze, Bonducci, 1751, p. 351).
Meno severo nei confronti di questo espediente, ritenuto notevolmente migliore rispetto alla pratica dei soliloqui, era invece il Muratori, al quale pare avvicinarsi il pensiero di Calepio («I Soliloqui eziandio non paiono oggidì molto lodevoli; ed è certamente da fuggirsi l’uso loro, quando non isforzi qualche necessità, posciachè si sono introdotti i Confidenti, gli Amici, ed altre persone, alle quali si racconta ciò, che una volta si sarebbe sposto in un Soliloquio. Che una persona parli fra se stessa con voce alta, è sempre un Inverosimile, tollerato però dalla Scena con altri di questa fatta, per far intendere agli Ascoltanti ciò, che rumina in suo cuore quella persona, come ancor si fa negli a parte. Ma quando questo Inverisimile possa schivarsi, ottimo consiglio sarà l’astenersene», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 591).
Sulla figura del confidente nella tragedia francese del Seicento si vedano: Valérie Worth-Stylianou, Confidential strategies: The Evolving Role of the Confidente in French Tragic Drama (1635-1677), Genève, Droz, 1999, e Florence Epars Heussi, L’Exposition dans la tragédie classique en France: approche pragmatique et textuelle, Bern, Lang, 2008, pp. 145-192.
[4.1.7] Al Calepio paiono anche poco adatti alla tragedia la rappresentazione di sogni e oracoli che avevano popolato la tragedia italiana del Seicento — ma anche del primo Settecento —, ben più di quanto accadesse nel dramma francese. Il Bergamasco, ancora una volta, non si barrica dietro ad una pregiudiziale censura di determinati elementi sotto l’egida del rispetto della verosimiglianza, ma precisa che, in qualche misura, sogni ed oracoli possono essere utili in quanto prefigurano allo spettatore, per via allusiva, quello che succederà nel prosieguo della favola, aumentando il piacere e la sorpresa di chi assiste allo spettacolo, grazie al ricorso a quella «meraviglia» propria del tragico di cui Calepio parlava, chiosando Aristotele, nel secondo capo (Paragone II, 1-II, 6).
Tuttavia egli critica la cristallizzazione di questi artifici che, sedimentando nella grammatica tragica moderna, sono diventati veri e propri «formulari» a cui attenersi, tanto da negare la possibilità di stupirsi di fronte alla messa in forma di simili stratagemmi.
L’unico caso di sogno tratto dalla tragedia francese che l’autore cita, peraltro esprimendo un giudizio positivo, è la visione premonitrice di Pauline, posto all’inizio del Polyeucte (I, 3, vv. 221-228): Pauline racconta di aver sognato l’incollerito Sévère che mandava a morte Polyeucte («Je l’ai vu cette nuit, ce malheureux Sévère/ La vengeance à la main, l’œil ardent de colère:/ Il n’était point couvert de ces tristes lambeaux/ Qu’une ombre désolée emporte des tombeaux;/ Il n’était point percé de ces coups pleins de gloire/ Qui retranchant sa vie, assurent sa mémoire;/ Il semblait triomphant, et tel que sur son char/ Victorieux dans Rome entre notre César»), preannunciando la catastrofe che avrà luogo nel finale. Il sogno premonitore, portato del racconto biblico, era stato peraltro sfruttato anche dal Racine, il quale, nelle sue due tragedie religiose, inserisce due visioni di questo tipo: il sogno di Athalie narrato a Mathan nell’omonima tragedia (II, 5) e quello di Assuérus, soltanto evocato da Hydaspe nell’Esther (II, 1). Questo tipo di meccanismi, così come gli oracoli e i vaticini, si ritrovano invero frequentemente nella tragedia francese del Seicento. Un catalogo degli oracoli presenti nella tragedia del diciassettesimo secolo, e in particolare nelle pièces di Corneille, è stato stilato da Bénédicte Louvat-Mozolay, «De l’oracle de tragédie comme procédé dramaturgique: l’exemple de Corneille», in Mythe et histoire dans le théâtre classique: hommage à Christian Delmas, Toulouse, Littératures classiques, 2002, pp. 395-416. Sul ricorso a sogni e oracoli nella tragedia francese dell’epoca si vedano inoltre: Raluca-Dana Pierrot, La Poétique de l’irrationnel dans le théâtre français de 1610 à 1680, mémoire d’étude sous la direction de Georges Forestier, Université Paris IV-Sorbonne, 2007; Tony Gheeraert, «Voix de Dieu, voix des dieux: oracles, visions et prophéties chez Jean Racine», Études Épistémè, XII, 2007, pp. 83-115.
Anche nella tragedia italiana del Cinque e del Seicento abbondavano simili espedienti: oltre agli oracoli, presenti in moltissimi drammi di stampo classicistico che riprendevano l’archetipo dell’Edipo Re, nei drammi nostrani campeggiano numerose narrazioni di sogni premonitori, come dimostrano ad esempio la Sofonisba del Trissino, la Rosmonda del Rucellai, la Canace dello Speroni, l’Orazia dell’Aretino, la Marianna del Dolce, l’Astianatte del Gratarolo, il Torrismondo del Tasso, la Principessa Silandra del Cebà o il Solimano di Bonarelli. Fra i numerosi recenti contributi che si sono occupati della rappresentazione del sogno nella tragedia italiana di epoca moderna cfr. Benedetta Papasogli, «Esperienze del tragico nel sogno premonitore», in Teatri barocchi: tragedie, commedie, pastorali nella drammaturgia europea fra ’500 e ’600, a cura di Silvia Carandini, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 151-168; Ead., «Il sogno premonitore nella tragedia sacra», in Il tragico e il sacro dal Cinquecento a Racine, Atti del Convegno Internazionale di Torino e Vercelli (14-16 ottobre 1999), a cura di Dario Cecchetti e Daniela Dalla Valle, Firenze, Olschki, 2001, pp. 227-238; Paola Cosentino, «Sogni tragici/Sogni epici: per uno studio del sogno nella tragedia cinquecentesca (primi sondaggi)», in Le metamorfosi del sogno nei generi letterari, a cura di Silvia Volterrani, Firenze, Le Monnier, 2003, pp. 96-109; Fabio Ruggirello, «Strutture immaginative nella tragedia del Cinquecento: il topos del sogno premonitore», Forum Italicum, XXXIX, 2005, pp. 378-397.
La tragedia classicistica del primo Settecento — dal Lazzarini al Recanati — aveva rilanciato l’uso di oracoli e vaticini che davano all’intreccio una patina grecheggiante; non mancavano tuttavia voci dissonanti, come quelle di Gravina e dello stesso Calepio, i quali nelle loro tragedie avevano svuotato della solennità religiosa tali profezie, screditando da un punto di vista razionalistico la figura degli auguri, strumenti di un potere corrotto tanto nel Palamede di Gravina, quanto nel Seleuco di Calepio. Interessante è anche la coincidenza fra l’opinione di Calepio e quella del Valaresso, autore di una gustosa parodia della tragedia ultra-classicistica del primo Settecento, il famoso Rutzvascad il giovane, in cui viene ridicolizzato il sistematico ricorso agli oracoli e alla divinazione. Su questa vicinanza si erano soffermati già Federico Doglio, Teatro tragico italiano, Parma, Guanda, 1960, p. cxxv, e successivamente Domenico Pietropaolo, «Parodia della tragedia classica e riforma teatrale nel Settecento: il contributo di Zaccaria Valaresso», Revue romane, XXI, 2, 1986, pp. 229-243.
[4.1.8] Vengono menzionati altri tipi di prologo, agli occhi di Calepio certo meno interessanti in quanto più artificiosi e separati dal cuore della favola, ossia quelli, di ascendenza terenziana, in cui una persona anonima entra in scena soltanto per anticipare il tema del dramma, oppure quelli a scopo prettamente encomiastico, introdotti dall’Aretino nell’Orazia, dove la Fama intratteneva il pubblico con un breve panegirico di papa Paolo III. Quanto al primo tipo di prologo, impiegato nel Cinquecento dal Giraldi, dal Groto e dal Dolce, Calepio — a differenza di Castelvetro (Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1978, pp. 141-142) — ne riconosce l’utilità, specialmente in quei soggetti che sarebbero altrimenti sconosciuti al pubblico.
Il riferimento a Terenzio come modello per questi prologhi fu causa di un’aspra polemica con Giuseppe Salìo, il quale nel suo Esame critico accusava Calepio di non conoscere a fondo la letteratura latina, e di attribuire a Terenzio prologhi che in realtà erano propri della commedia plautina: «E di certo si può conghietturare, che l’Autore del Paragone scritto abbia in fretta questo suo Libretto, senza esaminar bene le cose delle quali vuol ragionar con franchezza. Imperciocchè non solo parmi, che prenda egli errore nella predetta censura; ma rare volte s’interna nella ragione per confermar quello che da lui vien posto ad esame, e, senza passar più oltre, asserisce, e pensa forse, che alla sua affermazione il mondo s’acqueti. Ma guai al mondo se vi s’acquetasse! Crederebbesi dunque, come diceva, che Terenzio formasse il Prologo per dare il tema della Commedia; e pur non è vero, e ne’ suoi Prologhi altro non fa, che difendersi dai maligni, e ignoranti […] che mordevano le sue Commedie […]. Ecco quanto egli in fretta asserisce le cose, e perciò male asserisce; perciocchè dovrebbe qui dire ad imitazion di Plauto, che appunto introduce il Prologo a dire il tema della favola» (Giuseppe Salìo, Esame critico intorno a varie sentenze d’alcuni rinomati scrittori di cose poetiche, Padova, Comino, 1738, pp. 176-177). Nella sua Confutazione, pubblicata nell’edizione postuma del Paragone, il Bergamasco si difendeva, scrivendo che il prologo dell’Orbecche, nel quale si dava solamente «indizio» del soggetto, si rifaceva al prototipo terenziano, mentre nei prologhi di Plauto l’argomento era descritto più dettagliatamente (Pietro Calepio, «Confutazione di molti sentimenti», in Id., Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, Venezia, Zatta, 1770, pp. 232-233).
Articolo II.
[4.2.1] In questo articolo viene ribadita la superiorità dei Francesi in quanto alla tecnica con cui avviare l’intreccio tragico. Calepio contesta qui alla drammaturgia italiana un difetto di coerenza nello sviluppo del soggetto che dovrebbe escludere pregiudizialmente, secondo il Bergamasco, ogni episodio secondario capace di raffreddare l’attenzione dello spettatore, che va tenuto saldamente legato all’azione principale. Egli, piuttosto che prescrivere la totale espunzione di queste micro-vicende, come farà Alfieri, teorizzando nella Risposta a Calzabigi la tragedia «di un solo filo ordita», condanna quelle favole in cui i numerosi episodi secondari si inseriscono nella trama principale disturbandone lo sviluppo, anziché cooperare all’amplificazione delle passioni tragiche che quella muoveva.
Passa quindi ad elencare alcuni esempi dell’introduzione di episodi incoerenti all’interno della tragedia: del Torrismondo del Tasso egli censura il monologo con cui Rosmonda ragiona dell’amore che nutre nei confronti del fratello (II, 2); dell’Astianatte di Gratarolo non apprezza il personaggio di Miseno, il quale entra in scena nell’atto terzo soltanto per fare un prolisso racconto della fuga di Enea, personaggio inessenziale alla pièce, da Troia; del Solimano di Bonarelli infine riprova come inessenziali i dialoghi di Alvante e Despina che, cominciati all’inizio della rappresentazione (I, 3), si protraggono più oltre (III, 1).
Nel Seicento, in realtà, il personaggio secondario di Rosmonda aveva goduto di una certa fortuna: nella sua Difesa del Costantino il Gherardelli dichiara di essersi ispirato al romanzesco del Pastor Fido e del Torrismondo, rappresentato rispettivamente da Lucrina e Rosmonda («Ma qual maggior sciocchezza può dirsi, che chiamar tedioso Romanzo lo scioglimento necessario della Tragedia? Dunque è tedioso Romanzo il caso di Lucrina nel Pastor Fido? Il racconto di Rosmonda nel Torrismondo?», Giovanni Battista Filippo Gherardelli, «Difesa del Costantino», in Id., Il Costantino. Tragedia, Roma, Andreoli, 1660, p. 98); il francese Vion d’Alibray, traduttore del Torrismondo, aveva a sua volta espresso il suo apprezzamento per la principessa, ritenuta indispensabile per lo sviluppo della vicenda (cfr. Matteo Bosisio, «“La merveille des Tragedies Italiennes”: rassegna sulla ricezione e la fortuna critica del Re Torrismondo di Tasso», Italogramma, II, 2012, p. 6).
Il Maffei, nel ripubblicare il Torrismondo all’interno del Teatro Italiano non toccava le battute di Rosmonda, così come non consigliava di cassare le battute di Miseno, ma piuttosto eliminava i versi precedenti all’ingresso in scena di questo personaggio, pronunciati dal Vecchio (Scipione Maffei, Teatro Italiano, t. II, Verona, Vallarsi, 1723, p. 223). Quanto al Solimano, la medesima perplessità del Calepio verrà espressa dal Napoli Signorelli, pronto comunque a riconoscere in questa tragedia una delle migliori del panorama italiano («I dialoghi d’Alvante e di Despina furono disapprovati anche dal conte Pietro di Calepio. Essi increscono molto più a cagione del luogo in cui si tengono, cioè vicino alla corte di Solimano, dove essi debbono certamente ascoltare i segreti propositi de’ congiurati con la regina, la cui partenza attendono per ripigliare il loro ragionamento, come se non potessero altrove proseguirlo», Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, t. IV, Napoli, Orsino, 1789, pp. 111-112).
[4.2.2] Vengono condannate, in questo passaggio, le tragedie italiane che fanno ricorso al Coro continuo. Calepio rimarca la netta differenza tra i drammi greci, nei quali l’introduzione del Coro era appropriata, in quanto la distanza tra sovrani e popolo non era abissale, e quelli moderni, in cui la figura del monarca è assai più distante dai sudditi e gli affari di stato sono improntati ad una segretezza che non contempla la presenza fissa di una collettività che osserva e ascolta tutto ciò che accade in scena. Calepio asseconda in questo senso la generale disistima nei confronti dell’istituto classicistico del Coro che i letterati manifestano tra fine Seicento e metà Settecento per diverse ragioni; se per Calepio, attento alla credibilità della rappresentazione degli affari politici, il Coro privava l’azione della necessaria segretezza, per il Maffei i teatri moderni non erano più adatti ad accogliere un Coro («Allora non disconveniva, e non ripugnava il Coro alla forma del Teatro e dell’ampia scena, ma su i Teatri moderni per verità diventa improprio», Scipione Maffei, La Merope. Tragedia, con annotazioni dell’autore e con la sua risposta alla lettera del Sig. Voltaire, Verona, Ramanzini, 1745, p. 122), mentre per Metastasio esso comprometteva la verosimiglianza dello spettacolo («Dovettero gli scrittori tragici incaricarsi, lor mal grado, del Coro, cioè d’uno stuolo di sfaccendati, inutile per la favola, che, secondo la definizione dello stesso Aristotile, non è altro che un ozioso curatore che non presta a coloro a’ quali assiste se non unicamente la sua buona volontà. Ed è assai credibile che tanti fossero allora i sospiri che spargevano i poveri poeti, affannati sotto l’incomodo peso del Coro stabile, quante ora sono l’erudite lagrime de’ nostri moderni legislatori che ne deplorano così amaramente la perdita», Pietro Metastasio, Estratto dell’Arte Poetica, a cura di Elisabetta Selmi, Palermo, Aesthetica, 1998, pp. 106-107).
La preoccupazione circa la segretezza che comportava il Coro era già presente nell’Ars Poetica di Orazio, in cui veniva prescritto al Coro il compito di serbare i segreti confidatigli («ille tegat commissa», v. 200). Se questo elemento era considerato, anche dai classicisti seicenteschi, la fonte principale della verosimiglianza della presenza corale, come nota Dacier chiosando il verso di Orazio («C’est la qualité la plus essentielle au Chœur, que la fidelité et le secret; sans elle toute la vrai-semblance est perduë, et le Poëme entierement détruit», André Dacier, Remarques critiques sur les Œuvres d’Horace, t. X, Paris, Thierry et Barbin, 1689, p. 232), dopo la Querelle des Anciens et des Modernes la prospettiva muta radicalmente e il Coro viene ritenuto un ostacolo per raggiungere la verosimiglianza proprio a causa del fatto che il suo essere continuamente presente sulla scena tolga all’azione la segretezza necessaria a rendere credibili le torbide scene di palazzo che si alternano nelle tragedie contemporanee. Voltaire esprime a chiare lettere questa perplessità nei paratesti dell’Œdipe, conosciuti senz’altro dal Calepio, che ne aveva contestato le teorie nella sua Apologia di Sofocle. Eppure sembra proprio che ci sia questo stesso Voltaire alla base dell’argomentazione del Bergamasco. Nel riprovare l’uso del Coro stabile Voltaire scriveva infatti: «La présence continuelle du chœur dans la tragédie me paraît encore plus impraticable: l’intrigue d’une pièce intéressante exige d’ordinaire que les principaux acteurs aient des secrets à se confier. Eh ! le moyen de dire son secret à tout un peuple?» (Voltaire, «Sixième lettre qui contient une dissertation sur les Chœurs», in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, p. 374). Sebbene il discorso di Voltaire fosse peraltro improntato ad una generale polemica contro la drammaturgia greca — egli ridicolizzava la Fedra di Euripide proprio a causa della presenza del Coro, che rendeva inverosimile l’intima confessione dell’incestuosa protagonista («C’est une chose plaisante de voir Phèdre dans Euripide avouer à une troupe de femmes un amour incestueux, qu’elle doit craindre de s’avouer à elle-même», ibid.) — che Calepio non poteva condividere, il Bergamasco recupera la sostanza della critica all’improprietà della ripresa del Coro stabile. Questa medesima tesi, che sosteneva anche Riccoboni («nous concevons donc bien que le Chœur sera toujours défectueux pour la vraisemblance, et surtout lorsqu’étant Spectateur et Acteur, il s’entretiendra de ce que deux Acteurs se seront dit en confidence, ou d’un aparte, ou d’un monologue», Luigi Riccoboni, Histoire du Theatre Italien, t. II, Paris, Cailleau, 1731, p. 77), viene recuperata, attraverso Calepio, da diversi letterati settecenteschi, i quali avvalorano la riflessione sull’inverosimiglianza comportata dall’impiego di un Coro continuo nella rappresentazione di una vicenda politica moderna. Giovanni Antonio Bianchi, teologo e autore di diverse tragedie senza Coro, pone l’accento su una contraddizione di natura puramente politica: non gli pare infatti decoroso che monarchi e statisti conversino di questioni di massima importanza con il Coro, rappresentante del Popolo («Raccontare gli affari più importanti de i grandi, ancorché richiedessero segretezza, come allora si facea, al popolo, e al comune, quell’interrogarsi della turba, i Messi ed i Nuncij, per sapere gli avvenimenti più importanti dei Principi, quel porsi insieme a novellare nel pubblico, or colle donne, or cogli uomini d’una Città, sembrano oggi al nostro gusto cose improprie, ed inverisimili, e quelle parti, che avea allora il Coro, assai meglio e più propriamente si fanno eseguire agli Attori», Giovanni Antonio Bianchi, Dei vizj e dei difetti del moderno teatro e del modo di correggergli e d’emendarli, Roma, Pagliarini, 1753, p. 243). A sua volta Gian Rinaldo Carli, nel trattato Dell’indole del Teatro Tragico (1746), rilevava la specificità politica del Coro presente sulla scena ateniese: se quel governo democratico prescriveva la presenza popolare sul palco, venuto meno quel sistema politico negli stati moderni, risulta sconveniente, quando non ridicolo, il suo concorso all’azione tragica («Oltre l’indole particolare di quel Teatro, rammentarci dobbiamo che i Governi della Grecia erano Democratici, come si disse; e per conseguenza male augurata, sarebbe stata un’azione esposta sulle scene, se non avesse anche rappresentato il popolo, che prendesse parte, e non ci si fosse interessato. Ecco però la necessaria intromissione de i Cori, che a noi, lontani da questa necessità, ci pajon superflui; mentre a’ giorni nostri, inconveniente cosa è, se non ridicola, che i grandi affari, e gl’interessi politici, si trattino in pubblico alla presenza del popolo, e che questo non manchi di dir parere, o di dare consiglio», Gian Rinaldo Carli, Dell’indole del Teatro Tragico, in Id., Opere, vol. XVII, Milano, Imperial Monastero di Sant’Ambrogio Maggiore, 1787, pp. 155-156. D’altra parte non mancavano detrattori di questa posizione: il solito Salìo accusava in questo frangente Calepio di assecondare una logica troppo «galante», negando che esistesse nel costume greco una qualche familiarità fra sovrano e popolo, e al contempo avvertendo come i tragici greci fossero stati in grado di mettere in scena coerentemente favole che prevedevano una certa segretezza, senza fare a meno del Coro stabile (Giuseppe Salìo, Esame critico intorno a varie sentenze d’alcuni rinomati scrittori di cose poetiche, Padova, Comino, 1738, pp. 358-359).
Calepio riteneva tuttavia sconveniente l’impiego del Coro continuo nella tragedia contemporanea anche in virtù del fatto che essa era incentrata su soggetti romani o moderni che, a suo dire, non contemplavano la maestosità del Coro, calzante piuttosto in una tragedia il cui intreccio era ripreso dalla mitologia greca. Egli condannava quelle favole in cui, davanti ad un Coro stabile, i protagonisti confessavano impunemente i propri segreti più reconditi: è questo il caso della Tullia di Martelli, già criticata in precedenza, ma qui ripresa per la scena in cui Lucio Tarquinio, travestitosi per non essere riconosciuto dalla moglie Tullia, impietosito dal pianto della donna che neppure il Coro di matrone riesce a trattenere, si palesa sia a lei che alle altre donne (Ludovico Martelli, Tullia, Id., Rime, Lucca, Cappuri, 1730, pp. 302-303).
Fra le tragedie di argomento medievale o moderno che ricorrevano impropriamente al Coro, Calepio cita la Vittoria del Torelli — incentrata sulle vicende del regno di Federico II e sulla figura di Pier Delle Vigne — e il Tancredi dello stesso autore, tratto dal racconto di Boccaccio (Decameron, IV, 1), poi riproposto in veste tragica da Girolamo Razzi e dal Conte di Camerano. Nel caso del Tancredi Calepio rileva anche come il piano con cui Ghismonda si propone di liberare Guiscardo (Pomponio Torelli, Il Tancredi, Parma, Viotti, 1597, pp. 17-18), nonché i progetti di vendetta del padre (ivi, pp. 21-25), necessitino di un ambiente isolato per sembrare verosimili, e la presenza del Coro spettatore e dialogante guasta questa segretezza.
In definitiva per Calepio è la qualità del soggetto a fondare la possibilità di mantenere vivo un Coro stabile, che non viene pregiudizialmente escluso, come si vedrà più avanti; in un soggetto moderno oppure tratto dalla storia romana non è lecito introdurlo, mentre in un dramma preso dalla storia o dalla mitologia greca ciò è ancora possibile, a patto che non venga violata la regola della segretezza, come avviene nella Merope di Torelli, in cui il Coro ode i soliloqui e scopre la reale identità di Telefonte prima che questa venga palesata in pubblico.
Sulla discussione in merito al Coro nella teoria drammaturgica sei-settecentesca cfr. Enrico Zucchi, «Metastasio e Calzabigi all’origine dei cori alfieriani. Note su Alfieri lettore della tradizione corale italiana», Testo, LXVI, 2013, pp. 76-91 e Massimo Natale, Il curatore ozioso: forme e funzioni del coro tragico in Italia, Venezia, Marsilio, 2013, in part. pp. 243-275.
Articolo III.
[4.3.1] Dopo aver trattato della maniera di avviare la favola, Calepio si sofferma sui mezzi attraverso i quali introdurre la peripezia che dà le mosse al rivolgimento e in definitiva alla catastrofe. Gli Italiani, a differenza dei Francesi, sarebbero carenti sotto questo specifico aspetto, dal momento che abitualmente non fanno dipendere la peripezia dallo sviluppo della favola, ma la preparano in maniera artificiosa, facendola derivare da elementi secondari che sono introdotti a bella posta per questa ragione. Fra le tragedie che esibiscono una costruzione troppo macchinosa del rivolgimento egli cita il Torrismondo di Tasso, nel quale la peripezia è avviata dall’annuncio del messaggero che comunica a Torrismondo che è morto il re di Norvegia e che Alvida è diventata regina; costui, interrogato da Frontino, che aveva riconosciuto in lui l’uomo al quale aveva affidato la piccola Alvida appena nata, fa poi comprendere al protagonista di aver commesso un incesto (IV, 6). Sulla peripezia del Torrismondo esprime le stesse perplessità il Carducci (Giosué Carducci, Su Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, 1905, p. 524). Viene censurata la Semiramide di Muzio Manfredi, il cui rivolgimento procederebbe dalle parole con cui Imetra racconta che il re Anaferne è morto e che, appresa la notizia, la malvagia Semiramide ha voluto svelare la natura incestuosa dell’amore fra Nino e Dirce («Ma saprà Nino (io vo’ che ’l sappia) ch’egli/ sett’anni è stato ne l’error, ch’ei chiama/ peccato incestuoso: era mia figlia/ Dirce, e sorella sua», V, 2). Diverso da quello di Calepio è il giudizio di Napoli Signorelli sulla Semiramide, peraltro molto apprezzata anche dal Maffei. Nella Storia critica de’ teatri antichi e moderni l’autore, lodando la tragedia, critica l’ottusità di Calepio, attento a notare i singoli minimi difetti del dramma, ma incapace di scorgerne la bellezza complessiva (Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, t. V, Napoli, Orsino, 1813, pp. 102-105).
Sono inoltre citate come esempi negativi il Solimano di Bonarelli, in cui il pretesto per l’agnizione risolutiva è fornito dal personaggio secondario della nutrice Aidina, che si propone, in un dialogo con la serva Alicola, di svelare alla Regina che colui che lei sta tentando di uccidere è in realtà suo figlio (IV, 9), e l’Aristodemo di Carlo de’ Dottori, dove la peripezia è originata dalla confessione di Licisco, il quale nel finale, ammette di non essere il vero padre di Arena (V, 4), trafitta dagli arcieri di Aristodemo; soltanto allora il sovrano si riconosce come il vero padre della fanciulla fatta uccidere (V, 5). Tra queste favole, l’Aristodemo viene considerato migliore, in quanto prepara in qualche misura, con la fuga di Licisco e Arena nel primo atto, questo rivolgimento. Il tratto comune di queste tragedie, che ne condiziona la scarsa efficacia dal punto di vista della peripezia, è il fatto che essa sia inserita in modo posticcio appena prima della catastrofe conclusiva.
La teoria letteraria cinquecentesca si era soffermata a lungo sulle proprietà della peripezia, in margine al consueto confronto fra epica e tragedia che caratterizza lo sviluppo del dibattito circa l’identità dei generi letterari nella prima modernità. Il Robortello, ad esempio, ammetteva la possibilità di introdurre molteplici peripezie all’interno di una medesima favola, e individuava nell’Iliade un soggetto che prevedeva numerosissimi rivolgimenti. Tuttavia nel Giudizio sulla Liberata il Tasso, avversando esplicitamente questa idea, dichiarava che l’Iliade si basava su di un’unica peripezia principale che riconduceva alla morte di Ettore («Alcuni hanno giudicato ch’ella abbia molte peripezie, altri ch’ella abbia la peripezia in molti luoghi, fra’ quali è il Robortello nell’esposizione di questo luogo, perché spesse volte i Trojani sono vincitori, ed i Greci vinti; ed all’incontro, spesso i Greci vincitori e vinti i Trojani; e forse non è inconveniente che se l’Odissea ha molte agnizioni, l’Iliade abbia molte peripezie: ma io, benché abbia osservato in quel divino poema molte vicissitudini […] nondimeno considero una sola principale e grandissima mutazione colla morte di Ettore, colla quale le forze dei Trojani, dianzi vittoriosi, sono in guisa abbattute da Achille, che non possono più risorgere», Torquato Tasso, «Del giudizio sovra la Gerusalemme di Torquato Tasso libro secondo», in Id., Opere, XII, Pisa, Capurro, 1823, pp. 335-336). Lo sforzo calepiano di individuare in ogni tragedia il preciso punto dal quale prende le mosse la peripezia parrebbe in effetti debitore della posizione critica tassiana.
[4.3.2] Nella sua tragedia Temisto, il cui soggetto era tratto da Igino, Giuseppe Salìo aveva rappresentato la storia di Temisto, figlia di Ipseo e seconda moglie di Atamante, re di Tebe, il quale aveva sposato in prime nozze Ino, figlia di Cadmo. Atamante aveva avuto due figli da Ino e due da Temisto: per sfuggire l’ira del perfido Sisifo, i quattro erano stati mandati ancora piccolissimi da Ipseo, che li aveva amati tutti alla stessa maniera. Una volta morto Sisifo — e siamo all’esordio della favola scenica —, mentre i figli di Atamante fanno ritorno in Tessaglia, Temisto viene ripudiata ed esiliata dal marito, sobillato da Ino; se i primi due atti dell’azione sono dedicati alla presentazione della dolente protagonista e della malvagia Ino, nel terzo giunge Oletrio, il quale reca a Temisto la notizia della morte del padre Ipseo (Giuseppe Salìo, La Temisto, Padova, Comino, 1728, p. 57). La peripezia della tragedia prende le mosse, secondo Calepio, proprio da questa notizia, nonché dalla prescrizione di Ipseo, il quale aveva destinato a ciascuno dei quattro ragazzi da lui cresciuti un anello, secondo un espediente narrativo che verrà sfruttato ancora nel teatro settecentesco, come dimostra il celebre Nathan der Weise di Lessing. Temisto coglie l’occasione per chiedere ad Atamante di vedere i ragazzi per consegnar loro i doni di Ipseo, con l’intenzione segreta di uccidere i due figli di Ino, contraddistinti, secondo le indicazioni del Balio, dal fatto che indossassero vesti nere e non bianche. L’astuta Ino però, temendo una possibile vendetta da parte di Temisto, aveva scambiato gli abiti dei figli, inducendo la protagonista a commettere un delitto atroce che la spingerà al suicidio. Dal punto di vista di Calepio la peripezia è in questo caso mal gestita, in quanto dipende dall’accidentale morte di Ipseo e soprattutto dall’artificioso e romanzesco stratagemma degli anelli.
Salìo aveva risposto nel suo Esame critico all’accusa di Calepio, impegnandosi a dimostrare innanzitutto come la peripezia non si debba collocare nel punto in cui la situava Calepio, bensì soltanto nel finale, quando il Balio torna in scena per svelare a Temisto ch’ella in realtà aveva ucciso i propri figli («non la morte di Ipseo, né i quattro anelli, ma propriamente l’aver ella in suo poter que’ fanciulli, creduti figliuoli dell’odiata rivale, è il principio; e l’aver loro data la morte è il mezzo, per cui col verisimile arrivo del Balio, mandato a questo effetto da Ino, riconosce Temisto il suo errore, che è di aver ucciso i proprj figliuoli, onde nasce il rivolgimento», Giuseppe Salìo, Esame critico intorno a varie sentenze d’alcuni rinomati scrittori di cose poetiche, Padova, Comino, 1738, p. 182). Il padovano si affanna poi a dimostrare come la morte di Ipseo sia plausibile e l’artificio degli anelli verosimile, spingendo Calepio a replicare nella sua Confutazione, in cui viene ancora ribadita l’inverosimiglianza dell’espediente degli anelli e della morte del vecchio Ipseo, elemento estrinseco all’azione («Certo è contro il dettame ordinario della Natura, che un Padre voglia uguagliare nell’eredità gli altrui discendenti, e li proprj senza alcun motivo, che ciò renda credibile, come viene ascritto ad Ipseo […] Altro è il possibile, altro il verisimile», Pietro Calepio, Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, Venezia, Zatta, 1770, p. 236).
Continuando con la rassegna delle tragedie contemporanee Calepio critica il Crispo del Marchese, in cui la peripezia, avviata dalla confessione con cui Flavio palesa gli inganni attraverso i quali Licinio e Flavia hanno fatto condannare Crispo (V, 5), è preparata da una scena giudicata inappropriata in cui Flavia coordina il gruppo dei congiurati (II, 8).
[4.3.3] La tragedia francese appare agli occhi di Calepio più naturale sotto il profilo della preparazione del rivolgimento, benché in alcuni casi si alluda in maniera esplicita al contenuto della peripezia, privando questo elemento della meraviglia che le dovrebbe essere propria. Questo succederebbe nel Britannicus di Racine, laddove Agrippine già intuisce il futuro nero del regno di Nerone («Non, non, mon intérêt ne me rend point injuste:/ Il commence, il est vrai par où finit Auguste;/ Mais crains que, l’avenir détruisant le passé,/ Il ne finisse ainsi qu’Auguste a commencé./ Il se déguise en vain: je lis sur son visage/ Des fiers Domitius l’humeur triste et sauvage;/ Il mêle avec l’orgueil qu’il a pris dans leur sang/ La fierté des Nérons qu’il puisa dans mon flanc», I, 1, vv. 31-38), ma soprattutto nell’Andromède di Corneille in cui Venere interviene nel primo atto, «au milieu de l’air» a predire il felice scioglimento della vicenda di Andromeda (I, 3, vv. 354-361). Tale difetto sarebbe presente anche nella Polissena del Marchese, in cui l’oracolo mostrerebbe fin dall’inizio (II, 2) con evidenza che la vittima sacrificale non è Cassandra, bensì Polissena («Greci, il ritorno a voi contende il Fato,/ poiché il figliuol di Teti ov’è racchiuso/ vuol pria per greca, e amante man diffuso/ chiaro sangue real, nemico, amato», Annibale Marchese, La Polissena. Tragedia, Napoli, Naso, 1715, p. 17). L’alterco che segue all’annuncio di Calcante, fra Agamennone, che sostiene a ragione che si tratti di Polissena, e Pirro, che tenta di salvare la vita all’amata, forzando l’interpretazione del vaticinio, lascia invero pochi dubbi su quello che dovrà essere lo sviluppo della vicenda.
Un’altra pecca che Calepio ravvisa nell’allestimento della peripezia da parte dei Francesi sta nello spezzettarne o sdoppiarne lo sviluppo, rendendo ancora una volta meno efficace la riuscita. L’autore rinnova in questo caso una critica già mossa all’Œdipe di Voltaire nell’Apologia di Sofocle, contestando il fatto che il drammaturgo francese considerasse inutile il quinto atto dell’Edipo Re: «Ciò che mi rende più strana la presente censura si è che gli scoprimenti medesimi si fanno nella scena prima dell’atto quarto del nuovo Edippo di M. de Voltaire con maggiore chiarezza; e l’avvenimento della morte di Laio si conforma a quello che racconta Edippo essergli accaduto nel medesimo distretto, sicché gli resta ivi assai meno luogo di dubitare ch’egli ne fosse l’uccisore» (Pietro Calepio, L’Apologia di Sofocle, in Mario Scotti, «L’“Apologia di Sofocle” di P. de’ Conti Calepio», Giornale storico della letteratura italiana, CXXXIX, 427, 1962, p. 416). Ancor più difettoso gli sembra l’Antigone di Jean de Rotrou (1639), nel cui terzo atto, dopo che Etéocle e Polynice si sono uccisi in duello, e Créon ha imposto che il cadavere di Polynice non venga seppellito, Antigone, decisa a trasgredire l’ordine del nuovo re, si trovi a raccogliere il corpo del fratello con Argie, moglie di Polynice e protagonista di una seconda sottotrama, diversa dalla principale, che consiste invece dell’amore tragico tra Antigone ed Hémon, figlio di Créon.
[4.3.4] Calepio biasima infine la sospensione della catastrofe che si prolunga talora per più atti senza una valida ragione, se non quella di allungare la favola fino alla prefissata conclusione del quinto atto. Egli prende ad esempio di questo meccanismo la Bérénice di Racine, in cui Antiocus, innamorato senza essere ricambiato della regina di Palestina — a sua volta invaghita del romano Tito — decide di suicidarsi, non essendoci alcuno spiraglio per un cambiamento della disposizione di Bérénice già nel primo atto: eppure tale risoluzione viene concretizzata soltanto nell’ultimo. In effetti Antiochus rivela il progetto di partire da Roma ed attendere la morte per la delusione amorosa già nell’ultima battuta rivolta a Bérénice nel corso del loro primo colloquio, nel quale le si era dichiarato senza successo: «Et c’est ce que je fuis. J’évite, mais trop tard/ ces cruels entretiens où je n’ai point de part./ Je fuis Titus, je fuis ce nom qui m’inquiète/ ce nom qu’à tous moments votre bouche répète./ Que vous dirai-je enfin? Je fuis des yeux distraits/ qui, me voyant toujours, ne me voyent jamais./ Adieu. Je vais le cœur trop plein de votre image,/ attendre, en vous aimant, la mort pour mon partage» (I, 4). Il fatto che poi costui, anziché mettere in atto il proponimento maturato all’inizio della rappresentazione, rimanga a Roma nutrendo qualche nuova speranza, per poi ricadere nella disperazione e uccidersi, non appare a Calepio ben giustificato dal soggetto, nel quale non interviene nulla che legittimi il rinfocolarsi dell’illusione amorosa in Antiochus. Al contrario nell’Aminta del Tasso il protagonista, benché inizialmente felice, aveva motivo di sperare in una diversa disposizione di Silvia in virtù dello stratagemma architettato da Tirsi; tuttavia, dopo aver salvato la ninfa amata senza ricevere in cambio la riconoscenza aspettata, e credendo che la donna fosse stata sbranata dai leoni, appare verosimile che Aminta tenti, soltanto a quel punto, il suicidio. Sarà interessante notare come la pastorale del Tasso, vituperata nell’ambito della critica francese seicentesca di stampo aristotelico proprio a causa di svariate inverosimiglianze, venga qui elevata a modello dal Calepio che guarda a questo dramma come ad un modello di verosimiglianza in quanto allo sviluppo del sentimento amoroso. L’Aminta aveva avuto un’importanza singolare nel corso della polemica Orsi-Bouhours, in quanto era stato uno dei testi maggiormente vituperati dal gesuita francese, suscitando un gran numero di «difese» nazionaliste, da quella dell’Orsi, che nelle Considerazioni si dimostrava grande estimatore della pastorale tassiana, all’Aminta di Torquato Tasso difeso e illustrato di Giusto Fontanini (Roma, Zenobj e del Placho, 1700). La fortuna del testo sarà molto estesa nel Settecento, come ha dimostrato, in rapporto a Parini, Matteo Zenon, «Un capitolo della fortuna tassiana nel Settecento. Parini lettore della Gerusalemme liberata e dell’Aminta», Studi Tassiani, LVI-LVIII, 2008-2010, pp. 257-270.
Quanto alla pièce di Racine, va notato che l’autore rivendicava, nella Préface alla tragedia, il carattere estremamente semplice della Bérénice, nonché la capacità di riempire cinque atti della sola azione principale, senza ricorrere ad episodi secondari o ad altri elementi riempitivi («Ce qui m’en plut davantage, c’est que je le [le sujet] trouvais extrêmement simple. Il y avait longtemps que je voulais essayer si je pourrais faire une tragédie avec cette simplicité d’action qui a été si fort du goût des anciens. […] Il y en a qui pensent que cette simplicité est une marque de peu d’invention. Ils ne songent pas qu’au contraire toute l’invention consiste à faire quelque chose de rien, et que tout ce grand nombre d’incidents a toujours été le refuge de poètes qui ne sentaient dans leur génie ni assez d’abondance, ni assez de force, pour attacher durant cinq actes leurs spectateurs, par une action simple soutenue de la violence des passions, de la beauté des sentiments, et de l’élégance de l’expression», Jean Racine, Bérénice, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, pp. 450-451). Infine Calepio, secondo un motivo topico dell’epoca, si scaglia contro l’inverosimiglianza di un eroe amoroso come Antiochus, precedentemente presentato, attraverso le parole dello stesso rivale Titus riportate a testo (III, 1, vv. 687-688), come un condottiero valoroso ed insuperabile.
Articolo IV.
[4.4.1] La tragedia francese riesce migliore di quella italiana, secondo Calepio, in quanto mette fin da subito gli spettatori nella condizione di conoscere il protagonista, cosa che non accade puntualmente nei drammi italiani, in cui il personaggio principale non viene nominato immediatamente e si fa riconoscere come tale soltanto molti versi più tardi. È questo il caso dell’Aristodemo del Dottori in cui l’eroe eponimo, pur entrando in scena fin dall’inizio, in dialogo con Amfia, non viene identificato immediatamente, ma si riconosce, per via indiretta, soltanto quando la serie di sticomitie è ormai esaurita (I, 1, vv. 59-60). In alcune tragedie in cui invece il nome del protagonista è specificato fin dall’inizio, ciò sarebbe fatto in maniera così artificiosa da rendere questo dispositivo scenico, indispensabile affinché gli spettatori individuino già al principio della rappresentazione chi sono coloro che agiscono, addirittura «indecente». Tali difetti sono riscontrati dal Bergamasco nelle tragedie di Giraldi e anche in altri drammi ripubblicati dal Maffei nel Teatro Italiano.
Un simile vizio era stato notato anche dal Boileau, il quale nell’Art Poetique prescriveva — proprio come farà il Calepio — di fornire allo spettatore fin da subito, e in modo breve ed efficace, le indicazioni necessarie a comprendere il soggetto, nonché di far capire senza indugio l’identità dei personaggi che prendono la parola («Que dés les premiers vers l’Action préparée/ Sans peine, du Sujet aplanisse l’entrée./ Je me ris d’un Acteur qui lent à s’exprimer,/ De ce qu’il veut, d’abord ne sçait pas m’informer,/ Et qui débroüillant mal une penible intrigue/ D’un divertissement me fait une fatigue./ J’aimerois mieux encor qu’il déclinast son nom,/ Et dist, je suis Oreste, ou bien Agamemnon:/ Que d’aller par un tas de confuses merveilles,/ Sans rien dire à l’esprit, étourdir les oreilles», Nicolas Boileau, L’Art poétique, in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, pp. 169-170).
La critica che muove Calepio è quella che sorregge l’intero impianto del suo Paragone: la tragedia italiana, a differenza di quella francese, rivela la sua origine libresca nella scarsa attenzione al dato spettacolare che ne determina spesso il fallimento, una volta che questa si misura con la prova della scena.
[4.4.2] Un’altra caratteristica necessaria ad interessare gli spettatori consiste nella preminenza scenica di cui deve godere il personaggio principale, il quale deve rimanere sul palco più tempo degli altri per dare modo al pubblico di rimanere avvinto dalla sua storia e commosso dalle sue passioni. Anche sotto questo profilo Calepio ritrova imperfette le tragedie italiane, a partire dalla Sofonisba di Trissino, nel quale la regina cartaginese compare soltanto nel primo e nell’ultimo atto, mentre la parte centrale della favola è spesso occupata da dialoghi ritenuti sterili fra personaggi secondari. Egli condanna esplicitamente l’ingenuità con la quale il famiglio, scusandosi per essere stato a lungo impegnato nel riordinare la casa, chiede al Coro di ragguagliarlo su ciò che è accaduto fuori scena («Io sono stato lungamente intento/ a far la casa colta,/ come ordinato aveva la regina;/ però non aggio inteso alcuna cosa/ di quel che si sia fatto/ di fuori; adunque voi, che lo sapete/ (poi che dolor vi dà) non sarà grave/ di farlo manifesto», IV, 2). A questi racconti indiretti, che svelano un’architettura posticcia, Calepio avrebbe preferito una più massiccia presenza di Sofonisba, chiamata — sul modello della tragédie classique francese — a esporre davanti al pubblico, magari a qualche confidente, i propri timori. Anche la Canace di Speroni diventa oggetto della critica di Calepio, il quale afferma addirittura che la tirade del famiglio contro il malcostume femminile, conferisca alla tragedia una indecorosa tonalità comica («O feminil natura,/ da qual fato di Dio, da qual ventura/ viene a te questa grazia;/ che essendo meno intera/ la tua debil ragione e più disposta,/ che noi altri non siamo,/ a cader negli errori/ de’ mondani diletti,/ meglio ascondi il peccato/ da te commesso e sai meglio celare/ il desio di peccare?», III, 7, vv. 316-326). La Canace era stata al centro di aspre polemiche fino alla fine del Cinquecento, soprattutto a causa dell’innovativa soluzione metrica che aveva adottato lo Speroni, ossia una commistione di settenari ed endecasillabi variamente rimati (i principali paratesti critici sono editi in Sperone Speroni, Canace e scritti in sua difesa, a cura di Christina Roaf, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982). Già allora, soprattutto grazie alle non disinteressate osservazioni di Guarini e di Ingegneri, si era percepita una predisposizione comico-pastorale della Canace — per lo meno dal punto di vista stilistico — e si era certificata la dipendenza dell’Aminta tassiana da quel rilevante ipotesto tragico. Su questo punto si veda Renzo Cremante, «Appunti sulla presenza della Canace di Speroni nell’Aminta di Torquato Tasso», Criticón, LXXXVII-LXXXVIII-LXXXIX, 2003, pp. 201-213.
Andrà infine registrata la ripresa da parte del Quadrio dell’argomentazione del Calepio: «Pare nel vero, che nella Canace dello Speroni la Tragedia si converta in Commedia là, dove si trattiene il Famiglio a motteggiare intorno a’ vizj delle Donne», Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 198.
[4.4.3] Il terzo elemento necessario per interessare gli spettatori alla rappresentazione e per rendere verosimile l’azione consiste nel far sì che i vari personaggi entrino ed escano dalla scena per un motivo preciso, intrinseco allo sviluppo della favola. Secondo Calepio il Torrismondo risulterebbe particolarmente carente da questo punto di vista nel terzo atto, dal momento che i personaggi compaiono sul proscenio in quel frangente senza una reale ragione, se non per ottemperare alla volontà dell’autore che ne dispone ingresso e uscita in modo arbitrario: dopo il monologo del Consigliere, che discute della qualità dell’amicizia, entra in scena Rosmunda, la quale si profonde in un’invettiva contro la Fortuna (III, 2); a quel punto arrivano Germondo e Torrismondo i quali discutono amichevolmente (III, 3) fino a che Germondo non esce bruscamente, lasciando spazio ad Alvida (III, 4) che poi si ritrova sola con la cameriera a ricevere i munifici doni di Germondo (III, 5); quindi Alvida discute con la nutrice degli emblemi e dei fregi familiari che sono impressi su quei preziosi oggetti (III, 6), prima dell’arrivo della Regina madre che chiude l’atto (III, 7). Secondo l’autore questa sfilata di personaggi svela un carattere artificioso e contorto che non può essere giustificato sulla base del naturale snodarsi dell’intreccio. Maffei, ripubblicando il Torrismondo nel Teatro Italiano, prescriveva di tagliare molte battute dei personaggi secondari e di sostituire la cameriera con un messaggero del re di Norvegia (Scipione Maffei, Teatro Italiano, vol. II, Verona, Vallarsi, 1723, p. 143). Le critiche di Calepio saranno ribadite nell’Ottocento; diversi sono i commentatori che registrano la lentezza e l’inverosimiglianza del terzo atto, da Bozzelli («nel secondo e terzo atto lo sviluppo degli avvenimenti procede con una lentezza, di cui lo spettatore è tanto più impaziente, in quanto la prolissità del dialogo gli fa spiacevolmente sentire, anzi che mascherargli il vôto assoluto dell’azione; e l’interesse rimansi per ciò affievolito là precisamente ov’era più mestieri di renderlo caldo e predominante», Francesco Paolo Bozzelli, Della imitazione tragica presso gli antichi e presso i moderni, vol. II, Lugano, Ruggia, 1837, p. 224), a Pier Alessandro Paravia («L’atto terzo vie più s’inviluppa, per non dir che s’imbroglia», Pier Alessandro Paravia, «Del Torrismondo del Tasso. Squarcio di lezione», Poligrafo. Giornale di scienze, lettere ed arti, t. X, fasc. x, Verona, 1838, p. 170), fino a Giosuè Carducci («il terzo atto s’avviluppa; e se non fossero i troppi discorsi, interesserebbe», Giosuè Carducci, Su Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, Bologna, Zanichelli, 1905, p. 518). Sulla distribuzione della materia nei diversi atti del Torrismondo si vedano Andrea Pagani, «La vertigine della parola. Grafici strutturali del manierismo tassiano», in Torquato Tasso e l’università, a cura di Walter Moretti e Luigi Pepe, Firenze, Olschki, 1997, pp. 55-72: 67, e Stefano Verdino, Il Re Torrismondo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, p. 105.
Sarà bene notare che in questo passaggio il Calepio parrebbe replicare un’argomentazione avanzata da Corneille nel Discours des trois unités, in cui veniva sottolineata l’importanza di rendere ragione dell’entrata e dell’uscita dalla scena di ogni personaggio («Il faut, s’il se peut, y rendre raison de l’entrée et de la sortie de chaque acteur. Surtout pour la sortie, je tiens cette règle indispensable, et il n’y a rien de si mauvaise grâce qu’un acteur qui se retire du théâtre, seulement parce qu’il n’a plus de vers à dire», Pierre Corneille, «Discours des trois unités», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 181). Il drammaturgo francese si dimostrava peraltro meno rigoroso circa la giustificazione dell’entrata in scena del personaggio nella prima scena di ogni atto («Je ne serais pas si rigoureux pour les entrées. L’auditeur attend l’acteur, et bien que le théâtre représente la chambre ou le cabinet de celui qui parle, il ne peut toutefois s’y montrer, qu’il ne vienne de derrière la tapisserie, et il n’est pas toujours aisé de rendre raison de ce qu’il vient de faire en ville», ibid.), ma la dispensa corneilliana dal rendere verosimile gli ingressi e le partenze degli attori non veniva estesa alle altre sezioni del dramma.
[4.4.4] Un altro difetto che affligge talora le favole italiane consiste nel non tratteggiare con coerenza i personaggi, come avverrebbe nel Solimano, laddove molti dialoghi che dovevano rimanere strettamente segreti vengono uditi da Despina e Alvante, entrati in scena a conversare vicino al palazzo della regina («Oh, s’io non erro, è questa/ del palagio real la parte in cui/ sta la regina, onde n’avvien che sia/ poco da gente frequentato il loco», I, 3) e poi nascostisi nei pressi di quella zona dove verranno a confidare i propri segreti la Regina, il Solimano e altri personaggi. Ancora una volta Calepio insiste sulla necessità di assicurare alle favole che si basano su intrighi politici una verosimile segretezza: se per questa ragione non è ritenuta ammissibile la presenza di un Coro stabile, allo stesso tempo si deve far muovere con accortezza i personaggi. Di certo nella teoria drammaturgica calepiana, a differenza ad esempio di quanto accadeva nel Térence justifié (François Hédelin d’Aubignac, Terence Justifié ou deux dissertations concernant l’art du théâtre, Paris, De Luynes, 1656, pp. 198-214) e nella Pratique du théâtre (préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, pp. 98-112 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, pp. 86-100]) di d’Aubignac, il rispetto dell’unità di luogo non garantisce automaticamente un principio di verosimiglianza, anzi deve essere sacrificato qualora comporti esiti scenici poco credibili.
[4.4.5] Indagando la verosimiglianza delle favole dal punto di vista politico Calepio censura anche alcune fra le più recenti tragedie francesi, prendendosela in particolare con il Rhadamisthe et Zénobie (1711) di Crébillon, nel quale compare una scena cruciale in cui nel dialogo fra Rhadamisthe, ambasciatore romano, e Hieron, ambasciatore armeno, irrompe il re Pharasmane, deciso a rompere ogni trattativa con i Romani (II, 2). I migliori drammaturghi francesi, e segnatamente Corneille e Racine, vengono comunque considerati superiori agli Italiani sotto questo profilo. Benché anche in Italia ci siano stati infatti, a detta di Calepio, grandi progressi negli ultimi tempi rispetto alle tragedie cinquecentesche, non mancano difetti talora macroscopici, come nel caso del Cesare di Antonio Conti, che ancora una volta, come accadeva nel Solimano, sacrifica la resa verosimile degli affari politici al rispetto dell’unità di luogo, ambientando tutta l’azione nell’atrio della casa di Giulio Cesare situata accanto al tempio della Clemenza. Conti si era successivamente difeso da questa accusa — dopo aver attestato la propria riconoscenza al Calepio che lo lodava in diversi punti del Paragone —, illustrando la maestosità dell’atrio con il ricorso agli studi dell’antiquario veronese Francesco Bianchini, il quale si era adoperato per salvare alcuni edifici della Roma antica facendone intuire la grandezza («L’atrio dispiace all’autore, perchè gli pare, che non convenga alla maestà d’un Dittatore il trattenersi in quel luogo a ragionar lungamente. Immagini egli, che l’atrio della casa di Giulio Cesare sia simile a quello del Palagio de’ Cesari ideato da Monsign. Bianchini, e svanirà l’inverosimiglianza», Antonio Conti, «Prefazione», in Id., Prose e poesie, vol. I, Venezia, Pasquali, 1739, p. n.n.). Egli inoltre rimarcava la necessità di escludere Calfurnia dall’azione nel quinto atto e negava che mancassero nell’atrio persone in grado di accogliere la notizia della morte di Cesare riferita da Antonio («Rifletta quindi alle ragioni per le quali Cesare esce od entra, da me allegate nella Prefazione, e vedrà, che la disperazione, tra l’altre cose, di Calfurnia, giustifica l’uscita della Scena Prima dell’Atto 4°. Non è vero, che non vi sia persona nell’atrio, che obblighi Antonio ad annunziar la morte di Cesare, perchè vi sono tutti i Pontefici e i Sacerdoti, che Antonio, prima degli altri, vuol trarre nel suo partito, e col mezzo loro sollevar Roma», ibid.).
Articolo V.
[4.5.1] Calepio entra a questo punto nel merito della disposizione dei dialoghi, dei monologhi e degli a parte, al fine di costruire l’intelaiatura drammaturgica. I Francesi risultano superiori anche in questa sezione del Paragone in quanto, come già accennato in precedenza, limitano le narrazioni che servono soltanto a ricostruire l’antefatto e le parcellizzano in diverse scene, rendendo meno tedioso il resoconto indispensabile di ciò che è avvenuto fuori scena e soccorrendo lo spettatore col fornirgli soltanto poco per volta tutte le informazioni che gli sono utili a comprendere ciò che sta succedendo.
[4.5.2] Viene lodato in particolare l’intervento di Eudoxe nel secondo atto dell’Héraclius di Corneille. La tragedia, il cui soggetto è tratto dalla storia dell’Impero romano d’Oriente, ma che si costituisce in verità di un ingegnoso rifacimento dell’Edipo Re, rappresenta le vicende del regno dell’usurpatore Phocas, arrivato al trono dopo aver fatto eliminare l’imperatore Maurizio e i suoi figli, ad eccezione di Héraclius, cresciuto da Léontine come il vero figlio di Phocas, Martian, presente invece a corte col nome di Léonce e reputato figlio della stessa Léontine. Nella scena in questione Eudoxe si difende di fronte alle accuse rivoltele dalla madre Léontine, che la ritiene colpevole di aver rivelato qualcosa di troppo della reale natura di quell’Héraclius che è conosciuto a corte come Martian («De grâce, examinez ce bruit qui vous alarme./ On dit qu’il est en vie, et son nom seul les charme;/ On ne dit point comment vous trompâtes Phocas,/ Livrant un de vos fils pour ce prince au trépas/ Ni comme après du sien étant la gouvernante,/ Par une tromperie encor plus importante/ Vous en fîtes l’échange, et prenant Martian,/ Vous laissâtes pour fils ce prince à son tyran,/ En sorte que le sien passe ici pour mon frère,/ Cependant que de l’autre il croit être le père,/ Et voit en Martian Léonce qui n’est plus,/ Tandis que sous ce nom il aime Héraclius», II, 1, vv. 409-420). L’espediente che permette a Eudoxe di fornire in breve al pubblico tutte queste notizie importantissime sull’antefatto è considerata mirabile da Calepio, che in questo frangente si accorda al parere dello stesso Corneille, il quale nel suo esame della tragedia si era vantato dell’acutezza di questo passaggio («Surtout la manière dont Eudoxe fait connaître, au second acte, le double échange que sa mère a fait des deux princes, est une des choses les plus spirituelles qui soient sorties de ma plume», Pierre Corneille, Héraclius empereur de l’Orient, in Id., Œuvres complètes, t. II, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 359). Non altrettanto favorevole si dimostrava Voltaire nei suoi Commentaires, censurando tanto l’accusa rivolta da Léontine alla figlia («cela ne donne pas d’abord une haute opinion de Léontine. Cette femme, qui conduit toute l’intrigue, commence par se tromper, par accuser sa fille mal à propos; cette accusation même est absolument inutile pour l’intelligence et pour l’intérêt de la pièce», Voltaire, «Remarques sur Héraclius», in Id., Commentaires sur Corneille, t. III, in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 55, critical edition by David Williams, Genève, Institut et Musée Voltaire, 1975, p. 658), di cui non comprende la funzione strategica, né apprezza l’attacco ex abrupto, e liquidando in modo lapidario l’esposizione stessa di Eudoxe («tout ce discours est un détail d’anecdotes», ibid.). In generale Calepio ritiene migliori i discorsi delle tragedie francesi rispetto a quelle italiane, dove abbondano scene oziose e dialoghi poco piacevoli a causa degli eccessivi ornamenti letterari oppure della troppa prolissità.
Nel finale il Bergamasco accenna alla catalogazione delle differenti tipologie di discorsi possibili nella tragedia, rifacendosi chiaramente alla Pratique du théâtre del d’Aubignac, nella quale venivano elencate e dettagliatamente spiegate le particolarità dei discorsi narrativi, deliberativi, didattici e patetici (Cfr. François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, pp. 282-345 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, pp. 259-310]).
[4.5.3] I Francesi sarebbero superiori agli Italiani, secondo Calepio, anche nella tecnica dei soliloqui, benché non siano neppure in questo punto esenti da qualche rimprovero. Corneille talvolta imprimerebbe infatti ai suoi monologhi un carattere marcatamente ingegnoso e perciò inverosimile, come accade nella scena in cui, nel Cinna, Émilie ragiona da sola con i propri desideri di vendetta («Impatiens désirs d’une illustre vengeance/ Dont la mort de mon père a formé la naissance,/ Enfants impétueux de mon ressentiment,/ Que ma douleur séduite embrasse aveuglément,/ Vous prenez sur mon âme un trop puissant empire», I, 1, vv. 1-5), oppure nella Rodogune, dove Cléopâtre si rivolge, nell’ultimo soliloquio della pièce, al veleno con cui aveva intenzione di uccidere la rivale («Ô toi, qui n’attends plus que la cérémonie/ Pour jeter à mes pieds ma rivale punie,/ Et par qui deux amants vont d’un seul coup du sort/ Recevoir l’hyménée, et le trône, et la mort,/ Poison, me sauras-tu rendre mon diadème?/ Le fer m’a bien servie, en feras-tu de même?», V, 1, vv. 1503-1508). La condanna a questi brani sarà condivisa da Voltaire, il quale nei Commentaires sur Corneille condannerà l’inclinazione oratoria di questi soliloqui. Egli registra come il monologo che inaugura il Cinna fosse generalmente eliminato dalle attrici, che si dimostravano poco propense a recitare questa noiosa declamazione («Plusieurs actrices ont supprimé ce monologue dans les représentations. Le public même paraissait souhaiter ce retranchement. On y trouvait de l’amplification. Ceux qui fréquentent les spectacles disaient qu’Émilie ne devait pas ainsi se parler à elle-même, se faire des objections et y répondre; que c’était une déclamation de rhétorique; que les mêmes choses qui seraient très convenables, quand on parle à sa confidente sont très déplacées quand on s’entretient toute seule avec soi-même; qu’enfin la longueur de ce monologue y jetait de la froideur», Voltaire, Commentaires sur Corneille, t. II, in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 54, critical edition by David Williams, Genève, Institut et Musée Voltaire, 1975, p. 113). Il monologo di Cléopâtre riusciva invece ben più gradito al pubblico e alle attrici che dovevano interpretare il ruolo della perfida madre; Voltaire, pur riconoscendo a questo pezzo una qualche innegabile bellezza, ne censura diversi passaggi, in particolare l’apostrofe al veleno, ritenuta, come nel Paragone, profondamente inverosimile («J’avoue encore que je n’aime point cette apostrophe au poison. On ne parle point à un poison; c’est une déclamation de rhéteur: une reine ne s’avise guère de prodiguer ces figures recherchées. Vous ne trouverez point de ces apostrophes dans Racine», Voltaire, Commentaires sur Corneille, t. II, cit., pp. 551-552).
Tuttavia è soprattutto il passo del Cinna ad alimentare una tradizione critica molto nutrita, che troverà gioco facile nel ridicolizzare la natura declamatoria della tragedia di Corneille. Ben prima di Voltaire si trovano allusioni di questo tipo al monologo di Émilie nell’Art poétique del Boileau, il quale nel canto terzo (vv. 29-30) scriveva: «Je me ris d’un Acteur qui lent à s’exprimer,/ De ce qu’il veut, d’abord ne sçait pas m’informer» (Boileau, L’Art poétique, in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 169), con un accenno preciso, decodificato precocemente dai commentatori, all’esordio declamatorio e freddo del Cinna. Lo stesso Fénelon, richiamandosi al Boileau, condannava l’inverosimiglianza di questo passaggio, profondamente lesivo del criterio di naturalezza a cui avrebbe dovuto ispirarsi l’arte tragica (Fénelon, Lettre à l’Académie, in Id., Œuvres, t. II, édition présentée, établie et annotée par Jacques Le Brun, Paris, Gallimard, 1997, pp. 1170-1171). Anche in ambito inglese tali accuse topiche vengono riprese, ad esempio da Elizabeth Montagu, la quale, nel tentativo di sovvertire il giudizio di Voltaire, che aveva giudicato Corneille superiore a Shakespeare, citava proprio l’attacco del Cinna, definendo l’intero soliloquio assurdo (Elizabeth Montagu, An Essay on the Writings and Genius of Shakespear, Compared with the Greek and French Dramatic Poets, with Some Remarks upon the Misrepresentation of Mons. de Voltaire, London, Dilly, 17855, p. 266). Sulla diffusione del saggio della Montagu nell’Italia del tardo Settecento, e su come questo suo “paragone” condizioni la ricezione di Shakespeare nella tradizione critica e drammaturgica nostrana, mi permetto di rimandare ad Enrico Zucchi, «Gothic in Tragedy: A Peculiar Reception of Shakespeare in Eighteenth-century Italian Theatre», Compar(a)ison, Special Issue Transnational Gothic 1764-1831, edited by Fabio Camilletti, I-II, 2009 [2015], pp. 43-60.
Sull’impiego del monologo nella tragédie classique ed in particolare nell’opera di Corneille si vedano: Jacques Schérer, La Dramaturgie classique en France, Paris, Nizet, 1950, pp. 59-60; Valérie Worth-Stylianou, Confidential Strategies: The Evolving Role of the Confident in French Tragic Drama (1635-1677), Genève, Droz, 1999, pp.11-43; Mariette Cuénin-Lieber, Corneille et le monologue: une interrogation sur les héros, Tübingen, Narr, 2002; Monologuer: pratiques du discours solitaire au théâtre, édité par Françoise Dubor et Christophe Triau, Presses universitaires de Rennes, 2009.
[4.5.4] Se l’improprietà dei monologhi corneilliani consiste appunto, secondo Calepio, nell’eccessiva ricercatezza, ai tragici francesi contemporanei egli rimprovera il fatto che utilizzino i soliloqui non per dar modo ai personaggi di sfogare le proprie passioni, ma li infarciscano di resoconti narrativi che dovrebbero essere deputati piuttosto ai dialoghi con i confidenti. Secondo la sua concezione i monologhi, per risultare verosimili, debbono essere esclusivamente frutto dell’impeto della passione: soltanto questa veemenza può infatti giustificare un discorso fra sé. Nelle tragedie italiane, Calepio ritrova invece che i soliloqui siano introdotti troppo frequentemente e senza motivo; particolarmente riprovevole gli sembra l’uso dei monologhi nelle tragedie di Giraldi Cinzio, del quale biasima l’atto quinto della Cleopatra, laddove si succedono i soliloqui di Olimpo (V, 1), di Cleopatra (V, 2), di Galio (V, 3) e del Famigliar di Cleopatra (V, 4). Rispetto al Trissino, che non aveva fatto uso di monologhi, (cfr. Stefano Verdino, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 102-103), Speroni e Giraldi inaugureranno una maniera che avrà grande fortuna per tutto il secolo, fino al Torrismondo.
Sulla necessità di costruire soliloqui brevi e verosimili si soffermava anche l’Ingegneri: «La lunghezza delle scene sopranominata ci riduce i soliloqui alla mente, dei quali se ne trovano (in diversi moderni particolarmente) alcuni di tanta lunghezza e di così poca verisimilitudine, che chi potesse dormire tutto quel tempo e risvegliarsi poi a suo buon piacere quando ne vengono l’altre scene in dialogo, credo che ne sentirebbe assai più diletto» (Angelo Ingegneri, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, a cura di Maria Luisa Doglio, Modena, Panini, 1989, p. 13). Al contrario, nei Francesi Calepio non riscontra una sequenza così fitta di monologhi, se non nelle tragedie del de La Fosse; egli ha probabilmente in mente il modello della già citata Polyxène, nel quale si succedono otto monologhi: due assegnati alla protagonista (II, 3; V, 1), due a Télèphe (III, 1; IV, 7), due a Pyrrhus (III, 6; IV, 2), uno a Ulysses (III, 10) e uno a Ismene (V, 5).
[4.5.5] Come anticipato, secondo Calepio, il monologo può sussistere soltanto se viene utilizzato per esprimere l’impeto della passione; per questa ragione egli condanna i tanti soliloqui della tragedia italiana cinque-seicentesca votati a ricostruire alcuni elementi dell’antefatto, ad esporre piani o progetti, oppure consacrati a lunghe tirades morali. Vengono ancora una volta riprovati gli elementi fioriti e barocchi — caratteristici di certe soluzioni corneilliane — di questi monologhi, che non si confanno appunto con la natura veemente ed improvvisa che devono avere i soliloqui per apparire verosimili. I soliloqui richiedono inoltre la particolare accortezza di far sì che i personaggi non siano uditi a parlare da soli dagli altri attori che entrano in scena dopo di loro. Secondo Calepio il Bonarelli non ha avuto questa oculatezza nell’atto terzo del Solimano, dove l’eroe eponimo finisce le proprie battute immediatamente prima dell’arrivo di Rusteno, troppo vicino per non udire il monologo (III, 3-4).
Sarà opportuno segnalare che nel primo Settecento sono differenti le posizioni in merito all’utilità di introdurre i soliloqui in scena. Pier Jacopo Martello condivide la necessità di riservare ai monologhi l’esplorazione delle passioni più intime dei protagonisti, colti a parlare fra sè e sè in un momento di estrema eccitazione («Se una fiata ci riesce di ascoltar qualcheduno, che (siccome nelle gran passioni, o nelle gran macchine qualche volta accade) seco stesso altercando, mette fuori quanto ha nel suo cuore, non credendo, che altri l’ascolti; grandissimo diletto ne concepiamo, e non si può a bastanza esprimere, quanto validamente un parlare di questa sorta ci muova ad amore, o ad odio verso, o contro chi lo pronuncia», Pier Jacopo Martello, «Della tragedia antica e moderna», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 227). Sulla stessa linea si ponevano le riflessioni di Antonio Conti nella lettera al Bentivoglio («Ogni atto ha il suo soliloquio, e nel soliloquio non esprimo se non i sentimenti interni degli Attori, per far meglio le loro passioni agli spettatori conoscere. Non è ch’io non creda, che la tragedia senza soliloquio non sia più perfetta: ma la qualità della materia qualche volta gli esige, e per esperienza si osserva, che i soliloqui sommamente allettano, quando sieno da ottimi attori pronunziati», Antonio Conti, «Lettera al Bentivoglio», in Id., Le quattro tragedie, Firenze, Bonducci, 1751, p. 347). D’altra parte già l’Ingegneri raccomandava che i soliloqui fossero brevi, esprimessero l’irrompere di qualche gravissima passione e venissero pronunciati in luoghi remoti dove nessuno potesse ascoltare chi li recitava («E non solo i lunghi soliloqui son (a mio giudicio) biasimevoli, ma i brevi appresso; i quali in alcuni casi solamente potriano sembrar comportevoli: ben però in questi ancora con aggiunta di certe circostanze, senza le quali né la men decorata, né la più rincrescevole cosa trovo nelle rappresentazioni de’ soliloqui. Queste circostanze sono, come in tutte l’altre cose, dei luoghi, dei tempi e delle persone. Circa ’l primo, non dovunque viene in capriccio al poeta è lodevole il soliloquio, ma solo in lati rimoti e lontanissimi da ogni sospizione di poter essere sopravenuto. Quanto al secondo, di nottetempo saranno più tolerabili. E le persone finalmente che gli faranno arranno ad esser finte pazze o grandemente timorose overo sopraprese da qualche gravissima passione», Angelo Ingegneri, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, a cura di Maria Luisa Doglio, Modena, Panini, 1989, p. 13).
La critica alfieriana tardo-settecentesca, da Calzabigi a Pepoli, consacrerà d’altra parte la concezione del monologo come espressione vivida e istantanea di una passione straordinaria. Lo stesso astigiano aveva avallato con decisione questa lettura: trattando della sceneggiatura nel Parere sulle tragedie, si difendeva dalle accuse che gli venivano mosse circa «la frequenza dei soliloquj», ammettendo che questi erano tutt’altri che innaturali e inverosimili, in quanto atti ad esprimere il flusso dirompente delle passioni: «Ora io domando, se un soliloquio di persona importante e appassionatissima, un soliloquio rotto, pieno, breve, e accennante piuttosto che narrante le cose, non debba riuscire più caldo, meno stucchevole, e altrettanto probabile, quanto una lunga scena tra quel personaggio importante e un personaggio subalterno, il quale invano tentando di riscaldare sé stesso alla fiamma dell’altro, in vece di ciò, e l’altro e sé stesso e gli spettatori raffredda» (Vittorio Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di Morena Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 151).
Sul versante francese d’Aubignac postulava invece tre proprietà necessarie a rappresentare un monologo in maniera verosimile e decorosa: che il soliloquio non fosse utilizzato dall’attore per istruire il pubblico su qualche circostanza necessaria alla comprensione della pièce, ma scaturisse direttamente dallo sviluppo della favola; che nessun altro personaggio udisse il monologo che si presupponeva recitato a bassa voce; che le condizioni nelle quali il soliloquio aveva luogo fossero verosimili per giustificare un simile espediente («Premierement, il ne faut jamais qu’un Acteur fasse un Monologue en parlant aux Spectateurs, et seulement pour les instruire de quelques circonstances qu’ils doivent sçavoir; mais il faut chercher dans la verité de l’Action quelque couleur qui l’ait pu obliger à faire ce discours […]. Secondement, quand celui qui croit parler seul, est entendu par hazard de quelque autre, pour lors il doit être réputé parler tout bas […]. La troisiéme observation touchant les Monologues, est de les faire en telle sorte qu’ils aient pu vraisemblablement être faits, sans que la consideration de la personne, du lieu, du temps, et des autres circonstances ait dû l’empêcher. Par exemple, il ne seroit pas vraisemblable […] qu’un Amant eût nouvelle que sa Maîtresse est en quelque grand péril, et qu’il s’amusât tout seul à quereller les Destins, au lieu de courir à son secours, on ne lui pardonneroit pas dans la representation, non plus que dans la verité», François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, pp. 251-253 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, pp. 231-232]).
Il Muratori si mostrava dal canto suo meno propenso ad accogliere i soliloqui nelle tragedie, preferendo loro il dialogo dei protagonisti con confidenti e personaggi secondari, a causa dell’intrinseca inverosimiglianza dell’istituto del monologo (Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 591; cfr. Paragone, IV, 1 [6]).
[4.5.6] Ancora peggiore è giudicata la situazione del prologo dell’Altea del Gratarolo, dove Nemesi si trova ad ascoltare il soliloquio di Venere: l’espediente impiegato dal drammaturgo è propriamente comico, come si percepisce fin dalle primissime battute, in cui i propositi di vendetta di Diana («Più non sarò quella Diana ch’essere/ soglio, se si con patienza tolero/ che gli homini mi possan vilipendere/ e ch’io non mi risenta, e non mi vendichi», Bongianni Gratarolo, Altea. Tragedia, in Vinegia, per Francesco Marcolini, 1557, p. 4), sono ascoltati di nascosto da Nemesi che si rivolge al pubblico esplicitando la propria volontà di rimanere celata a spiare i sentimenti della diva («Costei me cerca. I vuò star invisibile/ alquanto; per poter, dal suo ramarico,/ che ’ngiuria soffre, e chi l’ha offesa, intendere», ibid.). Al contrario, Calepio apprezza invece, una battuta che Egisto, nella Merope di Maffei, dice fra sè di fronte ad altri personaggi che lo odono: nel momento in cui Merope, con l’aiuto di Ismene e di Euriso, sta per trafiggere il giovane credendolo l’assassino di Cresfonte, lo straniero si lascia sfuggire la seguente frase di rammarico: «Ah Polidoro,/ tu mel dicesti un dì, ch’io mi guardassi/ dal por già mai ne la Messenia il piede» (III, 4, vv. 245-247). Merope, all’udire il nome del vecchio servo al quale aveva affidato il figlio in fasce, si arresta, e questa piccola esitazione è fatale poiché permette l’arrivo delle guardie di Polifonte che interrompono l’esecuzione. Questo espediente viene molto apprezzato dal Calepio in quanto ritenuto verosimile e intrinseco allo sviluppo dell’azione; tuttavia l’introduzione del nome di Polidoro nella battuta del giovane «straniero» aveva sollevato numerose perplessità fra i letterati del tempo che, come registrava lo stesso Maffei nelle Annotazioni alla tragedia, ritenevano che mettere in bocca ad Egisto il nome del padre avrebbe privato il seguito della rappresentazione della sorpresa che scaturiva dalla peripezia, inducendo gli spettatori (e i personaggi) a comprendere ben prima della conclusione del dramma la reale identità del ragazzo giunto in Messenia. Così, spinto da alcuni amici, nelle edizioni successive il Maffei aveva eliminato il nome di Polidoro, dando vita ad una variante che conservava la suspance, ma sciupava in parte la bellezza della scena (ad Egisto veniva fatto dire: «Mel disse il padre mio, ch’io mi guardassi/ dal por già mai nella Messenia il piede», scatenando una serie di altre modifiche a cascata nei versi successivi). Il drammaturgo difendeva tuttavia, con il sostegno dell’illustre parere dell’Orsi, nonché di una lettera di Apostolo Zeno, la sua scelta primigenia. Della lettera di Zeno egli riportava uno stralcio che suffragava la naturalezza dell’apostrofe di Egisto: «Io non leverei dalla bocca d’Egisto il nome di Polidoro. So che molti hanno parlato contra, ma a mio credere senza ragione. Qual cosa più naturale, che ad un posto in pericolo di morte venga in bocca il nome di chi gli avea data un’avvertenza, della quale se avesse fatto uso, non si troverebbe allora in quell’estrema disaventura?» (Scipione Maffei, «Annotazioni alla Merope», in Id., La Merope. Tragedia, Verona, Ramanzini, 1745, p. 132). Sulla discussione in merito a questo verso della Merope si rimanda anche a Paola Trivero, Tragiche donne: tipologie femminili nel teatro italiano del Settecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, pp. 12-13.
[4.5.7] Calepio arriva quindi a trattare l’istituto, a suo parere ancor meno verosimile del soliloquio, dell’a parte, discorso pronunciato da un personaggio in presenza di altri attori sulla scena, ma udito soltanto dal pubblico. Il titolo di «a-parte» era stato introdotto nella Poétique di La Mesnardière, il quale riprendeva il concetto, svolgendolo in chiave altrettanto denigratoria, dallo Scaligero: «Je nomme ainsi ces beaux discours qu’un Personnage fait à part en la présence d’un autre sur l’un des coins du Théatre, tandis que le dernier Acteur est contraint pour aider au Ieu, d’être sans yeux et sans oreilles» (Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, p. 267).
L’unico esempio di a parte che il Bergamasco ravvisa nella tragedia greca è un breve intervento di Clitemnestra nell’Elettra di Sofocle, alludendo probabilmente alle parole che Clitemnestra, senza farsi udire da Elettra né dal Coro, rivolge ad Apollo, riferendo il contenuto di alcuni presagi che le aveva lasciato il sonno notturno (cito dalla traduzione di Filippo Maria Pontani: «Ascolta, Febo protettore, la mia voce segreta: qui non sono fra a mici, e non è il caso di svelare ogni cosa in piena luce alla presenza di costei, ché mossa da malevoli intenti, con le sue ciance gridate on vada spargendo voci inconsulte in tutta la città. Ti parlerò nel modo che t’ho detto, e in questo modo ascoltami anche tu. Le visioni che ho avute questa notte, d’ambigui sogni, fa’ che si realizzino, dio Liceo, se propizie: se nemiche, sopra i nemici falle ricadere», Sofocle, Elettra, in I tragici greci. Eschilo, Sofocle, Euripide, Roma, Newton Compton, 2016, p. 386; questo passo è interpretato come un a parte anche nella traduzione settecentesca di Francesco Angiolini, Elettra, Edipo, Antigona, tragedie di Sofocle e il Ciclope, dramma satirico d’Euripide, Roma, Perego, 1782, p. 71. D’Aubignac nella Pratique du théâtre sottolineava d’altra parte come nel teatro greco difficilmente fossero ammessi i monologhi («Les anciens Tragiques ne pouvoient faire ces Monologues à cause des Chœurs qui ne sortoient point du Théatre», François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, p. 250 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 230]) e gli a parte («Or on trouvera fort peu de ces A-parte chez les Grecs, et hormis un vers ou deux que les Chœurs disent en quelques endroits après le grand discours d’un Acteur, pour donner temps à l’autre de méditer sa réponse, ou quand un nouvel Acteur arrive au Theatre, il ne m’en revient présentement aucun exemple à l’esprit, soit que ma mémoire me soit infidelle, ou qu’en effet il n’y en ait point», ivi, p. 254 [t. I, p. 234]), alla cui introduzione ostava la presenza continua di un Coro stabile. Riccoboni capovolgeva invece quest’argomentazione, sostenendo che il Coro fosse inammissibile sulla scena moderna proprio perché la sua introduzione avrebbe pregiudicato la verosimiglianza di monologhi e a parte («Si ce que je pense est vrai, nous concevons donc bien que le Chœur sera toujours défectueux pour la vraisemblance, et surtout lorsqu’étant Spectateur et Acteur, il s’entretiendra de ce que deux Acteurs se seront dit en confidence, ou d’un aparte, ou d’un monologue, chose qu’il ne peut pas entendre», Luigi Riccoboni, Histoire du Theatre Italien, t. II, Paris, Cailleau, 1731, pp. 77-78).
Quanto a Calepio, egli ritiene che siano le tragedie italiane quelle in cui abbonderebbe questa cattiva pratica; egli se la prende ancora con il Giraldi, ed in particolare con l’Orbecche, laddove i monologhi e gli a parte di Orbecche (II, 4; V, 4), pronunciati verosimilmente alla presenza delle donne di corte e della nutrice, gli sembrano fuori luogo. Lo stesso La Mesnardière criticava l’impiego eccessivo e inverosimile degli a parte nella drammaturgia contemporanea italiana e spagnola: «Cette faute est si ordinaire dans les Dramatiques modernes Italiens et Espagnols (car les anciens en sont éxents) qu’à peine en peut-on treuver un qui n’en soit pas infecté. Elle est pourtant si ridicule, que les sens extérieurs de cette vile populace dont tout l’esprit est dans les yeux, ne la peuvent mesme souffrir; bien loin d’estre supportable aux yeux de l’entendement des personnes plus delicates» (Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, p. 268).
D’Aubignac, punto di riferimento per Calepio in questo capo, sosteneva a sua volta che gli a parte dovevano essere molto brevi ed introdotti con grande tempismo per non risultare ridicoli, ma ne ammetteva comunque l’uso, a differenza di La Mesnardière («Un A-parte doit être regulierement fort court et contenir fort peu de paroles, sur tout quand les deux Acteurs se voient et s’entendent au reste de l’entretien; car j’estime pour moi que deux vers ne se peuvent souffrir, qu’un demi vers en est la plus juste mesure, et que la plus grande licence ne doit être que d’un vers entier […]. Davantage il faut prendre bien à propos le temps pour faire cet A-parte; car il n’y a rien de plus ridicule que d’interrompre sans raison un Acteur qui fait un grand récit, pour faire dire quelque parole à un autre», François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre, cit., p. 256 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 236]).
[4.5.8] Calepio reputa la tragedia francese meno incline ad accogliere al proprio interno difettosi e inverosimili a parte: egli non ne ritrova traccia in Corneille — il quale ne aveva fatto uso soltanto nella commedia Le Menteur, pur dichiarando la sua avversione nei confronti di questo espediente («J’ai tâché de la réduire à nôtre usage et dans nos règles; mais il m’a fallu forcer mon aversion pour les a parte, dont je n’aurais pu le purger sans lui faire perdre une bonne partie de ses beautés», Pierre Corneille, Le Menteur, in Id., Œuvres complètes, t. II, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 7) —, e riscontra una sola occorrenza in Racine, nell’Athalie, alludendo molto probabilmente al brevissimo a parte assegnato alla protagonista nel dialogo con Joas («Quel prodige nouveau me trouble et m’embarrasse/ La douceur de sa voix, son enfance, sa grâce,/ Font insensiblement à mon inimitié/ Succéder… Je serais sensible à la pitié?», II, 7, vv. 651-654).
Venendo invece alla tragedia italiana, il Calepio riscontra come gli a parte abbondino nella drammaturgia contemporanea: egli condanna la Merope di Maffei, in cui Ismene, appena giunta in scena, si rivolge a Merope in un a parte che coinvolge soltanto le due donne, benché sulla scena vi siano già anche Polifonte e Adrasto, i quali apparentemente non sentono nulla (Ismene: «Io non ardia appressarmi/ vedendo il ragionar: ma, mia reina,/ perché ti veggio sì turbata?» Merope: «Il tutto/ saprai fra poco», I, 2, vv. 175-178). Il Maffei rispose risentito all’accusa nella recensione al Paragone, rimarcando la differenza fra a parte e in disparte: nel primo caso si tratta dell’interruzione di un dialogo fra due attori, dovuto al fatto che uno di questi si apparta per dire qualcosa che l’altro non intende; nel secondo — e questo è il caso della Merope, ben più lodevole — si indica un breve soliloquio di un attore che è in scena insieme ad altri, ma in una posizione separata, da dove non può essere udito («Egli si vuol prima d’altro avvertire come niuno finora ha distinto gli a parte da gl’in disparte. […] Quando adunque due o più Attori ragionano insieme e che un d’essi, quasi per qualche momento appartandosi, dice qualche cosa che da gli altri non ha da esser’intesa, ma dall’udienza solamente, quelli si chiamano detti a parte. Ora di cotali nella Merope non v’ha niuno ed ha però in questo il riverito autore equivocato. Furono in ciò altre volte viziosamente frequenti i Drami musicali. Né però gli a parte son da escludere totalmente, perché rari e brevi, e tanto più in Personaggi non gravi, o usati come naturali e impetuosi prorompimenti potranno ammettersi; ma con questo sempre, che il detto in tal modo non sia punto necessario al proceder de’ fatti, né al fargli comprender bene, perché ciò sarebbe contrario all’artifizio cui è tenuto il Poeta. Detti in disparte sono i proferiti da chi sta separato da gli altri che dialogizano su la Scena, i quali si suppone però che non odano. Ma in disparte o è più d’uno o solo. S’è un solo, ciò ch’egli dice vien’a corrispondere a un soliloquio breve; e siccome parcamente e con giudizio usati non si condannano i soliloquj, così parrebbe non doversi condannar gl’in disparte. Ma per verità questi son da fuggire ancor più e difficilmente avverrà che non sien viziosi, e tanto più se son di conseguenza all’intreccio: né pur di questi però orma si ha nella sopraccennata Tragedia», Scipione Maffei, «Recensione a P. Calepio, Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia (1737)», in Id., De’ teatri antichi e moderni, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, pp. 64-65). Secondo il Veronese il dialogo in disparte fra Ismene e Merope sarebbe pienamente ammissibile, in quanto riprodurrebbe verosimilmente una situazione del tutto naturale («Ora è egli vero o no che in un grand’atrio, in una Sala, in una piazza si trovano speso persone che ragionano insieme da una parte ed altre che ragionano insieme dall’altra, senza che questi odan quelli? Se così in fatti è, perché non potrà il Poeta imitare e rappresentare il vero? Non bisogna cercar di dificoltare con regolette, ma pensare al più importante ed al più essenziale della Poesia», ivi, p. 65). Maffei ritornerà sulla questione ribadendo questa posizione nelle Annotazioni alla Merope (Scipione Maffei, «Annotazioni alla Merope», in Id., La Merope. Tragedia con Annotazioni dell’Autore, e con la sua Risposta alla Lettera del Sig. di Voltaire, Verona, Ramanzini, 1745, pp. 115-117). Egli, peraltro, non si dimostrava neppure d’accordo con l’analisi di Calepio, affermando che tanto la Sofonsiba di Trissino quanto l’Oreste di Rucellai presentavano a loro volta dei discorsi in disparte («Esempi di questo parlar separatamente veggonsi nelle buone Tragedie infiniti. Non si verifica che ciò non si praticasse dal Trisino, perché nella Sofonisba forse venti versi trovansi così proferiti. Nell’Oreste del Rucellai molti più: un discorso fa Oreste con Pilade, non udito da Ifigenia, perché pregata prima a scostarsi alquanto», Scipione Maffei, «Recensione a P. Calepio», cit., p. 66).
Nella tragedia del Settecento, oltre che nella Merope, Calepio trova altri a parte, che considera difettosi relitti della pratica drammaturgica seicentesca, e segnatamente nell’Ezzelino di Baruffaldi, plasmato sui modelli francesi, e soprattutto nel Cesare del Conti, dove Cassio si rivolge con un breve a parte ad Albino alla presenza di Bruto («Ma tu forse non sai, che la Pretura/ ei diede a Bruto, e lui corruppe il primo», III, 6). Anche in questo caso Conti aveva replicato al Bergamasco, rifacendosi al modello degli antichi — egli ravvisava nell’Oreste di Sofocle alcuni antecedenti dell’uso di una simile tecnica —, ma convenendo con l’autore del Paragone sul fatto che spesso questi prolungamenti dei soliloqui fossero dannosi, come accadeva nello scioglimento del Pastor Fido, «tutto fondato su l’agnizione ricavata da i due soliloquj d’Amarilli e di Mirtillo, l’uno udito da Corisca, e l’altro dal Satiro». Egli si proponeva quindi di emendare la sua tragedia in una successiva edizione («Contuttociò io prometto all’autore di correggere quanto potrò nella seconda ristampa della mia Tragedia i ragionamenti a parte, e profittar de’ saggi avvisi, che così umanamente mi porge», Antonio Conti, «Prefazione», in Prose e poesie, t. I, Venezia, Pasquali, 1739, p. n.n.).
Sull’impiego dell’a parte nella tragedia francese si rimanda a: Nathalie Fournier, L’Aparté dans le théâtre français du xviie siècle au xxe siècle: étude linguistique et dramaturgique, Paris-Louvain, Peeters, 1991; Ead., «Discours secrets, discours surpris, discours équivoques, discours artificieux: Racine et Molière», in La Parole masquée, édité par Marie-Hélène Prat et Pierre Servet, Genève, Droz, 2005, pp. 251-272.
Articolo VI.
[4.6.1] Nel sesto articolo di questo capo Calepio passa ad esaminare la partizione del dramma in atti e scene: anche in questo caso il paragone vedrà vincenti i Francesi, dal momento che nelle tragedie italiane gli atti sono solitamente divisi in un numero piuttosto ridotto di scene, segno della scarsa varietà della materia impiegata nella favola e di alcune pecche nella costruzione della complessità dell’intreccio. Le opere sceniche italiane vengono riprese soprattutto per un altro difetto di verosimiglianza che si evince dall’accostamento troppo ravvicinato di scene che dovrebbero essere invece distanziate per questioni di verosimiglianza temporale. Sarebbe questo ad esempio il caso del Torrismondo, già più volte ripreso nel corso di questo capo, poiché l’arrivo di Frontone in scena (IV, 5) avviene troppo a ridosso al momento in cui Torrismondo, desideroso di conoscere cosa sia accaduto alla sorella, ordina di far chiamare questo servo che si suppone abitare un solingo luogo pastorale (IV, 3). Un simile problema viene ravvisato nella Merope del Maffei, laddove Ismene giunge da Polifonte (II, 4) soltanto pochi versi dopo che questi ha chiesto ad Adrasto di farla chiamare («Adrasto, vaglia il ver, tu ben ragioni./ Fa, che si chiami Ismene», II, 3, vv. 241-242). Maffei non ribatterà su questo punto nella sua Recensione al Paragone. Viene inoltre rimproverato dello stesso difetto l’Ezzelino di Baruffaldi, particolarmente nella scena nona dell’atto terzo, in cui Amabilia e i sei prigionieri di Ezzelino, schierati dalla parte della donna, giungono in scena, una volta liberati dalla prigione in cui erano stati relegati dal tiranno, nello spazio dei sei versi pronunciati da Tiso («O Notte, o notte amica degl’inganni,/ tu mi seconda co’ silenzi tuoi,/ finchè le Guardie lungi stanno, e tutta/ la corte è intenta al nuovo Ambasciadore,/ apro la Torre, e traggo i sei prigioni,/ e Beatrice con essi in libertade./ Ecco la porta s’apre», III, 9). Infine viene criticato ancora una volta il Cesare del Conti, sebbene in maniera un po’ criptica, come lamenta lo stesso Conti, invocando comunque un esame dell’uso del tempo nelle sue tragedie che non si basi su di una rigida misurazione cronometrica, bensì su una percezione relativa del tempo scenico («Non piace poi all’autore, che io abbia alle volte accelerato il tempo, limitata l’azione ad un atrio, ed adoperato talora i ragionamenti a parte. Avrei desiderato, che su l’accelerazione del tempo egli mi additasse in particolare i difetti. Intanto io lo prego di riflettere, che nelle azioni grandi e decisive tutte le cose son preparate, e la preparazione affolla gli accidenti, e velocemente li cangia. Dall’altra parte il tempo, cosa affatto relativa alle nostre idee ed a nostri sentimenti, si concepisce e si sente più o meno, secondo che più o meno le cose ci interessano. Una delle grand’arti della Tragedia è d’interessare in maniera l’uditore, ch’egli non guardi mai l’orologio», Antonio Conti, «Prefazione», in Prose e poesie, t. I, Venezia, Pasquali, 1739, p. n.n.). Sarà da notare che, in materia di partizione del dramma in atti e scene Calepio parrebbe guardare ancora al modello teorico di Corneille, il quale, nel Discours des trois unités, raccomanda il rispetto della proporzione fra le scene («Le nombre des scènes dans chaque acte ne reçoit aucune règle: mais comme tout l’acte doit avoir une certaine quantité de vers qui proportionne sa durée à celle des autres», Pierre Corneille, «Discours des trois unités», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 181), assecondando una precedente prescrizione del d’Aubignac («On a quelquefois demandé, Quel doit être le nombre des Scénes dans chaque Acte? Je croi pour moi qu’il n’y en a point de certain, il faut que le Poëte s’y conduise avec jugement: s’il y en a trop peu, l’acte n’aura point d’agrément par le grand nombre des Acteurs et le mélange des Actions», François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, p. 246 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 226]).
Sulla fondazione dell’unità di tempo, nonché sul regolamento della prassi drammaturgica sulla base del rapporto fra tempo scenico e tempo della favola si rimanda al contributo di Piermario Vescovo, Entracte: drammaturgia del tempo, Venezia, Marsilio, 2007.
[4.6.2] I tragici francesi sarebbero stati secondo Calepio meno difettosi sotto questo profilo: qualche trasgressione — ma l’autore non ne segnala alcuna in modo puntuale — si potrebbe probabilmente scorgere nei finali delle tragedie di Corneille, dove l’accelerazione del tempo è peraltro più scusabile, in quanto va incontro all’impazienza degli spettatori che vogliono conoscere la conclusione della favola. Meno giustificabile sarebbe invece Joseph-François Duché de Vancy, autore di diverse tragédies en musique nonché di alcune tragedie di argomento sacro già menzionate da Calepio; anche in questo frangente il Bergamasco non fornisce esempi precisi, tratti dai testi drammaturgici, utili a suffragare la sua critica. L’attenzione dell’autore si concentra quindi sulla soluzione adottata da Monsieur de La Fosse, il quale, nel Corésus et Callirhoé, dovendo riportare nel breve giro di un cambiamento d’atto la notizia di un lungo viaggio fatto da Lydus per conoscere il responso di un oracolo, ipotizza che costui si sia recato in Epiro con l’aiuto di ali che gli avrebbero permesso di coprire in pochissimo tempo la grande distanza che separa Dodona dalla Calidonia, luogo in cui si svolge la favola. Arbas infatti, rivolto a Callirhoé, pronuncia la battuta riportata a testo in traduzione («Quel désordre, grands Dieux! quel spectacle l’étonne!/ Tout le peuple lui crie, et luy-même il ordonne,/ Qu’au plus prochain Oracle on courre s’adresser,/ Pour sçavoir les moyens de le faire cesser./ Lydus y vole», Antoine de La Fosse, Corésus et Callirhoé, II, 6, in Id., Œuvres, t. II, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 43), e Lydus compare all’inizio del terzo atto riportando ad Antinous la risposta dell’oracolo: «La Prêtresse en mes mains remettant sa réponse:/ Le calme à Calydon sera bientôt rendu,/ Va, porte à Corésus ce billet attendu,/ Dit-elle. C’est à lui d’en donner connaissance/ Au peuple qui l’attend avec impatience», ivi, III, 2, p. 47). Nonostante l’ingegnoso stratagemma, Calepio non considera minore l’inverosimiglianza di questa accelerazione di tempo che egli misura sui libri di storia di Pausania (Periegesi della Grecia) e di Stefano di Bisanzio (Ethnica, di cui si conserva soltanto un’epitome tarda) da cui è tratto il soggetto. Sul racconto di Pausania si rimanda all’articolo di Marco Massimo Dorati, «Calliroe e Coreso. Pausania (VII, 21, 1-5)», in Eros: antiche trame greche d’amore, a cura di Antonio Stramaglia, Bari, Levante, 2000, pp. 81-84.
[4.6.3] Calepio torna quindi all’attacco dell’introduzione del Coro nella tragedia moderna. Se egli aveva in precedenza condannato il Coro stabile (Paragone IV, 2, [2]), in virtù del fatto che esso priverebbe la rappresentazione della segretezza che richiedono le pièces del tempo, agite per la maggior parte nei palazzi reali, in questa sede riprova anche l’impiego del Coro mobile, chiamato a pronunciare alla fine di ogni atto discorsi generali — non potendo infatti entrare nel merito di un’azione alla quale verosimilmente non aveva dovuto assistere —, che egli ritiene poco funzionali allo sviluppo dell’intreccio. Del Coro greco Calepio apprezzava la funzione morale che era stata icasticamente definita da Orazio («Actoris partis chorus officiumque virile/ defendat, neu quid medios intercinat actus/ quod non proposito conducat et haereat apte./ Ille bonis faveatque et consilietur amice/ et regat iratos et amet peccare timentis,/ ille dapes laudet mensae brevis, ille salubrem/ iustitiam legesque et apertis otia portis,/ ille tegat conmissa Deosque precetur et oret,/ ut redeat miseris, abeat fortuna superbis», Orazio, Ars Poetica, vv. 192-201), e sulla quale insistevano variamente diversi teorici della tragedia cinque e seicentesca, nonché il Guarini (cfr. Elisabetta Selmi, «Classici e Moderni» nell’officina del Pastor Fido, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, p. 185), ma stimava comunque più pratico ed efficace che questo ruolo venisse affidato ad un attore, secondo una linea di pensiero attenta alla «pratica del teatro» che prendeva le mosse dal d’Aubignac (Cfr. La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, pp. 195-213 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 177-195) e si sarebbe prolungata per tutto il Settecento, come ha illustrato Massimo Natale (Il curatore ozioso: forme e funzioni del coro tragico in Italia, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 243-275). Il passaggio dei Problemi di Aristotele citato da Calepio per suffragare la propria tesi (Aristotele, Problemata XIX, quaestio xlviii: ἔστι γὰρ ὁ χορὸς κηδευτὴς ἄπρακτος) era da più di un secolo al centro di un ampio dibattito che non riguardava soltanto la possibilità di tenere in vita il Coro nella tragedia moderna, magari come voce del poeta, secondo l’ipotesi del Tasso («Ma ’l coro per aventura dee parlar più altamente, perch’egli, come dice Aristotele ne’ Problemi, è quasi un curatore ozioso e separato; e per l’istessa ragione parla più altamente il poeta in sua persona, e quasi ragiona con un’altra lingua, sì come colui che finge d’esser rapito da furor divino sovra se medesimo, Torquato Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964, p. 198), che anticipa significativamente la proposta manzoniana del Coro come «cantuccio» dell’autore (Alessandro Manzoni, Il Conte di Carmagnola, a cura di Gilberto Lonardi, Venezia, Marsilio, 1989, p. 78).
La questione del Coro e della sua essenza di «curatore ozioso» avrebbe infatti acceso una disputa sulla natura della tragedia greca — era essa interamente cantata, oppure soltanto i Cori venivano accompagnati dalla musica e recitati con tonalità canora? — e di riflesso della liceità del dramma per musica sei-settecentesco. Accanto a questo brano, nei dibattiti dell’epoca viene spesso rievocato un altro passaggio aristotelico, questa volta estratto dalla Poetica, e apparentemente in conflitto con il precedente: lo Stagirita infatti in questa sede definiva la tragedia come un’imitazione di azione nobile, in un linguaggio adorno in modo specificamente diverso per ciascuna delle parti, alludendo probabilmente alla distinzione fra un Coro accompagnato dalla musica e degli Attori che si affidavano semplicemente al metro del verso (1449b 25).
Già Vincenzo Galilei, animatore di quella Camerata Bardi all’interno della quale aveva preso le mosse un’impegnativa riflessione sul rapporto fra musica e parole nel testo drammaturgico, metteva in evidenza questo disaccordo («Hor avvertite che le Tragedie, & le Comedie fussero veramente (nella maniera che avete inteso) cantate dai Greci, ve lo dice (oltre à li degni di fede) Aristotile nella particola dell’harmonia, al Problema quarantanove. Vero è che nella Poetica, quando viene alla diffinitione della Tragedia, pare che egli scordi in alcuna cosa da quel primo parere», Vincentio Galilei, Dialogo della Musica Antica et della Moderna, Firenze, Marescotti, 1581, p. 145). Nella dedica alla Regina di Francia dell’Euridice Rinuccini si spingeva oltre, richiamandosi per il suo nuovo dramma per musica al modello della tragedia greca che supponeva essere stata interamente cantata («È stata opinione di molti, Christianissima Regina, che gl’Antichi Greci, e Romani cantassero su le Scene le Tragedie intere, ma sì nobil maniera di recitare non che rinnovata, ma né pur che io sappia fin qui era stata tentata da alcuno, & ciò mi credev’io per difetto della Musica moderna di gran lunga all’antica inferiore, ma pensiero sì fatto mi tolse interamente dell’animo M. Iacopo Peri, quando udito l’intentione di Iacopo Corsi, e mia, mise con tanta gratia sotto le note la favola di Dafne composta da me solo per far una semplice prova di quello, che potesse il canto dell’età nostra», Ottavio Rinuccini, L’Euridice. Rappresentata nello Sponsalitio della Christianissima Regina di Francia e di Navarra, Firenze, Giunti, 1600, p. non numerata).
Giovan Battista Doni nel Trattato della Musica ritornava sul già citato Problema, al fine di dimostrare come nella tragedia greca «non si cantavano i Cori soli»; esistevano tuttavia due diversi tipi di melodia, quella Ipofrigia, «attiva» e adatta agli eroi chiamati ad agire sulla scena con l’accompagnamento di una musica energica e maestosa, e quella Ipodoria, «magnifica» ma meno vibrante, appropriata per il Coro, composto da u16omini comuni, al quale si confaceva un «canto flebile e quieto» che presiederebbe alla definizione aristotelica del Coro come «curatore ozioso» (Giovan Battista Doni, Trattato della musica scenica, in Id., Lyra Barberina Amphichordos accedunt eiusdem opera, pleraque nondum edita, ad veterem musicam illustrandam pertinentia ex autographis collegit, et in lucem proferri curavit Antonius Franciscus Gorius, vol. II, Firenze, Cesari, 1763, pp. 5-6).
Anche nel Settecento, benché molto spesso la musica sia considerata un elemento di corruzione della tragedia (cfr. Enrico Fubini, Musica e cultura nel Settecento Europeo, Torino, E.D.T., 1986), non si esaurisce la discussione sulla natura originariamente musicata della tragedia greca; l’opinione del Doni viene anzi ripresa nell’autorevole giudizio di Gian Vincenzo Gravina («E quando Aristotele scrive, che l’imitazione nella Tragedia si facea con le parole, col metro, col ballo, e con la musica, manifestamente significa la musica esser accoppiata non solo con la favella de i Cori; ma con quella delle Scene ancora: perché la Scena sola per mezzo de i suoi personaggi rappresentando imita; ma il Coro solamente medita, e discorre sopra l’azione imitata», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 556-557), e affascinava anche il Muratori, il quale, nella versione manoscritta del Della perfetta poesia aveva incluso una lunga sezione dedicata alla musica, in cui sosteneva che nella tragedia i recitativi non fossero cantati, ma modulati su di un uso armonico della voce. Eppure, nonostante il sostegno del dotto Anton Maria Salvini, lettore del Doni, di fronte alle critiche mossegli da Giovan Gioseffo Orsi e da Giusto Fontanini, il Muratori preferì rinunciare a inserire la dissertazione musicale — pure così centrale nel suo progetto di riforma del teatro — nell’edizione a stampa della Perfetta poesia (su tutto l’episodio si veda il brillante studio di Alfredo Cottignoli, Muratori teorico: la revisione della «Perfetta poesia» e la questione del teatro, Bologna, CLUEB, 1987).
Accanto alla speculazione squisitamente teorica si profila tuttavia anche un’altra filiera di testi che presta attenzione alla tenuta scenica del Coro, e a questa sembra fare maggiore riferimento il Calepio. Angelo Ingegneri, partendo sempre da quel Problema di Aristotele, stabiliva la necessità di impiegare un Coro ora dialogante, ora cantante («In cotal modo standosene il coro, sarà egli comodamente ora interlocutore della favola e ora spettatore ozioso di quanto passa. Ma quando egli rimarrà solo nella Scena, allora ei canterà sempre e verrà ad essere un mero, ma grave, nobile e ben accomodato intermedio della tragedia», Angelo Ingegneri, Del modo di rappresentare le favole sceniche. Trattato, in Id., Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, a cura di Maria Luisa Doglio, Modena, Panini, 1989, p. 32), mentre nel Corago il Coro era degradato a elemento coreografico utile a riempire gli intermedi fra atto e atto («S’introducono qualche volta due o quattro di loro a recitare per dare occasione a qualche nunzio o altro di fare qualche narrativa, ma per lo più s’introducono come moltitudine de’ sopradetti che o si dolga, o vero festeggi cantando; et in questo modo pare che molto più diletto arrechino quale non tanto per l’armonia che fanno cantando quanto per li spasseggi et intrecciamenti che con Grazia vanno facendo», Il Corago, o vero alcune osservazioni per metter bene in scena le composizioni drammatiche, a cura di Paolo Fabbri e Angelo Pompilio, Firenze, Olschki, 1983, p. 98).
Nel Settecento il Coro, anche quando contemplato nel testo drammaturgico, veniva spesso escluso nel momento della rappresentazione, come dimostrano tanto le indicazioni del Maffei nel Teatro Italiano, tese ad assegnare le battute del Coro a qualche personaggio secondario, ma anche altre testimonianze degli attori dell’epoca: Pompilio Miti ad esempio faceva lo stesso nell’allestimento da lui curato dell’Ulisse il giovane (Domenico Lazzarini, Ulisse il giovane, Ferrara, Pomatelli, 1720). Talvolta gli autori si cautelavano da queste eventuali soppressioni — che dovevano essere abituali — prescrivendo in prima persone soluzioni alternative per la recitazione, come dimostra Alfonso Varano, il quale nell’avvertimento ai lettori del Giovanni di Giscala, sciorina alcune tecniche per sostituire il Coro nella messa in scena della sua tragedia («Facilissimo sarebbe ancora il rappresentare l’azione tragica senza i Cori […]. Nel fine dell’atto primo, quando Giovanni s’accinge a comporre il trofeo, si faccia in modo, che i Soldati lo compiscano al terminar del discorso fra Giovanni e Fannìa, e che s’accompagnino con questi nel partire. Nel fine dell’atto secondo il Coro de’ Sacerdoti seguiti Giovanni, e si cominci l’atto terzo colla scena seconda di Fannìa, e d’Elioneo. Nel terminare dell’atto terzo le fanciulle della Tribù di Levi accompagnino Marianne e Manasse, e si dia principio all’atto quarto colla scena seconda d’Elioneo co i Capi de’ Leviti. Presso al termine dell’atto quarto dopo la partenza di Marianne il Sacerdote reciti quel verso che è segnato per lui, e poi con tutto il Coro si ritiri nella parte opposta a quella ove sarà entrata Marianne; e si cominci l’atto quinto colla scena seconda d’Arismane accompagnato da i Soldati», Alfonso Varano, Giovanni di Giscala, tiranno del tempio di Gerusalemme. Tragedia, Venezia, Valvasense, 1754, pp. xlix-l). Sulla base di questa tradizione Metastasio, nel suo Estratto dell’arte poetica di Aristotele, ritornava alla teoria drammaturgica elencando i numerosissimi svantaggi che la presenza del Coro comportava dal punto di vista della verosimiglianza scenica («Essendo dunque rimasto il coro, prima, per l’imperiosa autorità della religione e per quella, poi, del tiranno invecchiato costume, pacifico ed inevitabile possessore del teatro drammatico, si studiarono i poeti (non potendo scaricarsene) di metterlo in qualche modo d’accordo col dramma, interessandolo nella favola; ma da questa poca felice cura sofferse, appunto, le più notabili violenze e il genio e dell’uno e dell’altro. Le sofferse il genio del coro, che destinato per sua natura a radunarsi in un luogo convenuto ed al determinato oggetto delle annue festive solennità, si trovò obbligato nel dramma a concorrere, per lo più senza motivo, in una piazza ed a rimanervi ozioso per tutto il corso d’una favola. Le sofferse, perché cantando, prima, odi ed inni, che si suppongono premeditati, era ben verisimile che tutti i cantori convenissero ne’ pensieri e nelle parole medesime; ma quando tutte le persone che compongono un coro furono obbligate a cantare improvvisamente in un dramma, a seconda degl’improvvisi motivi che il corso dell’azione andava loro, di tratto in tratto, improvvisamente somministrando, divenne inverisimilitudine insopportabile il dover supporre che tanti diversi individui possano e pensare e spiegarsi nella medesima forma, improvvisamente parlando», Pietro Metastasio, Estratto dell’arte poetica di Aristotele, a cura di Elisabetta Selmi, Palermo, Aesthetica, 1998, p. 107).
Da ultimo andrà notato che l’interpretazione del passaggio dei Problemi proposta da Calepio solleverà le furiose proteste del Salìo nell’Esame critico: il filosofo greco non avrebbe infatti a suo parere chiamato ozioso il Coro, ma semplicemente inefficace a paragone degli attori in quanto non agiva direttamente come loro (Giuseppe Salìo, Esame critico intorno a varie sentenze d’alcuni rinomati scrittori di cose poetiche, Padova, Comino, 1738, pp. 237-328); nella sua Confutazione Calepio ribatterà al Padovano, rimarcando la bontà della sua traduzione del passo in questione (Pietro Calepio, Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, Venezia, Zatta, 1770, pp. 245-246).
Sull’importanza della volontà di recuperare la tragedia greca nella creazione del dramma per musica si veda l’utile contributo di Blair Hoxby, «The Doleful Airs of Euripides: The Origins of Opera and the Spirit of Tragedy Reconsidered», Cambridge Opera Journal, XVIII/3, (2005), pp. 253-269. Sulla drammaturgia musicale di Monteverdi, in rapporto con la Poetica di Aristotele, ma anche con letterario-musicali legate al circolo culturale milanese si rimanda al recente intervento di Federico Schneider, Unsuspected Competitive Contexts in Early Opera: Monteverdi’s Milanese Challenge to Florence’s Euridice (1600), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016.
[4.6.4] La questione della verosimiglianza era fondamentale anche per il Calepio, che perciò ritorna sul problema dell’utilità della presenza corale proprio in questa sezione del Paragone. Il Coro chiamato a cantare alla fine di ogni atto negherebbe infatti la possibilità di far credere che nell’intervallo fra un atto e l’altro il tempo scenico non corrisponda al tempo reale, limitando di fatto moltissimo la rosa di azioni che è possibile rappresentare. Per questo motivo il Bergamasco loda la soppressione dei Cori nel Solimano del Bonarelli e nelle tragedie francesi sei-settecentesche. Fra i drammaturghi italiani suoi contemporanei che facevano ricorso al Coro, Calepio distingue fra coloro che impiegano il Coro mobile (il Caraccio nel Corradino, il Gravina nelle Tragedie Cinque, il Marchese delle Tragedie Cristiane, del Crispo e della Polissena e il Conti delle Quattro tragedie) e quelli che adoperano invece il Coro stabile, come Domenico Lazzarini e Giuseppe Salìo; fra questi egli esprime il proprio apprezzamento per l’Ulisse il giovane del Lazzarini, già definito nella giovanile Apologia di Sofocle come l’equivalente moderno di ciò che era l’Edipo Re nel panorama tragico antico («L’ab. Lazzarini, autore dell’Ulisse […] tra le moderne tragedie occupa quel loco ch’ha sempre avuto l’Edippo di Sofocle fra le antiche», Mario Scotti, «L’“Apologia di Sofocle” di P. de’ Conti Calepio», Giornale storico della letteratura italiana, CXXXIX, 427, 1962, pp. 392-423: 411).
[4.6.5] In questo passaggio Calepio affronta il nodo spinoso dell’unità di luogo, elemento importante della teoria drammaturgica italiana e francese fra Cinque e Seicento; se, come è noto, Aristotele prescrive soltanto l’unità d’azione, le unità di tempo e di luogo sono frutto delle speculazioni dei teorici cinquecenteschi, da Robortello a Vincenzo Maggi allo Scaligero, fino al Castelvetro, il quale cristallizza efficacemente la definizione delle tre unità drammatiche che fondano la tragedia, alla quale «conviene havere per soggetto un’attione avenuta in picciolo spatio di luogo, et in picciolo spatio di tempo cio è in quel luogo e in quel tempo, dove e quando i rappresentatori dimorano occupati in operatione, et non altrove, né in altro tempo», Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata et sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1978, p. 149.
Tuttavia, altro era la riflessione teorica, altro la tecnica drammaturgica; nel teatro francese e italiano del primo Seicento raramente i drammaturghi si preoccupavano del rispetto delle unità, come lamenta Jean-François Sarasin nella prefazione dell’Amour tyrannique, tragicommedia di Georges de Scudéry («Nos Modernes, qui pour la plupart ont violé la règle de laquelle nous parlons [l’unità di tempo], ne l’ont pas voulu faire à si bon marché que les Anciens. Ils ont quelquefois enfermé une suite de plusieurs années dans une même tragédie; ils ne se sont pas contentés de pécher pour les doctes, leurs fautes se sont rendues publiques, et le peuple s’est étonné de voir que les mêmes acteurs devenaient vieux dans la même tragédie, et que ceux qui avaient fait l’amour au premier acte, paraissaient au cinquième en figure décrépite», Jean-François Sarrasin, Discours de la Tragedie, ou Remarques sur l’Amour Tyrannique de Monsieur de Scudery, in Georges Scudery, L’Amour tyrannique. Tragi-comédie, Paris, Courbé, 1639, p. 7). Sul mancato rispetto delle unità nella drammaturgia francese del primo Seicento si veda Eveline Dutertre, Scudéry dramaturge, Genève, Droz, 1988, pp. 67-75. Uno spartiacque importante può essere individuato nella Querelle du Cid, all’interno della quale proprio gli interventi di Georges Scudery e di Jean Chapelain, i quali rimproverano a Corneille il mancato rispetto dell’unità di luogo, riportano l’attenzione sulla rigida applicazione dei precetti delle unità (cfr. Armand Gasté, La Querelle du Cid, New York, Holmes, 1974, pp. 391-392; La Querelle du Cid (1637-1638), édition critique intégrale par Jean-Marc Civardi, Paris, H. Champion, 2004, pp. 193-196). Nella seconda metà del secolo abbondano infatti le dichiarazioni di poetica che richiamano in modo intransigente alla deferenza ai principi delle unità: nella Pratique du théâtre d’Aubignac, il quale pure ammette che la regola dell’unità di luogo non era stata prescritta da Aristotele — ma egli aveva dovuto tralasciarla di proposito perché troppo lampante («Aristote dans ce qui nous reste de sa Poëtique n’en a rien dit, et j’estime qu’il l’a negligé, à cause que cette regle estoit trop connuë de son temps, et que les Chœurs qui demeuroient ordinairement sur le Theatre durant tout le cours d’une Piéce, marquoient trop visiblement l’Unité du lieu» (François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, pp. 97-98 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 87) —, ne raccomanda il rispetto più rigido, senza il quale verrebbe meno la verosimiglianza della rappresentazione; dello stesso parere era Boileau nell’Art poétique, in cui si diceva convinto che il decoro e la credibilità della rappresentazione passasse dall’osservazione delle unità di tempo, di luogo e d’azione («Que le Lieu de la scene y soit fixe et marqué./ Un Rimeur, sans peril, delà les Pirenées,/ Sur la scene en un jour renferme des années,/ Là souvent le Heros d’un spectacle grossier,/ Enfant au premier acte, est barbon au dernier./ Mais nous, que la Raison à ses regles engage,/ Nous voulons qu’avec art l’Action se ménage:/ Qu’en un Lieu, qu’en un Jour, un seul Fait accompli/ Tienne jusqu’à la fin le Theatre rempli», Boileau, Art Poétique, in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 170).
Corneille cercherà di adattarsi a questa nuova fortissima esigenza critica e toccherà la questione dell’unità di luogo in molti degli Examens delle sue tragedie, nei quali ammette talvolta di aver deliberatamente tradito questo principio, talaltra rivendica una fedeltà assoluta ed esemplare al dettame, come nel caso dell’Horace. Quando poi, in veste di teorico della tragedia egli affronta la questione nel terzo dei suoi Discours, dedicato appunto alle unità drammatiche, si mostra piuttosto scettico sulla reale utilità rappresentativa dell’unità di tempo e di luogo, per la quale propone un minimo allargamento: sia concesso di mettere in scena un soggetto che si svolge in diverse parti di una medesima città, in modo da non ridurre drasticamente la rosa dei soggetti tragediabili («Je tiens donc qu’il faut chercher cette unité exacte autant qu’il est possible, mais comme elle ne s’accommode pas avec toute sorte de sujets, j’accorderais très volontiers que ce qu’on ferait passer en un seule ville aurait l’unité de lieu. Ce n’est pas que je voulusse que le théâtre réprésentât cette ville tout entière, cela serait un peu trop vaste, mais seulement deux ou trois lieux particuliers, enfermés dans l’enclos de ses murailles», Pierre Corneille, «Discours des trois unités», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 188). Con questa proposta Calepio si trovava senz’altro d’accordo, dal momento che egli apprezzava le tragedie francesi in cui il cambiamento di luogo, da una parte all’altra della città, avveniva fra un atto e l’altro, dando adito ad un esito perfettamente accettabile.
[4.6.6] Nella sua solita scorreria fra i testi tragici italiani il Calepio riscontra difetti notevoli nell’Ezzelino del Baruffaldi — ripreso per la terza volta nel giro di poche pagine — e nel Cesare del Conti (biasimato già per questo motivo in Paragone IV, 4, [5]): in entrambi i casi i mutamenti di luogo avvengono nell’avvicendarsi di due scene dello stesso atto, il che probabilmente induce Calepio a pronunciarsi in maniera così negativa. Nell’Ezzelino, ad esempio, la scena è situata a Padova, nel palazzo del tiranno, ma spesso si sposta nelle Torri Zilie, che servivano da prigione per gli avversari di Ezzelino, senza che questi passaggi siano peraltro marcati da specifiche didascalie. Al contrario, delle tragedie del Gorini egli salva soltanto il riguardo a questo principio della tradizione aristotelica, considerando le sue prove drammatiche assai carenti in altri punti. Il Calepio, d’altra parte, dopo aver lodato incautamente le tragedie del marchese nella Descrizione de’ costumi italiani — probabilmente senza averle lette — aveva provveduto a richiedere al Bodmer la cancellazione di quel suo primo elogio (sull’episodio cfr. Sergio Romagnoli, «Introduzione» a Pietro Calepio, Descrizione de’ costumi italiani, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1962, pp. lviii-lix). Il Gorini stesso nel trattato Della perfetta tragedia che aveva premesso all’edizione della Rosimonda e poi ristampato nell’edizione integrale del suo Teatro, delineando un modello di tragedia a lieto fine basata sulla maestosità e sulla verosimiglianza, si esprimeva a propria volta in favore di un’interpretazione morbida dell’unità di luogo («Ora passiamo dall’unità di tempo all’unità di luogo. Questa, a mio credere, è la più difficile a conservarsi per grandi che siano le difficoltà nelle altre due, perché quale è quel luogo che nel medesimo tempo possa essere Anticamera, Stanza d’Udienza, Gabinetto appartato, siti che tutti richiedonsi, o altri consimili in una sola Tragedia […]?», Giuseppe Gorini Corio, Trattato della perfetta tragedia, in Id., Teatro tragico e comico, Venezia, Albrizzi, 1732, p. 45), censurando peraltro alcune tragedie francesi nelle quali l’osservanza di questa regola creava degli inverosimili che Calepio non aveva notato. Il marchese se la prendeva in particolare con la Rodogune di Corneille e con il Bajazet di Racine, lacunosi dal punto di vista della rappresentazione di scene segrete, tanto care a Calepio, mentre lodava altre tragedie corneilliane, fra le quali il Cid e il Cinna («Come può conservarsi, e l’unità di luogo e la verosimilitudine nel vedere due Donne nemiche, o anche non confidenti fare i suoi discorsi più segreti nel medesimo luogo, come nella Rodoguna di Cornelio la stessa Principessa, e Cleopatra? Nel Bajazette di Rassine, Rosana e Atalide Nemiche implacabili, al certo dovrebbono fare i loro segreti discorsi ne’ luoghi più segreti de’ loro stessi Appartamenti, così nel Cid, dove ora si parla nell’Appartamento di Cimene, ora in quello del Re, nel Cinna, ora in quello di Emilia, ora nel Gabinetto Reale, ora in luogo pubblico», ibid.). Lo stesso autore d’altro canto si vantava di aver rispettato scrupolosamente l’unità di luogo e riprovava la soluzione proposta da Corneille nel suo Discours, apparendogli questa troppo indulgente nei confronti del drammaturgo e poco rispettosa dell’intelligenza dell’uditore («Io dunque benché nelle mie Tragedie creda avere conservato perfettamente il luogo, come nel Duca di Guisa, che finge una Sala pubblica del Palazzo Reale di Parigi dove metta capo l’Appartamento Reale, e quello di Enrichetta, nella quale tutto ciò che segue può facilmente, e verosimilmente seguire, così nella Rosimonda credo avere conservata la perfetta unità di luogo. […] Né pure aderirei in tutto a Pietro Cornelio, che vorrebbe fosse conservata questa unità quando si stasse sempre nella Città medesima, variando tre o quattro luoghi, questo parmi troppo allargare una regola, la quale essendo fondata sopra la verosimilitudine non potrebbe più competere al Teatro con credere di fare che l’Uditore non s’accorga di aver mutato luogo, quando lo facciamo sortire da un Palazzo Reale per andare in una Casa privata, e poi dalla Casa privata per andare in piazza», ivi, p. 46).
Calepio viene poi discorrendo della Giocasta del Baruffaldi, intitolata dal poeta ferrarese «tragedia di scena mutabile» proprio perché forzava il principio dell’unità di luogo, secondo quanto l’autore stesso affermava in un Ragionamento intorno alla mutazione delle Scene che premetteva all’edizione faentina del 1725. In questo ragionamento egli diceva di non voler affermare che fosse improprio «l’uso di non mutare mai la scena della tragedia», ma sosteneva che, anche alla luce del fatto che Aristotele non accennava mai al principio dell’unità di luogo, era necessario affrontare la questione meno rigidamente, come già aveva fatto Corneille: «Quando si dice unità di luogo, io son d’opinione, doversi intendere di non passare da Roma in Atene, da Atene a Sparta; ma non mai perciò che risguarda l’identità del luogo medesimo, considerando anzi impossibile, o almeno improprio, potersi trattare in piazza ciò, che conviene affidar solo alle anguste pareti d’un gabinetto, e ciò, che è spediente fare in un bosco, eseguirlo in un tempio» (Girolamo Baruffaldi, «Ragionamento intorno alla mutazione delle Scene», in Id., Giocasta la giovane. Tragedia di scena mutabile, Faenza, Maranti, 1725, pp. 8-9). Il Baruffaldi si peritava inoltre a dimostrare come anche nell’antichità si ricorresse alla divisione delle scene traendo prove dai testi di Vitruvio e dal trattato dei giochi scenici di Callimaco. Tuttavia secondo Calepio questo stesso principio era stato già adottato, ben prima del Baruffaldi, nell’Arrenopia del Giraldi, nella Progne del Domenichi e nel Torrismondo del Tasso, e fra i contemporanei vi ricorreva spesso il Martello, a sua volta raffinato conoscitore della tragedia francese.
Sul cambiamento della scena nel Torrismondo, agito in parte in uno spazio esterno e marcatamente «maschile», ed uno semiaperto e certamente più raccolto, adatto ai parlamenti delle eroine, si vedano i contributi di Daniela Quarta, «Spazio scenico, spazio cortigiano, spazio cortese: l’Aminta e il Torrismondo di Torquato Tasso», in La corte di Ferrara e il suo mecenatismo, Atti del Convegno Internazionale (Copenhagen, Maggio 1987), a cura di Marianne Pade, Leene Wage Petersen e Daniela Quarta, Modena, Panini, 1990, pp. 301-327: 318-319, e Stefano Verdino, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 105-106.
Articolo VII.
[4.7.1] Calepio riassume in quest’ultimo articolo il giudizio che struttura l’intera disamina della tragedia italiana e francese nel Paragone. Egli è convinto del fatto che la tragedia francese sia superiore a quella italiana dal punto di vista scenico, in quanto è costruita per ottenere l’applauso del pubblico, mentre le prove italiane, per quanto più rispettose delle regole e più vicine ai modelli francesi, non hanno curato a sufficienza l’aspetto rappresentativo, trascurando la fondamentale questione della ricezione dell’opera teatrale. Inoltre egli avanza qui un altro importante argomento che impedisce di classificarlo, almeno a quest’altezza, fra i teorici aristotelici o fondamentalmente classicheggianti: egli è a tutti gli effetti un membro del partito dei Modernes quando afferma che le tragedie greche non sono un modello insuperabile e non andrebbero imitate in tutto e per tutto: d’altra parte già nel celebrare l’Ulisse il giovane aveva scritto in precedenza che, nonostante la bellezza della prova del Lazzarini «non sarebbe forse strano che ad alcuno paresse troppo servile attaccamento il seguire i Greci in ogni circostanza».
Ancora una volta si scorge sottotraccia la critica mossa alla tragedia grecheggiante, insufficiente dal punto di vista della tenuta scenica, particolarmente per quanto riguardava le prove di Gravina e di Salìo, più volte censurate nel Paragone. Eppure non andrà dimenticato che, in quella sorta di strascico italiano della querelle primo-settecentesca fra antichi e moderni che atteneva alla tragedia, un documento assai rilevante delle ragioni dei Modernes, l’«arcisopratragichissima» tragedia Rutzvanscad il giovane di Zaccaria Valaresso, rivolgeva le proprie parodiche frecciate tanto all’Ulisse del Lazzarini, quanto alla Merope del Maffei, la quale, benché quasi mai citata direttamente nelle sezioni del Paragone che attaccano la tragedia ultraclassicistica, andrà probabilmente considerata come un bersaglio secondario della requisitoria del conte bergamasco, che torna sulla Merope nel prosieguo dell’articolo. Del resto non mancavano neppure dei testi scritti in difesa delle tragedie grecheggianti, a partire dalle contro-parodie del Boccardi, il quale si era impegnato a difendere i sommi esempi di tragedia italiana, l’Ulisse e la Merope — nonché i loro archetipi greci —, dalle ingiuste accuse del Valaresso («Non so darmi pace in vedere, che vi siano certi uni sì mal prattici dell’Arte, che ardiscono assolutamente condannarla. Basta questa opinione per renderli ridicoli appresso i Letterati. Corre per le mani una Tragedia intitolata Runtuascad [sic] il giovine elaborata ad uso de’ Grecheggianti compositori. […] In difesa degli Artefici parlano assai egregiamente le loro opere falsamente riprovate dal nostro Tragico moderno, e messe in ridicolo. Quest’è un oltraggio, che troppo eccede le licenze poetiche. E in fatti: chi v’è mai che abbia letto quell’eruditissima Tragedia di Ulisse il giovine parto d’uno de’ più riguardevoli ingegni della nostra Italia, che non abbia in essa ammirato tutto il preggiabile dell’Arte? Che dirò poi della Merope di quel Famosissimo, che riceve ogni anno sù le nostre Scene universali gli applausi, senza recarne mai noja?», Merlino Beccatutto [MichelAngelo Boccardi], Mintidaspe il vecchio. Arcipiuchesopraridicolosissima Tragicomedia, Venezia, Geremia, 1724, pp. 3-4). Più spiritosa ma non meno tagliente nei confronti dei denigratori degli antichi era la massima con cui Benedetto Marcello apriva il suo Teatro alla moda: «In primo luogo non dovrà il Poeta moderno aver letti, né legger mai gli Autori antichi Latini, o Greci. Imperciocchè nemeno gli antichi Greci, o Latini hanno mai letti i moderni» (Benedetto Marcello, Il teatro alla moda, Venezia, All’insegna dell’Orso, 1730, p. 5).
Il principale riferimento polemico del Calepio è tuttavia in questo passaggio Giuseppe Salìo: in lui andrà identificato quel «poeta novello» che aveva affermato l’indiscutibile superiorità della tragedia greca rispetto a quella moderna, al quale egli, ammetteva provocatoriamente, non si era neppure degnato di guardare nella composizione della sua Temisto («Nè punto mi son fermato a considerare l’uso del moderno Teatro tanto dall’antico diverso. Perocchè siccome non vi fu finora alcuno così animoso il quale posto s’abbia a stabilrlo con sode ragioni, e a darne giuste regole, facendo conoscere quanto egli sia più dell’altro eccellente, e perfetto; a cui debbansi accomodare le drammatiche composizioni: anzi non essendo questo nuovo, che un’immagine dell’antico, ma guasta, e corrotta; così i suoi difetti non debbono far caso a coloro che scriver vogliono Tragedie, allontanandosi in molte sue parti dai ben fondati precetti», Giuseppe Salìo, La Temisto. Tragedia, Padova, Comino, 1728, pp. 17-18). Punto sul vivo dalla citazione del Calepio e scettico nei confronti dell’assunto secondo cui le tragedie greche erano un modello perfettibile, il Salìo manifesta nell’Esame critico il suo aspro dissenso, confermando la sua posizione: egli giudica che ogni deroga ai precetti aristotelici costituisca un errore, e che non esista pratica teatrale moderna che possa in qualsiasi punto migliorare l’esempio degli antichi («Le buone [tragedie greche] col buon gusto allora universale, col consenso degli uomini dotti, e poi co’ precetti del Filosofo insegnarono anche a noi la regolata, e perfetta istituzion dell’antico teatro; lo scostarsi dalla quale, volendo Tragedia scrivere, sarà sempre errore. E in fatti, quai fondati precetti oggidì si danno, che gli antichi correggano, e ’l teatro migliorino? Anzi, essendosi a’ nostri tempi fatalmente perduto, parlando in universale, il sapore della vera Tragedia, non lo guastano forse […]?», Giuseppe Salìo, Esame critico intorno a varie sentenze d’alcuni rinomati scrittori, Padova, Comino, 1738, pp. 195-196). Salìo ridimensionava la portata della condanna degli istrioni espressa da Calepio, argomento peraltro topico all’inizio del Settecento, e sostenuto con grande convinzione dal Maffei, il quale nella sua storia del teatro premessa al primo tomo del Teatro Italiano rimproverava i Comici di aver guastato con la loro pigrizia l’arte rappresentativa, sostituendo per comodità il verso con la recitazione all’improvviso («Or benché non poche Comedie si venissero poi anche in prosa rappresentando, si ritenne però insieme l’uso del verso per tutto il secolo decimosesto; ma nel susseguente guastando i Comici nel parlar comune, e sciolto il piacer della libertà, per non restar legati a parole, e per poter in tal modo recitare senza applicazione, cotal pigrizia gli fece a poco abbandonare il verso del tutto; e tanto più che l’uso della moderna Comedia gli costrinse a riempire le Compagnie di persone incapaci di ben proferirlo. si aggiunse per invaghirli della prosa la mirabil facilità loro, affatto incognita a’ Comici d’altre nazioni antiche, e moderne, di parlare in tal forma ottimamente a soggetto, cioè all’improviso», Scipione Maffei, Teatro Italiano, t. I, Verona, Vallarsi, 1723, pp. ix-x). Per Salìo la colpa del fallimento scenico italiano sarebbe invece interamente da attribuire ai drammaturghi. Nella Confutazione Calepio scorgerà nell’avversario un uomo incapace — al contrario di quanto egli stesso aveva sempre rivendicato di saper fare — di giudicare in maniera equa, guidato da «una cieca prevenzione per gli Antichi, e particolarmente per le Greche Tragedie, dalla cui norma stima sì grave errore il dipartirsi, che non ebbe difficoltà di paragonare con una specie di fanatismo la libertà di filosofare nel proposito de’ Tragici Drammi all’arrogante dispregio della antiche dottrine ch’ebbe ardire di avanzarsi a ferire la stessa religione». Il Salìo dimostrava di avere insomma «uno spirito troppo servile, onde si rende incapace di discernere in che consista la bellezza dell’arte, di cui trattava, non che di aggiungere lumi idonei a perfezionarla» (Pietro Calepio, «Confutazione di molti sentimenti», in Id., Paragone della poesia trgica d’Italia con quella di Francia, Venezia, Zatta, 1770, p. 227).
Sul Rutzvnscad del Valaresso si vedano: Domenico Pietropaolo, «Parodia della tragedia classica e riforma teatrale nel Settecento: il contributo di Zaccaria Valaresso», Revue romane, XXI, 2, 1986, pp. 229-243; Franco Fido, «Parodie settecentesche: “Rutzvanscad il giovine”», L’immagine riflessa, n. s., I, 1992, pp. 267-279; Valeria G. A. Tavazzi, «“Rutzvanscad il giovine” di Zaccaria Valaresso: note sulle edizioni e sulla tradizione manoscritta», Lettere italiane, LXV, 2013, pp. 77-94; Tobia Zanon, «Contro la tragedia. Il “Rutzvanscad il giovine” di Zaccaria Valaresso», InVerbis, VI, 1, 2016, pp. 99-114.
[4.7.2] Il quarto capo si conclude con un doppio paragone riguardante la tenuta scenica delle tragedie: Calepio confronta prima la tragedia greca con quella italiana, affermando che talvolta è superiore quest’ultima; tuttavia anche la migliore tragedia italiana non regge il paragone di quella francese. Ciò che conta per Calepio in questo segmento è la capacità dell’opera teatrale di andare incontro al desiderio degli uditori: come farà nelle Lettere al Bodmer egli mette in primo piano l’aspetto della ricezione considerando la tragedia una scrittura destinata primariamente alla rappresentazione. In questo senso la tragedia francese — sulla base di tutte le argomentazioni riportate in questo capo — riesce superiore tanto alla tragedia greca che a quella italiana.
Calepio preferisce all’Ifigenia in Tauride di Euripide quella di Pier Jacopo Martello, nella quale l’autore, come ammette nel Proemio, rimasto scontento di come l’autore greco aveva trattato l’agnizione di Oreste, si impegna ad allestire un modello rappresentativo più efficace, in cui la riconoscenza viene preparata fin dalle prime battute («Volendo io scrivere Tragedie in lingua Italiana, mi son dato a scorrere i grandi originali di Grecia, e l’Ifigenia in Tauris di Euripide, mi ha innamorato di sua bellezza […]. L’Agnizione d’Ifigenia non può essere né più inaspettata, né più sicura, né più verisimile […]. Ma come che io veneri con la fronte a terra così famoso esemplare, non son per avventura di quegli, che tanto si lasciano opprimere dai gran Nomi, che ne adorini fino i difetti; […] per la parte d’Oreste, che secondo me era la più importante, m’è parso, che l’Uditore non sia per partire soddisfatto», Pier Jacopo Martello, L’Ifigenia in Tauris, in Id., Teatro, vol. II, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1981, p. 425). Un discorso simile vale per l’Alceste: anche in questo caso la versione di Martello è preferibile secondo Calepio a quella di Euripide; il drammaturgo emiliano nella dedica della tragedia ammetteva di essere intervenuto in diversi punti sulla favola greca, levando il personaggio inverosimile della Morte («Primieramente quel suo mescolar fra gli attori reali un personaggio ideale, come la Morte, è cosa troppo inverisimile, ed in conseguenza insoffribile», Pier Jacopo Martello, L’Alceste, in Id., Teatro, vol. II, cit., p. 561), amplificando i tratti essenziali dei caratteri dei protagonisti («I caratteri poi degli attori sono per la maggior parte quelli, che ha avuto in animo di porre in iscena il poeta, ma che io certamente ci ho posti, dipingendoli con colori più vivi, e più atti a farli distinguere al popolo. Perciò troverete, o Madama, il vecchio Fereto avidissimo della vita, Alceste amantissima del marito, Admeto generoso, e grato all’amore mostratogli dalla moglie», ibid.), eliminando l’indecoroso alterco fra padre e figlio («Non troverete già, ch’egli [Admeto] stia mezz’ora insultando suo padre, e rimproverandolo, e quasi minacciandolo, perché non abbia voluto morire per esso lui, come lo troverete in Euripide», ibid.). Martello si configura, nella teoria calepiana, come quell’autore italiano capace di far rivivere le favole tragiche greche senza rimanere troppo servilmente legato alla forma della scrittura tragica antica, sconveniente per un pubblico moderno.
Allo stesso tempo la Merope di Maffei, la quale aveva perso i tratti strutturali più evidenti del modello greco, non contemplando i Cori e prevedendo la divisione in atti e scene, era considerata da Calepio preferibile rispetto a quelle del Liviera e del Torelli, che seguivano sotto questo profilo gli antecedenti classici. Ciò tuttavia non toglie che Maffei fosse identificato a sua volta come un autore che perseguiva un ideale tragico grecheggiante, in quanto nella sua Merope, fondata su di una doppia agnizione, replicava, ma capovolgendolo in direzione di un finale lieto, l’Edipo Re di Sofocle. A questo proposito sarà importante notare che Calepio, smentendo l’opinione con cui Maffei pretendeva di «aver gettato a terra i Francesi» con la sua Merope, sottolineava come la tragedia del Veronese risultasse inferiore a quella di Corneille e di Racine alla prova del palcoscenico.
Capo V.
Dell’osservanza delle regole spettanti a’ costumi.
Articolo I.
[5.1.1] Riaffiora qui uno degli elementi essenziali dell’argomentazione di Calepio, ossia la rivendicazione della sua imparzialità e dell’equilibrio del suo giudizio, non viziato da alcuna deferenza nei confronti della tragedia francese, né dalla partigianeria patriottica per il teatro italiano. Nel quinto capo egli viene trattando del costume, aspetto che i drammaturghi francesi curano con particolare attenzione. Il costume era una delle sei parti essenziali della tragedia elencate da Aristotele nella Poetica (1450a 15-25), ritenuta meno importante della favola, in quanto la tragedia era imitazione di azione e non di uomini («Ma la parte più importante di tutte è la composizione delle azioni. La tragedia infatti è imitazione non di uomini ma di azioni e di un’esistenza, e dunque non è che i personaggi agiscono per rappresentare i costumi, ma a causa delle azioni includono anche i costumi, cosicché le azioni e il racconto costituiscono il fine nella tragedia, e il fine è di tutte le cose quella più importante. Ancora, senza l’azione non ci sarebbe la tragedia, mentre senza i caratteri ci potrebbe essere»).
Nel Cinquecento il dibattito sul costume, in merito al quale le parole di Aristotele avevano dato adito a molti dubbi, si era alimentato di posizioni contrastanti: nella sua traduzione Castelvetro aveva accentuato la natura deliberativa del costume («Hora il costume è tale, che dimostra quale sia l’attione nelle cose nelle quali non è manifesto se il favellatore l’elegga, o rifiuti», Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata et sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1978, p. 182), mentre lo Scaligero e soprattutto il Vossius avevano orientato l’interpretazione del termine in senso prettamente moralistico (Giulio Cesare Scaligero, Poetices libri septem, Vincentium, 1561, pp. 104-108; «A moribus enim dicimur faciles, duri, fortes, timidi, continentes, incontinentes, parci, avari; et ita in aliis proprietatibus animi, quae nos ad agendum bene maleve inclinant», Gerardi Johannis Vossii Poeticarum Institutionum, Amsterdam, Elzevirus, 1640, p. 7). La tradizione esegetica francese rimarrà fedele a questa caratterizzazione morale dell’ήθος aristotelico, tanto che d’Aubignac prescriveva che il drammaturgo facesse dipendere il soggetto della pièce dai costumi del popolo a cui essa veniva rappresentata (François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, p. 72 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 52), e ancora alla fine del Seicento André Dacier chiosava in questo modo la sentenza del filosofo greco: «Les mœurs caractérisent les hommes, et marquent leurs inclinations; bonnes ou mauvaises» (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 85). Meno sbilanciato in questo senso si era mostrato il La Mesnardière, il quale, riprendendo i ragionamenti sulle affezioni di Scaligero, definiva i costumi come le fonti della felicità o dell’infelicità dell’uomo («par le nom des Mœurs, Aristote entend en ce lieu, Ces puissantes inclinations qui contraignent la personne de découvrir par ses maniéres les choses qu’elle a dans l’Ame, et de paroître ce qu’elle est», Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, p. 107).
Calepio, nel ribadire il fatto che i costumi sono elementi secondari rispetto alla favola, sostiene che la tradizione drammaturgica francese abbia fatto talvolta confusione su questo punto, considerando il costume la parte essenziale della tragedia, come dimostrerebbero le parole con cui Saint-Évremond, grande sostenitore dell’impianto oratorio della tragedia corneilliana, si augurava che Corneille componesse una tragedia su Annibale e Scipione per sentire i discorsi meravigliosi che avrebbe messo in bocca a personaggi così maestosi: «Je souhaite de tout mon cœur que Corneille traite le sujet d’Annibal; et s’il y peut faire entrer la conférence qu’il eût avec Scipion avant la Bataille, je m’imagine qu’on leur fera tenir des Discours dignes des plus grands Hommes du monde, comme ils l’étaient» (Saint-Évremond, Lettre à Mr. Le Comte de Lionne, in Id., Œuvres melées, t. II, Amsterdam, Mortier, 1706, p. 287).
Tra Sei e Settecento non erano mancate, sia da parte francese che italiana, le censure al costume delle tragedie italiane: Rapin aveva condannato l’improprietà dei personaggi dei poemi epici italiani («L’Angélique de l’Arioste est trop immodeste, l’Armide du Tasse est trop passionnée: ces deux Poëtes ostent aux femmes leur caractere, qui est la pudeur. Renault est trop mol et efféminé dans l’un, Roland est trop tendre et trop passionné: ces foiblesses ne conviennent pas à des héros: on les dégrade de la noblesse de leur condition, pour les faire badiner», René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique publiée par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 43). Sull’importanza del rispetto del costume si era soffermato anche Gian Vincenzo Gravina nel Della tragedia, laddove, rifacendosi alla Poetica di Aristotele, condannava le moderne tragedie, costruite spesso su costumi chimerici ed incoerenti («Questi sono appunto parte di que’ vizi, che corrono per le novelle nostre tragedie, le quali o non hanno costume umano, ma tutto chimerico, e confondono il sesso, l’età, le nazioni, le professioni, gli stati: cangiando la fantesca in regina, il giovane in vecchio, il romano in spagnuolo, la balia in filosofo, il bifolco in signore, ed al contrario: o pure applicano a tutti il carattere d’una sola nazione», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 520-521). Anche Gorini Corio si pronunciava sulla superiorità degli antichi ai moderni in quanto alla trattazione del costume, ma nel paragone fra le tragedie francesi e quelle italiane su questo punto, a differenza di Calepio, considerava migliori le prime, preferendo la Sofonisba del Trissino, l’Aristodemo di Dottori o l’Astianatte del Gratarolo all’Ifigenia del Racine («In questa parte i Greci sono inarrivabili, ma non sono così tutti coloro che credono d’imitarli. Il Trissino in questa parte è felicissimo, e trovo ben pochi che possano uguagliarlo: nell’Aristodemo pure del Dottori veggo passi di costumi bellissimi, e ne comprendo assai sparsa gran parte delle Tragedie Italiane più che quelle de’ Francesi, i quali ad una Persona abbattuta dalla Fortuna, e vicina a morire faranno dire sentimenti uguali a quelli, che direbbe naturalmente chi fosse esaltato al colmo della gloria, e per ben comprenderne la differenza veggasi la Scena fra Merope, e Policare nell’Aristodemo del Dottori, e quella d’Iffigenia, ed Achille, nell’Iffigenia di Racine, che sono la medesima cosa, ma con quanto maggior costume resti espresso dall’Italiano, che dal Francesi, e così leggansi tutti i Francesi, che non troverranosi mai espressioni più tenere, e di maggior costume di quella di Sofonisba allorchè, o trovasi ai piedi di Massinissa, o vicina alla morte, o di Andromaca nell’Astianatte del Gratarolo, allorchè ella si trova ai piedi di Ulisse per liberare il Figliuolo, in cui vedesi tutta l’imitazione delle tenere, ed incomparabili espressioni dell’Ecuba di Euripide», Giuseppe Gorini Corio, Trattato della perfetta tragedia, in Id., Teatro tragico e comico, Venezia, Albrizzi, 1732, p. 25). Le scene a cui Gorini Corio allude sono la III, 3 nell’Aristodemo e la III, 5 nell’Iphigénie; entrambe rappresentano il vertice patetico delle rispettive opere, in quanto mettono in scena il ricongiungimento degli amanti in procinto di lasciarsi per sempre, a causa del sacrificio imminente a cui stanno andando incontro le due donne.
Articolo II.
[5.2.1] Il primo aspetto del costume che Calepio prende in esame è la moralità dei personaggi, elemento indispensabile all’interno della sua teoria tragica, animata da una speciale attenzione per l’utilità morale della tragedia che deve risultare senz’altro dilettevole al fine di veicolare messaggi positivi per gli spettatori. Sotto questo profilo Calepio si dimostra assai vicino alla posizione del Muratori, come già aveva evidenziato Enrico Mattioda (Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi, 1994, pp. 34-36; p. 119), e al contempo fortemente avverso alle idee di quei critici italiani e francesi che identificavano nel diletto il fine principale della poesia. Egli già aveva condannato in questo senso la posizione di Castelvetro, recentemente rilanciata dal Du Bos; ora se la prende con l’autore del Traité du poème épique, il Père Le Bossu, il quale, proponendo una nuova traduzione del passaggio aristotelico esaminato nel primo articolo del capo (1450a 15-25), aveva dedotto, in profonda rottura con la già illustrata tradizione teorica francese, che quando il filosofo greco parlava della bontà del costume intendesse non la bontà morale, ma piuttosto la bontà poetica («Ce passage n’est pas sans difficulté, je l’aurai peut-être trop altéré en le déterminant à mon sens, mais j’ai mieux aimé lui donner ce sens que de ne lui en donner aucun. Après ce que j’ai dit au chapitre précédent, je ne vois aucune apparence d’attribuer à la morale et à la vertu, cette bonté qu’il faut si exactement observer dans les mœurs des personnes poétiques. Je crois donc qu’il faut entendre cela de la bonté poétique, et c’est ce qu’Aristote veut expliquer quand ensuite il dit que “les mœurs seront dans un discours ou dans une action, si l’action ou si le discours font prévoir quelque inclination, quelque choix et quelque résolution”», Père Le Bossu, Traité du Poëme Epique, Paris, Le Petit, 1675, p. 47).
[5.2.2] Dal punto di vista calepiano la rappresentazione dei costumi è intrinsecamente legata alla qualità morale dei personaggi, argomento già trattato nel primo capo, di cui questi primi articoli del quinto sono una sorta di appendice. Come nel primo capo, anche trattando dei costumi il Bergamasco ritrova un formidabile avversario nel Corneille teorico, autore dei Discours, in cui il drammaturgo assumeva che Aristotele, discorrendo della bontà dei protagonisti, non alludesse al comportamento virtuoso dei personaggi, bensì alla grandezza dei loro caratteri, ai quali andava impressa una maestosità che li rendeva ammirevoli nel bene e nel male agli occhi degli uditori. Riflettendo su di una successiva sezione della Poetica, in cui Aristotele prescriveva che i costumi dei personaggi fossero buoni, convenienti, verosimili e coerenti (1454a 15-30), Corneille si interrogava sul senso dei termini impiegati nella Poetica; allegando anche il parere di Orazio, egli sosteneva che se Aristotele avesse realmente condannato l’introduzione di personaggi poco virtuosi molte delle tragedie greche sarebbero risultate difettose («Aristote leur [les mœurs] prescrit quatre conditions, qu’elles soient bonnes, convenables, semblables, et égales. Ce sont des termes qu’il a si peu expliqués, qu’il nous laisse grand lieu de douter de ce qu’il veut dire. Je ne puis comprendre comment on a voulu entendre par ce mot de “bonnes”, qu’il faut qu’elles soient vertueuses. La plupart des poèmes, tant anciens que modernes, demeureraient en un pitoyable état si l’on en retranchait tout ce qui s’y rencontre de personnages méchants, ou vicieux, ou tachés de quelque faiblesse qui s’accorde mal avec la vertu. Horace a pris soin de décrire en général les mœurs de chaque âge, et leur attribue plus de défauts que de perfections; et quand il nous prescrit de peindre Médée fière et indomptable, Ixion perfide, Achille emporté de colère, […] il ne nous donne pas de grandes vertus à exprimer», Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 129). Secondo Corneille, che attraverso questa lettura partigiana legittima il proprio teatro dell’ammirazione, la bontà di cui parlerebbe Aristotele sarebbe da ricondurre appunto ad una eccezionale brillantezza dell’animo dei protagonisti, siano essi buoni o malvagi: «Il faut donc trouver une bonté compatible avec ces sortes de mœurs; et, s’il m’est permis de dire mes conjectures sur ce qu’Aristote nous demande par là, je crois que c’est le caractère brillant et élevé d’une habitude vertueuse, ou criminelle selon qu’elle est propre, et convenable à la personne qu’on introduit» (ibid.). Calepio contesta questa lettura del testo aristotelico sulla base della distinzione tra generi letterari: la rappresentazione di personaggi grandi e brillanti sarebbe peculiare della poesia epica e non della tragedia, laddove i caratteri devono essere necessariamente mediocri per poter innescare il procedimento catartico. La discussione sull’ammissibilità dei personaggi malvagi nella tragedia si era animata fra Sei e Settecento; se Corneille insisteva sulla meraviglia che anche i malvagi potevano destare negli spettatori, Du Bos e Muratori giustificheranno in modi diversi la possibilità di prevedere l’introduzione dei cattivi nell’impianto tragico. Du Bos ritiene che questi permettano di amplificare il sentimento di pietà e di terrore provati per le sventure dei protagonisti, come accadeva nel Britannicus o nella Phèdre di Racine («Aprés cela je suis très-éloigné de défendre d’introduire des personnages scélérats dans une Tragédie. Le principal dessein de ce Poëme est bien d’exciter en nous la terreur et la compassion pour quelques-uns de ses personnages, mais non pas pour tous ses personnages. Ainsi le Poëte, pour arriver plus certainement à son but, peut exciter en nous d’autres passions qui nous préparent à sentir plus vivement encore les deux qui doivent dominer sur la scène tragique, je veux dire la compassion et la terreur. L’indignation que nous concevons contre Narcisse augmente la compassion et la terreur où nous jettent les malheurs de Britannicus. L’horreur qu’inspirent les discours d’Œnone, nous rend plus sensibles à la malheureuse destinée de Phédre», Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, 7e éd., Paris, Pissot, 1770, t. I, p. 115). Al contrario Muratori riteneva che i malvagi potessero essere sfruttati utilmente a fini morali a patto che le loro azioni fossero costantemente accompagnate dai rimorsi dell’attore e dalla condanna degli altri personaggi («Oltre a ciò si dovranno far riprovare le operazioni de’ malvagi per bocca de gli altri personaggi virtuosi. Se non altro, può farsi vedere il vizioso stesso, combattuto da i rimorsi nell’atto stesso di operar male, e di cadere in qualche follia, poco degna d’un uomo saggio, ed onorato», Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 599).
Ancora diversa era la posizione di Gravina, il quale, invece che tentare di giustificare l’utilità che comportavano i personaggi malvagi, legittimava la possibilità di introdurli, ammettendo che il modello dell’Edipo Re proposto da Aristotele non doveva essere inteso in senso esclusivo, e che nella poetica tragica greca era contemplato l’impiego di protagonisti tanto eccellenti, quanto particolarmente deplorevoli e non solo degli uomini caratterizzati da una «mezza colpevolezza» («Qual varietà d’umani casi, ed insegnamenti, che si vedrebbero in ciascuno di loro scolpiti, rimane ancora esclusa da un altro luogo d’Aristotele; ove indagando la cagione, perchè l’Edipo tanta commiserazione commuova, buona parte di quella trae dal carattere d’Edipo stesso, protagonista, ovvero personaggio principale della tragedia, il quale dal poeta è finto, come già era dato dalle favole, cioè di bonta mediocre. […] Da quai sagge considerazioni poi nasce un’indiscreta ed ingiusta regola, che il protagonista della tragedia debba di bontà mediocre comparire. Né considerano questi satelliti dell’autorità, che vengono a condannare Euripide, il quale, secondo la favola portava, rappresentò non solo i mediocri, come Ifigenia; ma gli ottimi, come Ercole, e i pessimi, come Eteocle […]. E con questa servil prevenzione, con cui stoltamente dannano uno stuolo di maravigliose tragedie, han tolto a’ posteri la facoltà di novelle invenzioni, costringendoli o a ripetere e contraffare le fatte, o a tacere», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 513).
Calepio riprova inoltre il fatto che Corneille rivendichi come auctoritates schierate a suo favore Orazio (Ars Poetica, vv. 158-174) e Aristotele, i quali altro non farebbero che sostenere, nel passaggio evocato dal francese, la necessità di rappresentare i caratteri come la storia o il mito li tramandava.
[5.2.3] Calepio prosegue nell’esame delle affermazioni corneilliane in merito al costume. Il francese, nel seguito della sua argomentazione, riportava un altro passaggio del capitolo della Poetica sui costumi (1454b 9-14), nel quale Aristotele consigliava ai poeti tragici di comportarsi come i pittori («Poichè poi la tragedia è imitazione di uomini migliori di noi, si debbono imitare i buoni ritrattisti, giacché questi, riproducendo la forma propria di ciascuno, nel farlo simile, lo dipingono più bello. Allo stesso modo il poeta, imitando persone iraconde e accidiose e che abbiano qualità simili, pur essendo tali, deve farli nobili», Aristotele, Poetica, a cura di Domenico Pesce, Milano, Bompiani, 2000, pp. 96-97). Corneille, rifacendosi anche alle annotazioni del Robortello, il quale rilevava che ogni genere aveva un grado supremo di bellezza a cui arrivare senza perciò degnerare nella corruzione della sua prima natura («unumquodque genus per se supremos quosdam habet decoris gradus, et absolutissimam recipit formam non tamen degnerans a sua natura, et effigie pristina», Francisci Robortelli Utinensis in librum Aristotelis De Arte Poetica Explicationes, Florentiae, In Officina Laurentii Torrentini Ducalis Typographi, 1548, p. 182), sottolineava come Aristotele prescrivesse in tale frangente che i personaggi dovessero essere «peintes dans un tel degré d’excellence, qu’il s’y rencontre un haut exemplaire d’équité, ou de dureté» (Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 130). Quindi, sotto l’egida del Castelvetro, ammetteva che soltanto il protagonista dovesse essere virtuoso per farsi amare dal pubblico, mentre i suoi antagonisti sarebbero riusciti meglio se fossero stati rappresentati come malvagi («Je trouve dans Castelvetro une troisième explication qui pourrait ne déplaire pas, qui est que cette bonté de mœurs ne regarde que le premier personnage, qui doit toujours se faire aimer, et par conséquent être vertueux, et non pas ceux qui le persécutent, ou le font périr», Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», cit., p. 131). Calepio non può avallare questa interpretazione del testo aristotelico (pure molto fortunata nel Seicento, cfr. Giovanni Laini, Rinascimento europeo, Bienne, Panorama, 1965, pp. 521-522), che fa il gioco di Corneille e di una drammaturgia basata sull’ammirazione e sulla meraviglia; egli quindi subordina il costume al fine della tragedia, insistendo sul fatto che, dovendo i protagonisti essere di virtù mezzana, essi non possono presentare caratteri eccessivamente brillanti o tremendamente viziosi. La spiegazione di Castelvetro, ripresa da Corneille, era stata condannata anche dal Gravina: «Nè può egli intendere de’ costumi buoni del Protagonista, come malamente espone Castelvetro: perché in quella particola si tratta del costume di tutte le persone in generale; essendosi poc’anzi delle qualità del Protagonista diffusamente ragionato», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 521.
[5.2.4] Pur ammettendo che una simile composizione sarebbe stata probabilmente apprezzata dagli spettatori — come dimostra il successo di molte pièces corneilliane fondate su protagonisti meschini —, l’autore ricorda che il diletto deve essere sempre asservito alla ricerca dell’utilità, alla quale va ricondotto il fine stesso dell’arte, come egli affermava nel primo articolo del primo capo. Corneille, nel tentativo di lusingare il gusto del pubblico contemporaneo, sarebbe riuscito invece, secondo Calepio, a rendere amabile il vizio agli occhi degli spettatori. Il drammaturgo francese si era infatti vantato a più riprese di aver saputo rappresentare in maniera ingegnosa e affascinante anche personaggi estremamente viziosi, e il bergamasco registra puntualmente l’affioramento di questi moti d’orgoglio.
Viene ricordato come il tragediografo lodasse il carattere estremamente malvagio, ma capace di affascinare per la sua maestosità il pubblico, di Cléopâtre nella Rodogune («Cléopâtre, dans Rodogune, est très méchante; il n’y a point de parricide qui lui fasse horreur, pourvu qu’il la puisse conserver sur un trône qu’elle préfère à toutes choses, tant son attachement à la domination est violent; mais tous ses crimes sont accompagnés d’une grandeur d’âme qui a quelque chose de si haut, qu’en même temps qu’on déteste ses actions, on admire la source dont elles partent. J’ose dire la même chose du Menteur. Il est hors de doute que c’est une habitude vicieuse que de mentir; mais il débite ses menteries avec une telle présence d’esprit et tant de vivacité, que cette imperfection a bonne grâce en sa personne, et fait confesser aux spectateurs que le talent de mentir ainsi est un vice dont les sots ne sont point capables», Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 129), nonché quello di Marcelle e Placide nella Théodore, considerati ben più efficaci della sbiadita figura della martire protagonista («À le bien examiner, s’il y a quelques caractères vigoureux et animés, comme ceux de Placide et de Marcelle, il y en a de traînants, qui ne peuvent avoir grand charme ni grand feu sur le théâtre. Celui de Théodore est entièrement froid: elle n’a aucune passion qui l’agite […]. Aussi, pour en parler sainement, une vierge et martyre sur un théâtre n’est autre chose qu’un terme qui n’a ni jambes ni bras, et par conséquent point d’action», Pierre Corneille, Théodore, in Id., Œuvres complètes, t. II, cit., p. 271). Il malvagio Placide veniva inoltre considerato da Corneille, al pari del Rodrigue del Cid, un protagonista eccellente secondo i canoni aristotelici («Établissons pour maxime que la perfection de la tragédie consiste bien à exciter de la pitié et de la crainte, par le moyen d’un premier acteur, comme peut faire Rodrigue dans le Cid, et Placide dans Théodore», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», cit., p. 149), cosa che ovviamente Calepio non poteva accettare. Circa la Théodore andrà inoltre menzionata anche l’accusa di immoralità lanciata da Pierre Nicole, esponente di spicco della cultura giansenista, il quale nel suo Traité de la comédie, aveva tentato di dimostrare la radicale e irrimediabile depravazione degli spettacoli teatrali, i quali, per riuscire piacevoli, si mostravano indecenti anche quando versavano su soggetti religiosi; icastico era per lui il caso della Théodore, in cui Corneille metteva in bocca alla Santa sconci pensieri galanti, come accadeva nei passi citati dal teologo giansenista (Théodore, II, 2, vv. 392-394): «C’est pourquoi ceux qui ont voulu introduire des saints et saintes sur le théâtre ont été contraints de les faire paraître fiers et leur mettre dans la bouche des discours plus propres à ces heros de l’ancienne Rome, qu’à des saints et des martyres. Il faut aussi que la dévotion de ces saints de théâtre soit toujours un peu galante. C’est pourquoi la disposition au martyre n’empêche pas la Théodore de Monsieur Corneille de parler en ces termes: “Si mon âme à mes sens était abandonnée,/ Et se laissait conduire à ces impressions/ Que forment en naissant les belles passions”» (Pierre Nicole, Sulla commedia, a cura di Domenico Pesce, Milano, Bompiani, 2003, pp. 102-104). Il pensiero del Bergamasco pare essere condizionato dalle medesime preoccupazioni di ordine morale che attanagliano Nicole, le cui tesi parrebbero in parte filtrare in questi segmenti testuali. Sulla Querelle de Théodore si veda il profilo di Georges Couton, in Pierre Corneille, Œuvres complètes, t. II, cit., pp. 1315-1317.
L’insistenza di Calepio sulla diversità che separa il fine del genere epico — teso a meravigliare con le imprese dei grandi eroi — e di quello tragico — volto invece a purgare attraverso la catarsi — è segno di una concezione di poetica profondamente mutata rispetto all’epoca di Corneille: vengono deliberatamente rigettati gli esiti barocchi della drammaturgia seicentesca, capace di rendere amabile anche il vizio attraverso la propria bellezza retorica, come sosteneva lo stesso tragico francese parlando del Menteur («J’ose dire la même chose du Menteur. Il est hors de doute que c’est une habitude vicieuse que de mentir; mais il débite ses menteries avec une telle présence d’esprit et tant de vivacité, que cette imperfection a bonne grâce en sa personne, et fait confesser aux spectateurs que le talent de mentir ainsi est un vice dont les sots ne sont point capables», Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», cit., p. 129) in nome di un principio distintivo di clarté che riproponeva la centralità dell’utilità morale della letteratura. Su questo punto cfr. Enrico Zucchi, «Il “diletto tragico” e l’“ammirazione accessoria”. In margine alle critiche della tragedia corneilliana mosse nel Paragone di Pietro Calepio», Critica letteraria, XLIV, 170, 2016, pp. 92-112.
[5.2.5] Calepio biasima la gran parte dei caratteri brillanti ma pravi caratteristici del teatro francese: non soltanto la Cléopâtre, protagonista della Rodogune di Corneille, e i crudeli Placide e Marcelle della Théodore, ma anche altre figure rilevanti del teatro francese del Seicento: Cinna, il fidato consigliere di Augusto che nell’omonima tragedia di Pierre Corneille guida una cospirazione contro l’imperatore; il barbaro Attila, protagonista di un’altra tragedia del medesimo, Attila roi des Huns, nella quale viene rappresentato il suo animo spietato: egli tiene in ostaggio la principessa Honorie, sorella dell’imperatore romano Valentiniano, e Ildione, sorella del re dei Franchi Méroüé, con i rispettivi amanti, al fine di mettere in ginocchio le due potenze avversarie; infine Stilicon, eroe eponimo della tragedia di Thomas Corneille (1660), uomo forte dell’impero romano e padre di Thermantie, moglie dell’imperatore Honorius, che si risente molto quando la sorella del genero, Placidie, rifiuta brutalmente di sposare Euchérius, suo secondo figlio e favorito dell’imperatore, in quanto non lo ritiene alla sua altezza. Stilicon medita così un piano di vendetta che alla fine non si realizzerà, ma porterà soltanto alla morte di Euchérius, creduto il vero responsabile della congiura, e al suicidio del disperato protagonista.
Della drammaturgia francese egli salva però Racine, meritevole di aver scelto per le sue tragedie dei protagonisti quasi sempre virtuosi; se nei casi sopraccitati infatti il personaggio scellerato è anche il protagonista della vicenda, in cui si rappresentano i suoi ingegnosi misfatti, nella tragedia raciniana gli antagonisti erano caratteri secondari, utili ad amplificare il sentimento di compassione nei confronti del protagonista perseguitato, come nota d’altra parte lo stesso Du Bos, pronto ad ammettere l’utilità di questi cattivi in scena, purché fossero trattati secondo la via raciniana, come avveniva per il Narcisse del Britannicus, oppure per Œnone nella Phèdre («Il ne faut point encore que le principal intérêt de la piéce tombe sur les personnages de scélérats. Le personnage d’un scélérat ne doit point être capable d’intéresser par lui-même; ainsi le spectateur ne sçauroit pas prendre part à ses aventures, qu’autant que ces aventures seront les incidens d’un événement où des personnages d’un autre caractère auront un grand intérêt. Qui fait attention à la mort de Narcisse dans Britannicus?», Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, 7e éd., Paris, Pissot, 1770, t. I, p. 122).
Nella seconda parte del paragrafo Calepio si impegna a dimostrare l’infondatezza di un altro passaggio del Discours de la tragédie di Corneille, nel quale il drammaturgo francese, mettendo in dubbio la validità della catarsi, assumeva che Aristotele e i tragici greci dovessero ridursi a mettere in atto quell’immaginario processo di purgazione perché, da pagani, non avevano la contezza che la letteratura potesse veicolare un altro tipo di utilità morale, rappresentando la punizione dei malvagi e la ricompensa dei virtuosi («Le fruit qui peut naître des impressions que fait la force de l’exemple lui [Aristote] manquait; la punition des méchantes actions, et la récompense des bonnes, n’étaient pas de l’usage de son siècle, comme nous les avons rendues de celui du nôtre; et n’y pouvant trouver une utilité solide, hors celle des sentences et des discours didactiques, dont la tragédie se peut passer selon son avis, il en a substitué une qui peut-être n’est qu’imaginaire», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 146). Secondo il Bergamasco la supposizione di Corneille è falsa, in quanto nella letteratura antica non mancano esempi di una concezione del valore etico della poesia slegato dalla nozione di catarsi. Oltre agli esempi che si ricavano dalla lettura delle stesse tragedie greche, il Bergamasco richiama le famose parole con cui Seneca ricordava l’astio con cui gli spettatori dell’epoca avevano accolto la rappresentazione delle azioni malvagie di Bellerofonte, protagonista di una tragedia di Euripide («Cum hi novissimi versus in tragoedia Euripidis pronuntiati essent, totus populus ad eiciendum et actorem et carmen consurrexit uno impetu, donec Euripides in medium ipse prosilivit petens ut expectarent viderentque quem admirator auri exitum faceret. Dabat in illa fabula poenas Bellerophontes quas in sua quisque dat», Seneca, Epistulae Morales Ad Lucilium, Liber XIX, 115, 15). Il brano era molto famoso all’epoca, e viene citato anche dal Carmeli nella sua celebre traduzione dell’intero corpus euripideo, cfr. Euripidou Apospasmatia, kai epistolai. Frammenti ed epistole di Euripide, t. XX, Padova, Stamperia del Seminario, 1754, p. 69. Calepio menziona inoltre uno degli Opuscoli di Plutarco — a cui già si rifaceva nell’Apologia di Sofocle —, nel quale l’autore greco ricordava come Euripide impiegasse nella sua tragedia il malvagio Issione soltanto al fine di farlo poi condannare severamente («Si racconta aver risposto Euripide a coloro, i quali riprendevano Issione, come empio e scellerato: “non prima fuori della scena lo trassi, che fu confitto alla ruota”», Plutarco, Come debba il giovane udir le poesie, in Id., Opuscoli volgarizzati da Marcello Adriani, I, Milano, Sonzogno, 1825, p. 49).
Sull’Attila di Thomas Corneille ed in particolare su come l’autore sviluppi qui la tematica galante e amorosa si veda Magali Brunel, «Stilicon de Thomas Corneille: du récit de la cruauté au plaisir galant de l’ingéniosité», Littératures classiques, LXXVII, 1, 2012, pp. 213-228.
[5.2.6] Rispetto all’opinione di Corneille, il quale ipotizzava che nella Poetica di Aristotele e nelle tragedie greche non venisse contemplata la possibilità di sfruttare l’esempio fornito dai protagonisti per istruire il pubblico sotto il profilo etico («Le fruit qui peut naître des impressions que fait la force de l’exemple lui [Aristote] manquait», Pierre Corneille, «Discours de la tragédie», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 146), Calepio si trova in profondo disaccordo: rivendica infatti l’esemplarità di alcuni personaggi della tragedia greca, e in particolare Edipo, archetipo del buon sovrano, e Antigone, principessa pia e coraggiosa, protagonisti di due tragedie sofoclee. Per quanto riguarda Edipo, Calepio riprende le argomentazioni già sostenute contro l’opinione di Voltaire nella giovanile Apologia di Sofocle. Il Francese, affidandosi alla traduzione di André Dacier della battuta con cui Edipo entrava in scena («Je n’ai envoyé personne vous demander le sujet de vôtre affliction, je suis venu l’apprendre moy-même, moy Œdipe, si celebre par tout le monde», [André Dacier], L’Œdipe et l’Electre de Sophocle. Tragedies grecques. Traduites en François avec des Remarques, Paris, Barbin, 1692, p. 4), criticava l’eccessiva ingenuità del sovrano nel presentarsi al popolo tebano sofferente (Voltaire, «Troisième lettre contenant la critique de l’Œdipe de Sophocle», in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, pp. 334-336), rivelando il suo carattere orgoglioso, sul quale aveva insistito lo stesso Dacier («Sophocle fait ici deux choses; il satisfait à l’impatience du spectateur qui souhaite de savoir le nom de celui qui parle, et il commence à découvrir une partie du caractére d’Œdipe, qui est son orgueil», L’Œdipe et l’Electre de Sophocle, cit., p. 153), ansioso di caricare Edipo di qualche difetto per renderlo un eroe mediocre, secondo il dettato di Aristotele. Al contrario, già in quella sede, Calepio, riprovando la traduzione di Dacier, rilevava il carattere magnanimo dell’Edipo sofocleo, tanto sensibile da andare in prima persona a consolare i sudditi («Quindi è ch’egli non viene in scena a gloriarsi fuori di proposito, ma piglia occasione dagli applausi fattigli di mostrare l’umanità sua», Pietro Calepio, L’Apologia di Sofocle, in Mario Scotti, «L’“Apologia di Sofocle” di P. de’ Conti Calepio», Giornale storico della letteratura italiana, CXXXIX, 427, 1962, p. 403). La lettura di Calepio entrava dunque in netto contrasto con la tradizione seicentesca dell’Edipo tiranno — messo in scena ad esempio dal Tesauro —, presentando al contrario Edipo come un sovrano buono e generoso.
Benché, per confutare l’affermazione di Corneille, Calepio si impegni a mostrare che non mancano personaggi esemplari nella tragedia greca, egli si premura di specificare che non è attraverso l’esempio che il teatro dovrebbe raggiungere la propria utilità, dal momento che questa modalità è propria dell’epica, come dimostra l’Ulisse di Omero, additato da Orazio a personaggio esemplare nel passo delle epistole citato a testo (Epistulae, I, 2, vv. 17-18). Ancor più esemplare di Ulisse sarebbe, secondo le considerazioni tradizionali che Calepio riprende, il pio Enea del poema virgiliano. A tal proposito vengono riferite le affermazioni di Scaligero secondo il quale nessun filosofo potrebbe stabilire precetti morali migliori o più utili di quelli offerti da Virgilio. La citazione è in realtà tratta dal III libro della Poetica — non dal II, come indica la nota di Calepio —, al capo XX, dedicato ai costumi (Mores), ed è in origine leggermente differente rispetto al testo riportato nel Paragone: «Nullis profecto philosophorum praeceptis aut melior aut civilior evadere potes quam ex Vergiliana lectione» (Giulio Cesare Scaligero, Poetices libri septem, Vincentium, 1561, p. 104).
[5.2.7] Si situa qui uno dei passaggi più importanti del Paragone, nel quale Calepio rivendica sia la peculiarità del genere tragico — che nulla ha a che fare con la rappresentazione di personaggi esemplari, compito della poesia epica, ma deve far nascere nello spettatore un sentimento di pietà e di terrore nei confronti dei casi del protagonista —, sia la condanna del teatro francese seicentesco, di cui viene biasimata la costruzione meravigliosa e al fondo barocca. Calepio dimostra una sensibilità prettamente settecentesca nello schierarsi contro la ricerca di un θαυμάζειν che, anziché venire limitato all’interno dei limiti della peripezia, diventava un tratto fondamentale dell’architettura dell’intero dramma al quale il poeta affidava il proprio successo. Lo spostamento della tragedia verso l’epica, che aveva prodotto in particolare Pierre Corneille con la sua drammaturgia della meraviglia e dell’ammirazione, comportava il fallimento del progetto drammaturgico in cui credeva il Calepio: nella sua prospettiva lo spettatore non doveva rimanere stupito e ammaliato, assistendo alla rappresentazione dei casi dei personaggi in maniera esclusivamente passiva; egli doveva cooperare attivamente alla riuscita del dramma — secondo un procedimento che sarà caldeggiato anche dal Lessing — esercitando attivamente il proprio sentimento di compassione nei confronti dei miseri rappresentati, così da raggiungere quella purgazione in cui constava l’utile della tragedia.
Sarà inoltre utile notare come l’imposizione di una rigida separazione delle prerogative dei generi letterari e dei mezzi attraverso cui raggiungere il proprio fine risponda ad una sensibilità profondamente diversa rispetto a quella che aveva animato l’operazione teorico-letteraria di Crescimbeni, il quale, nella Bellezza della volgar poesia, postulava un ibridismo che procedeva dalla multiforme capacità del genere lirico di essere declinato secondo ogni prospettiva stilistica. A tal proposito rimando al mio «Generi e stili in Arcadia: lo statuto del lirico ne La Bellezza della Volgar Poesia di Crescimbeni», Seicento e Settecento, X, 2015, pp. 109-126.
[5.2.8] Ancora una volta Calepio introduce una netta distinzione di giudizio fra Corneille e Racine: se il primo, con i suoi drammi eroici, aveva profondamente frainteso il vero senso della poesia tragica, Racine si era guardato dal calare i protagonisti delle proprie pièces in una dimensione eroica inappropriata. Il Bergamsco, riprendendo il ben noto parallèle inserito nei Caractères del La Bruyère, secondo cui Corneille raffigurava gli uomini come avrebbero dovuto essere, mentre Racine li rappresentava come in realtà erano («Si cependant il est permis de faire entre eux [Corneille et Racine] quelque comparaison, et les marquer l’un et l’autre par ce qu’ils ont de plus propre, et par ce qui éclate le plus ordinairement dans leurs ouvrages, peut-être qu’on pourrait parler ainsi: Corneille nous assujettit à ses caractères et à ses idées; Racine se conforme aux nôtres: celui-là peint les hommes comme ils devraient être, celui-ci les peint tels qu’ils sont. Il y a plus dans le premier de ce que l’on admire, et de ce que l’on doit même imiter: il y a plus dans le second de ce que l’on reconnaît dans les autres, ou de ce que l’on éprouve dans soi-même. L’un élève, étonne, maîtrise, instruit: l’autre plaît, remue, touche, pénètre», Jean de La Bruyère, Œuvres complètes, texte établi par Julien Benda, Paris, Gallimard, 1951, pp. 103-105), sosteneva che al contrario, se Racine metteva effettivamente in scena le debolezze reali delle persone, Corneille le dipingeva in modo irreale, proiettandole in un orizzonte reale che non appartiene alla dimensione umana. Questa deroga al criterio del verosimile e al fondamento del genere tragico non poteva essere apprezzata da un uomo della mentalità e della cultura di Calepio. L’eccessiva brillantezza dei caratteri comprometterebbe talvolta, secondo Calepio, l’esito stesso di alcuni drammi: il tratteggiare Sophonisbe come un’eroina insensibile all’amore coniugale e incline a maltrattare il marito perché interessata soltanto alla vicenda politica del suo regno, la rende agli occhi del pubblico meno degna di compassione, guastando quell’utile che è proprio della tragedia. Al confronto viene ritenuta migliore la Sophonisbe (1634) di Jean Mairet, dove Sofonisba è sinceramente innamorata di Massinissa e in diverse scene esibisce il proprio trasporto. Anche il paragone fra l’Horace di Corneille, nel quale il protagonista è freddo ed insensibile, e l’Orazia di Aretino, vede il drammaturgo francese perdente; questo stesso confronto era stato già proposto nel Paragone da Calepio, insistendo allora sui difetti del personaggio di Horace, incapace, a differenza di Sabine e di Camille, di destare nel pubblico la minima compassione (cfr. Paragone I, 4, [4]).
La fortuna del fugace confronto del La Bruyère, ispirato peraltro al giudizio precedente di Longepierre («Chez M. Corneille l’esprit du spectateur s’élève avec satisfaction en même temps que celui du poète. Il est charmé de prendre un essor si impétueux et de s’élever ainsi au-dessus de lui-même; toujours dans le mouvement, toujours dans la surprise, toujours dans l’admiration», Hilaire-Bernard de Longepierre, «Parallèle de Monsieur Corneille et de Monsieur Racine» [1686], in Id., Médée. Tragédie, publié avec une introduction et des notes par E. Minel, Paris, H. Champion, 2000, p. 170), è notevole e duratura: fra Sei e Settecento è tipica la distinzione fra un Corneille eroico e un Racine «tendre» e sostanzialmente lirico.
[5.2.9] Al termine di questa lunga requisitoria contro l’inadeguatezza del costume di alcuni protagonisti dell’opera corneilliana, Calepio non trascura di riconoscere la generale abilità dei tragici francesi nel rendere i propri personaggi compassionevoli, anche manomettendo la natura del soggetto, al fine di rendere più o meno colpevoli i propri eroi. Egli quindi loda la risoluzione con la quale l’Antiocus della Rodogune veniva conservato innocente fino alla fine, senza macchiarsi del matricidio che il racconto storico di Appiano alessandrino gli attribuiva (Corneille ammetteva di aver «adouci» il carattere di Antiocus rispetto al personaggio storico, cfr. Pierre Corneille, Rodogune, Id., Œuvres complètes, t. II, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 199). Di certo questa tragedia, tanto vituperata dal Maffei nelle Osservazioni sopra la Rodoguna e dallo stesso Calepio nelle pagine del Paragone, aveva esercitato il suo ambiguo fascino sul Bergamasco, il quale nella sua tragedia non finita, il Seleuco, dimostra di riprendere chiaramente il modello della Rodogune, e di ispirarsi, per il suo protagonista, al carattere di Séleucus, figlio giusto di una madre degenere.
Il tema della fedeltà alla storia nello sviluppo dei soggetti tragici era particolarmente spinoso, soprattutto in Francia, tra Sei e Settecento. Nel trattare del rapporto fra storia e poesia Aristotele aveva raccomandato che la poesia mantenesse la propria libertà, rivendicando il fatto che essa si basava sul verosimile e non sul vero e che aveva un carattere universale, a differenza della storia che trattava del particolare (1451b 5-10). Nel Seicento tuttavia questo passaggio veniva messo a confronto con una successiva postilla della Poetica, apparentemente in conflitto con il brano precedentemente citato, in cui l’autore raccomandava di non mutare la favola qualora il soggetto fosse tratto dai miti tradizionali (1453b 22-25). La Mesnardière nella sua Poétique tentava di concordare questi due passi proponendo una lettura tuttavia piuttosto restrittiva, che di fatto riduceva enormemente la possibilità del poeta di intervenire sul soggetto che proveniva dalla storia («Pour accorder ces deux passages, qui semblent estre opposez, il faut entendre qu’Aristote donne la licence au Poëte de ne pas s’attacher si fort aux particularitez de l’Avanture qu’il expose, […] Mais qu’en revanche il ne veut pas qu’il prenne la liberté d’altérer les Fables connuës, en corrompant les Incidens qui sont de grande importance», Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, p. 31); poco più avanti egli arrivava a prescrivere che la favola drammatica rassomigliasse così da vicino alla storia da non permettere che si notassero diversità («Ceci doibt apprendre aux Poëtes que la Fable bien conduite ressemble si fort à l’Histoire, qu’il n’y a rien à dire entre elles, hormis la seule vérité», ivi, p. 45). Questa ossessione per il rispetto della storia si riflette nella drammaturgia dell’epoca: sono moltissime, nelle tragedie dell’epoca, le Préfaces nelle quali gli autori si profondono a certificare l’ortodossia del proprio racconto rispetto alla storia, oppure a giustificarne ogni minima alterazione. Il dibattito attorno a questo punto è molto acceso, e uno dei documenti più importanti della polemica è senz’altro costituito dalla lettera di Prospero Bonarelli ad Antonio Bruni posta in testa al Solimano, nella quale il poeta insiste sulla differenza fra storia e poesia («Si dubita dunque da V[ostra] S[ignoria] per quanto ella mi scrive, ch’essendo stati particolarizzati i mezzi della morte di Mustafà da Natale Conti, e d’alcun’altro, essa morte non possa essere buon soggetto tragico; imperòche l’uomo componendo tragedia d’un fatto con gli stessi mezzi, con che altri ne scrissero la storia, l’opera mancando della favola, diverrà storia, e non poema, e se quelli vorrà variare, come l’ho fatt’io, perderà il credibile tanto necessario al poeta, scoprendosi a un tratto falsificator della storia. Dico adunque che per dare a questo dubbio bene aggiustata risposta, giudicherei necessario distinguere i mezzi, le storie, gli storici, e il credibile. O direi, ch’i mezzi sono di due maniere, altri sono contra historiam; altri praeter historiam: o pur diciamo, altri sono quelli che necessariamente son tali per cavarne l’universale, che non può cangiarsi, altri son quelli, che non è necessario esser tali per conseguire l’universale supposito; quelli che son necessari non può il poeta mutare, perché diverrebbono contra historiam, ma quelli che non son necessari, e che però solamente son praeter historiam, crederei ch’ei potesse cangiare», cfr. l’edizione commentata di Prospero Bonarelli, Lettera al Signor Antonio Bruni, a cura di Enrica Zanin, site IdT — Les Idées du théâtre). La lettera del Bonarelli diventa un contributo autorevole al quale spesso si richiamano i drammaturghi dell’epoca per giustificare le deroghe dei propri soggetti rispetto ai fatti storici: ne è un esempio la Préface di Jean Mairet alla sua Sophonisbe (cfr. l’edizione digitale curata da Bénédicte Louvat-Molozay, site IdT — Les Idées du théâtre).
Un’altra difesa rilevante della possibilità da parte dei poeti di alterare il racconto storico si trovava nella Pratique du théâtre di d’Aubignac; questi, nel capitolo intitolato Du sujet, considerava lecita ogni trasgressione rispetto alla storia, purché la favola ne guadagnasse («On demande encore ordinairement en cette matiere, jusqu’à quel point il est permis au Poëte de changer une Histoire quand il la veut mettre sur le Theatre. Surquoi nous trouvons divers avis, tant chez les Anciens, que chez les modernes; mais je tiens pour moi qu’il le peut faire non seulement aux circonstances, mais encore en la principale action, pourvu qu’il fasse un beau Poëme […] et c’est une pensée bien ridicule d’aller au Theatre apprendre l’Histoire» (François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, pp. 67-68 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 58]). Talora le rivendicazioni della libertà dei drammaturghi sono anche accompagnate dal rinvio all’autorità degli antichi, a loro volta adusi ad alterare le narrazioni storiche, come dimostra il Ghirardelli citando svariati esempi di soggetti poetici difformi in qualche punto dalla storia o dal mito, tratti da Omero, Eschilo, Euripide, Seneca e Stazio (Giovanni Battista Filippo Ghirardelli, «Difesa del Costantino», in Id., Il Costantino. Tragedia, Roma, Andreoli, 1660, pp. 110-112). Ciò nondimeno la preoccupazione per il rispetto della verità storica nei drammi è destinata a protrarsi a lungo tra Sei e Settecento. Se Corneille si sofferma abitualmente, negli Examens, sull’ortodossia del suo soggetto in rapporto alla storia, Racine si mostra più sbrigativo nel giustificare le licenze che si era preso; nella Préface del Bajazet egli si limita infatti a scrivere che aveva modificato in alcuni punti il soggetto storico, ma considerando tali cambiamenti inessenziali, non ritiene neppure opportuno segnalarli al lettore («J’ai été obligé pour cela de changer quelques circonstances. Mais comme ce changement n’est pas fort considérable, je ne pense pas aussi qu’il soit nécessaire de le marquer au lecteur», Jean Racine, Bajazet, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 559). Ancora Du Bos tornava sul tema ammettendo che, sebbene non fossero ammissibili grossolani interventi in caso di storie conosciute, si dovesse conservare la più assoluta libertà nel caso di cambiamenti inseriti all’interno di soggetti poco noti o di aspetti di scarsa importanza («Je crois donc qu’un Poëte tragique va contre son Art, quand il péche trop grossiérement contre l’Histoire, la Chronologie et la Géographie, en avançant des faits qui sont démentis par ces Sciences. […] Ce que je dis ne doit pas s’entendre des faits de peu importance, et conséquemment peu connus», Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, 7e éd., Paris, Pissot, 1770, t. I, pp. 255-256). Il Muratori invece raccomanda che, nel caso in cui ci si allontani dalla storia, si inseriscano elementi che non venivano contemplati nel racconto di riferimento, piuttosto che variare i dati storici («In una parola: per meglio assicurarsi di far comparir possibili, e verisimili le Poetiche finzioni, la via sicura è quella di fingere fuor della Storia, e della Fama. Cioè aggiungere alla Verità, non corrompere la Verità; e finger cose, o avvenimenti, de’ quali positivamente non parli in contrario qualche Storia nota, o la tradizione ben fondata», Ludovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. I, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 133).
In generale, sul rapporto fra tragedia e storia in Francia tra Cinque e Settecento, e in particolare sulla scelta di soggetti tratti dalla storia moderna, si rimanda al contributo di Kirsten Postert, Tragédie historique ou histoire en tragédie? Les sujets d’histoire moderne dans la tragédie française (1550-1715), Tübingen, Narr, 2010.
[5.2.10] Anche in questo paragrafo il problema che l’autore si pone rimane quello già affrontato precedentemente, ossia se sia lecito o meno modificare la storia nello sviluppo dell’intreccio tragico. Se Calepio in generale ammette l’intervento dell’autore anche in contrasto con i resoconti storici, egli si mostra ben meno permissivo nel caso in cui il soggetto sia tratto dalla storia sacra. Egli condanna l’Absalon di Duché nel quale il personaggio odioso di Absalon, dipinto dalla storia sacra come un fratricida subdolo e un sedizioso, capace di ingraziarsi il re Davide per poi sollevare una rivolta contro di lui, viene addolcito dal drammaturgo, spinto dall’osservanza della Poetica di Aristotele a figurare un protagonista degno di compassione piuttosto che un uomo assolutamente crudele («Je ne m’arrêterai donc qu’à répondre aux objections que l’on me pourrait faire sur les libertés que j’ai cru pouvoir me donner en traitant ce sujet. Telle est celle que je prends d’adoucir le caractère d’Absalon. […] Un caractère si odieux, ne pouvait être celui du héros d’une tragédie. J’ai pensé qu’il m’était permis de le déguiser, et de tourner toute l’indignation des spectateurs contre Achitophel, qui d’ailleurs l’aurait suffisamment méritée. J’ai fait faire à Absalon les mêmes choses que l’Histoire sacrée nous rapporte qu’il fit; mais je les lui ai fait faire, séduit par ce ministre», Joseph-François Duché de Vancy, «Préface», in Id., Absalon, Tragédie, Tirée de l’Ecriture Sainte, Amsterdam, Roger, 1713, p. n.n.). Non diversamente il Duché si era comportato nell’altra sua tragedia religiosa, il Jonathas, nella cui Préface aveva affermato di aver rispettato scrupolosamente la storia offertagli dal primo libro dei Re, salvo qualche modifica utile a rendere il testo più nobile e a presentare Jonathas come colpevole del castigo divino che sarebbe parso altrimenti immeritato («Voilà l’histoire de ma pièce. Je n’ai conservé les traits essentiels avec cette exactitude et ce respect que l’on doit aux Livres saints. J’ai seulement fait agir Samuel qui ne paraît pas avoir été présent à cette action, et j’ai cru qu’il était plus noble de faire entrer ce prophète sur la scène qu’un simple sacrificateur […]. Une des difficultés qui m’a fait le plus de peine à surmonter a été d’éclarcir le péché commis par Jonathas. Il ne paraît pas, selon la justice humaine, qu’il soit coupable. Il ignore l’ordre de son père, cette raison seule semble le disculper aux yeux des hommes et le danger de mort dans lequel il se trouve, au lieu d’exciter la compassion et la terreur qui font l’effet de la tragédie, semble ne devoir que révolter l’esprit […]. Il a donc fallu chercher la véritable cause des malheurs de Jonathas, et tâcher d’en trouver une partie dans ses faiblesses; […] la circonstance sur laquelle j’ai appuyé le plus, et qui rend Jonathas véritablement coupable, c’est son murmure contre l’ordre de Saul», Joseph-François Duché de Vancy, «Préface», in Id., Jonathas, Tragédie, Tirée de l’Ecriture Sainte, Amsterdam, Roger, 1703, p. n.n.).
La questione della possibilità di mettere in scena tragedie il cui soggetto era tratto dalla Sacra Scrittura è in generale piuttosto spinoso lungo tutto il Seicento; non a caso d’Aubignac ne sottolineava i limiti, raccomandando in sostanza di preferire altri tipi di intreccio («C’est à mon avis par cette raison, que les Tragédies tirées de l’histoire Sainte, sont les moins agréables; tous les discours pathétiques en sont fondez sur des vertus peu conformes aux regles de nôtre vie; joint qu’il n’est pas étrange que ne souffrant qu’à peine la dévotion dans les Temples, nous la chassions des Theatres», François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, p. 340 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 305-306]). Per ovviare ad eventuali imbarazzi e permettere una qualche libertà al drammaturgo che intendesse avventurarsi nel campo della tragedia di argomento sacro, Corneille aveva da parte sua esplicitato una distinzione importante fra tragedia biblica, il cui soggetto non poteva essere in nessun punto alterato in quanto fondato sulla Sacra Scrittura, e tragedia cristiana, di argomento agiografico, la cui favola poteva essere in qualche misura manipolata in quanto non era ricavata direttamente dalla Bibbia. Il drammaturgo francese introduceva questa postilla nell’Examen del Polyeucte per giustificare il fatto che egli avesse aggiunto di sua iniziativa alla favola elementi che non appartenevano alla storia («Nous ne devons qu’une croyance pieuse à la vie des saints, et nous avons le même droit sur ce que nous en tirons pour le porter sur le théâtre que sur ce que nous empruntons des autres histoires. Mais nous devons une foi chrétienne et indispensable à tout ce qui est dans la Bible, qui ne nous laisse aucune liberté d’y rien changer. J’estime toutefois qu’il ne nous est pas défendu d’y ajouter quelque chose, pourvu qu’il ne détruise rien de ces vérités dictées par le Saint-Esprit», Pierre Corneille, «Examen de Polyeucte», in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 979). In questa occasione egli richiama inoltre una filiera di testi che costituirà in qualche modo l’archetipo della tragedia sacra e che verrà, almeno in parte, puntualmente citata ogni qual volta si riprenda l’argomento: oltre all’autorità teorica del Minturno del De poeta, vengono menzionate le tragedie di Heinsius (Herodes Infanticida, 1632), Grozio (Christus patiens, 1626; Sophompaneas, 1632), e di George Buchanan (Jephtes, 1554; Baptistes, 1557). In particolare lo Jephtes di Buchanan viene citato in continuazione, come dimostra anche il fatto che a questa tragedia Crescimbeni dedicasse molto spazio all’inizio del sesto dialogo della sua Bellezza della volgar poesia. Nel dialogo il Custode d’Arcadia, riprendendo le argomentazioni dello stesso Heinsius (Daniel Heinsius, De Constitutione Tragœdiæ, dite «La Poétique d’Heinsius», édition, traduction et notes par Anne Duprat, Genève, Droz, 2001, pp. 299-303), sosteneva che il Buchanan avesse alterato diverse circostanze della storia sacra da cui traeva la favola; ad esempio egli «fa morir la Figliuola di Giefte nel giorno medesimo, che dal padre vien condannata, quando la Sacra Scrittura dice, che tra la condannagione e la morte, corsero due mesi» (Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, p. 104). A partire da questa considerazione egli affrontava il problema del rapporto fra storia e poesia ammettendo che, sebbene «quando il Poeta si vale dell’istoria nel formar le sue favole, non v’[h]a dubbio alcuno, ch’egli gode amplissima facultà di variarla, mutarla, e alterarla anche nella sustanza», qualora avesse deciso di rifarsi per il suo soggetto alla storia sacra, la sua libertà sarebbe drasticamente venuta meno. Essendo infatti la Bibbia «dettata dallo Spirito Santo, in ogni sua parte, e in tutto ciò, che riferisce, è infallibile» (ivi, p. 106). Ogni possibilità di alterazione veniva quindi di fatto negata. Calepio si trova perfettamente d’accordo con il Crescimbeni che appare con qualche certezza fornire l’ipotesto al passaggio del Paragone in questione. Il Bergamasco, che al contrario apprezza il rispetto della storia sacra con cui Racine ha trattato la favola dell’Esther, lancia i suoi strali anche contro il De Partu Virginis di Sannazaro, oggetto già della critica di Scaligero, il quale screditava la commistione fra muse e angeli (Giulio Cesare Scaligero, Poetices libri septem, Vincentium, 1561, p. 313), ma riabilitato nel Settecento da Gravina, il quale nella Ragion poetica celebrava il passaggio delle Muse, rappresentato dal Sannazzaro, «dal vil servizio de i Numi vani del Gentilesimo venire al culto della vera Divinità» (Gian Vincenzo Gravina, «Della ragion poetica», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 265).
Con il Calepio si schiera invece il Quadrio, il quale si esprimeva in questi termini, riproponendo il divieto di partirsi dal racconto della storia sacra nelle favole bibliche: «Di essi [degli angeli], e di tutti generalmente i Numi celesti, e delle cose tutte della Cristiana Religion nostra non si poeterà giammai, che secondo il vero, e con dignità, e con decoro. Nel che mancò senza alcuna dubitazione Iacopo Sannazzaro, allora quando nel suo Parto della Vergine finse che l’ArcAngelo Gabriele, per discendere a portar la sua ambasciata, chiamasse in aiuto gli Zefiri; che Maria in mano tenesse all’arrivo di lui i Libri Sibillini; che Davide nel profetare travolgesse gli occhi, quasi da insano furor compreso; e quel, ch’è peggio, che la madre stessa di Dio, idea di costanza, alla veduta del suo figliuol crocifisso, quasi forsennata, tutto l’aere empiendo di stravaganti ululati, co’ capegli sparsi chiamasse la terra empia e crudele, crudeli le stelle, e crudele sè stessa, che tali piaghe mirar con gli occhi potesse» (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia, vol. I, Bologna, Pisarri, 1739, pp. 364-365).
Sulla polemica cinquecentesca intorno al De Partu Virginis si veda il contributo di Marc Deramaix, «“Mendax ad caetera Proteus”. Le mythe virgilien de Protée et la théologie poétique dans l’œuvre de Sannazar», in Il sacro nel Rinascimento, Atti del XII Convegno Internazionale (Chianchiano-Pienza, 17-20 luglio 2000), a cura di Luisa Rotondi Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 2002, pp. 87-106.
[5.2.11] In chiusura di articolo l’autore ritorna sul problema della rappresentabilità dei caratteri malvagi, ma affrontandolo in relazione ai personaggi secondari e non ai protagonisti. Osservando la tragedia francese egli trova inadeguata l’introduzione dei cattivi ingiustificata dal soggetto storico, sulla scorta di ciò che aveva peraltro prescritto Aristotele nella Poetica, condannando il personaggio di Menelao dell’Oreste di Euripide (1454a 29). Questo difetto, tipico della drammaturgia di Corneille, che aveva bisogno di malvagi per far risplendere in controluce l’innocenza e la virtù del protagonista, si presenterebbe nelle tragedie di molti suoi connazionali, a partire da François-Michel-Chrétien Deschamps, impegnato prima nella carriera militare e poi nella finanza, il quale aveva debuttato sulla scena con il Caton d’Utique (1715), unica delle sue pièces a godere di una qualche fortuna, a differenza delle successive (Antiochus et Cléopâtre, 1717; Artaxerxès, 1735; Mèduse, 1739). Il suo Caton entrava direttamente in competizione con il Cato di Addison (1712) — la prima edizione della tragedia era accompagnata da un Parallèle des deux tragédies du Caton che vedeva Deschamps vincente —, garantendosi una precoce traduzione inglese (1716) e una certa attenzione nel dibattito letterario internazionale dell’epoca, complici la traduzione italiana del Cato ad opera di Anton Maria Salvini (1725), e il rifacimento tedesco della tragedia ad opera di Johann Christoph Gottsched (Der sterbende Cato, 1732). Nella Préface, Deschamps, dopo aver constatato che il soggetto storico di Plutarco non gli dava abbastanza materiale per riempire la tragedia senza ricorrere all’invenzione, elenca i numerosi cambiamenti introdotti nella vicenda storica, fra cui l’aver dato vita al personaggio malvagio di Pharnace, che poco aveva a che fare con la vicenda di Catone, ma era utile a dare le mosse alla catastrofe («J’ai cru qu’il était à propos que le personnage sur qui devait tomber toute l’horreur du spectateur, fût connu dans l’histoire, et Pharnace qui périt dans les guerres de César et de Pompée, m’a paru le plus propre à cet usage. Célèbre par tant de parricides, s’il n’a pas commis tous les forfaits que je lui impute, du moins il était capable de les commettre. Je l’ai donc amené à Utique, et j’ai lié cet incident à l’action principale de la tragédie, de manière qu’il fait presque toute la catastrophe», François-Michel-Chrétien Deschamps, «Préface», in Id., Caton d’Utique. Tragédie, La Haye, Johnson, 1715, p. n.n.). Il drammaturgo francese si dice convinto che tale personaggio non possa risultare nocivo per il pubblico, in quanto lo spettatore è ineluttabilmente portato ad odiarlo («Je ne pense pas avoir lieu de craindre qu’ils fassent une impression dangereuse, puisqu’il est proposé comme un coupable dont il faut détester les mœurs», ibid.), ma ciò non lo rende meno colpevole agli occhi di Calepio, il quale lo rimprovera non tanto per essersi scostato troppo dalla narrazione storica, quanto per aver fatto entrare ingiustificatamente in scena un uomo tanto crudele — e quindi di fatto incapace tanto di dilettare quanto di giovare all’utilità del dramma —, con la scusa, ritenuta illegittima, di dover opporre necessariamente un depravato al virtuoso Catone («Persuadé qu’il faut des ombres dans un tableau, j’ai tâché d’opposer des crimes aux vertus de Caton», ibid.). La perfetta tragedia che contemplava Calepio non si basava certo, come si è ampiamente mostrato, sul contrasto fra vizio e virtù, risolto a favore di quest’ultimo; a questa prerogativa dell’epica egli preferiva invece la rappresentazione di uomini comuni caduti in disGrazia a causa di errori degni di compassione.
Infine il Bergamasco rinnova il paragone fra la Polyxène di de La Fosse e la Polissena di Marchese che aveva già introdotto in precedenza (Paragone II, 3). Se in quel caso egli biasimava il «dénouement» prescelto dal Francese, il quale rappresentava come accidentale l’omicidio dell’eroina per rendere Pyrrus meno colpevole, ora critica la mancanza di contegno con cui il protagonista si oppone platealmente all’ordine dell’ombra del padre che gli impone di uccidere l’amata. Nella Polissena del Marchese, Pirro si accingeva al contrario ad eseguire il comando paterno assassinando la principessa troiana e attirandosi la compassione del pubblico, che invece si sarebbe sdegnato nel cogliere l’irreligiosità del comportamento del Pyrrus di de La Fosse. Come in altri casi, anche qui il Quadrio riproduce puntualmente il giudizio di Calepio sulla tragedie di Deschamps e del de La Fosse, ammonendo che non si introducano senza motivo personaggi cattivi a teatro («Sopra tutto si vuole avvertire anche ne’ personaggi di secondo ordine, di non dar loro giammai Carattere alcuno di malvagi senza necessità; nel che peccano il Catone del Signor di Champs per Farnace, e la Polissena del Signor de La Fosse per Pirro», Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 275).
Sulla fortuna del soggetto di Catone nel Settecento si veda il contributo di Ahmed Gunny, «Some Eighteenth-Century Reactions to Plays on the Life of Cato», British Journal of Eighteenth-Century Studies, IV, 1981, pp. 54-65.
Articolo III.
[5.3.1] Calepio ritorna sulla questione della qualità del protagonista che aveva già affrontato nel primo capo; pur riconoscendo che gli Italiani si sono generalmente attenuti alla prescrizione di far comparire personaggi mediocri, egli lamenta alcune imperfezioni, prendendosela in prima istanza con la tragedia arcadica. I due bersagli contro il quale infatti si scaglia sono due importanti esponenti dell’Arcadia: Antonio Caraccio, sodale del Crescimbeni, il quale aveva riconosciuto nel suo Corradino l’archetipo di perfetta e regolare tragedia arcadica — benché, come si evince dall’Elvio, la sua proposta drammaturgica fosse piuttosto vicina a quella di un altro drammaturgo arcade, Pietro Ottoboni —, e Gian Vincenzo Gravina, autore di un progetto tragico profondamente innovativo, che indubbiamente si avvaleva del modello corneilliano. Il Corradino è una tragedia storica dai toni senecani incentrata sulla contesa, avvenuta nel Regno di Napoli alla morte di Federico II, tra guelfi, capeggiati da Carlo d’Angiò, e ghibellini, riunitisi, dopo la morte di Manfredi, attorno alla figura del giovane Corradino. Centrale era in questa vicenda il personaggio di Beatrice, moglie di Carlo d’Angiò ma legata ad un rapporto di parentela anche all’avversario del marito, Corradino; secondo Calepio questo personaggio femminile sarebbe troppo sbiadito e incapace di suscitare pietà: le virtù che risplendono nella narrazione dell’avantesto, non verrebbero poi adeguatamente messe in scena nella pièce. Al contrario il Gravina viene ancora una volta biasimato in quanto i protagonisti delle sue tragedie, piuttosto che essere uomini di qualità mediocre caduti in disgrazia, vengono rappresentati come dei martiri innocenti dell’ambizione politica dei regnanti — come nel caso di Palamede, accusato a tradimento da Agamennone, Ulisse e Calcante —, oppure degli aspiranti sovrani — di questo tipo è invece l’intreccio del Servio Tullio, in cui il saggio re romano viene detronizzato e ucciso dall’impudente figlia e dal genero Tarquinio.
Anche le tragedie che presentano protagonisti dalla condotta eccessivamente sregolata vengono censurate dall’autore, che per questo motivo riprende la Progne di Ludovico Domenichi, nella quale la protagonista, per vendicarsi della violenza perpetrata dal marito ai danni della sorella Filomela, uccide il proprio figlio Iti per darne le carni in pasto al padre, nonché la Fedra del Bozza. In questa tragedia, a differenza di ciò che accadeva nella Phèdre di Racine, è la regina a cercare autonomamente di soddisfare le proprie brame incestuose e poi ad avere l’idea di accusare falsamente l’amato, una volta rifiutata. Il personaggio della Nutrice, solitamente impiegato come un aiutante maligno e spregevole, capace di instillare in Fedra i progetti delittuosi, cerca in questo caso di distogliere la regina dalla realizzazione dei propri piani, senza tuttavia ottenere che costei deponga l’amore illegittimo («Nodrice tutti siam di carne, e d’ossa,/ et forse ei più di me brama, e disia/ venir a l’amorosa, e dolce traccia;/ benc’habbia finto sin’adhora il schivo», Francesco Bozza, Fedra. Tragedia, I, 1, Venezia, Giolito, 1578, p. 14r), né che accantoni il suo proposito di vendetta: agli accorati consigli della nutrice («Non vi lasciate trasportar da l’ira/ ch’un generoso, un animo reale/ non deve mai dar loco a quel furore,/ che macchia può apportargli o brutta infamia», ivi, II, 1, p. 20v), Fedra replica con un rigido aut aut, minacciando di uccidersi qualora la servitrice non le permetta di attuare la propria ritorsione («Sì che lasciami far, quel ch’ho pensato./ Perché o vendetta far di tanto oltraggio/ voglio; o con questa man aprirmi il petto./ Eleggi, qual tu vuoi, qual più ti piace,/ ch’io risoluta son’un di duo fare», ivi, II, 1, p. 21v). Il Bozza recupera in questo senso la struttura portante dell’Ippolito di Euripide e della Fedra di Seneca, in cui era Fedra, e non la nutrice, ad architettare la calunnia, procacciandosi la condanna di Calepio: un personaggio che tenta volontariamente di compiere un incesto e successivamente fabbrica accuse ingiuste contro un innocente non è evidentemente in grado di attirare la compassione del pubblico. Al contrario il Bergamasco Grazia le tragedie antiche, non tanto perché queste venivano considerate figlie di un’etica non cristiana, ma in quanto erano incentrate sulla figura di Ippolito e non su quella di Fedra. La riscrittura del Bozza assume un ruolo di rilievo nel panorama delle Fedre moderne, in quanto pare scostarsi da quel processo di cristianizzazione che il mito aveva subito nel teatro francese del Seicento, proprio rendendo — come accade peraltro nella Phèdre di Racine — la nutrice Œnone la mente criminale che partorisce l’idea di calunniare il figlio di Teseo. Daniela Dalla Valle scrive argutamente a tal proposito che la Fedra del Bozza è in realtà un’«anti-Fedra», dal momento che «è proprio la regina che, per la sua malvagità, ha voluto, creato e determinato la catastrofe, e la descrizione dolorosa del suo amore fatale — così importante nelle tragedie di Euripide e di Seneca — viene completamente eliminata» (Daniela Dalla Valle, Il mito cristianizzato: Fedra/Ippolito e Edipo nel teatro francese del Seicento, Bern, Lang, 2006, p. 66).
[5.3.2] Un altro difetto di costume consisterebbe, secondo Calepio, nel far sì che un delitto rappresentato venga punito attraverso il ricorso a un crimine ancora peggiore. Egli censura in sostanza il prototipo della tragedia di vendetta, al quale si ricollegano i drammi cinquecenteschi che vengono citati in questo frangente, ossia la Progne del Domenichi, l’Acripanda di Decio da Horte e la Tullia del Martelli. Nella Progne la protagonista si vendica dello stupro della sorella perpetrato dal marito uccidendone il figlio e servendoglielo a pezzi; nell’Acripanda l’eroina, oggetto dell’amore adulterino del re Ussimano che per lei uccide la moglie Orselia, vede i propri figli assassinati per ordine dell’unico erede di Orselia; nella Tullia del Martelli, i presunti raggiri messi in opera da Servio Tullio per conquistare il potere sono puniti da Lucio Tarquinio, discendente della stirpe detronizzata, e da Tullia, con un brutale regicidio. Anche la Perselide di Pier Jacopo Martello è una tragedia di vendetta imperniata sulle tormentate vicende della corte ottomana, nella quale le ambizioni politiche e le rivalse amorose della Sultana causano la morte della coppia di amanti innocenti, Perselide e Zeanghire, felici perché finalmente riuniti nel trapasso. Questo finale, che a Calepio evidentemente non piacque, voleva, nell’idea di Martello, adombrare una sorta di conclusione lieta per una tragedia della specie delle «tragichissime», con nove personaggi che muoiono nel corso dei cinque atti. Anche il La Mesnardière nella sua Poétique raccomandava che i malvagi venissero puniti. Nel teorizzare un modello di tragedia — poi ripreso da Corneille — basato sull’«exposition des Vertus recompensées, et des vices chastiez», egli ammetteva l’introduzione in scena dei malvagi, di cui scorgeva l’utilità morale («comme les bonnes Loix naissent des mauvaises Mœurs, elle puise adroitement l’utilité du Spectateur dans la perte et dans les malheurs qui arrivent à ses Heros pour la punition de leurs crimes», Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, p. 221, 222), e prediligeva il prototipo del dramma nel quale i cattivi venivano puniti, a beneficio del pubblico («les plus justes Tragedies sont celles où les forfaits ont leurs punitions légitimes, et les vertus leurs recompenses», ivi, p. 223).
[5.3.3] Anche l’introduzione di personaggi secondari di carattere malvagio potrebbe risultare, secondo Calepio, dannosa per il pubblico e per l’economia della pièce, qualora questi ultimi non vengano adeguatamente puniti. Ciò avviene ad esempio nell’Ezzelino del Baruffaldi — tragedia già in diversi altri luoghi criticata dal Bergamasco — in cui Ansedisio, malefico consigliero di Ezzelino, a sua volta innamorato di Amabilia, dopo aver istigato il tiranno a compiere i peggiori delitti, riesce a sopravvivere senza incontrare alcuna punizione. Inessenziale è giudicato anche il personaggio di Labano, l’ebreo delatore che nel Procolo del Martello rende a tutti noto che è stato il protagonista ad uccidere il tirannico prefetto Marino e si mette a capo di un nugolo di soldati romani per mettere a morte il cristiano (IV, 2). In particolare Calepio parrebbe condannare la scena — quasi da commedia — in cui viene mostrata l’avidità di Labano, che, al cospetto di Marino, insulta la munificenza di Procolo (II, 3). Infine viene ancora rimproverato il Gravina, il quale avrebbe dovuto far sì che Marco, complice di Appio Claudio, incaricato dal magistrato di reclamare in giudizio il possesso di Virginia, venisse in qualche modo punito.
Il Quadrio riproduce anche in questo caso le opinioni di Calepio, prescrivendo, come faceva il Bergamasco, che i malvagi vengano puntualmente puniti sulla scena («Se necessità intervenga d’introdurre finalmente persone malvagie, o viziose, guardisi in primo luogo, che le medesime non sieno più proprie della Commedia, che della Tragedia, come è nel Procolo di Pier Jacopo Martelli l’Ebreo Avaro. Di poi guardisi di non lasciarle al fine della Tragedia impunite, com’è nell’Ezzelino del Baruffaldi Ansedisio», Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 275). In precedenza l’autore aveva già sostenuto questa medesima posizione, ricorrendo invece all’esempio dell’Appio Claudio di Gravina: «Per operar dirittamente, noi non dovremo giammai rappresentare vizioso costume, che quello, che non si può togliere, senza corromper la Favola: e questo medesimo noi sempre rappresentar dovremo in maniera che non solamente la decenza non mai egli offenda, ma col gastigo, o con altro, si faccia sempre abborrevole al popolo. […] Quel Marco nell’Appio Claudio del Gravina, rimanendosi senza verun gastigo, dopo avere rappresentato il carattere infamissimo di Ruffiano, egli però è contra questo giustissimo insegnamento, e sta assai male» (ivi, vol. I, p. 375).
Sulla rilevanza del personaggio di Labano nella drammaturgia del Martello cfr. Ilaria Magnani Campanacci, Un Bolognese nella Repubblica delle Lettere: Pier Jacopo Martello, Modena, Mucchi, 1994, pp. 218-230; Alberto Beniscelli, Le passioni evidenti: parola, pittura, scena nella letteratura settecentesca, Modena, Mucchi, 2000, pp. 57-71.
Articolo IV.
[5.4.1] Calepio passa quindi a discorrere del decoro, suprema sintesi di moralità e verosimiglianza che egli riduce, in accordo con la tradizione critica francese che sul décorum e sulla bienséance aveva fondato la propria drammaturgia, alla convenienza dei comportamenti dei personaggi al sesso, al rango, alla provenienza geografica, all’età del carattere che rappresentano. Circa la convenienza (ἁρμόττοντα), Aristotele raccomandava che i drammaturghi mantenessero il massimo equilibrio, concedendo la possibilità di rappresentare anche donne dal carattere coraggioso, ma non eccessivamente temerario (1454a 20-24). Più specifico è senz’altro Orazio nel passaggio dell’Ars Poetica riportato da Calepio (vv. 114-118), in cui cerca di specificare cosa è conveniente rappresentare, raccomandando che gli uomini non parlino come le divinità, che i vecchi siano distinti nella loquela e nelle azioni dai giovani, le dame dalle nutrici, i còlti dai semplici.
Fin dal Cinquecento il decoro viene contemporaneamente declinato sotto l’aspetto morale e sotto quello retorico; nel Minturno, uno dei maggiori teorici in questo campo, la doppia natura di questa nozione è già evidente. Egli infatti, dopo aver constatato che «gli antichi stimarono esser chiaro, che non ad ogni faccenda, né ad ogni persona, né ad ogni tempo, né ad ogni luogo, né alla presenza d’ogni auditore stà bene una maniera di parlare» (Antonio Minturno, L’arte poetica [1564], rist. anast., München, Fink, 1971, p. 426) distingue tre diversi registri retorici (il «dir grande e pieno»; l’«humile e dimesso»; «il mezzano») ai quali conformare la parlata di ciascun personaggio secondo la propria natura. I diversi stili oratori dipenderanno poi dalle solite categorie del costume («Conciosiacosa, che monti non poco di qual età sia chi parla, di qual gente, in qual luoco nato sia et allevato. Percioché ad altri altra maniera di parlare è richiesta», ibid.). Nel Seicento si insisterà proprio su questa natura retorica del decorum, come si evince dalla disquisizione sul decoro delle metafore presente nel Cannocchiale aristotelico del Tesauro (Emanuele Tesauro, Il Cannocchiale aristotelico, Torino, Sinibaldo, 1654, pp. 346-348), ma anche dalle parole con cui il Crescimbeni, dopo aver statuito il rispetto della convenienza dei costumi («Sarebbe discordante, quando altro dicesse, altro facesse colui, che la sentenza pronunzia; ovvero quando si facesse pronunziare ad una donna, verbigrazia, o ad un giovanetto, sentenza propria di età matura, o canuta: il che direbbesi anche fallo di poca convenevolezza», Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, p. 166), introduce il concetto di decoro identificandolo come una proprietà della sentenza («Si richiede altresì nella sentenza il decoro, e la nobiltà a misura de’ personaggi che s’imitano, […] intendendo io per decoro, e per nobiltà la maniera migliore, nella quale potrebbe parlare ciascun personaggio, che s’imiti», ibid.).
Tuttavia la vera consacrazione dell’idea di decoro nella teoria tragica avviene appunto nella Francia del Seicento: Jean Chapelain introduceva il termine «bienséance» nel suo De la poésie représentative (1635), definendola come un tratto fondamentale della rappresentazione che aveva a che fare non con la morale in assoluto, ma con la convenienza scenica («Ils ont particulièrement égard à faire parler chacun selon sa condition, son âge, son sexe; et appellent bienséance non pas ce qui est honnête, mais ce qui convient aux personnes, soit bonnes, soit mauvaises», Jean Chapelain, De la poésie représentative, in Id., Opuscules critiques, édition par Alfred C. Hunter, Paris, Droz, 1936, p. 130). La «bienséance» possedeva un doppio orientamento, secondo la distinzione di René Bray, il quale scorgeva concorrere alla formazione di questo concetto una «bienséance interne» — la coerenza dei personaggi calati nella congiuntura culturale rappresentata — e una «bienséance externe» — l’adattamento dei caratteri all’orizzonte d’attesa del pubblico (René Bray, La Formation de la doctrine classique en France [1927], Paris, Nizet, 1966, pp. 215-230). Proprio su questo ambiguo criterio andava costituendosi di fatto la critica teatrale seicentesca, ed è sulla base del mancato rispetto della bienséance nel personaggio di Chimene, figlia poco pudica, che Chapelain pronuncia la sua ferma condanna nei confronti del Cid di Corneille (cfr. su questo punto Georges Forestier, Essai de génétique théâtrale: Corneille à l’œuvre, Paris, Klincksieck, 1996, pp. 151-156). Diversi critici insisteranno sul rispetto di questo decoro, da La Mesnardière a d’Aubignac, passando per lo stesso Corneille, il quale, nel Discours du poème dramatique, si soffermava sulla nozione sopradetta in modo del tutto tradizionale («Les mœurs doivent être convenables […]. Le poète doit considérer l’âge, la dignité, la naissance, l’emploi et les pays de ceux qu’il introduit: il faut qu’il sache qu’on doit à sa patrie, à ses parents, à ses amis, à son roi», Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 131). Ancora Boileau nell’Art poétique ne prescriveva il rispetto («Conservez à chacun son propre caractere./ Des Siecles, des Païs, étudiez les mœurs./ Les climats font souvent les diverses humeurs», Boileau, L’Art poétique, in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 171), così come René Rapin, il quale addirittura attribuiva alla «bienséance» lo statuto di regola poetica più importante in assoluto («Outre toutes ces règles prises de la Poétique d’Aristote, il y en a encore une dont Horace fait mention, à laquelle toutes les autres règles doivent s’assujettir, comme à la plus essentielle, qui est la bienséance. Sans elle les autres règles de la poésie sont fausses: parce qu’elle est le fondement le plus solide de cette vray-semblance qui est si essentielle à cet art. Car ce n’est que par la bienséance que la vray-semblance a son effet», René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique publiée par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 66).
Nel Settecento italiano il ruolo del decoro è certo meno rilevante, ma non del tutto secondario. Il Gravina, riprendendo il generico termine «costume», derivato da Castelvetro, riproduce le classiche riflessioni della critica francese, biasimando la tragedia contemporanea che spesso pecca sotto questo aspetto («Questi sono appunto parte di que’ vizi, che corrono per le novelle nostre tragedie; le quali o non hanno costume umano, ma tutto chimerico, e confondono il sesso, l’età, le nazioni, le professioni, gli stati, cangiando la fantesca in regina, il giovane in vecchio, il romano in spagnuolo, la balia in filosofo, il bifolco in signore, ed al contrario; o pure applicano a tutti il carattere d’una sola nazione», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 520-521), mentre il Muratori fondava il “Giudizio”, strumento imprescindibile per il poeta, sull’unione di verosimile e decoro («E il Giudizio, che è il capo, le tien lungi dal cader ne gli eccessi conservandole tra i confini del Verisimile, e del Decoro, che suol da’ Greci appellarsi “τό πρέπον”», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia, vol. I, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 113). Da segnalare infine, sempre attorno al nodo del decoro della poesia, le Lettere discorsive intorno ad alcuni poetici abusi pregiudizievoli sì al decoro della Religion Cattolica come alla buona Morale Cristiana (1733), opera postuma del bolognese Pierfrancesco Bottazzoni.
Nelle poetiche umanistiche e rinascimentali, come è stato messo bene in luce anche di recente dalla critica francese, la nozione aristotelica di mimesis si fonde con quella oraziana di decorum, dando vita ad un concetto nuovo che si scorge già nelle pagine di Robortello o in quelle di Minturno. Cfr. a proposito: Jean Lecointe, L’Idéal et la Différence : la perception de la personnalité littéraire à la Renaissance, Genève, Droz, 1993; Teresa Chevrolet, L’Idée de fable: théories de la fiction poétique à la Renaissance, Genève, Droz, 2007, pp. 312-331; Virginie Leroux, «Présence et interprétations du decorum horatien dans les poétiques néo-latines», Camenae, XIII, 2012, pp. 1-15.
Sulla centralità della «bienséance» nel programma estetico della tragédie classique si veda Jacques Scherer, La Dramaturgie classique, Paris, Nizet, 1959. Per il contesto italiano rinascimentale si rimanda invece a Giancarlo Alfano, Dioniso e Tiziano: ma rappresentazione dei «simili» nel Cinquecento tra decorum e sistema dei generi, Roma, Bulzoni, 2001.
[5.4.2] Introducendo un paradigma evoluzionista che già altrove aveva presentato (Paragone IV, 1, [1]) Calepio taccia la letteratura greca di aver infranto la regola aristotelica — poi significativamente perfezionata da Orazio — riguardante il decoro. A suo parere già la poesia latina si mostrerebbe superiore alla letteratura greca sotto questo profilo, come si evince dalla superiorità, circa questo elemento, delle tragedie di Seneca a quelle di Euripide; egli in particolare mette a confronto la diversa morte assegnata a Giocasta nell’Edipo Re di Sofocle e nell’Œdipus di Seneca, nonché il discorso con cui Ercole invitava il figlio ad ucciderlo nelle Trachinie di Sofocle e nell’Hercules Oetaeus. La convinzione critica secondo cui i Greci erano risultati manchevoli nella rispetto del decoro risaliva già al periodo umanistico e rinascimentale; in Italia Giovan Battista Giraldi Cinzio si era fatto portavoce di questa opinione, ammettendo, nel Discorso intorno al comporre dei romanzi (1554), che «il poeta dee sempre avere l’occhio al decoro; il quale non è altro che quello che conviene alle cose, ai luoghi, ai tempi, alle persone, nella qual cosa si vede alcuna volta in Omero poca considerazione, il che fu vizio più tosto, come altre volte ho detto, di que’ tempi che dell’autore» (Giovan Battista Giraldi Cinzio, «Discorso intorno al comporre dei romanzi», in Id., Scritti critici, a cura di Camillo Guerrieri Crocetti, Milano, Marzorati, 1973, p. 80). Nella lettera ad Ercole II d’Este il Giraldi ribadiva il suo pensiero, sostenendo la superiorità dei romani rispetto ai greci in fatto di decoro: «Tengo certo, che in questa parte molto meglio vedessero i Romani, con i Greci, imperoché non è punto verisimile che le grandi, et signorili persone, vogliano trattare le attioni di molta importanza, come sono quelle che vengano nelle Tragedie, nella moltitudine delle genti, quantunque famigliari […]; et se i Greci non conobbero questo decoro, lo conobbero i Romani, et seppero dare alla Maestà delle attioni reali le persone, che in quel modo le maneggiassero, che si conveniva a tanta Maestà», Giovan Battista Giraldi Cinzio, «Lettera all’ill.mo et eccell.mo Signore, Signore mio osservandissimo, il S. D. Hercole II da Este», in Id., Didone. Tragedia, Venezia, Cagnaemi, 1583, pp. 141-142. Nel Seicento francese si moltiplicano le censure nei confronti delle infrazioni della «bienséance» commesse dai tragici greci. La Mesnardière criticava il costume di alcuni personaggi di Sofocle, e in particolare l’Ulisse che compariva nell’Aiace, tremante nel vedere il protagonista impazzito, benché fosse un guerriero molto coraggioso, e soprattutto l’Agamennone che, sempre nell’Aiace, appariva troppo ragionevole e giusto, benché avesse dato prova di un carattere irascibile e furioso («Agamennon est mal-traitté dans la même Tragédie, où le Poëte le fait si lasche, que de ne vouloir pas permettre au généreux Tëucer d’enterrer le corps d’Ajax, qui n’aimoit pas les Atrides: Et l’autheur de la Troade […] le fait bien plus raisonnable, quand il dit de si belles choses à Pyrrhus qui veut enlever la pitoyable Polyxene, pour appaiser l’Ombre d’Achille», Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, p. 119). Lo stesso Rapin biasimava Eschilo, le cui tragedie gli sembravano fredde e molto carenti sotto il profilo della morale («Ce n’est pas que les Anciens n’aient aussi leurs défauts. Eschyle n’a presque nul principe pour les mœurs et pour les bienséances: ses fables sont trop simples, l’ordonnance en est triste, l’expression obscure et embarrassée: on n’entend presque point la tragédie d’Agamemnon. Mais parce qu’il croit que le secret du théâtre est d’y parler pompeusement, il met son art dans ses paroles, sans se soucier des sentiments», René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique publiée par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 108). Se i tragici greci non vengono risparmiati, peggiore è la sorte che viene riservata ad Omero sul finire del secolo: il poeta epico per eccellenza diventa l’oggetto, nella Querelle des Anciens et des Modernes, delle più feroci critiche da parte dei moderni che gli rimproverano soprattutto la trasgressione delle regole della «bienséance». Esemplificative in questo senso sono le parole di Terrasson, autore di una Dissertation critique sur l’Iliade che Calepio conosceva bene, secondo cui Omero aveva tradito il decoro creando personaggi incoerenti, che spesso tenevano discorsi o compivano azioni indecenti («C’est un endroit par lequel l’Iliade est inferieure à nos Romans même; car dans ceux ci l’honneur des Héros est conservé aussi soigneusement en son espèce, que l’honneur même des Héroïnes; au lieu qu’Homere fait détruire tous ses Personnages les uns par les autres, et paroît souvent lui-même leur plus grand ennemi par les discours qu’il leur fait tenir, ou par les actions qu’il leur fait faire, non seulement contre toute bienseance, mais contre le caractère même qu’il leur a donné», Jean Terrasson, Dissertation critique sur l’Iliade d’Homere, Paris, Fournier-Coustelier, 1715, t. I, p. 347). Lo stesso La Motte riteneva necessario intervenire per sanare i tanti problemi che presentava sotto il profilo del costume l’Iliade, adattandola, nella sua traduzione, al gusto del secolo («J’ai voulu que ma traduction fût agréable; et dès là, il a fallu substituer des idées qui plaisent aujourd’hui à d’autres idées qui plaisaient du temps d’Homère; il a fallu, par exemple, ennoblir par rapport à nous les injures d’Achille et d’Agamemnon; éloigner des querelles de Jupiter et de Junon, toute idée de coups et de violences; adoucir la préférence solennelle qu’Agamemnon fait de son esclave à son épouse; et exprimer enfin diverses circonstances, de manière qu’en disant au fond la même chose qu’Homère, on la présentât cependant sous une idée conforme au goût du siècle», Houdar de La Motte, L’Iliade. Poëme. Avec un discours sur Homère, Amsterdam, Compagnie, 1714, p. clv).
Le stesse accuse venivano mosse ad Omero anche in Italia fra Sei e Settecento da letterati della levatura di Alessandro Tassoni e di Lodovico Muratori, il quale, sulla scia di una consolidata tradizione critica, considerava indecorosi gli dei omerici, rappresentati con caratteristiche troppo umane («Altre volte s’è detto, che le Immagini della Fantasia sono sparute, quando le cose, o persone immaginate non si rappresentano operanti secondo la lor natura. Ora gli Dei d’Omero sono ben lungi da tal Decoro», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. I, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 274). Non mancavano tuttavia i difensori di Omero, fra i quali, oltre naturalmente al Gravina, andrà annoverato il Salìo, acceso avversario di Giraldi, Tassoni, Muratori e dello stesso Calepio, contro i quali si era scagliato nel suo Esame critico, nel tentativo di giustificare la convenienza della rappresentazione degli dei offerta da Omero, costretto a raffigurare in quel modo le divinità per andare incontro al gusto del suo tempo («Se egli è ufficio del buon poeta il rappresentar verisimilmente le cose, e le persone,e le azioni; e se il verisimile ora sulle notizie famose, ora sull’opinion comune circa le cose naturali è fondato, e ora sulla credenza del popolo; quando il popolo avea per altro un’idea così sconcia delle sue Deità; non ha Omero al suo ufficio mancato, quanto all’arte poetica, rappresentandole in quella sconcia maniera: altrimenti sarebbe uscito dal verisimile e contra l’arte peccato avrebbe», Giuseppe Salìo, Esame critico intorno a varie sentenze d’alcuni rinomati scrittori, Padova, Comino, 1738, pp. 25-26).
[5.4.3] Calepio rimprovera ai Francesi il fatto che essi rappresentano gli eroi tragici come personaggi infiacchiti da amori che li rendono ridicoli, privandoli del carattere impavido ed esemplare che essi dovrebbero possedere. Il principale bersaglio del Bergamasco è in questo caso l’Alexandre le Grand (1665), tragedia di Racine già fatta oggetto di un attacco impetuoso da parte di Saint-Évremond, il quale nella sua Dissertation sur la tragédie de Racine intitulée Alexandre le Grand, diretta a Madame Bourneau, aveva criticato la rappresentazione galante che del grande Alessandro offriva Racine. Il critico francese, prendendo le mosse dalle parole di Aristotele circa il costume, affermava che in un protagonista come Alessandro si sarebbe aspettato di vedere quella grandezza tipica del genio degli antichi («Je voudrais qu’il lui donnât le bon goût de cette Antiquité, qu’il possède si avantageusement; qu’il le fit entrer dans le génie de ces nations mortes et connaître sainement le caractère des héros qui ne sont plus», Saint-Évremond, «Dissertation sur la Tragédie de Racine, intitulée “Alexandre le Grand”», in Id., Œuvres mêlées, introduzione, testo e nota al testo a cura di Luigi De Nardis, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1966, p. 189), ma Racine tradiva queste aspettative, mostrando un eroe mediocre, assai meno valoroso dello stesso antagonista Porus («Peut-être que pour faire Porus plus grand, sans donner dans le fabuleux, il a pris le parti d’abaisser son Alexandre. Si ç’a été son dessein, il ne pouvait pas mieux réussir; car il en fait un prince si médiocre, que cent autres le pourraient emporter sur lui comme Porus», ivi, p. 190). Inoltre, aggiunge, non scorge nel protagonista della tragedia raciniana nulla dell’Alessandro che ci restituiscono le storie antiche («À parler sérieusement, je ne connais ici d’Alexandre que le seul nom; son génie, son humeur, ses qualités, ne me paraissent en aucun endroit. Je cherche dans un héros impétueux des mouvements extraordinaires qui me passionnent, et je trouve un prince si peu animé, qu’il me laisse tout le sang froid où je puis être», ivi, pp. 190-191). Di conseguenza non propone la completa abolizione degli amori a teatro, dal momento che essi si rivelano utili a colmare l’abissale distanza che ci separa dagli antichi; tuttavia, avallando il modello corneilliano offerto dal Sertorius o dalla Mort de Pompée, Saint-Évremond mette in ridicolo la costruzione di eroi amorosi che trasgredisce evidentemente ogni norma di bienséance: «En effet c’est un spectacle indigne de voir le courage d’un héros amolli par des soupirs et des larmes: et s’il méprise fièrement les pleurs d’une belle personne qui l’aime, il fait moins paraître la fermeté de son cœur que la dureté de son âme» (ivi, p. 197).
Racine era già stato criticato per questa raffigurazione troppo tenera degli eroi antichi: gli anonimi Remarques sur l’Iphigénie de Monsieur Racine, pubblicati nel 1675, condannavano gli amori di Achille e di Ifigenia che venivano descritti nella tragedia raciniana, frutto, a detta dell’autore, della perversione di un tempo in cui non c’era passione più alla moda («Voilà une étrange proposition dans un siécle où les Poëtes se sont mis en possession de faire régner cette passion sur le Théatre, qui ne peut plus souffrir des Héros s’ils ne sont pleins de tendresse. L’exemple d’Euripide, qui n’a point fait Achille amoureux, et qui n’a point aussi engagé le cœur d’Iphigénie, ne sera pas considéré dans un temps auquel cette passion est plus à la mode que jamais. Monsieur Racine sera loüé, sans doute, de s’être écarté de la voie de cet ancien Auteur. Tout le monde condamnera Euripide pour avoir fait une piéce sans amour», «Remarques sur l’Iphigénie de Monsieur Racine» [1675], in Recueil de dissertations sur plusieurs tragédies de Corneille et de Racine, [par François Granet], t. II, Paris, Gissey et Bordelet, 1740, p. 346).
Tuttavia il divieto di rappresentare gli eroi, soprattutto antichi, come fragili amanti, era già presente nei trattati precedenti all’opera di Racine. La Mesnardière raccomandava di evitare le coquetteries nel dare corpo a personaggi del calibro di Ciro, Alessandro o Scipione («N’auroit-il pas bonne grace de nous faire voir un Cyrus coquet, delicat, parfumé, et plus empesché à forcer la pudicité de Panthée, qu’à maintenir ses Alliez, et à conquerir l’Assyrie? Un Aléxandre muguet, et plus amoureux des appas de la ravissante Ipsicrate, que du Sceptre de son mari, et des richesses de la Perse? Un Scipion affetté, et plus capable de brusler à l’aspect du premier visage pourveu de quelques attraits, que de vanger ses Ancestres, et le sang de ses Citoyens?», Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, p. 116).
Eppure non mancavano, fra i critici francesi, coloro che concedevano la raffigurazione di eroi amorosi, condannando piuttosto, come ancor meno credibili, i pastori raffinati del contemporaneo teatro italiano, come faceva Boileau («Peignez donc, j’y consens, les Heros amoureux./ Mais ne m’en formez pas des Bergers doucereux», Boileau, L’Art poétique, in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 171). Verso la fine del secolo, l’oggetto delle critiche riguardanti l’eccessiva galanteria dei personaggi non saranno più infatti i protagonisti delle tragedie di Racine, ma gli eroi della Liberata, come dimostra un passaggio della Manière de bien penser di Bouhours («Le Tasse […] a bien exprimé sur la Porte du palais d’Armide le ridicule de ce Héros amoureux», Dominique Bouhours, La Manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit. Dialogues, Paris, Mabre-Cramoisy, 1687, p. 212), oppure i protagonisti delle pastorali di Tasso, Guarini e Bonarelli. L’eccesso di amore nelle moderne tragedie viene censurato anche dai letterati italiani. Gravina si lamentava del fatto che i moderni tragici non si impegnassero a ritrarre alcuna passione differente dall’amore («Felici però sono assai i presenti tragici, che non hanno da rintracciare, né da esprimere altro carattere, che quello di amante; onde son fuori di tutte queste difficoltà, perchè neppure di questo costume han da cercare il ritratto della natura […]. E questo chimerico amore ancora, più d’ogni altro, ha esclusa da’ nostri teatri la varietà: poiché, dandosi luogo solo a questo, rimane abbandonata ogni espressione di altro costume e di altra passione, comparendo solo in iscena una schiera di paladini, che riscaldano l’aria coi sospiri, […] ed alla presenza delle loro signore, allagano il teatro di lagrime», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 530-531). Il Muratori dal canto suo faceva considerazioni simili: «Quando però io condanno gli Amori nelle Tragedie, non intendo già di volerneli affatto sbanditi. Non son cotanto severo, né sì contrario al genio de’ tempi; e se si vuole, dirò eziandio, che non è da biasimarsi affatto il costume di temperare la soverchia severità delle Tragedie coll’amenità de gli Amori. Ma ne vorrei bensì moderato l’uso, o bramerei almeno, che la Tragedia sempre non avesse bisogno di raggirarsi per teneri, o bassi amori, come avviene oggidì. E perché non possono rappresentarsi gli Eroi, e le nobili persone operanti per altre macchine, che per quelle di Cupido?», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 595.
Calepio concorda con questa posizione e critica, oltre all’Alexandre le Grand di Racine, anche Le Comte d’Essex, tragedia di Thomas Corneille del 1678, in cui il protagonista, innamorato della regina Elisabetta, viene messo a morte a seguito di un complotto (sulla fortuna di questo soggetto nel tardo Seicento si veda Florence de Caigny, «Le Comte d’Essex de Claude Boyer: Élisabeth ou la confusion des rôles», Études Épistémè, XVI, 2009), e la Polyxène del de La Fosse, nella quale Telephe è spinto a introdursi nel campo dei Greci per recuperare l’amata Polyxène.
[5.4.4] Secondo Calepio i personaggi femminili, che pure egli ritiene naturalmente deboli, vengono dipinti talora con tratti eccessivamente risoluti ed eroici, tanto da apparire inverosimili. Già nel Cinquecento la rinascente tragedia europea aveva sfruttato le potenzialità delle donne forti, presentando eroine dagli atteggiamenti talora esplicitamente virili. Paola Cosentino, nel sondaggio sulle connessioni fra trattatistica rinascimentale sulla donna e rappresentazione dei caratteri muliebri nel contesto tragico cinquecentesco, elenca diversi prototipi femminili che si succedono sui palcoscenici: se inizialmente prevale il modello della donna illustre, plasmata sugli archetipi descritti nel De mulieribus claris di Boccaccio, in seguito vengono messe in scena figure muliebri audaci, esasperate, figlie della tradizione tragica greca, delle Antigoni e delle Elettre. Queste protagoniste, come Tullia, Rosmunda, Ifigenia e Didone, diventeranno nella seconda parte del Cinquecento, e particolarmente in corrispondenza con l’affermarsi della cultura controriformistica, dei personaggi negativi, responsabili di iniziative politiche temerarie e di azioni criminali e violente, come accade per Cleopatra, Semiramide o Acripanda (Paola Cosentino, «Virtù femminili fra poesia drammatica e modelli di comportamento», in Ead., Otre le mura di Firenze: percorsi lirici e tragici del Classicismo rinascimentale, Manziana, Vecchiarelli, 2008, pp. 117-162). Nella trattatistica si distingue senz’altro il Discorso della virtù femminile di Torquato Tasso, nel quale si profila un prototipo alternativo di donna eroica che troverà corrispondenza nella delineazione della nuova figura muliebre della regina seicentesca. Nel Seicento non mancano in effetti elogi dell’eroismo femminile, come dimostrano ad esempio La Gallerie des femmes fortes (1663) del padre gesuita Le Moyne, o Le Maraviglie heroiche del sesso donnesco (1678) di Giulio Dal Pozzo. Anche La Mesnardière raccomandava di preferire, nella rappresentazione delle donne tragiche, le eroine di chiara virtù, come ad esempio Penelope, Pantea, Artemisia, Lucrezia e Marianna, e invitava i drammaturghi a restituire il loro carattere illustre, senza farle oggetto di improbabili e licenziose storie d’amore («Mais pour épargner les Ouvrages de ceux qui vivent aujourd’hui, […] prenons parmi les Anciens, des Héros et des Héroïnes en qui certaines habitudes aient été fort remarquables. Nous treuvons dans les Histoires, quatre ou cinq Femmes Illustres par leurs chastes inclinations […]. Quelle apparence y auroit-il qu’ayant à donner au Théatre les diverses Avantures de ces vertueuses Princesses, le Poëte en fist des Coquettes, ravies d’estre cajollées, et susceptibles d’amour pour le premier qu’elles verroient avec un peu de liberté?», Hyppolite-Jules Pilet de La Mesnardière, La Poëtique, Paris, Sommaville, 1640, p. 115).
Le censure nei confronti di donne eccessivamente eroiche non sono molto frequenti, anche se in alcuni casi se ne ritrovano degli esempi: d’Aubignac taccia Corneille di aver rappresentato Viriate, nel Sertorius, come una donna troppo ambiziosa e calcolatrice, senza assecondare l’inclinazione amorosa e sensibile del personaggio femminile («ainsi les Spectateurs ne sont touchés d’aucun sentiment de douleur pour Viriate, qui ne désiroit épouser Sertorius que par ambition, et dont l’ame n’est point blessée par aucun mouvement d’amour affligé auquel on puisse compatir», François Hédelin d’Aubignac, «Seconde Dissertation concernant le Poëme dramatique, en forme de Remarques sur la Tragédie de M. Corneille, intitulée Sertorius» [1663], in Recueil de dissertations sur plusieurs tragédies de Corneille et de Racine, [par François Granet], t. I, Paris, Gissey et Bordelet, 1740, p. 246). Calepio se la prende in questo caso con l’Œdipe di Corneille, laddove le proprietà naturali dei due sessi gli sembrano invertite, dal momento che Thesée è rappresentato come un eroe pavido e debole, e Dircée come un personaggio intrepido e forte. Allo stesso modo troppo virili gli paiono i personaggi corneillianoi di Sophonisbe, nell’omonima tragedia, e di Camille nell’Horace.
Sul personaggio muliebre nella tragedia del Cinquecento si veda Alessandro Bianchi, Alterità ed equivalenza: modelli femminili nella tragedia italiana del Cinquecento, Milano, Unicopli, 2007. Sul Discorso della virtù femminile del Tasso si vedano: Dennis J. Dutschke, «Il discorso tassiano “De la virtù feminile e donnesca”», Studi tassiani, XXXII, 1984, pp. 5-28; Laura Benedetti, «Virtù femminile o virtù donnesca? Torquato Tasso, Lucrezia Marinella e una polemica rinascimentale», in Torquato Tasso e la cultura estense, Atti del convegno (Ferrara, 10-13 dicembre 1995), a cura di Gianni Venturi, vol. II, Firenze, Olschki, 1999, pp. 449-456; Maria Luisa Doglio, «Il Tasso e le donne. Intorno al “Discorso della virtù feminile e donnesca”», ivi, pp. 505-521). Sulla figura femminile nella tragedia del Settecento si rimanda a Paola Trivero, Tragiche donne: tipologie femminili nel teatro italiano del Settecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000.
[5.4.5] Il rispetto delle peculiarità nazionali dei protagonisti tragici che venivano fatti agire nel corso dei drammi seicenteschi era un’altra massima generale a cui ogni autore teatrale cercava di attenersi con particolare attenzione, onde evitare pesanti critiche. Corneille aveva saputo in qualche misura scantonare rispetto a questo principio: egli era infatti generalmente lodato per la capacità di rappresentare i costumi dei romani «alla maniera francese», come gli riconosce in una lettera piena d’ammirazione Guez de Balzac, a proposito del Cinna («Vous nous faites voir Rome tout ce qu’elle peut être à Paris […]. Je dis plus, vous êtes souvent son pédagogue, et l’avertissez de la bienséance, quand elle ne s’en souvient pas» (lettera del 17 gennaio 1653, cfr. Pierre Corneille, Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 1056). Eppure non sempre i costumi dei personaggi romani tratteggiati da Corneille erano considerati adeguati; l’abbé de Villars nella sua Critique de la Bérénice accusava il grande drammaturgo di aver fatto incautamente propendere il suo Tite per il celibato, quando questa scelta era considerata un’onta presso i romani («Qui s’aviseroit qu’un Empereur Romain fît vœu de célibat? Cette catastrophe étoit admirable pour un Pape; mais elle est burlesque pour un Empereur. Le célibat étoit odieux aux Romains; il y avait des lois rigoureuses contre ceux qui l’embrassoient», Abbé de Villars, «La Critique de la Bérénice de Racine» [1671], in Recueil de dissertations sur plusieurs tragédies de Corneille et de Racine, [par François Granet], t. II, Paris, Gissey et Bordelet, 1740, pp. 220-221).
Non è tuttavia Corneille il bersaglio principale di questo tipo di critica, che colpisce piuttosto Racine, soprattutto a partire dalla pubblicazione del Bajazet, i cui personaggi vengono considerati uomini vestiti alla turca, ma con pensieri e sentimenti tipicamente francesi (Segrais riportava in questi termini il giudizio espresso dallo stesso Corneille, presente alla prima rappresentazione del Bajazet di Racine: «il n’y a pas un seul personnage dans le Bajazet qui ait les sentimens qu’il doit avoir, et que l’on a à Constantinople: ils ont tous, sous un habit Turc, le sentiment qu’on a au milieu de la France», Jean Regnault de Segrais, Mémoires anecdotes, in Id., Œuvres diverses, t. I, Amsterdam, Changuion, 1723, pp. 64-65).
Ad alimentare questa polemica, forse dietro la spinta dello stesso Corneille, erano stati i corneilliani Madame de Sévigné e Donneau de Visé; quest’ultimo, dalle pagine del Mercure Galant, aveva ridicolizzato la strategia compositiva di Racine, pronto a sacrificare il rispetto dei costumi turchi per piacere alle dame parigine («Je ne puis estre pour ceux qui disent que cette Piece n’a rien d’assez Turc; il y a des Turcs qui sont galans, et puis elle plaist; il n’importe comment; et il ne couste pas plus quand on a à feindre, d’inventer des caracteres d’honestes Gens et de Femmes tendres et galantes, que ceux de barbares qui ne conviennent pas au goût des Dames de ce Siecle, à qui sur toutes choses il est important de plaire», Jean Donneau de Visé, Le Mercure Galant. Contenant plusieurs histoires véritables, et tout ce qui s’est passé depuis le premier Janvier 1672. jusques au Depart du Roy, Paris, Théodore Girard, 1672, pp. 70-71). Nella Préface del Bajazet Racine rispondeva alle critiche adducendo il fatto che nelle corti, tanto francesi quanto turche, i comportamenti delle dame potevano essere verosimilmente i medesimi, e mostrando l’impetuosità del carattere del protagonista (sulla polemica circa il Bajazet e sulla risposta di Racine si veda l’edizione commentata della «préface» del Bajazet curata da Georges Forestier et Céline Fournial, site IdT — Les Idées du théâtre). Anche Calepio critica la rappresentazione falsata dei costumi orientali nel Radamiste di Crébillon e nell’Alexandre le Grand di Racine, nel quale il personaggio di Porus era rappresentato in modo troppo galante, secondo un topos ormai tradizionale della critica raciniana. Al contrario, secondo il pressoché unanime giudizio dei letterati del Settecento, Prospero Bonarelli si era comportato molto meglio nel rendere i costumi e i caratteri dei personaggi stranieri che agivano nel suo Solimano: Giovanni Antonio Bianchi (Dei vizj, e dei difetti del moderno teatro e del modo di corregergli e d’emendarli, Roma, Pagliarini, 1753, p. 285) e Pietro Napoli Signorelli lodano la bellezza degli intrighi cortigiani peculiari della corte ottomana (Storia critica de’ teatri antichi e moderni, t. IV, Napoli, Orsino, 1789, p. 110). Nel suo Esame critico Salìo si mostrava invece perplesso nei confronti di questo tentativo di rispettare i costumi nazionali dei personaggi: a suo modo di vedere questi erano del tutto inessenziali al raggiungimento del fine tragico, che chiamava in causa l’universale umanità dello spettatore e non la sua particolare provenienza nazionale («Ma per tornare all’Autore del Paragone circa i nazionali costumi: questi per lo tragico fine nulla d’essenziale certamente contribuiscono, o sia più, o meno antico il soggetto della Tragedia, o richiegga semplicità, o grandezza; quando il natural costume vi sarà ben’espresso, e alletterà, ed efficacemente passionerà lo spettatore. […] Io dimando, benchè lo spettatore fosse Italiano, e quell’altr’uomo o Greco, o d’altra più lontana, e straniera nazione; per la similitdine tuttavia del natural costume non ne sentirebbe forse gran compassione?», Giuseppe Salìo, Esame critico intorno a varie sentenze d’alcuni rinomati scrittori di cose poetiche, Padova, Comino, 1738, p. 306).
L’accusa di eccesso di galanteria rivolta ai personaggi della tragedia francese — a qualsiasi nazione essi appartenessero — era altresì topica, e si saldava a quella di ipocrisia rivolta ai drammaturghi, interessati a soddisfare il gusto delle dame che popolavano i teatri parigini. Rapin scriveva: «Peut-être que notre nation, qui est naturellement galante, a été obligée par la nécessité de son caractère à se faire un système nouveau de tragédie, pour s’accommoder à son humeur» (René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique publiée par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 103). Se i Greci erano portati dalla loro propria inclinazione democratica a raffigurare i sovrani derisi e umiliati, mentre gli Inglesi, a causa del temperamento insulare, preferivano rappresentare intrighi truculenti, secondo Rapin i Francesi, più umani e galanti, andavano incontro al genio del pubblico, formato per lo più da donne, le quali amavano gli intrecci amorosi: «nous sommes plus humains, la galanterie est davantage selon nos mœurs, et nos poètes ont cru ne pouvoir plaire sur le théâtre, que par des sentiments doux et tendres […]. Car en effet les passions qu’on représente deviennent fades et de nul goût, si elles ne sont fondées sur des sentiments conformes à ceux du spectateur. C’est ce qui oblige nos poètes à privilégier si fort la galanterie sur le théâtre, et à tourner tous leurs sujets sur des tendresses outrées, pour plaire davantage aux femmes, qui se sont érigées en arbitres de ces divertissements, et qui ont usurpé le droit d’en décider», ibid.). Concorde con lui si mostrava il Martello, il quale a sua volta insisteva sulla necessità di introdurre determinate trame per appagare il desiderio del pubblico femminile («Quindi è, che la donna, come violentemente a quest’affetto inclinata, e come quella, che rare volte da passioni più rilevanti preoccupata si trova, odierebbe quella rappresentazione, ove non avesse gran parte la sua passione favorita», Pier Jacopo Martello, «Della tragedia antica e moderna», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 236-237).
Sottilmente polemico era anche il pronunciamento del Fontenelle: il Francese ammetteva che, non conoscendo abbastanza i costumi dei popoli lontani, i cui eroi andavano rappresentando, i connazionali li rappresentavano simili ai propri («C’est l’effet ordinaire de notre ignorance de nous peindre tout semblable à nous, et de répandre nos portraits dans toute la nature. […] Quand nous voyons que l’on donne notre manière de traiter l’amour à des Grecs, à des Romains, et qui pis est, à des Turcs, pourquoi cela ne nous paraît-il pas burlesque? C’est que nous n’en savons pas assez; et comme nous ne connaissons guère les véritables mœurs de ces peuples, nous ne trouvons point étrange qu’on les fasse galants à notre manière», Bernard le Bovier de Fontenelle, Histoire du Théâtre François, in Id., Œuvres complètes, t. II, éditées par Georges-Bernard Depping, Genève, Slatkine, 1968, p. 308).
Sulla Querelle des Bérénices, altro importante tassello dello scontro teorico e drammaturgico tra Corneille e Racine, si rimanda all’articolo di Alain Viala, «La querelle des Bérénice n’a pas eu lieu», Littératures classiques, LXXXI, 2, 2013, pp. 91-106.
[5.4.6] Calepio passa infine agli elementi minori del costume, generalmente rispettati dai tragici francesi. Quanto al decoro circa «l’ufficio» — ossia il sacro vincolo di parentela che legava due personaggi imponendo un certo tipo di comportamento e di linguaggio —, egli nota come talvolta i personaggi del teatro di Corneille si rivelassero inopportuni: nella Théodore Placide si rivolgeva alla matrigna Marcelle, moglie di suo padre Valens, con estrema durezza, rimproverandole di essere la causa della sua infelicità («Triomphez-en dans l’âme, et tâchez de paraître/ Moins insensible aux maux que vous avez fait naître./ En l’état où je suis c’est une lâcheté/ D’insulter aux malheurs où vous m’avez jeté», III, 5, vv. 975-978); Dircé rimproverava in modo sfacciato alla madre di aver ceduto lo scettro a Edipo senza pensare al suo futuro («Mais j’oserai vous dire, à bien juger des choses,/ Que pour avoir reçu la vie en votre flanc,/ J’y dois avoir sucé fort peu de votre sang./ […] Quand vous mîtes le Sceptre en une autre famille,/ Vous souvient-il assez que j’étais votre fille?», III, 2, vv. 874-876). Quanto all’età, Calepio invece trova inappropriato il fatto che i personaggi di Britannicus, nell’omonima tragedia di Racine, e di Joas, nell’Athalie, benché ancora adolescenti, si esprimano come uomini maturi. Sul decoro che proveniva dalla convenienza dei discorsi dei vari attori all’età dei personaggi che rappresentavano si soffermava anche il Maffei nelle Annotazioni alla Merope, giustificando il cambiamento dell’emistichio di un verso pronunciato da Egisto, il quale, nel raccontare ciò che gli era accaduto, diceva in origine «fendendo/ l’acqua con gran fragor»; successivamente il Maffei aveva dato una patina più vivace alla battuta che era semplicemente diventata «piombò, e gran tonfo». Questa nota pittoresca era stata inserita perché si confaceva bene al carattere giovane del protagonista («Aggiungasi, che nel caso presente parla un giovane di fatto grande avvenutogli poco prima, e quale avea però vivamente fisso nella fantasia. Accade non di rado in somiglianti occasioni di veder persone vivaci che raccontano esprimere i moti, i gesti, e fino i suoni», Scipione Maffei, «Annotazioni alla Merope», in Id., Merope. Tragedia, Verona, Ramanzini, 1745, pp. 118).
Anche il Riccoboni tacciava i drammaturghi francesi di essere incapaci di attribuire ai personaggi delle loro tragedie un linguaggio e dei pensieri differenti a secondo dell’età e del sesso («on pourroit avec raison reprocher le même défaut à la plûpart des Tragiques François; on voit souvent chez eux les Héros, et leurs Confidens, les Femmes, et les Enfans parler le même langage, et sur-tout debiter des maximes, et des sentences avec la même pompe», Luigi Riccoboni, «Dissertation sur la Tragédie Moderne», in Id., Histoire du Theatre Italien, t. I, Paris, Caillot, 1730, p. 310). Calepio tocca infine il problema della coerenza dei personaggi e giudica i Francesi in modo generalmente positivo, fatta eccezione per il Rhadamiste di Crebillon. Lo stesso giudizio è riportato dal Quadrio, il quale aggiunge al personaggio di Rhadamiste, nell’elenco dei caratteri che trasgredivano la norma dell’«egualità», anche l’Oreste del Rucellai, che lo stesso Calepio censurerà nell’articolo successivo, accusandolo di trapassare troppo rapidamente dal coraggio indomito alla mollezza femminile (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. I, Bologna, Pisarri, 1739, p. 384).
Articolo V.
[5.5.1] Calepio riproduce in questo frangente considerazioni tradizionali circa il costume semplice della tragedia greca, ma condanna gli autori moderni che si sono limitati ad una meccanica imitazione di questi principi, senza riflettere che il gusto del pubblico contemporaneo era assai più ricercato e non poteva appagarsi di rappresentazioni spoglie che non contemplavano quella grandezza che era propria dell’epoca. In questo errore sarebbero cadute molte tragedie italiane, fra cui l’Oreste del Rucellai, la Merope del Torelli e altre che egli va citando nel corso di questo capo. Di conseguenza il Bergamasco propone un sistema poetico misto, in grado di recuperare quella semplicità della tragedia antica, ma di ornarla in modo tale da renderla gradita ad un pubblico moderno; un sovrano rappresentato in vesti misere e senza un adeguato apparato risulterebbe agli occhi degli spettatori settecenteschi poco verosimile. Tale critica non è rivolta alla tragedia francese, capace al contrario di lusingare il genio degli spettatori ed appassionarli.
Questa carenza di decoro delle tragedie italiane, dovuta ad un’eccessiva vicinanza ai modelli greci, emerge secondo Calepio in tre punti: quando viene prescelto un soggetto troppo antico; quando si rappresentano azioni inadeguate alla delicatezza moderna; quando i personaggi coinvolti nell’azione assumono comportamenti o fanno affermazioni che sono palesemente in conflitto con il costume moderno. A supporto della propria tesi il bergamasco cita due auctoritates critiche con le quali si trova spesso concorde: i Discorsi del poema eroico del Tasso e la Lettera intorno al comporre delle commedie e delle tragedie del Giraldi. Egli richiama nello specifico le parole con cui Tasso raccomandava di non prendere a soggetto di un poema una storia avvenuta in tempi o luoghi molto lontani, dal momento che queste imponevano l’osservanza di costumi antichi che sarebbero stati detestati dai lettori moderni («L’istoria di secolo o di nazione lontanissima pare per alcuna ragione soggetto assai conveniente al poema eroico, percohé, essendo quelle cose in guisa sepolte nell’antichità ch’a pena ne rimane debole e oscura memoria, può il poeta mutarle e rimutarle e narrarle come gli piace. Ma con questo comodo è un incomodo peraventura, e non picciolo, perché insieme con l’antichità de’ tempi è quasi necessario che s’introduca nel poema l’antichità de’ costumi; ma quella maniera di guerreggiare usata dagli antichi, i conviti, le cerimonie, e l’altre usanze di quel remotissimo secolo paiono alcuna volta a’ nostri uomini noiose e rincrescevoli anzi che no, come aviene ad alcuni idioti che leggono i divinissimi libri d’Omero trasportati in lingua», Torquato Tasso, «Discorsi del poema eroico», in Id., Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1963, pp. 98-99). Del Giraldi recupera invece le affermazioni con cui egli lodava Seneca per il perfezionamento dei costumi a cui aveva sottoposto i personaggi di Euripide («E quantunque queste persone abbiano buono costume in Euripide, l’hanno però ottimo in Seneca: come potete vedere nelle Troadi, le quali, quantunque paiono tolte da Euripide, sono però talmente trattate da Seneca, che ad aver superato Euripide non si desidera altro in lui da’ buoni giudizi, che egli avesse avuta così pure la lingua romana, come ebbe la greca Euripide: che non vi è alcuno che dirittamente giudichi che non gliele dia vinta nella maestà, e negli affetti, e nell’osservanza del costume e nella vivacità delle sentenze», Giambattista Giraldi Cinzio, «Discorso sulle commedie e sulle tragedie», in Id., Scritti critici, a cura di Camillo Guerrieri Crocetti, Milano, Marzorati, 1973, p. 210).
Sulla maestà e sulla semplicità della tragedia greca — elementi ritenuti talvolta positivi, talaltra decisamente meno — si erano soffermati diversi critici fra Sei e Settecento; Rapin pensava che l’amore introdotto nel teatro moderno deturpasse la maestosità delle tragedie greche, perdendo quella natura «admirable» che caratterizzava i drammi di Sofocle ed Euripide («Mais n’est-ce point , que d’y mêler de l’amour, qui est d’un caractère toujours badin et peu conforme à la gravité dont elle fait profession? En effet les tragédies mêlées de galanteries ne font point ces impressions admirables sur les esprits, que faisaient autrefois les tragédies de Sophocle et d’Euripide», René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique publiée par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 104).
Se sul tenore maestoso della tragedia non vi sono pareri dissonanti — il Gorini Corio insisteva con grande forza su questo punto —, quando si entra nel merito del giudizio le opinioni sono talvolta contrastanti. Nella Difesa del Costantino Ghirardelli assegnava alla tragedia italiana una maestosità superiore a quella greca, intendendo tuttavia con la «maestà» una convenienza di costumi che si addicesse alla delicatezza moderna (Giovanni Battista Filippo Gherardelli, «Difesa del Costantino», in Id., Il Costantino. Tragedia, Roma, Andreoli, 1660, p. 67). Quanto alla semplicità, altro carattere distintivo per antonomasia della tragedia greca, in grado, secondo Brumoy, di garantire al teatro antico maggiore «bienséance» rispetto a quello moderno («Il en sera sans doute de même du Théatre de nos jours, si les Muses Françoises veulent bien ne pas perdre de vûë les modelles Grecs, et ne pas dédaigner un Théatre qui a pour mere la nature, pour ame les passions, pour art la simplicité: Théatre peut-être inferieur au nôtre [à dire vrai] en dignité et en noblesse; mais superieur en simplicité et en bienséance», Brumoy, Le Théâtre des Grecs, t. III, Paris, Rollin, Coignard et Rollin fils, 1730, p. 318), essa non sempre è considerata un vantaggio. Lo stesso Brumoy riconosceva che talora quel «trop de simplicité» della favola greca poteva risultare meno piacevole di un intreccio moderno e brillante, e nel confronto fra il Filottete di Sofocle e il Nicomède di Corneille propendeva con risolutezza per quest’ultimo («Mais à en juger par rapport à nous, le trop de simplicité, et le spectacle dominant d’un homme aussi tristement malheureux que Philoctete, ne peuvent nous faire un plaisir aussi vif que les malheurs plus variés et plus brillans de Nicomede dans Corneille», Brumoy, Le Théâtre des Grecs, t. I, cit., p. 304). Nel suo parallelo fra la letteratura tragica greca e quella francese, l’abate Louis Jacquet considerava la semplicità greca una caratteristica poco gradevole, e raccomandava la scelta di soggetti più elaborati («Rien de plus facile, s’écrie le Partisan de la simplicité Gréque, que de remplir une Tragédie à l’aide de ces actions subalternes, et de filer cinq actes sans vuide. Il faut bien du génie pour soutenir une passion sans appui étranger, pour ne la nourrir que de son propre suc? Mais en faut-il moins pour la soutenir par une passion qui la contrarie et la combat? Est-il plus facile de réunir plusieurs intérêts opposés, en sorte qu’ils aboutissent tous au même terme? Les Anciens nourrissoient une passion de son propre suc? Aussi avons nous-vu combien elles étoient décharnées et languissantes. N’avons nous pas montré que cette simplicité dont on leur fait tant d’honneur, est souvent une véritable indigence?», Louis Jacquet, Parallèle des Tragiques Grecs et François, Lyon, Duplain, 1760, pp. 159-160). Lo stesso Voltaire censurava la Merope di Maffei — attraverso un ragionamento che probabilmente Calepio avrebbe condiviso, giacché, come si è visto, l’attacco ai classicisti parrebbe comprendere non soltanto il teatro di Gravina, ma anche quello del Maffei — perché, nel modulare il personaggio del vecchio Polidoro, il Veronese si era lasciato ammaliare dalla semplicità greca dando vita ad un carattere dimesso e familiare che sarebbe potuto piacere ad Atene, ma che di certo avrebbe stonato su di un palcoscenico parigino («Ces familiarités naturelles eussent été, à ce que je crois, bien reçues dans Athènes; mais Paris, et notre parterre, veulent une autre espèce de simplicité. Notre ville pourrait même se vanter d’avoir un goût plus cultivé qu’on ne l’avait dans Athènes», Voltaire, «Lettre à Monsieur le Marquis Scipion Maffei auteur de la Merope Italienne», in Scipione Maffei, Merope. Tragedia, Verona, Ramanzini, 1745, p. 166).
Al solito, il passo in questione del Paragone creava alcune perplessità in un lettore iperclassicista quale Salìo: il Padovano riteneva infatti che la semplicità greca potesse appassionare un pubblico moderno senza che ad essa fosse applicato alcun filtro per renderla più accattivante («Io so bene che se l’Edippo di Sofocle, od altra Greca Tragedia volgarizzata, su le scene fu posta, ebbe l’applauso pressoché universale, cioè di tutti coloro che stupidi, e incolti affatto non sono. Adunque la stessa sperienza può far conoscere, che le antiche Tragedie o non hanno quella semplicità che intende l’Autore, la qual disgustar possa gli spettatori moderni; ovvero con tutta la loro semplicità, essendo per altro ben condotte, non gli offendono, ma porgono loro diletto, ed hanno forza di passionargli», Giuseppe Salìo, Esame critico intorno a varie sentenze d’alcuni rinomati scrittori di cose poetiche, Padova, Comino, 1738, p. 308).
[5.5.2] Fra le tragedie italiane che, nell’imitazione troppo stretta degli esemplari greci, perdono in maestosità, Calepio cita l’Oreste del Rucellai e la Merope del Torelli; ma egli tende tuttavia a ritenere meno grave la colpa di questi drammaturghi, i quali si sono adeguati al costume greco perché i soggetti delle loro tragedie erano prese dal mito greco, rispetto a quella di altri poeti tragici che hanno cercato di conservare questa nociva semplicità all’interno di favole tratte dalla storia romana, come accade ad esempio nella Sofonisba del Trissino, e successivamente nell’Appio Claudio di Gravina. Quanto alla Sofonisba, Calepio riprende puntualmente la critica che alla tragedia del Trissino muoveva il Giraldi — già citato nel paragrafo precedente dal Bergamasco — nel Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie, laddove ammetteva che non tutto ciò che i Greci avevano fatto andava pedissequamente imitato. A tal proposito Giraldi censurava lo stesso passaggio della Sofonisba qui richiamato, in cui Lelio acconsentiva di andare al campo con Catone, non prima di aver veduto le stalle («Subito ne verrò, ch’i abbi vedute/ le stalle, e che cavalli entro vi sono», Gian Giorgio Trissino, La Sofonisba, II, 4, vv. 1098-1099). L’autore contestava questa caduta di stile di Trissino che guastava la maestosità del personaggio romano di Lelio: «Bastami per ora che possiate vedere che ciò che si trova negli autori greci, non è lodevole, né degno d’imitazione, e che non dee giudizioso scrittore dar tanto di riputazione alla autorità degli antichi che voglia anco imitare i lor vizi; come veggiamo aver fatto il Trissino in qualche parte della sua Sofonisba; e specialmente (per non narrarle tutte) ove è la contenzione tra Lelio e Massinissa, per cagione della moglie presa da lui, alla qual Catone si trappone, e ottiene che la lor contesa sia rimessa a Scipione, e dovendo andare Massinissa a Scipione per terminarla, dice che tantosto vi anderà che egli abbia vedute le stalle de’ cavalli. Potrebbe dire Trissino che è officio di re (massimamente nel campo) aver cura de’ cavalli, e io nol nego; ma dico che in quella occasione le stalle e i cavalli non avevano a distornar Massinissa, non avendo egli allora a tor la lancia, e andare in battaglia co’ nemici. So che dirà che simili cose si trovano ne’ Greci; ma gli risponderò io, che ciò che fecero i Greci nelle loro rappresentazioni non fu lodevole; e che avendo egli per le mani cosa che apparteneva alla maestà romana, doveva tralasciare in questa parte il costume greco, e accostarsi al romano», Giambattista Giraldi Cinzio, «Discorso sulle commedie e sulle tragedie», in Id., Scritti critici, a cura di Camillo Guerrieri Crocetti, Milano, Marzorati, 1973, p. 209). Il Giraldi aveva peraltro insistito su questa argomentazione nel Giudizio sopra la tragedia di Canace e Macareo, laddove asseriva che nelle tragedie greche «Re e Reine e altre persone gravi, […] vengono tra sé a villanie e a contenzioni tali, a’ quali si vergognano venire oggi dì non pure gli uomini di tanta maestà, ma i mediocri stessi», e ammoniva i drammaturghi contemporanei ad adeguare le favole al costume dei tempi: «È di avere riguardo (come dianzi vi dissi) al dicevole e non dicevole de’ tempi ne’ quali voi scrivete, e qual degnità sostengano le persone di grado e di maestà nella nostra etade, e a questo accomodarsi più tosto che a seguir quello ne’ Greci, che forse ne’ suoi tempi era così degno di loda come oggi merita grandissimo biasimo» (Giambattista Giraldi Cinzio, «Giudizio sopra la tragedia di Canace e Macareo», in Sperone Speroni, Canace e scritti in sua difesa, a cura di Christina Roaf, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982, p. 150).
Ben più attento a conservare il costume antico senza annoiare gli spettatori o andare contro al decoro moderno si era rivelato invece Antonio Conti, il quale già aveva giustificato la propria scelta di soggetti romani con affermazioni simili a quelle contenute nel Paragone di Calepio. Conti infatti ammetteva che nella storia romana si trovavano usi, costumi e pensieri molto più simili a quelli contemporanei rispetto al mito greco o alle storie orientali; inoltre i soggetti romani possedevano intrinsecamente una maestosità molto maggiore rispetto a quelli greci («Questa Storia [Romana] contiene usi, costumi, e modo di pensare simili, o almeno più proporzionati a’ nostri, che que’ de Greci, e d’altre nazioni a noi d’imperio, o d’età men vicine. Si possono dunque per essa intendere, e gustar meglio, e più tosto gl’insegnamenti offertici dalla Tragedia. […] Taccio che l’idea della maestà del Romano imperio e lo splendore, e la magnificenza dello stile degli Scrittori Romani non poco contribuiscono a render l’azione e l’espressione di lei maravigliosa», Antonio Conti, «Lettera a Sua Eminenza il Signor Cardinale Bentivoglio d’Aragona», in Id., Il Cesare. Tragedia, Venezia, Bassaglia-Bettinelli, 1743, p. 8). A Calepio sembra tuttavia poco decoroso che l’imperatore si trattenga nell’atrio del palazzo a pronunciare importanti discorsi politici; Conti si difendeva d’altra parte, come già accennato (Paragone IV, 4, [2]), alludendo alla maestosità dell’atrio del palazzo romano nelle ricostruzioni del veronese Monsignor Francesco Bianchini («L’atrio dispiace all’autore, perchè gli pare, che non convenga alla maestà d’un Dittatore il trattenersi in quel luogo a ragionar lungamente. Immagini egli, che l’atrio della casa di Giulio Cesare sia simile a quello del Palagio de’ Cesari ideato da Monsign. Bianchini, e svanirà l’inverosimiglianza», Antonio Conti, «Prefazione», in Id., Prose e poesie, vol. I, Venezia, Pasquali, 1739, p. n.n.).
[5.5.3] Calepio passa quindi ad esaminare la questione del decoro relativamente alla scelta del soggetto, condannando alcune azioni che gli appaiono improprie e inadatte a essere rappresentate davanti a un pubblico moderno. Sotto questo profilo egli censura l’Appio Claudio di Gian Vincenzo Gravina, nel quale veniva messo in scena il progetto del magistrato romano di violare la giovane Virginia. Anche Saverio Bettinelli in una lettera in versi all’abate Granelli condannava il Gravina — citando in nota proprio il presente giudizio di Calepio che sottoscrive in pieno — accusandolo di aver privato la figura antica della grandezza che gli era propria («Vedi Appio Claudio; ei mira bieco il freddo/ imitator, che Greco ai sensi a i detti/ vani e loquaci di Roman l’ha fatto,/ e traditor d’una fanciulla Eroe», Diodoro Delfico [Saverio Bettinelli], Versi sciolti, Milano, Marelli, 1755, p. 71).
Questa prudérie circa la natura del soggetto aveva di fatto reso difficile la riscrittura del nucleo tragico di Edipo, come notava ad esempio Giovanni Battista Filippo Ghirardelli, il quale, giudicando indecente la favola edipica, e postulando in definitiva una nozione relativistica del gusto, riteneva la tragedia italiana superiore in maestosità e decoro a quella greca («Per parlar solo dell’Edipo, che Aristotile il propose per esemplare alle future Tragedie: il Signor Orsatto Giustiniano che lo tradusse in verso Italiano con eccellenza a giudizio di tutti i Dotti di quell’età; e che lo vide rappresentato dall’Accademia Olimpica Vicentina con magnificenza splendidissima d’apparato, il vide con suo disgusto anche privo d’applauso […] mercè che la sentenza, e ’l costume di covenienza dovuti all’Edipo nella rozezza de’ secoli, in cui fu composto da Sofocle; non si confacevano alla dilicatezza ed alla civiltà della gente Italiana, troppo di maestà superiore alla Greca. Non si può dunque nelle cose che son soggette al gusto degli Uomini, ed all’uso delle Nazioni, impor legge tale, che debba esser sempre salda, e costante», Giovanni Battista Filippo Ghirardelli, «Difesa del Costantino», in Id., Il Costantino. Tragedia, con la difesa della medesima, Roma, Andreoli, 16602, pp. 66-67).
Sarà interessante notare come, peraltro, l’affermazione del modello dell’Edipo Re, dovuta alla teorizzazione aristotelica, aveva modificato sostanzialmente la percezione della decorosità di determinate azioni; sebbene si riconoscesse la difficoltà di mettere in scena un moderno Edipo — difficoltà dovuta peraltro spesso, più che al soggetto moralmente spigoloso, all’ambiguo rapporto fra colpa e punizione nella tragedia sofoclea —, le azioni che contemplavano tentativi di incesto, come ad esempio nella Fedra, riuscivano meno sconvenevoli di quelle basate su un paventato stupro. Anzi, le manomissioni del soggetto di Fedra, tese a rendere la regina più accostumata, venivano spesso deplorate, come accade nella Dissertation sur les tragédies de Phèdre et Hyppolite, uscita anonima nel 1677, ma attribuita al Subligny, nel quale si mettevano a confronto le Phèdres di Racine e di Pradon: la tragedia di Pradon risultava meno godibile di quella raciniana, in quanto i tentativi di «addolcire» un soggetto così crudo finivano per guastare la bellezza della favola antica («car enfin tous les efforts que fait Monsieur Pradon pour adoucir un si rude sujet, ne lui peuvent servir de rien, il falloit le traiter dans son affreuse vérité, ou ne le point toucher du tout; c’est un trait trop connu de la Fable reçuë, qui demande autant d’exactitude, et qui a autant de crédit que le plus célébre passage des Histoires les plus approuvées; et si comme l’assurent tous les Auteurs anciens et modernes qui ont traité du Poëme Dramatique le sujet de la Tragédie (n’étant point de pure invention) doit être connu et fondé dans l’Histoire ou dans la Fable reçuë», Subligny, «Dissertation sur les Tragédies de Phédre et Hyppolite» [1677], in Recueil de dissertations sur plusieurs tragédies de Corneille et de Racine, [par François Granet], t. II, Paris, Gissey et Bordelet, 1740, pp. 360-361).
Peraltro il soggetto di Virginia godrà di una straordinaria fortuna internazionale soprattutto nel tardo Settecento, diventando una favola adatta a descrivere le tensioni che animano il periodo pre e post-rivoluzionario. Trattata originariamente da Michel Le Clerc (La Virginie Romaine, 1645), la tragedia di Virginia viene riproposta dal Campistron in una Virginie (1683) tradotta in italiano dallo Zaniboni nel 1721, e da Nicolas Péchantrés nel 1690. Nel primo Settecento, oltre all’Appio Claudio (1710) di Gravina si contano la Virginia di Pansuti (1725), quella del chierico Giovanni Antonio Bianchi (1732) e la Virginia spagnola di Montiano y Luyando (1750). Nella seconda parte del secolo le riscritture si moltiplicano: si contano le versioni di Giovan Giorgio Alberti (Appio Claudio, 1762), di Louis-Sébastien Mercier (1767), quella di Pietro Bicchierai (1767), di Durante Duranti (1768), la riformulazione tedesca del Lessing (Emilia Galotti, 1772) e dello Schiller (Fiesco, 1782), l’arcinota tragedia di Alfieri (1783), la Virginie di Jean-François de La Harpe (1783) e quella di Antoine Le Blanc de Guillet (1786), ed infine le prove di Alessandro Pepoli (1794) e di Francesco Saverio Salfi (La Virginia bresciana, 1797-1798).
Calepio ritrova infine delle gravi mancanze circa il decoro in due tragedie cinquecentesche italiane come la Tullia di Martelli e l’Oreste di Rucellai: nella tragedia del Martelli egli condanna il colloquio fra la protagonista e la Regina, in cui l’impertinente Tullia si rivolge in modo irrispettoso alla madre («Poich’io posso parlar, come a me piace,/ e so in che stato or mi mantiene il Cielo,/ e quel ch’innanzi il tuo parlar mi reca,/ io parlerò; se tu vorrei lasciarmi/ compitamente dir le mie ragioni./ Io non son folle a lamentarmi: e vani/ non sono i miei lamenti, e vivo in pace/ più ch’io non viverei sendoti amica./ Morte non cerco poi, ch’io sono in vita,/ pria che lo spirto queste membra lasci:/ Ma se ’l tuo micidial costume antico/ vuol che sen’ vadi innanzi tempo al Cielo;/ caro mi fia morir per le tue mani/ come l’esser di te nata mi spiace», Lodovico Martelli, Tullia, in Id., Rime, Lucca, Cappuri, 1730, p. 267). Secondo il Bergamasco il problema della Tullia è ancora maggiore, in quanto nel racconto liviano la donna non era mossa dall’odio nei confronti dei genitori, ma esclusivamente dall’ambizione (Ab urbe condita, I, 45-48). Dell’Oreste di Rucellai egli invece non approva il fatto che il drammaturgo faccia recitare al giovane Oreste sentenze che sarebbero più appropriate sulla bocca di vecchi sapienti («E non sa, che l’uom muor dal dì che nasce,/ e ch’ei comincia a viver, quando e’ muore», III, 4; «Pensate, che lo spirto che Dio tolse/ dall’ampio grembo suo, poscia lo pose/ com’una luce in questi ciechi sensi,/ desia tornarsi nel suo patrio albergo», ibid.). Questa accusa era stata rivolta spesso dai Francesi alle tragicommedie italiane, nelle quali gli umili pastori comparivano in scena a filosofare inverosimilmente; la critica era stata ripresa nei Prologhi alle sue tragedie da Gravina, in polemica con l’Aminta e il Pastor Fido («Anzi l’Aminta ch’e più pura e semplice/ pur adduce ragioni filosofiche/ e si compiace d’acumi retorici,/ spargendo spesso delle care arguzie,/ di cui nel Pastor Fido e tanta copia,/ ch’anche le ninfe fanno da teologo,/ e i suoi pastori tanto acuti e garruli/ par che nutriti sien nell’anticamere,/ e trattan materie più politiche/ di quelle della corte di Tiberio,/ discorsi ordendo che filze rassembrano/ di matrigali e sillogismi logici», Amedeo Quondam, «Addenda graviniana. I prologhi inediti alle Tragedie con alcune osservazioni sulla “visione tragica” delle stesse», Filologia e Letteratura, XVI, 1970, pp. 265-320: 280-281).
[5.5.4] Vengono inoltre censurate alcune scene nelle quali i personaggi tengono un comportamento che al Bergamasco appare sconveniente. In prima battuta viene criticato il discorso con cui la regina Rusilla nel Torrismondo del Tasso si rivolge alla giovane Rosmonda, decisa a custodire per tutta la vita la propria verginità, illustrandole i piaceri della vita coniugale per convincerla a sposare Germondo. Nell’acceso dialogo in cui si contrappongono i valori propugnati dalla ragazza, che ritiene la pudicizia la qualità principale del sesso femminile, e la posizione della madre, la quale invece esalta le doti della bellezza femminile, Rusilla arriva a descrivere la nostalgia che lei, vedova, prova della passata vita matrimoniale, ricordando i teneri momenti di intimità passati con il marito: «Lassa, né torno a ricalcar giamai/ lo sconsolato mio vedovo letto,/ ch’io no ’l bagni di lagrime notturne,/ rimembrando fra me ch’un tempo impressi/ io solea rimirar cari vestigi/ del mio signore, e ch’ei porgea ricetto/ a’ piaceri, a’ riposi, al dolce sonno,/ a’ soavi susurri, a’ baci, a’ detti,/ secretario fedel di fido amore,/ di secreti pensier, d’alti consigli» (II, 4, vv. 126-135). Il Tasso riprende in questo frangente, come ben nota Stefano Verdino, la quaestio umanistica “An uxor sit ducenda”, riprodotta in svariate occasioni nella trattatistica del Cinquecento (Stefano Verdino, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 95-97).
Calepio censurava questi versi, ritenuti indecenti, separandosi peraltro, almeno in parte, dalla critica tassiana sei-settecentesca che, quando aveva condannato il Torrismondo, ne aveva riprovato piuttosto l’eloquenza ingiustificatamente pomposa ed eccessivamente elaborata, come dimostrano i tagli proposti dal Maffei — che tuttavia non riguardano le battute messe sotto accusa dal Bergamasco (Scipione Maffei, Teatro Italiano, t. II, Verona, Vallarsi, 1723, pp. 141-144) —, o lo stesso esperimento del Martello, il quale, giudicando il Torrismondo maestoso nella dipintura degli affetti, ma deplorevole a causa della prolissità delle scene («Stimando egli [il Tasso], che il verso eroico fosse quello, che più alla maestà, e serietà del Poema Tragico fusse conveniente, ne costituì il Torrismondo; e vedendo per lo contrario, che detto verso non addolcito da rima, sarebbe riuscito peggio, che prosa, se con maestose, e poetiche forme di dire, e con frequenti apoftegmi non s’adornava, l’ornò, dimodoché, amplificando, esaggerando, e replicando in varie maniere, e sotto varie figure le cose stesse, trabocca in una inevitabile lunghezza, la quale fa, che l’uditore dal molto udito, talvolta poco raccoglia», Pier Jacopo Martello, Del verso tragico, cit., p. 166), abbozzava una riscrittura assai più asciutta in prosa della scena prima dell’atto terzo (cfr. Grazia Distaso, «Una riscrittura settecentesca del “Torrismondo” e il trattato “Del verso tragico” di Pier Jacopo Martello», La Nuova Ricerca, XI, 2002, pp. 315-323).
I Francesi, come il Rapin (René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique publiée par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 111), o ancor più La Sante (Gilles-Anne-Xavier de La Sante, Utrum Galli cæteros inter Europæ populos ingenii palmam in re litteraria sibi vindicare possint Oratio, Paris, Barbou, 1728), si limitavano a demolire l’impianto generale della tragedia, senza entrare nel merito di difetti specifici, ma non mancavano gli apprezzamenti, talora entusiastici, ad esempio di Giovan Mario Crescimbeni («Tra le più scelte tragedie largamente risplende il suo Torrismondo», Giovan Mario Crescimbeni, Commentarj del Canonico Gio. Mario Crescimbeni custode d’Arcadia, intorno alla sua Istoria della volgar poesia, vol. II, 1, in Id., Dell’istoria della volgar poesia, vol. II, Venezia, Basegio, 1730, p. 444), e soprattutto di Pietro Napoli Signorelli («Ecco quello che a me sembra che abbia di eccellente. Un carattere tragico scelto con sommo giudizio ottimo per conseguire il fine della tragedia: una fina dipintura delle passioni: un piano regolare: un movimento nell’azione progressivamente accelerato: una versificazione armoniosa: una nobile, elegante e maestosa gravità di stile: un patetico vivace che empie, interessa, intenerisce, commuove ed eccita il bel piacere delle lagrime», Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, t. III, Napoli, Orsino, 1788, pp. 137-138). Nell’Ottocento l’accusa di mancanza di decoro del discorso della Regina viene riproposta dal Paravia: «Comune altresì co’ tragici di quel secolo egli ha il peccato delle massime e osservazioni morali, le quali occorrendo di continuo nel dialogo de’ personaggi, e tenendo luogo di que’ teneri e forti sentimenti, che le diverse lor situazioni dovrebbero suscitare, lascio pensare a voi come concorrano a render quella tragedia fredda e noiosa. Mentre però il Tasso la fa da filosofo più di quel che bisogna, per una bizzarra contraddizione la fa poi da libertino dove meno il dovrebbe; testimonio quella viva descrizione che fa la Reina de’ diletti amorosi, per indurre Rosmonda allo stato matrimoniale; descrizione, che se in bocca di una vecchia, com’è la Reina, eccita a riso, porta al pudico orecchio di una ritrosa fanciulla, com’è Rosmonda, commuove a sdegno» (Pier Alessandro Paravia, Discorsi accademici ed altre prose, Torino, Fontana, 1845, p. 146).
Sconveniente appare al Calepio anche il discorso di Merope, nel finale dell’omonima tragedia del Torelli, laddove la regina compiange la fine del tiranno Polifonte, che per lei era appunto un «cortese amante» e che nei versi riportati a testo (vv. 2645-2647; 2658-2662) lamenta la morte dei due sovrani che ha amato. In questo caso il Bergamasco riprendeva il giudizio formulato da Giovan Gioseffo Orsi nella sua Prefazione alla Merope del Maffei, inclusa già nell’edizione modenese della tragedia (Modena, Capponi, 1714), in cui, riflettendo sulla protagonista femminile della tragedia torelliana, la trovava ben meno vigorosa e indecorosamente volubile del personaggio messo in scena dal Veronese: «Né mi pare, a dir vero, che tratti sì maschili, e vigorosi le attribuisca il Co. Torello, massimamente nel fine, ove cade la sua Merope in qualche femminile mollezza; lagnandosi della giusta punizione di Polifonte, quasi altrettanto che della ingiusta uccisione del suo primo buon Consorte Cresfonte, e facendo al Tiranno, e al Marito un quasi eguale elogio» (Merope. Tragedia del Marchese Scipione Maffei dedicata all’alterzza serenissima di Rinaldo I, duca di Modena, Reggio, Mirandola &c. e illustrata colla Giunta d’essa Dedicatoria, e d’una Prefazione del Marchese Giovan Gioseffo Orsi, e d’alcune Annotazioni del Padre Sebastiano Pauli, Modena, Soliani, 1735, p. xxx).
Sulla trattazione letteraria del matrimonio si veda anche lo studio di Fabio Danelon, Né domani né mai: rappresentazione del matrimonio nella letteratura italiana, Venezia, Marsilio, 2004; sulla fortuna tragica della discussione si rimanda a Paola Cosentino, «Tragiche eroine. Virtù femminili fra poesia drammatica e trattati sul comportamento», Italique, IX, 2006, pp. 69-99. Sulla figura della regina madre nel Torrismondo si veda infine Matteo Bosisio, «“Pur lieta almeno e fortunata i’ vissi”. La regina madre nel Re Torrismondo di Tasso», Rivista di studi italiani, XXXI, 1, 2013, pp. 22-46.
[5.5.5] Passando infine alla coerenza dei personaggi, Calepio censura il personaggio di Oreste nella tragedia del Rucellai: di questo protagonista egli non apprezza l’improvviso trascorrere dall’eroismo alla tenerezza che si verifica sia nel dialogo con Pilade che apre la tragedia (Giovanni Rucellai, L’Oreste, in Scipione Maffei, Teatro Italiano, o sia scelta di tragedie per uso della scena, vol. I, Verona, Vallarsi, 1723, pp. 90-94), sia in seguito, quando chiede conforto al Coro di donne (ivi, pp. 120-122). Calepio reputa che in questo caso il Rucellai abbia tentato di riprodurre nel suo eroe le fattezze del pio Enea virgiliano, incline alla commozione; il figlio di Anchise infatti, di fronte al tempio di Giunone in costruzione a Cartagine, scorgendo le immagini che raffigurano l’assedio di Troia e ripensando al dolore di Priamo, scoppiava in un pianto che delineava icasticamente la pietà dell’eroe («Constitit, et lacrimans, “Quis iam locus” inquit “Achate,/ quae regio in terris nostri non plena laboris?/ En Priamus! Sunt hic etiam sua praemia laudi;/ sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt”», Eneide, I, 459-462). Calepio elenca poi altri punti nei quali l’eroe virgiliano è sorpreso a piangere: quando ascolta le parole del fantasma di Creusa, conscio che non la rivedrà più (II, 790); quando si congeda da Andromaca, la quale aveva consegnato ad Ascanio vesti ricamate d’oro (III, 492); quando Palinuro muore, abbandonando la nave che guidava (V, 869). Secondo Calepio questa consuetudine lacrimosa indebolisce la figura dell’eroe e ne mina in profondità la coerenza, benché spesso essa sia stata considerata un pregio dagli ammiratori di Virgilio. Infine cita un passaggio della Repubblica di Platone in cui il filosofo censurava Omero per aver raffigurato i propri eroi eccessivamente scomposti nel dolore, quando invece nel lutto è consigliabile mantenersi calmi e sopportare da forti (Platone, La Repubblica, X, 605b-606e).
Rucellai, nel tentativo di ricostruire, anche grazie al modello di Enea, un eroe tragico cristiano (Cfr. Valentina Gallo, «Una tragedia cristiana: l’Oreste di Rucellai», Esperienze letterarie, IV, 2001, pp. 3-29; Ead., Da Trissino a Giraldi: miti e topica tragica, Manziana, Vecchiarelli, 2005, p. 96), erediterebbe dal condottiero troiano le medesime contraddizioni. Anche il Quadrio sottolineava la filiazione dell’Oreste di Rucellai dall’Enea virgiliano, biasimandone l’incoerenza (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, I, Bologna, Pisarri, 1739, p. 384).
D’altra parte, qualche anno dopo la pubblicazione di Calepio, Pietro Francesco Bottazzoni rifletteva ancora sul «troppo piangere degli eroi», biasimando in prima battuta proprio l’Enea di Virgilio («Detesterò bensì ogni volta che farà il Poeta in tale Eroe frequentissimo il pianto, e fuori della proprietà d’uomo dotato di grand’animo; essendo che siccome questi nell’altre cose si mostra superiore ad ognuna di quelle avversità, che sono capaci di perturbare smodatamente gli altrui animi non assuefatti all’abito della prudenza; così ancora nel pianto dovrà mostrare la stessa prudenza per meritare giustamente l’attribuitogli titolo di Eroe dal Poeta», Pietro Francesco Bottazzoni, Lettere discorsive intorno ad alcuni poetici abusi pregiudizievoli sì al decoro della Religion Cattolica come alla buona Morale Cristiana, Napoli, Moscheni, 1733, p. 16).
Articolo VI.
[5.6.1] Calepio viene ora esaminando l’osservanza, da parte dei drammaturghi, del criterio della somiglianza, che consiste nella coerenza del personaggio con ciò che di lui narrano la storia e la fama. Egli ritrova i Francesi spesso difettosi sotto questo aspetto, a causa principalmente di due tipi differenti di errore: talvolta essi innalzano oltre misura la qualità del protagonista, rendendolo inverosimile, in quanto le doti eroiche che gli vengono attribuite non sono confacenti a quelle che gli assegna la storia o il mito; talaltra li sminuiscono, facendoli passare per dei semplici «amorosi», senza mettere in luce il carattere eroico dal quale sono per tradizione contraddistinti. Il prototipo del primo tipo di anomalia viene ritrovato da Calepio nel Philoctete che compariva, come personaggio invero assai originale, nell’Œdipe (1719) del giovane Voltaire. Il Bergamasco si era soffermato già in parte sulla tragedia del francese nella giovanile Apologia di Sofocle (cfr. Mario Scotti, «L’“Apologia di Sofocle” di P. de’ Conti Calepio», Giornale storico della letteratura italiana, CXXXIX, 427, 1962, pp. 392-423), in cui ribatteva punto per punto alle accuse rivolte dall’ambizioso Voltaire all’Edipo Re di Sofocle nella Lettre contenant la critique de l’Œdipe de Sophocle, uno dei documenti che costituivano il ricco paratesto con cui era stata pubblicata la tragedia voltairiana. In quel contesto già trasparivano alcune perplessità sul dramma in questione, benché l’attenzione dell’autore fosse rivolta principalmente alla difesa del dramma sofocleo; nel Paragone egli si sofferma più compiutamente sull’Œdipe criticando proprio il personaggio di Philoctete, la cui presenza, da una parte, guastava l’attuazione del meccanismo patetico (Paragone IV, 3, [3]), dall’altra nuoceva alla verosimiglianza del dramma, poiché veniva appunto rappresentato come un eroe eccessivamente forte e magnanimo rispetto al ritratto che di lui dava il mito. Nel suo Œdipe Voltaire, seguendo le orme di Corneille, propendeva infatti per una soluzione galante che si giovava dell’introduzione del personaggio di Philoctete, tornato a Tebe in seguito alla morte dell’amico Ercole, dopo essersi allontanato per raffreddare la passione che lo spingeva verso Jocaste, già sposata con Laius, benché a sua volta innamorata di Philoctete. Il ritorno dell’eroe provocava il turbamento della regina, ma anche l’ira da parte del popolo, che lo riteneva responsabile della morte di Laius, al quale si era dimostrato sempre avverso. Secondo Calepio i tratti eroici di Philoctete, che si manifestano nei primi due atti, ed in particolare nel confronto con Edipo (II, 4), nel quale egli si difendeva dall’accusa di aver ucciso Laio, sono esagerati da Voltaire, che parrebbe sussumere nel personaggio da lui introdotto le caratteristiche della grandiosa figura dell’Ercole rappresentato da Seneca nell’Hercules Furens. Già Voltaire si diceva d’altra parte conscio dell’impropria statura mitica assegnata al proprio personaggio, come si evince dal commento auto-esegetico che chiudeva l’apparato paratestuale del suo Œdipe (Cinquième lettre qui contient la critique du nouvel Œdipe). Tuttavia egli si giustificava col dire che Philoctete, dovendosi discolpare delle infamanti calunnie che gli erano state rivolte, aveva verosimilmente il diritto di parlare bene di sè stesso: «J’ai voulu donner à Philoctète le caractère d’un héros, et j’ai bien peur d’avoir poussé la grandeur d’âme jusqu’à la fanfaronade. Heureusement j’ai lu dans Madame Dacier, qu’un homme peut parler avantageusement de soi lors qu’il est calomnié: voilà le cas où se trouve Philoctète. Il est réduit par la calomnie à la nécessité de dire du bien de lui-même» (Voltaire, «Cinquième lettre qui contient la critique d’un nouvel Œdipe», in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, p. 366).
Il personaggio di Philoctete è stato in passato al centro di un conflitto di interpretazioni, dal momento che gli studiosi hanno riconosciuto in lui talvolta lo strumento di una proposta deista (René Pomeau, La Religion de Voltaire, Paris, Nizet, 1956), talaltra una figura pretestuosa inserita dal Voltaire per mettere in discussione la validità della monarchia di diritto divino (Ronald Ridgway, La propagande philosophique dans les tragédies de Voltaire, Genève, Institut et Musée Voltaire, 1961, pp. 64-65), oppure anche il perno attorno al quale era possibile impostare una psicolettura dell’autore (José-Michel Moureaux, L’Œdipe de Voltaire: introduction à une psycholecture, Paris, Archives des lettres modernes, 1973). Recentemente vi si sofferma anche Hélène Bilis, la quale insiste sul fatto che Philoctète, erede della memoria del virtuoso Ercole, metta in questione, attraverso il suo eroismo, la supremazia del monarca Œdipe: Hélène Bilis, «Poétique tragique et pensée politique: La mise en scène de la souveraineté dans l’Œdipe de Voltaire», Symposium, LXIV, 4, 2010, pp. 258-274.
[5.6.2] Al contrario, Calepio ritrova manchevoli Racine e Crébillon nel rispetto del carattere di Ippolito e di Elettra, figurati come personaggi amorosi, benché le antiche favole li rappresentassero al contrario come degli eroi rigidamente refrattari ad ogni debolezza di questo tipo. Ippolito veniva infatti sempre rappresentato come un uomo dedito esclusivamente all’arte venatoria e totalmente disinteressato all’eros: Igino nelle Favole scriveva che Ippolito, ucciso da un toro inviato da Nettuno su richiesta di Teseo, era stato richiamato in vita da Esculapio per intercessione di Diana, del quale era devoto (Fabulae, XLVII); allo stesso modo ne parlavano Ovidio nelle Metamorfosi — che faceva narrare allo stesso eroe l’incredibile vicenda di quell’«aliquem Hippolytum», ritornato dall’Ade grazie al «valido medicamine» del figlio di Apollo (XV, 493-546) — e Virgilio nell’Eneide («Namque ferunt fama Hippolytum, postquam arte novercae/ occiderit patriasque explerit sanguine poenas/ turbatis distractus equis, ad sidera rursus/ aetheria et superas caeli venisse sub auras,/ Paeonis revocatum herbis et amore Diana», VII, 765-769). Calepio riporta infine la testimonianza di Orazio, il quale, all’interno di un’ode intesa a descrivere l’incertezza del domani, afferma che neppure Diana è stata capace di liberare dal regno delle tenebre il pudico Ippolito («infernis neque enim tenebris Diana pudicum/ liberat Hyppolitum», IV, 7, 25-26). Per questo motivo Calepio reputa inverosimile l’amore per Aricie che, nella tragedia di Racine, contraddistingue l’altrove casto Hyppolite. La critica del Bergamasco non si limita in questo caso a descrivere l’episodio amoroso di Hyppolite e Aricie come inutile allo svolgimento della favola, prendendolo ad esempio per argomentare che la tragedia francese richiede necessariamente la rappresentazione degli amori. Egli condanna l’inverosimiglianza di questa passione sulla base dei racconti storici e poetici che descrivevano Ippolito come recalcitrante di fronte ad ogni sentimento di natura erotica. Dello stesso parere di Calepio si mostrerà Juan Andrés («Quanto è freddo, e nocivo all’interesse del dramma l’inverosimile amore d’Ippolito ad Aricia nella Fedra?», Juan Andrés, Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura, Parma, Stamperia Reale, 1785, p. 315).
[5.6.3] La critica di Calepio è indirizzata congiuntamente all’Électre di Crébillon (1709), in cui la protagonista viene figurata come amante di Itys, figlio di Egisto, benché l’eroina nutrisse nei confronti del secondo marito della madre un odio feroce, dettato dal fatto che questi era stato complice dell’assassinio del padre Agamennone. Crébillon adopera in questo caso un espediente tipico del teatro francese del Seicento, modulato principalmente sull’esempio del Cid di Corneille, ma poi riplasmato in moltissimi modi differenti, soprattutto nelle svariate riprese della favola di Antigone: introducendo un personaggio innamorato di un eroe con il quale aveva direttamente o indirettamente un conflitto in sospeso, i tragici francesi amplificavano le note patetiche e languide del dissidio tra amore e onore che derivava in origine dal teatro spagnolo. Questo è il tormento che affligge ad esempio i tantissimi Pirro e Polissena che popolano la scena francese tra Sei e Settecento. Calepio considera tuttavia inverosimile che Elettra possa essere mossa da questo tipo di passione nei confronti del figlio di un tale nemico, in virtù del fatto che le storie la rappresentano sempre come una donna risolutamente ostile al compagno di Clitemnestra. Benché egli non approvi in toto la tragedia di Sofocle imperniata su questo soggetto, non ammette una così grossolana trasgressione rispetto a ciò che era stato tramandato dagli autori greci. Al contrario Crébillon, il quale mostrava, nel pieno della battaglia tra Anciens e Modernes, una sensibilità ancorata allo sperimentalismo barocco, si vantava di aver osato prendere le distanze da Sofocle, in barba ai sacerdoti del culto degli antichi («J’ai bien un autre procès à soûtenir contre les zélateurs de l’Antiquité, plus considérable selon eux, plus léger encore selon moi, que le précédent: c’est l’amour d’Electre; c’est l’audace que j’ai eue de lui donner des sentimens que Sophocle s’est bien gardé de lui donner. Il est vrai qu’ils n’étoient point en usage sur la Scene, de son temps; que, s’il eût vécu du nôtre, il eût peut-être fait comme moi. Cela ne laisse pas d’être un attentat jusques-là inouï, qui a soulevé contre un Moderne inconsidéré toute cette Région idolatre, où il ne manque plus au culte qu’on y rend aux Anciens, que des Prêtres et des victimes», Prosper Jolyot de Crébillon, «Préface», in Id., Électre. Tragédie, Paris, Ribou, 1709, p. n.n.). Come nota Calepio, al solito attento lettore dei paratesti che accompagnano le tragedie francesi, Crébillon rivendica di aver voluto scrivere una tragedia nuova e, rifacendosi alla tradizione figurativa antica, dichiara di ritenere la creazione originale sempre migliore rispetto a qualsiasi tipo di riscrittura («En vain quelques sages protestent contre cet abus: les préjugés prévalent; et la prévention va si loin, que tels qui ne connaissent les anciens que de nom, qui ne savent pas seulement si Sophocle était Grec ou Français, sur la foi des dévots de l’antiquité ont prononcé hardiment contre moi. Ce n’est point la tragédie de Sophocle ni celle d’Euripide que je donne; c’est la mienne. A-t-on fait le procès aux peintres qui depuis Apelles ont peint Alexandre autrement que la foudre à la main?», ibid.). Se Crébillon considerava frutto dello zelo degli Anciens le critiche che gli venivano mosse circa la possibilità di introdurre gli amori di Itys ed Electre, Calepio rivendica in questo caso la natura “moderna” della sua censura: egli non è mosso, qui come negli altri casi, dall’idea che il teatro greco sia inarrivabile per i moderni, e debba quindi essere riprodotto alla lettera. Dal suo punto di vista, tradire così vistosamente i racconti storici, implica in prima battuta il venir meno della verosimiglianza, concetto che nella sua opera non è sinonimo di auctoritas, ma procede dall’esercizio di una ragione tutta settecentesca; secondariamente un’invenzione di tal fatta frustrerebbe le aspettative del pubblico, che sulle storie si era formato una nozione affatto diversa di Electre. Questo sbigottimento impedirebbe un’immedesimazione profonda con l’eroina e negherebbe l’attuazione di qualsiasi progetto catartico. Il verso latino citato a testo è tratto dall’Octavia, attribuita a Seneca («Amor est; iuuenta gignitur, luxu otio/ nutritur inter laeta Fortunae bona», vv. 562-563).
Sarà infine da ricordare che anche Voltaire avanzava una critica circa gli amori fra Itys ed Electre, ritenendoli poco verosimili ed inutili nell’economia del dramma: «L’intrigue paraît un roman trop peu vraisemblable. On a surtout condamné la partie carrée d’Electre avec Itis, fils de Thieste […]. Ces amours sont d’autant plus condamnables, qu’ils ne servent en rien à la catastrophe; on ne parle d’amour dans cette pièce que pour en parler» (Voltaire, «Jugement de M. de Voltaire sur les tragédies de Crébillon», in Parallele des trois principaux poëtes tragiques François, Corneille, Racine et Crébillon, Paris, Saillant, 1765, p. 105).
[5.6.4] Un modo per evitare di incorrere nei controsensi che si vedono rappresentati nella Phèdre di Racine o nell’Électre di Crébillon sarebbe forse quello di scegliere soggetti inventati, oppure poco noti. Calepio non fa grande distinzione in questo senso; se in precedenza già aveva accennato una critica alle favole imperniate su argomenti inventati, alludendo tanto alle tragedie del Cinquecento che sceglievano favole misconosciute, quanto alle pastorali seicentesche (Paragone I, 4, [18]), in questo caso parrebbe indicare soltanto le prime. Egli considera i drammi tratti dalla storia nota i migliori e ritiene meno efficaci pièces imperniate su argomenti inventati, come l’Orbecche del Giraldi, ambientata in Persia, il Torrismondo del Tasso — tratto in realtà dalla storia nordica (cfr. Elisabetta Selmi, «Olao Magno nella letteratura del Cinquecento e nel Torrismondo», in Il mito e la rappresentazione del Nord nella tradizione letteraria, Atti del Convegno di Padova (23-25 ottobre 2006), Roma, Salerno, 2008, pp. 69-103) —, l’Idalba di Maffeo Venier, presa dalla storia frigia, l’Elisa del Closio, imperniata sulle vicende dei regni di Creta e di Rodi, la Dalida del Groto, di soggetto indiano, e l’Acripanda di Decio da Orte, agita al tempo dell’impero egizio.
Calepio riprende in questo caso un’opinione piuttosto comune nel Settecento. Se già Castelvetro, nel suo commento ad Aristotele, si stupiva del fatto che il filosofo greco considerasse ammissibili le tragedie il cui soggetto era integralmente inventato, come nel caso del Fiore di Agatone (cfr. Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1978, pp. 283-286), nel Settecento è opinione comune che le favole di soggetto storico debbano essere privilegiate rispetto a quelle di argomento inventato. Anche Muratori si esprimeva a favore della tragedia tratta dalla storia, in un passo che probabilmente è alla base della presa di posizione di Calepio; benché egli avvertisse che una tragedia dal soggetto finto, come l’Orbecche o il Torrismondo, potesse potenzialmente dilettare tanto quanto i drammi fondati sulla storia, egli confessava di preferire questi ultimi («Non è dunque assolutamente necessario, che l’argomento delle Tragedie, e dell’Epopeia sia realmente vero, affinché possa chiamarsi bello, e ci diletti quel Poema. Confessiamo nulladimeno, che più dilettevoli, stimabili e belle saran l’Epopeie e le Tragedie fondate sulla Storia, che le interamente immaginate dalla Fantasia Poetica», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. I, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 130).
Maffei, dal canto suo, confermava che il soggetto del Torrismondo e della Dalida erano considerati nel Settecento frutto di invenzione, come si evince dalla sua introduzione alla tragedia del Tasso («Quanto all’Argomento della Tragedia, l’Autore secondo l’uso de’ buoni Antichi non giudicò necessario il premetterlo; e tanto più che non essendo tratto da Istoria vera, né da antica Favola non potea con citarne gli Autori, dar conto de’ Personaggi suoi. […] C’è stato chi ha rivocato in dubbio, se il soggetto di questa Tragedia sia del tutto finto: ma forse tale Istoria era, come dice il Cieco d’Adria di quella, ond’ei cavò l’argomento della sua Dalida: “Scritta nei libri, ch’arsero in Egitto”», Scipione Maffei, Il teatro Italiano, vol. II, Verona, Vallarsi, 1723, p. 13).
Risolutamente a favore delle tragedie storiche si mostrava anche Antonio Conti, il quale, concorde col Calepio, raccomandava che l’invenzione non entrasse in contrasto con i racconti storici («Le gare di gloria e di dominio cagionarono dunque le peripezie de’ Romani, e queste molto più che le favole, e le Greche storie conformi a’ nostri costumi, ed a noi note fin dalla fanciullezza, somministrano una serie di avvenimenti abbondante alla verisimile, appassionata, ed utile imitazione della Tragedia. Ciò ch’ella aggiunge alla Storia per ornarla, accrescerla, appassionarla, non debb’essere mai alla stessa Storia contrario», Antonio Conti, Le quattro tragedie, Firenze, Bonducci, 1751, p. 147).
Più benevolo nei confronti dei soggetti inventati era invece il Gorini Corio nel suo Trattato della perfetta tragedia: «L’idea della tragedia non essendo d’insegnarci un’Istoria, ma bensì di rappresentarci un’imitazione di costumi umani, siano questi fondati sopra Storia, o favola nota, od invenzione, tutto può egualmente servire al fine della Tragedia, quando abbia il sudetto fondamento del verisimile. Ella è la Tragedia come un quadro, su ’l quale abbiavi dipinto il saggio Pittore una Storia, od una Favola, od una sua totale invenzione, o tutto ciò che il suo capriccio gli abbia detto, non è a questo, a cui risguarda il buon conoscitore, ma bensì a vedere se sonovi le proporzioni, quale l’impasto e i colori, e tutto quello, che a formare non una Storia, ma una pittura si richiede» (Giuseppe Gorini Corio, Trattato della perfetta tragedia, in Id., Teatro tragico e comico, Venezia, Albrizzi, 1732, p. 10).
Il Quadrio invece, ritenendo, al pari di Calepio, Conti e Muratori, preferibili le tragedie storiche, cita fra quelle inventate, oltre all’Orbecche, l’Idalba e l’Acripanda, anche l’Ulisse il giovane di Lazzarini che invece, significativamente, il Calepio omette in questo frangente per evitare di condannare una tragedia che ritiene particolarmente bella (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 164).
[5.6.5] Calepio biasima anche alcune tragedie italiane ree di non rispettare nella dipintura dei caratteri ciò che tramandava la storia. In particolare egli se la prende con la Polissena di Annibale Marchese, nella quale viene rappresentato un acceso alterco fra Agamennone e Pirro (III, 1), coinvolti in una disputa che poco si addice alla natura eroica che ai due personaggi attribuisce la storia. Davanti all’oracolo che impone la morte di una delle figlie di Ecuba e Priamo, Pirro cerca infatti di difendere l’amata Polissena, mentre Agamennone, screditando il figlio di Achille, prova a preservare la vita della schiava Cassandra.
D’altro canto Calepio istituisce una gerarchia di valori circa le varie caratteristiche spettanti il costume: a suo parere il rispetto della convenevolezza — dato che interagisce direttamente con la sensibilità del pubblico settecentesco — deve essere preferito a quello della somiglianza storica. Sotto questo profilo egli si trova d’accordo con il padre René Le Bossu, autore del Traité du poème épique, il quale, passando in rassegna i tre aspetti principali del costume (convenienza, uguaglianza, somiglianza alla storia), ammette che talvolta esse possono entrare vicendevolmente in conflitto, come accade nel caso dell’imperatore Maurice rappresentato nell’Héraclius di Corneille, rappresentato dalla storia con atteggiamenti poco adatti a ciò che si richiede ad un personaggio del suo rango («quelque-fois ces qualitez se trouveront opposées en la même personne, de telle sorte que si l’on veut satisfaire à l’une, on fera une faute contre une autre. En voici un exemple dans la personne de l’Empereur Maurice. Ses inclinations ne seraient pas Convenables à la dignité d’Empereur, si on le faisoit avare: et elles ne seraient pas Semblables à ce que l’on en connoît, si on le faisoit magnifique et libéral», Père Le Bossu, Traité du Poëme Epique, Paris, Le Petit, 1675, p. 55). Di fronte a questa aporia egli loda Corneille, il quale si era rifiutato di rappresentare Maurice come l’avaro che ritraevano le storie, senza farlo apparire neppure eccessivamente prodigo («il [l’empereur Maurice] peut y être emploié, si la Fable souffre que l’on dissimule son avarice, sans la changer en libéralité: comme M. Corneille a fait dans son Héraclius», ivi, p. 57).
Calepio passa infine a censurare le tragedie di Duché, già precedentemente criticate sotto il profilo del costume (Paragone V, 2, [10]), in quanto nell’Absalon il protagonista è rappresentato come degno di compassione, benché egli venga ritratto come un malvagio incorreggibile nella Sacra Scrittura. Al contrario, l’autore aveva dipinto Jonathas, nell’altra sua tragedia sacra, come più reo di quanto riportato dalla storia sacra per renderlo in parte meritevole della condanna di Saul. Su questo punto cfr. Paragone V, 2, [2].
Tra i modelli positivi, quanto al costume, Calepio propone ancora Conti, capace di seguire rigorosamente la storia, dalla quale si allontanava soltanto quando il rispetto di quest’ultima implicava dei problemi in riguardo alla convenevolezza. Conti si disse molto orgoglioso di questo giudizio (Antonio Conti, «Prefazione», in Id., Prose e poesie, Venezia, Pasquali, 1739, p. n.n.).
Articolo VII.
[5.7.1] L’autore passa infine a esaminare lo «scoprimento» dei costumi, ossia il modo in cui essi sono resi scenicamente visibili, all’interno delle pièces italiane e francesi. Questa caratteristica, che va ad aggiungersi alle altre tre relative al costume già analizzate in precedenza (bontà, convenienza, simiglianza), pare essere introdotta in rapporto a una considerazione di Aristotele, che aveva creato diversi problemi ai commentatori, sul fatto che alcune tragedie del suo tempo venivano recitate senza costumi. Lo Stagirita infatti, nel rimarcare la premeninza dell’azione rispetto a tutti gli altri elementi della tragedia, aveva scritto che la maggior parte delle tragedie a lui contemporanee erano senza costumi e tale si mostrava pure la pittura di Zeusi (1450a 24-30). Piccolomini nelle sue glosse già palesava qualche perplessità di fronte al testo greco, che Robortello interpretava alla lettera, distinguendo le tragedie “morate” da quelle senza costumi; eppure a suo dire mal si tradurrebbe il greco ἀήθεις con “scostumate” (Alessandro Piccolomini, Annotationi nel libro della Poetica d’Aristotele, Venezia, Guarisco, 1575, pp. 115-116). Castelvetro, da parte sua, accettava di buon grado questa traduzione senza porsi troppi problemi (Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1978, p. 182). Corneille si era arrovellato su questo passaggio nel tentativo di dare una giustificazione all’oscura elucubrazione di Aristotele ed era giunto a identificare le tragedie senza costumi con quelle in cui gli attori dimostravano i propri sentimenti soltanto attraverso ragionamenti incentrati sull’azione rappresentata, senza ricorrere a massime universali di politica o di morale («Pour expliquer ce passage d’Aristote […] nous pouvons dire que, quand il parle d’une tragédie sans mœurs, il entend une tragédie où les acteurs énoncent simplement leurs sentiments, ou ne les appuient que sur des raisonnements tirés du fait, […] et non pas sur des maximes de morale ou de politique […]. Car, je le répète encore, faire un poème de théâtre, où aucun des acteurs ne soit ni bon ni méchant, ni prudent ni imprudent, cela est absolument impossible», Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, pp. 133-134). Dacier tuttavia, nelle sue Remarques, contestava la validità di questa lettura, ricordando come per Aristotele i costumi potevano essere ben espressi dai discorsi legati allo sviluppo dell’azione, e che per manifestarli i personaggi non dovevano necessariamente pronunciare sentenze a qualche titolo moraleggianti: «Mais il [Corneille] n’a point du tout compris la pensée d’Aristote, ni connu ce qu’il appelle plus bas, des discours moraux, c’est-à-dire, des discours où les mœurs sont bien exprimez, car le discours d’un Acteur qui s’énonce simplement, peut fort bien exprimer les mœurs sans qu’il y ait aucune maxime de Morale ou de Politique» (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, pp. 90).
In Italia Gravina aveva ripreso la questione, smentendo l’interpretazione di Castelvetro per proporre un ventaglio di letture plausibili; secondo lui il filosofo greco intendeva dire che alcune tragedie dell’epoca rappresentassero i caratteri con poca naturalezza, oppure non rispettassero le particolarità nazionali o genericamente peculiari di alcuni personaggi («Onde quando Aristotele riferisce, che a’ suoi tempi le moderne tragedie fossero senza costume, dobbiamo intendere o che fosse costume dissimile dal naturale, o che non più ad uno che ad un altro personaggio, né più che ad una che ad un’altra nazione convenisse; o pure che ogni personaggio ed ogni nazione dai poeti si vestisse del costume che nella città d’Atene correva», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 520). Tuttavia alla fine propendeva, in una delle sue consuete tirades contro la tragedia moderna, per la prima ipotesi, attribuendo ad Aristotele una critica contro il «costume chimerico» dei drammi dei suoi contemporanei, che il Gravina estendeva ai drammaturghi sei-settecenteschi. Calepio inclina per una lettura più moderata; a suo dire l’autore della Poetica avrebbe soltanto lamentato una generica noncuranza da parte dei poeti tragici della sua epoca nei confronti della resa attenta dei costumi dei personaggi.
[5.7.2] Un altro elemento importante relativo al costume e fondamentale nella poetica del «miscere utile dulci» a cui mira la tragedia settecentesca dopo la rifondazione arcadica consta della capacità del drammaturgo di dispensare ottimi consigli di vita agli spettatori senza che questi abbiano la cognizione di essere istruiti. Sotto questo profilo Calepio ritiene che Sofocle abbia allestito al meglio le proprie tragedie, infondendole velatamente di alti principi filosofici e di massime universali che cooperavano a consolidare la morale del popolo ateniese. Tuttavia il difetto che egli ritrova nella tragedia greca è quello di aver perfezionato esclusivamente il carattere del protagonista, trascurando la definizione del carattere degli altri personaggi, che veniva condizionata soltanto di riflesso dalle azioni occorse nel dramma. Tanto i Greci quanto i tragici italiani del Cinquecento avrebbero peccato nel rappresentare i costumi dei personaggi con poca vivacità, facendoli risultare spesso freddi e poco graditi al pubblico. La critica riguardante i costumi delle tragedie greche si allinea per la verità a quelle mosse nel corso della Querelle des Anciens et des Modernes, i cui documenti facevano spesso leva sulla cattiva rappresentazione dei costumi nella letteratura greca, tanto epica quanto tragica (cfr. ad esempio La disputa sei-settecentesca sugli antichi e sui moderni, a cura di Maria Teresa Marcialis, Milano, Principato, 1970; Marc Fumaroli, La Querelle des Anciens et des Modernes, Paris, Gallimard, 2001; Parallèle des Anciens et des Modernes: rhétorique, histoire et esthétique au siècle des lumières, textes rassemblés et edités par Marc André Bernier, Paris, Hermann, 2014). Parrebbe originale tuttavia l’accento posto sulla scarsa cura dei comprimari nella tragedia greca, cosa che invece rende al contrario apprezzabili proprio le tragedie moderne.
[5.7.3] Calepio riprende ancora una volta le tragedie italiane dei secoli precedenti per aver fallito nel costruire personaggi capaci di appassionare il pubblico; se i personaggi della Sofonisba di Trissino spiccano per la gravità del loro eloquio, essi faticano a coinvolgere lo spettatore perché non presentano la vivacità necessaria, che si incontra invece nei caratteri della tragedia francese del Seicento. A questo giudizio si allineerà la storiografia ottocentesca, come dimostra la nota sentenza di Alessandro Manzoni, il quale nella Prefazione al Conte di Carmagnola ammetteva che era «destino che la regolarità tragica dovesse sempre incominciare da una Sofonisba noiosa» (Alessandro Manzoni, Il Conte di Carmagnola, a cura di Gilberto Lonardi, Venezia, Marsilio, 1989, p. 247). Più dettagliato il giudizio di Ginguené: questi, pur riconoscendo, come fa Calepio, la capacità del Trissino di disegnare caratteri maestosi («Sophonisbe est sage, religieuse et modeste; Massinissa est ardent et audacieux; Scipion noble, réservé et politique; Lælius a de la grandeur, Caton parle et agit en vrai Romain», Pierre-Louis Ginguené, Histoire littéraire d’Italie, t. VI, Paris, Michaud frères, 1813, p. 33), lamenta che il drammaturgo avrebbe potuto dipingere con maggiore interesse e naturalezza quell’azione che aveva invece preferito plasmare sull’archetipo della tragedia greca («Ils ne contemplèrent point la nature et l’homme en eux-mêmes, mais ils étudièrent l’un et l’autre dans Eschyle et dans Sophocle, pensant que ces grands génies avaient connu et exprimé les caractères, les mœurs et les passions humaines, comme il convient au poète tragique», ivi, p. 20).
Se si passa tuttavia al Settecento, Calepio riconosce anche fra le tragedie italiane dei personaggi capaci di affascinare il pubblico, risultando al tempo stesso di costumi convenienti ed ammirevoli. Fra i drammi migliori sotto questo profilo cita quelli di Martello, Caraccio, Maffei e Conti; egli menziona quindi tutte quelle tragedie in cui è più evidente l’influsso della drammaturgia francese — ad eccezione del Corradino di Caraccio, che francamente in questo elenco appare un po’ fuori luogo — e non quelle opere, altrove lodate, in cui i costumi appaiono modulati sull’esempio dei Greci, come l’Ulisse il giovane di Lazzarini, considerato migliore dal punto di vista dell’azione, ma carente nella definizione dei costumi.
Capo VI.
Della qualità dello stile praticato da’ poeti d’ambedue le nazioni.
Articolo I.
[6.1.1] In questo capo Calepio si sofferma sulle proprietà stilistiche del discorso tragico italiano e francese, riprendendo una tradizione critica pienamente moderna che annoverava nel Tasso dei Discorsi uno dei principali modelli, ma che contava diversi interpreti eccellenti, non da ultimo proprio il Crescimbeni della Bellezza della volgar poesia. Se in precedenza il critico lombardo si era soffermato sul costume e sulla portata etica delle diverse favole e delle sentenze drammaturgiche, egli passa ora a considerare quei medesimi testi che aveva esaminato nei capi precedenti sotto il profilo stilistico. Come già faceva Crescimbeni, Calepio analizza tanto la bellezza «interna» delle opere menzionate — quella che appunto si dispiega a livello della macrostruttura narrativa e del costume —, quanto quella “esterna”, rispondente a criteri più propriamente retorici.
L’autore introduce già in questa fase preliminare una distinzione fra due diverse tipologie retoriche a cui debbono fare riferimento i testi letterari: da una parte esiste un modo piano e naturale, che definisce «cittadinesco», riprendendo la concezione di «eloquenza cittadinesca e cortigiana» che veniva proposta nel Cinquecento — si veda ad esempio la definizione di «conversazione cittadinesca» data da Daniele Barbaro (Della eloquenza. Dialogo, Venezia, Valgrisio, 1557, p. 23) —, e una più raffinata, tipica di chi «parla studiosamente», a partire dal volgarizzamento dell’esposizione aristotelica circa la qualità della sentenza, distinta in πολιτική e ῥητορική (1450b 5-8) che nella tradizione rinascimentale diventano, già per Castelvetro, i poli di una dialettica tra il parlare «cittadinesco», tipico degli antichi e mirato al movere, e la «rettorica», eloquio più raffinato e moderno, teso al persuadere (Lodovico Castelvetro, Poetica vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Bari, Laterza, 1978, p. 182). Nel Settecento questa partizione resiste ancora, come dimostra la Lezione terza di poetica (1699) del conte forlivese Fabrizio Antonio Monsignani, principe dell’Accademia dei Filergiti («siccome la cittadinesca era in uso presso gli antichi così la sentenza rettorica era in pregio presso i men antichi nell’età di Aristotele», Saggi de’ letterati esercizj de’ Filergiti di Forlì raccolti da Ottaviano Petrignani, segretario dell’accademia, II, Forlì, Selva, 1714, p. 68), e più tardi la disamina di Giulio Cesare Becelli, il quale faceva risalire l’invenzione dell’eloquenza cittadinesca addirittura a Solone (Esame della retorica antica e uso della moderna libri VII, vol. II, Verona, Targa, 1739, p. 9). Vi ricorreva anche la poetica arcadica, e Calepio parrebbe allinearsi in generale alla posizione espressa dall’Orsi nel quarto dialogo delle sue Considerazioni in risposta alla Manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit di Bouhours; in questa circostanza l’arcade emiliano raccomandava che, a differenza di quanto accadeva nel poema epico e nella lirica, laddove l’autore parlava in prima persona ed era legittimamente autorizzato ad impiegare la maniera «rettorica», nella poesia rappresentativa occorreva avvalersi, per rispetto al criterio della verosimiglianza, della sentenza «cittadinesca» («E se ben l’Epico, ed il Lirico introducono diversi Interlocutori; scorgesi sempre nondimeno, che per loro bocca favella il Poeta, e che anzi egli stesso delle lor Persone si veste. Nascondendosi per tanto il Poeta nella Rappresentativa, da ciò nasce, che nella favella delle Persone Tragiche o Comiche debba altresì nascondersi lo studio, e l’artifizio, che è proprio del linguaggio poetico. Ne nasce, che alle Persone medesime sia convenevole lo stile, che si direbbe Cittadinesco, più tosto che il Rettorico. Ne nasce, che le loro Sentenze e le loro Locuzioni abbiano ad accostarsi in tal maniera al naturale, che pajano profferire senza studiata premeditazione, e quali appunto uscirebbono della nostra bocca, se per avventura ne’ casi loro ci ritrovassimo», Giovan Gioseffo Orsi, Considerazioni sopra un famoso Libro Franzese intitolato La manière de bien penser dans les Ouvrages d’esprit, Bologna, Pisarri, 1703, pp. 284-285). Sulla disputa in merito allo stile «naturale» nella polemica tra Orsi e Bouhours si rimanda a Maria Grazia Accorsi, Pastori e teatro: poesia e critica in Arcadia, Modena, Mucchi, 1999, pp. 241-296, nonché a Corrado Viola, Tradizioni letterarie a confronto: Italia e Francia nella polemica Orsi-Bouhours, Verona, Fiorini, 2001, infra.
Articolo II.
[6.2.1] Calepio, sin dal principio del suo discorso, imputa alla tradizione tragica italiana cinque-seicentesca un difetto strutturale rilevante, ossia l’aver fatto ricorso ad una lingua troppo verbosa e familiare che ha tolto la necessaria maestosità ai versi tragici. In queste prime righe già si scorge come il Bergamasco abbia in mente, nel formulare quest’accusa, un archetipo drammaturgico ben chiaro, ossia la Sofonisba del Trissino, i cui dialoghi erano stati spesso apostrofati come noiosi ed impropriamente domestici; generalmente all’autore vicentino veniva rimproverato il fatto di aver voluto maldestramente imitare la semplicità greca, che tra l’altro, come Calepio nota («Inoltre agli stessi concetti manca la necessaria grandezza, massimamente quando si fanno parlare Romani con la Greca semplicità»), era considerata poco confacente al carattere solenne del soggetto romano (cfr. Paragone V, 5, [2]). Implicitamente l’autore condanna qui non soltanto l’eloquio della Sofonisba, ma quello di tutte le tragedie cinque e settecentesche che proprio a questo archetipo si ispiravano, ridimensionando in parte quel giudizio integralmente positivo che il Maffei dava della tragedia del Trissino nel Teatro Italiano.
Il Gravina aveva espresso, prima del Maffei, un giudizio leggermente differente in merito alla sentenza della Sofonisba, condizionato dalle critiche mosse da Bouhours ai poeti italiani, che condivideva senz’altro sotto questo profilo. Nella Ragion Poetica infatti muoveva un’obiezione rilevante all’operazione letteraria compiuta dal Trissino e replicata nelle successive prove di Speroni, Rucellai, Giraldi, Martelli e Tasso; questi autori infatti, ispirandosi al modello stilistico greco, ne avevano riprodotto la felice semplicità senza tener conto del fatto che la lingua italiana, naturalmente maestosa, non avrebbe sopportato un simile abbassamento («Nulladimeno perché la greca lingua, oltre le altre sue felicità, poggia in alto colla semplice nientemeno che colla traslata locuzione, non perdendo colla grandezza della frase e del numero parte alcuna del naturale, della qual facoltà non è tanto dotata l’italiana favella, tuttoché come rotonda e sonora sia molto più maestosa che l’altre figlie della latina; perciò non è maraviglia se i nostri autori di tragedie a quella sublimità non pervennero, perché non potendo alzar lo stile se non colla traslazione, se avessero questa sospinta oltre le forze della nostra lingua, in vece d’acquistar grandezza, perduto avrebbe del naturale», Gian Vincenzo Gravina, «Della ragion poetica», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Bari, Laterza, 1973, pp. 316-317).
In precedenza il carattere umile del dettato della Sofonisba era stato già messo in discussione, e tra i primi censori si può probabilmente annoverare il Tasso — posto che gli venga accreditata la paternità delle postille alla Sofonisba (sulla questione si sono ormai accumulati numerosi interventi; cfr. La Sofonisba di GianGiorgio Trissino con note di Torquato Tasso [1884], a cura di Franco Paglierani, Bologna, Forni, 1969; Anna Maria Carini, «Le postille del Tasso al Trissino», Studi Italiani, VII, 1957, pp. 31-74; Guido Baldassarri, «Per un diagramma degli interessi culturali del Tasso. Postille inedite al Trissino», Studi tassiani, XXIX-XXX-XXXI, 1981, pp. 5-18; Sergio Zatti, «Tasso lettore del Trissino», in Torquato Tasso e la cultura estense, vol. II, a cura di Gianni Venturi, Firenze, Olschki, 1999, pp. 597-612). Tra Sette e Ottocento sono diversi gli autori che formulano, con Calepio, una condanna più o meno severa alla «sentenza» della Sofonisba, a partire dal Martello, il quale aveva raccomandato che la locuzione tragica fosse «chiara, non umile» («Della tragedia antica e moderna», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 254); il Gorini Corio, si impegnava a dimostrare come nello «stile umile del Trissino […] s’inciampa nel vile» (Teatro tragico e comico, Venezia, Albrizzi, 1732, p. 33); Giovanni Andrés, in aperta polemica con il giudizio del Maffei, biasimava lo stile noioso della Sofonisba («La semplicità e la umiltà dello stile, il languore dell’azione, la freddezza degli affetti fanno leggere con noja e con fastidio quegli stessi passi che, maneggiati da destra mano, avrebbero potuto in realtà commuovere gli animi dei leggitori», Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura, Parma, Stamperia Reale, 1785, p. 293).
[6.2.2] Un altro difetto capitale che Calepio riscontra nello stile delle «antiche tragedie» italiane è legato all’imprescindibile criterio della verosimiglianza, che aveva assunto, dopo l’affermazione di un certo razionalismo cartesiano a cui il bergamasco non nasconde mai di fare riferimento, un valore molto più pragmatico rispetto a quello che le era assegnato nelle poetiche cinquecentesche. Egli sostiene in questo frangente che le persone appassionate non possono verosimilmente ragionare per allegorie. Il suo discorso procede ancora una volta da una disamina delle specificità dei differenti generi letterari; se un parlare ornato di metafore e similitudini si addice perfettamente alla topica lirica, la lingua tragica non può che essere improntata, a suo parere, d una pur maestosa concretezza, scevra di abbellimenti retorici che non possono appartenere a una finzione dialogica.
Ciò che in questo passaggio, e negli articoli successivi, Calepio va mettendo in discussione è il contributo di Petrarca e del petrarchismo alla fondazione della lingua tragica cinquecentesca, riproponendo, in fondo, un’apologia della purezza dei generi e degli stili distinti che si poneva in netta contraddizione con la posizione crescimbeniana.
Se infatti l’operazione critica svolta dal custode d’Arcadia nella Bellezza della volgar poesia mirava a legittimare la pervasività dell’esperienza lirica all’interno degli altri generi letterari, Calepio prescrive al contrario una netta separazione tra l’oggetto e i mezzi dei diversi generi. In questo caso — come in parte già accadeva nel Gravina — le tesi del Paragone paiono collimare con le accuse di inverosimiglianza rivolte da Bouhours e dagli altri critici francesi seicenteschi alla letteratura teatrale italiana, benché in quel caso gli obiettivi principali della polemica fossero le tragicommedie di Tasso e del Guarini. Se infatti il gesuita francese, sulla scorta di Rapin e di altri teorici antecedenti, riteneva inammissibile il fatto che i pastori protagonisti dell’Aminta e del Pastor Fido parlassero alla maniera dei filosofi, Calepio censura i personaggi delle tragedie cinquecentesche che, al culmine della passione, si sorprendono a petrarcheggiare ricorrendo ad allegorie improbabili per descrivere il proprio stato d’animo.
I due passaggi incriminati e riportati a testo dal Calepio rappresentano l’esempio non tanto di una realizzazione retorica troppo elaborata, quanto piuttosto dell’affiorare di un inopportuno linguaggio figurato. Il brano tratto dalla Sofonisba è posto in apertura della tragedia, quando l’eroina eponima, sconsolata per la rotta del proprio esercito, sconfitto dai romani, e l’allontanamento da Siface, prorompe, nel dialogo col Coro, in questo accorato lamento: «Qual triste piangeria, se non piang’io?/ Che in così brieve tempo,/ ogni allegrezza mia s’è volta in doglia./ Turbato è il mare, e mosso un vento rio,/ pur troppo, ohimé, per tempo/ che la mia nave disarmata inscoglia./ Deh foss’io morta in fasce!/ che ben morendo quasi si rinasce» (vv. 301-307). Dietro alle parole di Sofonisba, fitte di calchi petrarcheschi (Cfr. Marco Ariani, Tra classicismo e manierismo: il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974, p. 65), si percepisce chiaramente il modello petrarchesco del sonetto CLXXXIX (Passa la nave mia colma d’oblio), additato fra l’altro dal Muratori nella Perfetta poesia italiana a modello esemplare del buon uso della «metafora continuata» (Della perfetta poesia italiana, vol. I, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, pp. 341-342); ma se l’allegoria marittima con la quale il poeta descriveva il proprio turbamento interiore poteva lecitamente comparire all’interno di un contesto lirico, essa viene giudicata da Calepio superflua — e scarsamente verosimile — quando è posta in bocca alla vigorosa donna cartaginese in preda allo sconforto.
L’immagine allegorica del mare e della navigazione, già ampiamente sfruttata nella lirica greca e latina, ritorna anche nel pezzo estratto dall’Orbecche del Giraldi; in questo caso siamo all’inizio della terza scena del secondo atto, e Oronte, sposo di Orbecche, filosofeggia sulle tempeste della vita e sulla maniera di affrontarle tenendo saldo il timone della virtù.
Calepio, in tutta questa sezione, riprende le posizioni stilistiche espresse dal Martello nel trattato Del verso tragico (1709), sebbene la scelta dei passaggi testuali sui quali comprovare la propria tesi sia leggermente differente. Anche Martello condannava lo stile prolisso e tumido («uno stile accostantesi al Lirico in molti luoghi», Pier Jacopo Martello, «Del verso tragico», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 159) di alcuni tragici italiani che incastonavano nei dialoghi «bizzarre figure» poco adatte al contesto scenico; egli se la prendeva tuttavia primariamente con i drammaturghi seicenteschi, soprattutto il Dottori e Prospero Bonarelli, sebbene a sua volta notasse come questo vizio appartenesse anche alle opere cinquecentesche, e in particolare all’Orbecche di Giraldi, di cui citava un’altra allegoria marittima, tesa a rappresentare le insidie della corte, recitata sempre da Oronte («E qui dagli odj, e dalle crude invidie/ de’ Cortigiani, come in mar dall’onde/ smarrita nave combattuto fui./ In tanto la crudel sorte nemica,/ che vincer mi vedea l’aspra procella/ e valoroso in così rea tempesta,/ invidiosa del mio bene, al fine/ per farmi perder l’arte, ed attuffarmi/ tutto nell’onde sott’ombra di bene,/ con insidie nascose al suo gioire,/ mostrandosi vie più che mai tranquilla/ e tutta in tremolar l’onda marin,/ scoglio tra l’onde inevitabil pose», Orbecche, V, 3). A differenza del Calepio inoltre il Martello non fa menzione del Trissino fra gli autori affetti da questo malcostume retorico. Sulla teoria stilistica del Martello si veda Maria Grazia Accorsi, Pastori e teatro: poesia e critica in Arcadia, Modena, Mucchi, 1999, pp. 286-289. Sull’insinuazione del petrarchismo in altri generi letterari fra Cinque e Seicento si rimanda al volume I territori del petrarchismo: frontiere e sconfinamenti, a cura di Cristina Montagnani, Roma, Bulzoni, 2005; sul petrarchismo della Sofonisba e in generale della tragedia del Cinquecento si veda, in questo volume, il contributo di Renzo Cremante, «“Or non parl’io, né penso altro che pianto”: usi del Petrarca nella tragedia del Cinquecento», pp. 187-209. Sul significato talora politico del petrarchismo tragico cinquecentesco cfr. Domenico Chiodo-Rossana Sodano, Le muse sediziose: un volto ignorato del petrarchismo, Milano, Angeli, 2012.
Quanto al ruolo assegnato all’allegoria nella teoria letteraria sei-settecentesca, mi permetto di rimandare invece a Enrico Zucchi, «Tra pedagogia e secentismo: le radici della fortuna dell’interpretazione allegorica in Arcadia e oltre», Quaderno di Italianistica, IX, 2014, pp. 91-112, in cui viene tracciato un profilo storico della fortuna dell’interpretazione allegorica dei testi letterari che viene rilanciata proprio nel contesto arcadico ad opera di personaggi quali Crescimbeni, Gravina e Muratori.
[6.2.3] Oltre al Trissino e al Giraldi, Calepio riprende pure l’Aretino per il medesimo incedere lirico della sua prosa tragica. Il passaggio citato, tratto dalla prima scena del quinto atto dell’Orazia è costituito da una lunga metafora continuata con cui Publio, padre di Orazio, replica alla terribile notizia datagli dalla Nutrice, la quale gli comunica che l’Ancilla di Celia, dopo aver saputo della morte della ragazza, uccisa dal fratello, si è suicidata strangolandosi con le sue proprie trecce. Ai patetici accenti della donna fa eco una disquisizione di Publio sulla natura della giovinezza, comparata ad un cavallo indocile che, lasciato libero in un prato, scorge una giumenta.
Questo stesso pezzo era stato addotto da Pietro Napoli Signorelli — che pure ne citava soltanto i primi due versi — a cattivo esempio di retorica tragica; come Calepio anche il Napoli Signorelli riteneva che questo tipo di sentenza potrebbe essere ragionevolmente formulata soltanto da chi «dimostra un animo filosofico tranquillo» e quindi difficilmente si addice ai protagonisti tragici, sempre in preda alle passioni («nella tragedia le persone sono agitate da passioni violente e da’ mali che si sentono per se o per altri», Pietro Napoli Signorelli, Elementi di poesia drammatica, Milano, s.e., 1801, p. 6). Ancora concorde con il giudizio di Calepio in quanto allo stile delle tragedie cinquecentesche si dimostrava il Quadrio, pronto ad elencare fra le tragedie poco pregevoli per abbondanza di «figure lontane dal parlar comune» come allegorie, apostrofi e comparazioni, proprio la Sofonisba del Trissino, l’Orazia dell’Aretino e l’Orbecche del Giraldi.
Positivo è invece nel complesso il giudizio nei confronti delle tragedie di Rucellai, il cui stile sublime, nonostante qualche caduta, risulta agli occhi del Bergamasco maggiormente efficace rispetto a quello impiegato dal Trissino. Già il Maffei, editando l’Oreste nell’antologia del Teatro Italiano, aveva sottolineato questa maestosità precedentemente sconosciuta alla drammaturgia italiana, preferendo di gran lunga l’Oreste alla Rosmunda («non per tanto indubitato cosa è che dall’Oreste è vinta la Rosmunda senza paragone; ed è fuor di dubbio, che chiunque abbia senso per la miglior Poesia, riconoscerà quest’opera per una delle più belle, che o dagli antichi, o da i moderni siano mai state poste in Teatro, e goderà in essa quantità di passi incomparabili; e uno stile alto, e sublime, e singolarmente una somma felicità in emulare molti de’ più bei luoghi, e modi de’ Latini Poeti, e de’ Greci», Scipione Maffei, Il Teatro Italiano, t. I, Verona, Vallarsi, 1723, p. 78). Dopo di lui anche Riccoboni aveva elogiato lo stile mai forzatamente enfatico della tragedia del Rucellai (Franco Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, ETS, 2002, pp. 376-377).
Il Napoli Signorelli riprendeva dichiaratamente il giudizio di Calepio, riconoscendo nell’Oreste uno stile più alto e decoroso rispetto a quello della Sofonisba, benché non perfetto («L’autore [dell’Oreste, Rucellai] non perde veruna delle interessanti situazioni del greco originale, e tocca collo stile la nota del sublime assai più del Trissino. Dall’altro canto mostra talvolta qualche affettazione nell’elevarsi, corre dietro alle forme troppo poetiche e alle parole troppo latine, come osservò anche il Conte Pietro da Calepio, e non va esente dal cicaleccio», Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, t. III, Napoli, Orsino, 1788, p. 110). Meno favorevoli sono invece le valutazioni di Tiraboschi, il quale considerava Oreste e Rosmunda delle imitazioni pedisseque dei drammi greci («di esse si può dare il giudizio medesimo, che di quelle del Trissino, anzi il Rucellai più scrupolosamente ancora seguì le vestigia de’ Greci», Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, t. VII, Modena, Società tipografica, 1779, p. 122), e il Ginguené, incline ad apprezzare maggiormente la semplicità del Trissino che non la studiata artificiosità del dettato tragico del Rucellai («Le Rucellai regarda sans doute, et avec raison, le style du Trissino comme trop simple, trop dépourvu de force et de couleur; il voulut rehausser le sien par tous les ornements de la poésie, et il tomba dans un excès plus condamnable, parce qu’il s’écarte plus de la nature. L’affectation des figures, des métaphores et de toutes les fleurs poétiques, devient insupportable dans ce sujet antique et sévère», Pierre-Louis Ginguené, Histoire littéraire d’Italie, t. VI, Paris, Michaud frères, 1813, p. 58). Sulla differenza fra lo stile di Trissino e di Rucellai si era soffermato Marco Ariani, notando come nell’Oreste del Rucellai «lo stile, rispetto al Trissino, si arricchisce notevolmente, grazie soprattutto ad un lessico letterario più scaltritamente poliforme» (Tra classicismo e manierismo il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974, p. 72), nonché attraverso una costruzione più complessa del verso, caratterizzato da un susseguirsi di continue inarcature («è questo uno degli stilemi ritmico-sintattici costanti del Rucellai che rompe l’uniformità dello stile trissiniano e si avvicina ad un lirismo già intensamente estraneo al purismo bembiano», ivi, pp. 72-73).
[6.2.4] In questo interessante passaggio Calepio si esprime in maniera netta contro l’ibridismo stilistico che aveva caratterizzato la pratica letteraria seicentesca e che, nonostante le prese di distanza teoriche, caratterizzava ancora il discorso critico arcadico, almeno nel progetto letterario crescimbeniano, affidato ai dialoghi della Bellezza della volgar poesia. In quel trattato-manifesto, il Custode dell’Accademia dimostrava, attraverso esercizi di lettura incrociati sulle poesie del Di Costanzo, l’eclettica potenzialità del genere lirico di essere proficuamente declinato in senso umile, mezzano e sublime a seconda delle esigenze dell’autore (sul petrarchismo arcadico cfr. Elena Sala di Felice, Petrarca in Arcadia, Palermo, Palumbo, 1959 e Giuseppe Nicoletti, «Agli esordi del petrarchismo arcadico. Appunti per un capitolo di storia letteraria fra Sei e Settecento», in Il petrarchismo nel Settecento e nell’Ottocento, a cura di Sandro Gentili e Luigi Trenti, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 31-66); di qui egli passava ad eleggere il lirico come genere supremo, e a legittimare di fatto una larga insinuazione delle forme liriche all’interno di contesti differenti, a partire proprio da quello tragico. Nel quinto dialogo infatti egli innalza a modello di tragedia perfetta la sua tragicommedia pastorale, l’Elvio, che a livello stilistico era caratterizzato da una fortissima presenza di modi e topoi tipicamente lirici (Giovan Mario Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, pp. 78-103). Sarà bene notare che il rifiuto di tale poetica arcadica non è motivata in Calepio da una predilezione per lo stile grave, da cui procede una diversa idea di letteratura, come era accaduto per il Gravina, il quale, specialmente dal momento della scissione dell’accademia, nel 1711, aveva condannato le «pastorellerie» drammaturgiche, predicando il ritorno a un impegno letterario squisitamente filosofico-politico (cfr. Amedeo Quondam, Cultura e ideologia di GianVincenzo Gravina, Milano, Mursia, 1968, pp. 275; Camilla Guaita, Per una nuova estetica del teatro: l’Arcadia di Gravina e Crescimbeni, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 31-37). La ricerca di uno stile autenticamente tragico — quella stessa che, avviata ambiguamente dal Maffei, porterà l’Alfieri a rivoluzionare il linguaggio della tragedia (cfr. Vittore Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, con cinque nuovi studi, Bologna, Zanichelli, 1981; Giuseppe Antonio Camerino, Alfieri e il linguaggio della tragedia: verso, stile, topoi, Napoli, Liguori, 2006; Vincenza Perdichizzi, Lingua e stile nelle tragedie di Vittorio Alfieri, Pisa, ETS, 2009) — era giustificata, nel Calepio, dal tentativo di preservare il raggiungimento del fine che egli reputava proprio della tragedia, ossia suscitare una compassione che avesse valore catartico. Per questo motivo ogni deroga alla verosimiglianza condotta in virtù di un eccessivo raffinamento retorico, oppure di uno scadimento nella topica lirica, rappresentava un ostacolo per lo spettatore a cui era richiesta la totale immedesimazione con il misero protagonista.
Sulla scorta di questi ragionamenti egli censurava lo stile, orientato al lirico, dello Speroni, che nella Canace aveva fatto ricorso a versi brevi, alla rima e ad un ornato che mal si confaceva con la nozione propriamente scenica di verosimiglianza che Calepio difendeva. L’autore ribadisce invece un luogo ricorrente della critica tardo-cinquecentesca e seicentesca, che individuava nella Canace — proprio in virtù della qualità dello stile — l’antecedente più diretto della prova tragicomica del Tasso; questo giudizio, espresso originariamente dal Guarini in una celebre lettera allo Speroni del 10 luglio 1585 («Mi ricordo ben d’aver detto, e quante volte occasione me n’è venuta, che la Tragedia Canace è per mio avviso spiegata con la più pura, e la più scelta favella, che abbia Poema alcuno di nostra Lingua, e che tanto di leggiadria è sempre paruto a me, che abbia nell’Aminta suo conseguito Torquato Tasso, quant’egli fu imitatore della Canace», Battista Guarini, Delle lettere […] parte prima, Venezia, Ciotti, 1596, p. 22) e consolidatosi nei decenni successivi, anche grazie all’autorevole parere di Ingegneri (Angelo Ingegneri, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, a cura di Maria Luisa Doglio, Modena, Panini, 1989, p. 4), sebbene non senza sparute opposizioni, come ad esempio quella di Gilles Ménage («Questo verso, dico, si trova nella Canace, o fosse a caso, come dicevo, o fosse per furto, come vorrebbe far credere il Guarini, il quale in una sua Lettera a Sperone Speroni scrive, che tanto di leggiadria aveva nell’Aminta suo conseguito Torquato Tasso, quant’egli fu imitatore della Canace. Ho letto e riletto la Canace, né cosa alcuna di rilievo ho trovata, che il Tasso abbia da quella Tragedia trasportata nella sua Pastorale. Ma forse intende il Guarini della leggiadria dello stile; né in questo ancora mi par c’abbia ragione», Aminta. Favola boscareccia di Torquato Tasso con le Annotazioni d’Egidio Menagio accademico della Crusca, Venezia, Pasquali, 1736, p. 144), porta il Calepio a collocare la tragedia di Speroni nel dominio della pastorale, piuttosto che in quello propriamente tragico. Sull’entità delle riprese della Canace nell’Aminta si veda il contributo di Renzo Cremante, «Appunti sulla presenza della Canace di Speroni nell’Aminta di Torquato Tasso», Criticón, LXXXVII-LXXXVIII-LXXXIX, 2003, pp. 201-213. Sulle polemiche di cui è oggetto lo stile della Canace nel Cinquecento si vedano invece i ricchi paratesti dell’edizione della tragedia curata da Christina Roaf (Sperone Speroni, Canace e scritti in sua difesa, a cura di Christina Roaf, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982).
[6.2.5] I due passaggi della Canace riportati dal Calepio si situano all’inizio del dramma (Sperone Speroni, Canace e scritti in sua difesa, a cura di Christina Roaf, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982, p. 17 [I, 2]; pp. 23-24 [II, 1]): nel primo — una battuta di Eolo tesa a scongiurare eventuali sventure che possano giungere sulla sua casa — l’autore doveva scorgere un’eccessiva elaborazione, né poteva apprezzare il ricorso insistito alle allitterazioni e alla rima; del secondo, tratto da un dialogo fra Deiopea e la cameriera, Calepio condannava l’ornato ingiustificatamente ampolloso e metaforico che privava la confessione della necessaria naturalezza, guastando la verosimiglianza della situazione. Un giudizio simile sullo stile della Canace, sempre arricchito della solita postilla sulla derivazione della pastorale da questo dettato, veniva espresso dal Napoli Signorelli («Vide questo gran letterato [Speroni] che il veleno de’ tragici componimenti de’ suoi contemporanei consisteva nella noja e languidezza dello stile, e pensò rimediarvi ornando ed infiorando la sua Canace con certe studiate espressioni che nuocono alla gravità tragica. E pure queste medesime servirono di modello agli autori dell’Aminta e del Pastor fido, e parvero più convenienti alla tenerezza di quelle celebri pastorali. Ma le forti e perturbate passioni della Canace esigevano stile più grave e la favella della natura più che dell’arte manifesta», Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni, t. III, Napoli, Orsino, 1788, pp. 116-117).
Vengono quindi elencate altre tragedie che peccano sotto il medesimo profilo e che Calepio aveva già ripreso dal punto di vista della costruzione della favola: la Progne di Lodovico Domenichi, l’Idalba di Maffeo Venier, l’Elisa di Fabio Closio. Accanto a queste minori tuttavia egli nomina pure il Torrismondo del Tasso e le tragedie del Torelli, le quali, nonostante siano considerate migliori rispetto ai drammi precedentemente menzionati, presenterebbero uno stile eccessivamente ornato e prolisso. Per quanto riguarda la tragedia tassiana, l’accusa di ampollosità era comune ad inizio Settecento (sulla fortuna del Torrismondo cfr. Paragone V, 5, [4]). Anche nel giudizio sulle tragedie del Torelli Calepio non si discosta dalle opinioni espresse dai contemporanei. Nella sua Prefazione alla Merope di Maffei Giovan Gioseffo Orsi sottolineava come la Merope del Torelli fosse viziata da uno stile fiorito eccessivamente vicino all’«eloquenza lirica» (Giovan Gioseffo Orsi, Prefazione, in Scipione Maffei, La Merope. Tragedia, Modena, Soliani, 1735, p. xxxi).
Da registrare ancora una volta l’accordo del Quadrio che segnalava come «la Canace dello Speroni, l’Idalba del Veniero, la Progne del Domenichi, e l’Aristodemo del Dottori inchinano molto al lirico stile» (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 208).
Nella chiusura del paragrafo, Calepio mostra di apprezzare maggiormente dal punto di vista stilistico la Semiramide di Manfredi, di cui pure censura un’immagine a suo modo di vedere troppo ardita e pleonastica, prelevata da una battuta di Simandio nella scena quinta dell’ultimo atto. In questo caso il Bergamasco parrebbe mutuare la propria valutazione da quella espressa dal Maffei nell’introduzione alla tragedia pubblicata nel secondo tomo del teatro italiano; in questa sede il Veronese ammetteva che la Semiramide «si distingue talmente con l’eloquenza, con la franchezza del dire, e col giro, e spezzatura del verso, che quel luogo che tiene l’Edipo per l’orditura, la Sofonisba per l’affetto e l’Oreste per la bellezza dei passi, può questa giustamente pretendere per lo stile» (Scipione Maffei, Il Teatro Italiano, o sia scelta di tragedie per uso della scena, t. II, Verona, Vallarsi, 1723, p. 227).
Sull’alto tasso di figuralità del Torrismondo si rimanda al volume di Hermann Grosser, La felicità del comporre: il laboratorio stilistico tassiano, Modena, Panini, 2004, pp. 79-131, nonché al contributo di Stefano Verdino, parzialmente in disaccordo con le conclusioni del Grosser, che definisce in questi termini lo statuto della ricerca retorico-linguistica perpetrata nel Torrismondo: «A mio parere quanto risulta […] a Grosser di “compromissorio” e altrove di “perpetuo agonismo” tra istanze diverse sono elementi per così dire strategici, e rientrano, per il versante stilistico, in quel peculiare modo ibrideggiante, già altrove osservato, teso non al mescidamento alto-basso, quanto ad un avvitamento verso l’alto, in uno stato di tensione permanente del linguaggio, tra vocalità per così dire «affettuosa» dei personaggi e veste elocutiva del poeta-retore, orientato ad un sovradosaggio dell’ornato in direzione anti-mimetica», Stefano Verdino, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 136-137.
[6.2.6] La rassegna di Calepio prosegue con l’Astianatte — edita dal Maffei nel Teatro Italiano più che altro per ragioni di «funzionalità scenica» (Stefano Verdino, Il Re Torrismondo e altro, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, p. 202) — e l’Altea del Gratarolo, il cui stile è giudicato non eccessivamente raffinato, ma spesso improprio e basso; si giunge quindi alla tragedia seicentesca, e l’autore ripropone un topos critico sul quale si fonda l’intera tradizione storiografica arcadica che condannava l’esagerata affettazione dell’eloquio tragico barocco. La posizione ufficiale dell’Accademia, propugnata da tutti i maggiori letterati del tempo, disponeva, se non una condanna netta della letteratura concettosa seicentesca, caduta sotto il fuoco impietoso degli attacchi francesi, almeno una precauzionale presa di distanze. Il Gravina propendeva risolutamente per il primo partito e nel Della tragedia, ad esempio, non condannava soltanto il Solimano di Bonarelli, ma anche il Torrismondo del Tasso e il Pastor Fido del Guarini, considerati frutti maturi di quell’epoca letterariamente iniqua che aveva sciupato i benefici di cui la poesia italiana aveva goduto nel precedente periodo di rigenerazione, sotto il papato di Leone X («Per la medesima ragione dell’artificio troppo scoperto, anche sgombrate vengono dal numero troppo sonoro e lirico del Torrismondo, del Pastor Fido, del Solimano ed altre simili tragedie, che all’orecchie sane, gonfie e tumide riescono per aver voluto superare il loro originale, cioè le tragedie di Seneca, onde tutti han preso senza discernimento l’esempio», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 553). Risoluto anche il Muratori, qui ripreso da vicino dal Calepio, nel condannare le soluzioni argute delle tragedie seicentesche maggiormente inquinate da figure proprie del genere lirico («Ancora il Conte Carlo de’ Dottori nel suo Aristodemo, e il Testi nell’Arsinda incastrano certe Immagini Liriche, le quali non molto si convengono alla sobrietà delle Tragedie», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia, vol. I, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 214)
Più indulgente si mostrava ad esempio l’editore Vallarsi nella lettera di dedica che introduce il terzo tomo del Teatro Italiano del Maffei, incentrato proprio sul nefasto secolo decimosettimo; egli ammetteva che, benché nel terzo tomo si ravvisasse «facilmente la mutazion dello stile, che alcuni Autori del passato secolo introdussero», le tragedie presentate rimanevano di grande valore, ed era necessario sospendere il giudizio di fronte ad alcuni passaggi troppo fioriti dell’Aristodemo del Dottori, perché le bellezze celate in queste opere ripagavano l’impegno profuso nella lettura («Ragion vuole però, che si condoni al Conte Dottori singolarmente qualche frase Lirica, che gli cadde dalla penna, e qualche espressione propria del secolo in cui fiorì. Non mancano per altro di molte bellezze queste Tragedie, come V. E. potrà meglio d’ogn’altro conoscere», Scipione Maffei, Il Teatro Italiano, o sia scelta di tragedie per uso della scena, t. III, cit., pp. VI-VII).
Spesso, se si esamina l’effettiva pratica letteraria primo-settecentesca, questi pronunciamenti erano poco concreti, in ragione di una sensibilità non del tutto mutata, come magistralmente dimostra l’ambiguo caso del Martello, pronto a condannare, in veste ufficiale di Arcade e di poeta novello, lo stile lirico del Solimano e dell’Aristodemo nel trattato Del verso tragico (cfr. Pier Jacopo Martello, Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 159-164), ma in realtà, come sappiamo grazie ai preziosissimi studi di Corrado Viola, ammiratore dello stile tragico del Dottori e dei drammaturghi «lirici» che diventeranno i bersagli della critica settecentesca nella Conversazione di Mirtillo e d’Elpino, scritta attorno al 1694 («Ma noi non habbiamo tanto a dolerci in questo di noi, standoché potiamo vantare la Canace dello Speroni, che una volta pure assai fu stimata, il Torrismondo del Tasso, il Cromuele del Graziani et il Solimano di Prospero Bonarelli, che non è minore di qualunque bel componimento de gli stranieri. Il con. Carlo de Dottori, però, a mio gusto è insuperabile nel suo Aristodemo, e quasi senza scrupolo ardirei, non che al paro, sopra di ciascun Francese collocarlo», Corrado Viola, Tradizioni letterarie a confronto: Italia e Francia nella polemica Orsi-Bouhours, Verona, Fiorini, 2001, p. 382)
Nel Calepio si scorge al contrario una percezione poetica nettamente diversa; dal suo punto di vista — era passata nel frattempo una generazione, e il gusto che l’Arcadia di Crescimbeni riusciva soltanto a teorizzare, veniva ora realmente interiorizzato — l’Aristodemo non ha nulla di ammirevole sotto il profilo stilistico, così come il Solimano di Bonarelli, benché entrambe le pièces presentino punte di maestosità che non possono spiacere del tutto. Il suo giudizio sul Cebà, forse relativo esclusivamente alle Gemelle Capovane edite dal Maffei, entra probabilmente nel merito della favola piuttosto che dello stile, censurando il fatto che il soggetto presenti degli spunti da commedia che inquinavano l’integrità dell’opera. La risurrezione del buon gusto tragico sarebbe avviata, secondo l’autore, intento a riprendere uno schema interpretativo già proposto dal Crescimbeni, da Giovanni Delfino, autore le cui tragedie erano rimaste a lungo inedite, pur avendo avuto un’ampia circolazione manoscritta (cfr. sulla fortuna editoriale delle tragedie del Delfino Laura Drogheo, «Sulle Tragedie di Giovanni Delfino: le prime edizioni a stampa e una lettera inedita di Metastasio», in Lettere sul teatro : percorsi nell’epistolografia scenica europea tra XVI e XIX secolo, a cura di Roberto Puggioni, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 89-106). Crescimbeni auspicava in effetti una rapida pubblicazione dei drammi di Delfino, nella convinzione che questi, «se mai usciranno alla luce, saranno bastanti a confondere l’altrui invidia, e a mostrar di quanto sia capace il nostro Idioma» (Giovan Mario Crescimbeni, Commentarj del Canonico Gio. Mario Crescimbeni custode d’Arcadia, intorno alla sua Istoria della volgar poesia, vol. I, Roma, De’ Rossi, 1702, p. 249).
[6.2.7] Viene ora preso in esame lo stile delle tragedie settecentesche, che appaiono a Calepio generalmente più regolari rispetto ai drammi del diciassettesimo secolo, benché non esenti da qualche scadimento retorico. Egli cita tutte le tragedie che aveva precedentemente menzionato nel primo capo come esemplari dal punto di vista della favola (I, 3) a eccezione dell’Achille del Montanari e della Temisto del Salìo, ma ne aggiunge anche altre, come la Merope del Maffei, l’Ezzelino del Baruffaldi o le tragedie del Martello che non contemplava in questo primo elenco in quanto rientravano nella categoria delle «favole doppie». Nella lista delle migliori tragedie contemporanee compare in prima battuta il Corradino dell’arcade Annibale Caracci, che il Crescimbeni aveva canonizzato precocemente insieme ai drammi di Ottoboni, additandolo a modello della tragedia riformata («Il Cardinal Giovanni Delfino, il Barone Antonio Caraccio, e il Cardinal Pietro Ottoboni, come dicemmo, an (sic) procurato a’ nostri giorni di rimettere in piedi la bona Tragica», Giovan Mario Crescimbeni, Commentarj del Canonico Gio. Mario Crescimbeni…, cit., p. 256). Fra le altre tragedie che il Bergamasco cita — quelle di Lazzarini, Zanotti, Marchese, Baruffaldi, Maffei e Conti — non v’è una soluzione stilistica comune; Calepio parrebbe apprezzare tanto tragedie improntate ad un classicismo esasperato, come nel caso dell’Ulisse di Lazzarini, sia drammi ispirati ad una maggior naturalezza, offerta dalla commistione di uno stile sentenzioso e piano, con una tensione patetica tipica dei coevi testi francesi, come nel caso di Maffei, Martello e del Baruffaldi. C’è spazio anche per Conti, che forse, dopo il Lazzarini — ma questo si potrà meglio argomentare con le affermazioni che Calepio colloca nel paragrafo successive — rappresentava dal punto di vista stilistico l’autore che più si avvicinava al suo modello di tragedia perfetta in virtù del carattere asciutto dei suoi versi.
Ciò che ora viene messo in evidenza è la presa di distanze, da parte di Calepio, dal modello poetico difeso dal Martello nella Prefazione al suo Teatro Italiano riportata a testo (Pier Jacopo Martello, Scritti critici e teorici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 181). Se infatti il Martello, nutrito di un’altra sensibilità poetica, ancora ambiguamente condizionata dall’esperienza poetica concettista della poesia del pieno Seicento, riteneva legittimo inserire all’interno delle pièces teatrali degli elementi inverosimili che fungessero da spie per lo spettatore, atte a ricordargli la natura fittizia della rappresentazione, per Calepio, immerso in una cultura profondamente differente, quella in cui avrà origine una teoria estetica che prendeva tremendamente sul serio la nozione di verosimiglianza (cfr. a proposito Nathalie Kremer, Vraisemblance et représentation au dix-huitième siècle, Paris, H. Champion, 2011), tutto questo discorso non aveva senso. Dal suo punto di vista il pubblico non ha bisogno di destarsi dalla finzione — magari, come voleva il Martello, ammirando la bellezza dell’artificio messo a bella posta da un poeta tutt’altro che disposto a trascurare lo sfoggio del proprio ingegno —, in quanto è ben conscio fin dal momento in cui entra a teatro di assistere a una rappresentazione. Di fronte all’argomentazione del Martello — che chiama in causa, non a caso, una delle immagini più caratterizzanti della cultura barocca, l’Adone ucciso dal cinghiale, ammettendo che una raffigurazione troppo realistica violerebbe in qualche modo la bienséance, risultando eccessivamente cruda per la sensibilità degli osservatori —, Calepio ricorre a una delle tesi sulle quali insiste maggiormente nel corso del trattato. Secondo lui gli astanti, davanti a un dipinto votato ad esibire il proprio carattere artificioso, proverebbero sì ammirazione nei confronti del pittore — così come gli spettatori provavano un’«ammirazione accessoria» per i protagonisti delle tragedie di Corneille —, ma godrebbero non tanto dell’avvertire quella natura fittizia, quanto delle emozioni che il soggetto dipinto eserciterebbe su di loro. In questo diverso atteggiamento critico si scorge in maniera davvero icastica come, nel giro di qualche decennio, l’affermazione di una sensibilità nuova, nella quale è considerato secondario il mezzo rispetto al fine, il concetto rispetto all’emozione.
[6.2.8] Sotto lo pseudonimo di Udeno Nisiely, Benedetto Fioretti aveva composto una raccolta di Proginnasmi poetici che godettero di una certa fortuna lungo tutto il Seicento, e che il Calepio, appassionato lettore degli scritti di poetica italiani e francesi, dimostra anche altrove di conoscere. Nell’articolo citato (Parlare acconcio alla persona. Parlar breve) si rifletteva sulla necessità di assegnare a ciascun personaggio un modus loquendi conveniente al suo ruolo e al suo carattere, come aveva fatto Omero, facendo parlare brevemente lo spartano Menelao (Udeno Nisiely, Proginnasmi poetici, vol. II, Firenze, Pignoni, 1620, pp. 105-107). A partire da questo riferimento, il Calepio richiama l’importanza di un dettato breve e maestoso, tipico degli autori latini più che dei greci; se è costume nel Settecento, come dimostrava Muratori, che Virgilio fosse anteposto ad Omero, il fatto che Seneca venisse preferito ai tragici greci si spiega in virtù della prospettiva di questo passaggio, incentrato sul decoro e sulla nobiltà del dettato, qualità in cui soprattutto Euripide era ritenuto spesso carente.
Applicando tale principio ai drammaturghi contemporanei, Calepio concede, come anticipato, la propria preferenza ad Antonio Conti, il cui stile si situava a metà strada fra quello talora tumido, soprattutto in virtù del ricorso alle rime proprie del verso alessandrino, di Pier Jacopo Martello, e quello sconvenientemente basso del Gravina, imitatore troppo pedestre della favella greca. In particolare viene condannato lo stile del Gravina, il quale nel Prologo delle sue Tragedie cinque, si era attribuito il titolo di primo restauratore della tragedia greca («Con quanta più ragion poi sarà lecito/ sceglier dal Lazio voci, e forme nobili/ a chi primo trasporta dalla Grecia/ su ’l presente Teatro la Tragedia;/ di cui dal Tasso, Bonarelli, e Trissino/ ed altri Italian Autori ed esteri,/ sol una larva avete, e non lo spirito», Vincenzo Gravina, Tragedie Cinque, Napoli, Mosca, 1712, p. n.n.). Fra i contemporanei le Tragedie del Roggianese non riscossero troppo successo; se il giudizio di Maffei era parzialmente positivo («Così non fossero troppo belle, e troppo lontane dal genio corrente», cfr. Amedeo Quondam, Cultura e ideologia di Gian Vincenzo Gravina, Milano, Mursia, 1968, p. 312), le sue tragedie erano reputate pressoché universalmente fredde e noiose, a differenza dei trattati, ammirati da molti — e anche da Calepio —, ma non dal Baretti, al solito incline ad esprimere senza mezzi termini la scarsa stima nei confronti dell’operato poetico e critico del Roggianese («Gravina aveva un capo assai grande, e pieno di buon latino e di buona giurisprudenza. Ma siccome tutti gli uomini hanno il loro difetto, in mezzo a tutte le loro perfezioni, il Gravina ebbe il difetto di voler fare dei versi italiani, e, quel che è peggio, di volere con italiane prose insegnar altrui a farne de’ lirici, de’ tragici, de’ ditirambici, e d’ogni razza, a dispetto della natura che volle farlo avvocato e non poeta», Giuseppe Baretti, Prose, scelte ed annotate da Luigi Piccioni, Torino, Paravia, 1907, p. 159).
[6.2.9] Viene qui biasimato uno dei tipici elementi delle tragedie graviniane, derivato dagli antecedenti greci, ossia l’introduzione di lunghe similitudini dal sapore omerico che, in questo caso, tratto dal Palamede (Gian Vincenzo Gravina, Tragedie Cinque, Napoli, Mosca, 1712, pp. 12-13), così come in altri presenti nell’Andromeda, parrebbero configurarsi come dei pezzi tendenti al lirico, delle ariette in potenza caratterizzate da versi brevi e musicali che svelano una certa propensione, da parte del roggianese, per il vituperato modello del dramma per musica (cfr. sull’Andromeda e sulle sezioni pseudo-liriche il mio «“Or che sta sotto il pericolo/ quanto è dolce la Reina!” Una proposta di lettura dell’Andromeda di Gravina», Atti e memorie dell’Accademia d’Arcadia, V, 2015, pp. 155-188). Nel brano citato Polissena si rivolge ad Achille, desiderosa di essere rinfrancata sull’esito delle discussioni nate in seno all’esercito greco in merito alla proposta di pace avanzata dai troiani. Nel suo saluto, in cui si distinguono chiaramente certi accenti danteschi, essa paragona la sua attesa di vedere Achille in prima battuta agli uccellini che aspettano nel nido l’arrivo della madre con del cibo, e poi all’erba che giace ghiacciata nella speranza che il sole sorga presto. Alla sua battuta fa eco una risposta di Achille ancora modulata nei termini di una similitudine che richiama peraltro quella già censurata dell’Orazia dell’Aretino: egli descrive il suo spirito, impaziente di comunicare all’amata la bella notizia ad un cavallo irrequieto («Qual destrier feroce e fervido,/ chiuso dentro angusto carcere,/ urta muri, e rompe vincoli,/ per aver spedito l’esito;/ così ancora lo mio spirito,/ impaziente era in attendere/ qualch’evento favorevole/ per recarne a te l’annunzio», II, 2). Di certo questo parlare figurato doveva apparire a Calepio inutile e importuno in un contesto scenico: egli cadeva in sostanza nello stesso errore di loquacità rimproverato da Plutarco ad Euripide (Plutarco, Come debba il giovane udir le poesie, in Id., Opuscoli volgarizzata da Marcello Adriani, I, Milano, Sonzogno, 1825, p. 122).
[6.2.10] Se lo stile poetico di Gravina viene reputato nel complesso rivedibile Calepio, ed era inevitabile che così fosse, apprezza la qualità morale delle sentenze contenute nelle sue tragedie, decisamente maggiore rispetto a quella di altri drammi sei-settecenteschi; d’altro canto l’ingresso sulla scena di personaggi intenti a sciorinare massime filosofiche non poteva essere apprezzato da un così attento esaminatore della prassi scenica, in quanto danneggiavano la tenuta del dramma, minandola sotto l’aspetto della bienséance, e compromettevano l’attenzione dell’uditore, il quale, come si è visto, doveva essere sollecitato dal punto di vista emozionale a provare pietà per i personaggi e non ammaestrato attraverso precetti morali pronunciati dagli attori. Ad esempio della tendenza a infarcire i drammi di simili elementi posticci egli riporta un’osservazione politica di natura profondamente conservatrice proferita dalla nutrice nella Merope del Torelli (vv. 1956-1961, Pomponio Torelli, La Merope, a cura di Vincenzo Guercio, Roma, Bulzoni, 1999, p. 233), la quale riflette sul fatto che il popolo abbia necessariamente bisogno di un sovrano, senza il quale esso è perduto (cfr. a proposito Marco Ariani, Tra classicismo e manierismo: il teatro tragico del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1974, p. 327). Una parziale condanna dei discorsi didattici e morali, tendenzialmente freddi sul teatro, era stata pronunciata anche dal d’Aubignac nella Pratique du Théâtre («Il faut poser pour assuré, Que tous ces Discours Instructifs, sont ordinairement defectueux sur le Theatre, parce qu’ils sont de leur nature froids et languissans; et que ce sont des Maximes generales qui, pour instruire, vont seulement à l’esprit et ne frappent point le cœur; ils éclairent et n’échauffent pas; et quoi qu’ils soient souvent assez beaux et bien exprimez, ils ne font que toucher l’oreille, sans émouvoir l’ame», François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, pp. 314-315 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, pp. 289-290]). In questo caso Calepio riprende il d’Aubignac non soltanto nel merito del giudizio, ma anche nell’attitudine con cui guarda alla tenuta scenica dei dialoghi drammatici. Sulla fortuna settecentesca della Merope di Torelli si veda Paola Trivero, «La ricezione settecentesca della Merope», in Il debito delle lettere: Pomponio Torelli e la cultura farnesiana di fine Cinquecento, Atti del Convegno di Parma-Lontechiarugolo (13-14 novembre 2008), a cura di Alessandro Bianchi, Nicola Catelli e Andrea Torre, Milano, Unicopli, 2011, pp. 201-214; sulle implicazioni filosofico-politiche delle tragedie torelliane si rimanda invece al contributo di Pietro Montorfani, Uno specchio per i principi: le tragedie di Pomponio Torelli (1539-1608), Pisa, ETS, 2011.
[6.2.11] Calepio definisce questa commistione di sentenze moralistiche generali — confinate non soltanto nei Cori, tradizionalmente adibiti a questa funzione, ma spesso presenti nelle battute dei singoli personaggi — un «cacoete», termine di ambito medico di derivazione greca che indicava una cattiva abitudine oppure una malattia incurabile. Anche questa ricerca della sentenza ad effetto distoglieva i drammaturghi, secondo Calepio, dal raggiungimento del fine originario della tragedia, ossia quello di destare compassione e terrore, e spesso comportava una distrazione anche per lo spettatore, in quanto tali detti morali erano pronunciati da personaggi che non avrebbero potuto convenientemente esibire un alto tasso di erudizione; così egli censura l’excursus geografico della Cameriera di Alvida nel Torrismondo che prosegue anche oltre il testo riportato dall’autore («Questi doni a voi manda alta reina/ il buon re mio signore, e vostro servo, / che al servir non estima eguali il regno: / né stimeria benché il superbo scettro/ i Garamanti e gli Etiopi, e gli Indi / tremar facesse, e insieme Eufrate, e Tigre/ Acheloo, Nilo, Oronte, Idaspe e Gange/ Ato, Parnaso, Tauro, Atlante, Olimpo,/ E s’altro sorge tanto, o tanto inaspra/ lunge da noi famoso orribil monte», III, 5). Il Maffei, nel Teatro Italiano, aveva anticipato il giudizio di Calepio, reputando il personaggio della Cameriera poco utile allo sviluppo del dramma, tanto da proporre di sostituirla con il Messaggero introdotto all’inizio del dramma e di eliminare gli ultimi quattro versi della battuta poi incriminata dal bergamasco, anche in questo caso dipendente dal Maffei (Scipione Maffei, Il Teatro Italiano, t. II, Verona, Vallarsi, 1723, p. 143). Sulla scarsa verosimiglianza di pensieri filosofici posti in bocca a personaggi umili si era soffermato anche il Gravina, prendendosela in particolare con il Tasso dell’Aminta e soprattutto con il Guarini del Pastor Fido, rei di aver fatto intempestivamente sfoggio della propria erudizione in un contesto rappresentativo di carattere pastorale («Quindi dee il pensiero all’intelletto, ed al costume del personaggio convenire: altrimenti non imiteremo il vero, né di lui sincera notizia daremo. Perciò il Guarino nel suo Pastor Fido a’ suoi pastori pensieri per lo più da paladino e da retori, ed alle ninfe concetti anche filosofici applicando, ha in anticamera le selve e le spelonche in accademia cangiate, e le capanne in gabbinetti politici: quasi quella favola ordisse per dar fuori quel che sapea», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 534).
Il modello stilistico proposto dal Bergamasco, scevro di ogni pesantezza retorica o filosofica, si imporrà sulla scena settecentesca; molte sono le testimonianze dell’affermazione di questo ideale tragico, a partire da quella del Conti, il quale, nell’esporre il proprio progetto drammaturgico, ammette di aver scansato il ricorso a lunghe similitudini o a sentenze moraleggianti («Altro non mi resta a dire, se non che mi son guardato dalle sentenze infilzate, dalle comparazioni troppo lunghe, dalle amplificazioni, da’ concetti, e da certa ostentazione di dottrina, benchè abbia fatto parlare degli oratori, e de’ filosofi», Antonio Conti, «Lettera al Cardinale Bentivoglio», in Id., Il Cesare. Tragedia, Venezia, Bassaglia, 1743, p. 25). Gli stessi ragionamenti sparsi nel Paragone sono riproposti da Francesco Maria Zanotti nella sua Arte poetica, in cui all’ornamento retorico e all’introduzione di massime didascaliche è anteposta la ricerca della compassione: «La tragedia avvezzando gli uomini a sentir dispiacere del mal de gli altri, insegna loro la compassione, della qual cosa niente è più giovevole al viver comune, e civile. E questo è l’insegnar proprio della tragedia; e non il dar precetti, né spiegare la natura delle virtù, come vorrebbono alcuni, ch’ella facesse; i quali però sono in errore; perchè sebbene sono alcune tragedie, le quali proponendo bellissime sentenze, e regole utilissime, pare, che dian lezioni; et anche di questo si lodano; nol fanno però esse mai per professione, né intendono a ciò; intendono anzi di adornarsi a quel modo, e dar maggior forza a gli affetti, che è il fine loro; né vogliono render più dotti gli ascoltanti, ma migliori; e poi si sa, che quei, che braman lezioni, non vanno al teatro, ma alle scuole de i filosofi», Francesco Maria Zanotti, Dell’arte poetica ragionamenti cinque, Bologna, Dalla Volpe, 1768, p. 57).
Sullo stile sentenzioso nel teatro italiano del Settecento, attraverso un percorso che da d’Aubignac giunge sino a Metastasio, passando per Gravina, si veda Paolo Cherchi, «Metastasio e le sentenze», Italica, LXXXVII, 2, 2010, pp. 275-290.
[6.2.12] Annibale Marchese è giudicato reo di aver disseminato impropriamente nelle proprie tragedie sentenze morali, spesso affidandole a personaggi ai quali poco si addicono simili ragionamenti. Nel primo caso preso in esame, Calepio dubita che una nutrice possa avere le conoscenze mitologiche che dimostra il personaggio messo in scena dal Marchese nel dialogo con la principessa che apre la Polissena qualificando l’amore illecito dell’eroina per Achille come una passione incestuosa, al pari di quella che mosse Erope, moglie di Atreo, Fedra e Mirra (Annibale Marchese, La Polissena. Tragedia, Napoli, Naso, 1715, p. 2; Calepio nella trascrizione tralascia due versi e mezzo tra «Ippolito scovrìo» e «né la fatale»). Nel secondo passo, tratto invece dal Crispo, è ancora messa in questione la figura di una nutrice dotta, pronta a dare saggio della propria conoscenza delle tecniche della ragion di stato tessendo un elogio della spregiudicatezza politica (Annibale Marchese, Il Crispo, in Rosa Giulio, «Di Fedra il cieco furor»: passione e potere nella tragedia del Settecento. Il Crispo di Annibale Marchese, Salerno, Edisud, 2000, p. 190).
Articolo III.
[6.3.1] Nel preambolo di questo terzo articolo Calepio, dopo aver esaminato l’elocuzione delle tragedie cinque-seicentesche italiane, ritrovandole manchevoli sotto il profilo della convenienza e della verosimiglianza, nonché affette da sistematici problemi, talora di superflua pompa, talaltra di semplicità eccessiva, passa in rassegna lo stile delle tragedie francesi, distinguendo fra le tragedie antiche, superiori a quelle italiane dello stesso periodo, e quelle più recenti, pareggiate dagli Italiani in quanto all’elocutio. Questa ripartizione, ereditata anche dal Conti, individuava un periodo particolarmente fortunato per la tragedia francese nel cosiddetto «classicismo» seicentesco, rappresentato in particolare dal teatro dei Corneille e di Racine, molto più apprezzabili da un punto di vista stilistico rispetto ai drammi seicenteschi italiani, in virtù della dizione asciutta e maestosa, seppure non del tutto priva di complicazioni retoriche. Dopo questo secolo aureo le prove successive, di La Fosse, Voltaire, Crébillon e degli altri variamente censurati dal Calepio nel corso del Paragone, avevano perduto l’originaria sobrietà, rivelandosi non all’altezza di quelle dei predecessori. Riferendosi a queste ultime Conti scriveva: «Nulla dirò dello stile dell’ultime Tragedie Francesi, egli è tutto cucito d’Epigrammi, e d’antitesi, e soverchiamente abbonda di quegli ornamenti ambiziosi tanto condannati da Orazio; nulla aggiungerò della versificazione affettata e molto lontana dalla nobiltà e dalla semplicità del Racine», Antonio Conti, «Dissertazione su l’Atalia del Racine», in Id., Prose e poesie, Venezia, Pasquali, 1739, p. CLVI. Nei paragrafi successivi Calepio si impegnerà a dimostrare come la pur lodevole eloquenza francese «classica» avesse degli scadimenti, traendo esempi dalle tragedie di Corneille e di Racine.
Quanto al fatto che gli Italiani non avessero una lingua tragica, e che soltanto in questo genere fossero sopravanzati dai Francesi, esso era un vecchio topos nato in seno alla critica francese seicentesca, recentemente riproposto ad esempio dal Martello («Quanto nelle poesie liriche, nell’epiche e nelle pastorali siamo, e possiamo dirci senza iattanza, molto superiori a’ Franzesi, tanto dobbiamo nelle tragedie con disinteressata ingenuità confessarci ad essi inferiori», Pier Jacopo Martello, «Del verso tragico», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 151), che si perpetuerà almeno fino all’Alfieri. Ciò derivava, almeno nell’opinione settecentesca, dal fatto che i Francesi non avessero il medesimo divario fra la lingua della prosa e la lingua della poesia che caratterizzava invece l’italiano, come riconoscevano i trattati di eloquenza del tempo (cfr. ad esempio Martino Ghigi, Riflessioni ed esempi sopra l’eloquenza italiana ad uso de’ letterati e studenti, t. I, Venezia, Bortoli, 1771, pp. 34-35). Ancora il Voltaire, riflettendo su quella che era considerata la «povertà» del francese, lingua che a differenza del greco e del latino non sopportava docilmente l’inversione dell’ordine delle parole, constatava come la sua fortuna nella commedia e nella tragedia derivasse precisamente dal fatto che, nella prosa come nel verso, essa dovesse necessariamente conformarsi all’ordine naturale del pensiero («Le français n’ayant point de déclinaisons, et étant toujours asservi aux articles, ne peut adopter les inversions grecques et latines; il oblige les mots à s’arranger dans l’ordre naturel des idées. […] Ses verbes auxiliaires, ses pronoms, ses articles, son manque de participes déclinables, et enfin sa marche uniforme, nuisent au grand enthousiasme de la poésie; elle a moins de ressources en ce genre que l’italien et l’anglais; mais cette gêne et cet esclavage même la rendent plus propre à la tragédie et à la comédie, qu’aucune langue de l’Europe», Voltaire, «Du mot François», in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 33, édition critique sous la direction de Jeroom Vercruysse, Genève, Institut et Musée Voltaire, 1987, p. 103). Tuttavia il vero bersaglio critico di Calepio appare in questo caso il Bouhours, tanto degli Entretiens d’Ariste et d’Eugène (1671), in cui veniva argomentata la superiorità della lingua francese, quanto della Manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit (1687), nella quale si esaltava la maggior perfezione della letteratura francese, specie su quella italiana. Al Bouhours, che celebrava la semplicità e la naturalezza della lingua francese (cfr. l’edizione moderna, con i relativi apparati critici: Dominique Bouhours, Entretiens d’Ariste et d’Eugène, édition établie et commentée par Bernard Beugnot et Gilles Declercq, Paris, H. Champion, 2003), facevano eco nel tardo Seicento anche alcuni esponenti italiani della Compagnia di Gesù, in particolar modo il padre Camillo Ettori, il quale ne riportava in italiano tesi e concetti nel suo trattato Il buon gusto ne’ componimenti rettorici (1696), come ha dimostrato Elisabetta Graziosi, Questioni di lessico: l’ingegno, le passioni, il linguaggio, Modena, Mucchi, 2004, pp. 76-83; sulla presa di distanze dal Bouhours comunque presente nelle ambigue pagine dell’Ettori si veda Pietro Falagiani, «Il buon gusto in Camillo Ettorri. I fondamenti retorici dell’estetica italiana del Settecento», Itinera, III, 2009.
[6.3.2] Dopo aver ripreso la medesima partizione istituita nell’esordio del sesto capo, secondo cui la sentenza va giudicata tanto sotto il profilo, per così dire, concettuale, quanto sotto quello estetico, Calepio asserisce che i Francesi si siano distinti, superando i rivali italiani, nel primo ambito. La “bellezza interna” dell’espressione dei tragici francesi consiste nell’abbondanza e nella maestosità degli affetti descritti, nonché nella capacità di renderli interessanti per il pubblico, dando ai discorsi un carattere eminentemente concreto. L’autore parrebbe richiamare in questo frangente un paradigma interpretativo proposto dal d’Aubignac, alla cui Pratique egli dimostra di guardare costantemente in queste pagine. In particolare, parlando delle caratteristiche dei «discorsi», il d’Aubignac giungeva a concludere che nel contesto teatrale, laddove la rappresentazione si componeva di dialoghi e narrazioni, «parler c’est agir», mettendo fine alle contese cinquecentesche in merito alla natura dell’azione che doveva essere aristotelicamente al centro della favola tragica («Enfin le Lieu qui sert à ses Representations, est dit Theatre, et non pas Auditoire, c’est-à-dire, un Lieu où on Regarde ce qui s’y fait, et non pas, où l’on Ecoute ce qui s’y dit. Aussi est-il vrai que les Discours qui s’y font, doivent être comme des Actions de ceux qu’on y fait paroître; car là Parler, c’est Agir, ce qu’on dit pour lors n’étant pas des Récits inventez par le Poëte pour faire montre de son Eloquence», François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre [1657], préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, p. 282 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 260]). Il d’Aubginac inoltre dimostrava di apprezzaare particolarmente il modello retorico corneilliano, capace di dare forza concreta ai discorsi dei personaggi e di esprimere con vivezza le forti passioni che introduceva nelle sue pièces («Nous en avons une preuve sensible dans les pièces de Monsieur Corneille; car ce qui les a si hautement élevées par-dessus les autres de notre temps, n’a pas été l’intrigue, mais le discours; leur beauté ne dépend pas des actions, dont elles sont bien moins chargées que celles des autres poètes, mais de la manière d’exprimer les violentes passions qu’il y introduit», ivi, p. 284).
Sotto l’aspetto estetico, la sentenza dei tragici francesi seicenteschi appare a Calepio nel complesso migliore di quella italiana, dal momento che nei Francesi non compaiono le lunghe similitudini che campeggiano nelle tragedie dal Trissino al Gravina e che egli ha censurato nell’articolo precedente (Paragone VI, 2, [2-3, 9-10]). Tuttavia nei Francesi si scorge talora il ricorso a concetti inessenziali, capaci di raffreddare il corso delle passioni e annoiare l’uditore. Lo stesso difetto era stato ravvisato da André Dacier, al quale in questo caso il Bergamasco si conforma; il commentatore di Aristotele aveva infatti notato che fra le moderne tragedie francesi la sentenza aveva perso la sua autentica semplicità, in favore di una esasperata ricerca dell’ornamento («L’Eloquence n’a pas encore recouvré sa première santé, et la Poësie est presque retombée dans sa premiere maladie. Nous avons peu de Tragedies, où les personnages parlent politiquement, pour me servir du terme d’Aristote, c’est-à-dire, communement et simplement; Ils ne cherchent qu’à étaler tous les ornemens de la Rhetorique, et sont bien plus Déclamateurs qu’Acteurs», André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, p. 415). Questo eccesso di raffinamento, volto a compensare le carenze insite nella lingua francese, verranno rimproverate a lungo alla drammaturgia transalpina, come dimostra ancora il giudizio di Juan Andrés («I francesi per sollevare la dizione fanno troppo uso d’antitesi, di ripetizioni, di metafore, di tropi e di figure studiate, e non poco deprimono la gravità e il decoro del tragico stile», Giovanni Andrés, Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura, t. II, Parma, Stamperia Reale, 1785, p. 402).
Nell’argomentazione Calepio cita esplicitamente le tesi di Scipione Maffei, il quale, nell’esordio delle Osservazioni sopra la Rodoguna, pur annunciando che non si sarebbe occupato della sentenza della tragedia di Corneille, ammetteva che le poesie francesi erano inferiori a quelle italiane anche nell’ambito teatrale. «Amansi assai anche in Italia le lor Tragedie», scriveva il Veronese, ma soltanto perché un secolo di buffoni e comici dell’arte avevano guastato il genio scenico nazionale, e concludeva con un giudizio impietoso sull’artificiosità romanzesca della tragedia francese («L’aver introdotte nel nostro Teatro le maschere co’ varj dialetti fu l’origin fatale di tanto decadimento; perchè con ciò venne a levarsi alla Scena il verso contra l’uso di tutte le nazioni; e levato il verso, cominciarono a compor Drami i Comici stessi, e persone di poco miglior letteratura. Né pretendo già che le moltissime Tragedie del 1500 siano maravigliose, ma egli è certo, che le Francesi son di gusto Romanzesco, e che chi ad esse si avvezza, perde il senso alla espressione della natura, e del vero, e a quanto ha di più eccellente l’arte Poetica», Scipione Maffei, «Osservazioni sopra la Rodoguna», in Id., De’ teatri antichi e moderni, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, p. 2). Non a caso questo capo è uno di quelli che il Maffei dimostra di apprezzare maggiormente nella recensione del Paragone pubblicata nelle Osservazioni letterarie («È notabile in questo punto l’affettazione, o sia lambiccameto, ch’ei fa osservare in molti sentimenti de’ Tragici Francesi, dove gl’Italiani generalmente gli trova assai più naturali», Scipione Maffei, «Recensione a P. Calepio, Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia», Osservazioni letterarie, I, Verona, Vallarsi, 1737, p. 278).
[6.3.3] Ha qui inizio un inventario di passi estratti dalle tragedie di Corneille che sono, secondo Calepio, redarguibili sotto il profilo stilistico, in quanto manifestano una tensione alla magniloquenza e una ricercatezza non conformi al contesto drammatico. Il Bergamasco, in sostanza, addita l’emergenza di un gusto barocco in quel teatro che aveva ottenuto la denominazione di «classique», anche perché reputato libero da quel raffinamento lirico e concettistico che caratterizzava la drammaturgia italiana del Seicento. L’operazione condotta dall’autore si pone in parallelo rispetto a quella avviata dal Muratori, dall’Orsi e dall’ambiente arcadico emiliano, il cui coronamento è costituito dall’edizione, arricchita di epistole paratestuali, delle Considerazioni sopra la maniera di ben pensare. Se l’Orsi, per difendere gli autori italiani dalle accuse rivolte da Bouhours, tentava di confutare il procedimento critico del Francese, delegittimando la sostanza del suo giudizio, il Calepio, riprendendo una strada che era stata già intrapresa dal Maffei nelle Osservazioni sopra la Rodoguna, passa al contrattacco evidenziando i limiti di quella poesia d’Oltralpe che veniva ritenuta migliore rispetto a quella italiana.
La requisitoria prende le mosse ovviamente dai drammi dell’odiosamato Corneille, il cui Cid, pure caratterizzato da talune pecche compositive, è risparmiato in quanto viene giudicato — anche al fine di svalutarne la portata, ridimensionandone l’eccezionale fortuna — come una semplice traduzione dell’avantesto spagnolo. Calepio passa quindi ad esaminare il Pompée, ritrovandolo particolarmente difettoso sotto l’aspetto della convenienza, in quanto Corneille introduce immagini ingegnose che poco si addicono al contesto drammatico in cui vengono inserite. Il primo passaggio riportato è tratto dalla scena in cui Achorée giunge in modo concitato da Cléopâtre per darle la notizia della morte di Pompée (II, 2, vv. 515-518) attraverso una lunga narrazione che viene spesso arricchita da preziosismi retorici, segno, a detta del bergamasco, di un protagonismo eccessivo da parte di Corneille (Pierre Corneille, Pompée, in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 1095). Nel secondo brano citato è ancora Achorée a parlare (III, 1, vv. 762-768), questa volta con Charmion, alla quale racconta — attraverso il ricorso ad immagini truci di marca senecana e ancor più lucanea — di come la testa mozzata di Pompée sembri rivolgersi solennemente ai suoi uccisori (ivi, p. 1103). Del terzo passo, posto in un dialogo tra Philippe e Cornélie, moglie di Pompée, desiderosa di sapere se al corpo del marito era stata data una degna sepoltura (V, 1, vv. 1491-1492), Calepio denuncia gli esiti cupamente comici dell’immagine, delineata da Philippe, delle onde che trasportano lontano il corpo del defunto per poi riportarlo a riva: una tale metafora secondo l’autore non avrebbe potuto verosimilmente venire alla mente di un uomo impegnato in una narrazione così compassata.
[6.3.4] I primi versi riportati, caratteristici del «grand style» corneilliano, forse ispirati all’incipit de La Mort de César dello Scudéry (cfr. Lawrence Melville Riddle, The Genesis and Sources of P. Corneille’s Tragedies from Médée to Pertharite, Baltimore-Paris, John Hopkins University Press-Les Presses universitaires, 1926, p. 46) costituiscono l’esordio del Cinna, pièce di cui Corneille si era vantato per il mirabile rispetto della verosimiglianza («Ce Poème a tant d’illustres suffrages, qui lui donnent le premier rang parmi les miens, que je me ferais trop d’importants ennemis, si j’en disais du mal. […] Cette approbation si forte et si générale vient sans doute de ce que la vraisemblance s’y trouve si heureusement conservée aux endroits où la vérité lui manque, qu’il n’a jamais besoin de recourir au nécessaire», Pierre Corneille, Examen de Cinna, in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 910). Calepio disapprova in questo caso il «pueril contrapposto», ossia l’antitesi piuttosto semplicistica «illustre vengeance», che inopportunamente viene pronunciata da Émilie, figlia di Toranius, proscritto da Augusto. Questo stesso passo era stato indicato come cattivo esempio di stile, inverosimilmente gonfio, anche da Fénelon il quale, dopo aver stabilito che il linguaggio tragico doveva risultare scevro di ogni raffinamento retorico eccessivo, pena la perdita della credibilità («Il me semble qu’il faudrait aussi retrancher de la Tragédie une vaine enflure, qui est contre toute vraisemblance», Fénelon, Lettre à l’Académie, in Id., Œuvres, t. II, édition présentée, établie et annotée par Jacques Le Brun, Paris, Gallimard, 1997, p. 1170), riconosceva la mancanza di naturalezza dei discorsi ornati posti in bocca, nel Cinna, a personaggi che avrebbero dovuto essere in preda ai tormenti delle passioni («Les personnes considérables, qui parlent avec passion dans une Tragédie, doivent parler avec noblesse et vivacité; mais on parle naturellement, et sans ces tours si façonnés, quand la passion parle. Personne ne voudrait être plaint dans son malheur par son ami avec tant d’emphase», ivi, p. 1171). Lo stesso Voltaire condannava lo stile declamatorio di questa ouverture («Quand il se trouve des acteurs capables de jouer Cinna, on retranche assez communément ce monologue. Le public a perdu le goût de ces déclamations; celle-ci n’est pas nécessaire à la pièce», Voltaire, Commentaires sur Corneille, t. II, in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 55, critical edition by David Williams, Genève, Institut et Musée Voltaire, 54, 1975, p. 113). Poco credibile e addirittura faceta (παιγνήμων) è invece giudicata l’immagine dell’incendio della speranza che caratterizza il discorso dell’innamorato Antiochus, in un momento di pieno sconforto, quando la bella Rodogune appare perduta per sempre (III, 5, vv. 1094-1096).
Nei passi qui riportati Calepio scorge la medesima inverosimiglianza stilistica che il gesuita Rapin, e Bouhours dopo di lui, imputavano alle pastorali italiane. Nelle Réflexions sur la poétique, ad esempio, Rapin, dopo aver premesso che l’abilità retorica di un poeta sta nel sapere «précisément ce qu’il faut dire figurément, et ce qu’il faut dire sans figure», afferma che il Tasso non ha compreso quest’arte, dimostrandosi troppo affettato e grave all’interno di contesti che domandavano uno stile semplice («Le Tasse n’a pas bien su ce secret, il est trop attiffé et trop poli en des endroits, où la gravité du sujet demandait un style plus simple et plus sérieux», René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique publiée par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 58). Con Guarini, e col Bonarelli della Filli di Sciro, il Francese si spinge anche oltre: «Guarini, dans son Pastor Fido, et Bonarelli dans sa Phyllis tombent quelquefois dans le même défaut: ils pensent toujours moins à dire les choses naturellement, qu’à les dire avec esprit» (ivi, pp. 58-59).
[6.3.5] Dell’Horace, soggetto che Calepio riteneva particolarmente adatto a creare tragedie eccellenti, in virtù delle passioni forti che proponeva, viene ripresa ancora una volta la condotta dei dialoghi; Corneille, anziché assecondare l’impeto violento degli affetti, orchestrando delle sticomitie concise e dirette, dà spazio a lunghi monologhi nei quali l’eloquio dei personaggi si protende verso una elaborata involuzione retorica, come accade nel caso dei versi riportati, fatti dire a Sabine nella scena centrale del dramma (II, 6, vv. 624-627), dove la sorella di Curiazio e moglie di Orazio, tenta di convincere i due uomini a non darsi ulteriormente battaglia (Pierre Corneille, Horace, in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, pp. 864-865). Calepio censura l’inflessione arguta dei ragionamenti di Sabine, la quale, offrendo il petto ai due — caratteristico topos della drammaturgia eroica corneilliana —, affinché sedino in lei la loro controversia, parrebbe aspirare, nel suo vaneggiamento declamatorio, a diventare l’oggetto principale della contesa tra il fratello e l’amante («Pourrai-je toutefois vous faire une prière/ Digne d’un tel époux, et digne d’un tel frère?/ Je veux d’un coup si noble ôter l’impiété,/ À l’honneur qui l’attend rendre sa pureté,/ La mettre en son éclat sans mélange de crimes;/ Enfin je vous veux faire ennemis légitimes,/ Du saint nœud qui vous joint je suis le seul lien,/ Quand je ne serai plus, vous ne vous serez rien,/ Brisez votre alliance, et rompez-en la chaîne,/ Et puisque votre honneur veut des effets de haine/ Achetez par ma mort le droit de vous haïr», vv. 619- 629).
[6.3.6] L’analisi del lungo discorso di Sabine prosegue in questo passo: viene biasimata tanto l’insistenza di Corneille sui medesimi concetti, quanto la scarsa originalità delle immagini impiegate dal drammaturgo per dipingere la scena in cui la donna romana tenta di immolarsi per preservare la vita dei suoi cari («Ne différez donc plus ce que vous devez faire/ Commencez par sa sœur à répandre son sang,/ Commencez par sa femme à lui percer flanc,/ Commencez par Sabine à faire de vos vies/ Un digne sacrifice à vos chères Patries./ Vous êtes ennemis en ce combat fameux,/ Vous d’Albe, vous de Rome, et moi de toutes deux», Pierre Corneille, Horace, in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 865, vv. 640-646). A Calepio appare inoltre fredda l’immagine con cui Orazio si rivolge al re Tulle verso la fine del dramma (V, 3, vv. 1583-1586), quando già la catastrofe si è consumata (ivi, p. 896).
[6.3.7] Calepio conclude la rassegna di passi corneilliani difettosi, estratti dalle tragedie considerate fra le più riuscite del drammaturgo negli Examens, e passa a recensire un pensiero teorico contenuto nell’Examen du Cid. Corneille, nel rispondere a delle accuse simili a quelle avanzate da Calepio circa la composizione di alcuni brani della sua tragedia, confessava che a suo parere l’ornamento retorico ingegnoso era indispensabile ad arricchire un dettato che altrimenti sarebbe risultato troppo spoglio, qualora si fosse limitato a dare sfogo unicamente alle passioni dei protagonisti («Les pensées de la première des deux sont quelquefois trop spirituelles pour partir de personnes fort affligées; mais, outre que je n’ai fait que la paraphraser de l’Espagnol, si nous ne nous permettions quelque chose de plus ingénieux que le cours ordinaire de la passion, nos Poèmes ramperaient souvent, et les grandes douleurs ne mettraient dans la bouche de nos Acteurs que des exclamations et des hélas», Pierre Corneille, Examen du Cid, in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 702). Ma, come già aveva scritto nell’articolo precedente (Paragone VI, 2, [7]), in risposta ad una considerazione affine fatta dal Martello, Calepio sostiene che ogni elaborazione retorica eccessiva, ogni intervento superfluo d’autore, costituisce un difetto e non un pregio, in quanto raffredda il corso delle passioni e rende inverosimili i discorsi dei personaggi. Il bergamasco ribadisce inoltre il suo pensiero circa l’ascendenza epica della scrittura di Corneille, che imiterebbe impropriamente, nelle sue frequenti introduzioni in prima persona all’interno del dramma, la maniera di Lucano. Sulla fortuna di Lucano nel Seicento francese si vedano Christiane Wanke, Seneca, Lucan, Corneille. Studien zum Manierismus der römischen Kaiserzeit und der französischen Klassik, Heidelberg. Winter, 1964, e Jean-Claude Ternaux, Lucain et la littérature de l’âge baroque en France : citation, imitation et création, Paris, H. Champion, 2000.
[6.3.8] Calepio non risparmia neppure Racine, talvolta troppo vicino al gusto ingegnoso del predecessore; egli, instaurando un paragone fra la Jocaste della Thébaïde di Racine e la Sabine dell’Horace di Corneille, ravvisa il medesimo problema di verosimiglianza. Nel colloquio con i figli, la madre raciniana, che aveva già introdotto un concetto arguto offrendo il petto a Polynice e ad Ethéocle affinché sfogassero contro di lei l’odio che nutrivano reciprocamente («Hâtez-vous donc cruels de me percer le sein,/ Et commencez par moi votre horrible dessein./ Ne considérez point que je suis votre Mère,/ Considérez en moi celle de votre Frère», IV, 3, vv. 1077-1080), insiste con questo sfoggio retorico, invitando i figli ad ucciderla e a colpire in lei la madre del fratello: questo espediente, che Calepio considera a tutti gli effetti un “concetto”, è giudicato inappropriato per una donna in preda ad una passione così tumultuosa (Jean Racine, La Thébaïde, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 101).
[6.3.9] Poco plausibile, né tantomeno funzionale, appare a Calepio l’apostrofe, densa di antitesi e poliptoti, con cui Antigone si rivolge alla personificazione dell’Amore nei versi riportati a testo; nel monologo che apre il quinto atto, dando spazio al dissidio interiore della principessa, divisa fra il richiamo dell’amore nei confronti di Emone e l’inevitabilità della morte («Oui tu retiens, Amour mon âme fugitive,/ Je reconnais la voix de mon Vainqueur/ L’espérance est morte en mon cœur/ et cependant tu vis, et tu veux que je vive», Jean Racine, La Thébaïde, V, 1, vv. 1224-1227, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 107), Calepio trova un’altra pointe che indica la sopravvivenza di un ornato corneilliano. A testimoniare la bontà dell’intuito del Bergamasco sovvengono ora gli studi di Georges Forestier, il quale, nel commento alla tragedia di Racine, rileva in questo passo un preciso meccanismo di riscrittura di una battuta pronunciata da Dircé nel terzo atto dell’Œdipe di Corneille (ivi, p. 1269). Inoltre viene ripreso un altro precedente motto ad effetto di Jocaste, posto a conclusione di in un dialogo con Olympie («Va, je veux être seule en l’état où je suis,/ Si toutefois on peut l’être avec tant d’ennuis», ivi, III, 1, vv. 589-590, p. 84).
[6.3.10] Del Mithridate viene discusso un verso pronunciato da Arbate nel racconto della morte del Re Xipharès fatto a Monime verso la fine della tragedia (V, 4, v. 1604). Nel discorso funesto che riporta agli spettatori, secondo una tecnica classica che preservava la bienséance, i truculenti fatti che avevano portato al suicidio del re, si introduce un concetto giocato sul fatto che la morte del sovrano, già stabilita all’inizio della battaglia, tardasse ad arrivare (Jean Racine, Mithridate, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 683). L’esempio menzionato da Calepio viene riportato anche da Andrés nel corso di una simile denuncia dello stile tumido ed affettato dei tragici francesi che si abbatte su Corneille e su Racine; lo storiografo, il quale palesemente riproduce l’argomentazione del bergamasco, condanna tanto questo verso quanto quello della Phèdre che Calepio citerà nel paragrafo successivo («Le flot qui l’apporta, recule épouvanté», cfr. Paragone, VI, 3, [11]), classificandoli come «falsi pensieri, e gonfie espressioni poco convenienti alla delicatezza, ed alla verità del Racine» (Giovanni Andrés, Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura, Parma, Stamperia Reale, 1785, p. 314).
I versi dell’Esther posti in questione sono invece tratti dalla scena settima — e non ottava come scrive Calepio — del secondo atto (II, 7, vv. 719-720), quando la regina Esther rientra in scena barcollando chiedendo il sostegno delle ragazze israelite e cade svenuta a terra ai piedi del marito Assuérus. Appena rinsavita la regina pronuncia queste parole con cui palesa al marito la visione appena avuta. Secondo Calepio è poco credibile che una persona appena ripresasi da un simile malore si esprima in modo così raffinato (Jean Racine, Esther, in Id., Œuvres complètes, t. I, cit., p. 975).
[6.3.11] Calepio non risparmia neppure la Phèdre, a cui imputa due gravi pecche a livello stilistico. Il primo passaggio messo sotto accusa consta di un’espressione ossimorica, invero piuttosto tradizionale nella poesia lirica — il contrasto tra fuoco e ghiaccio, topico già nella poesia petrarchesca (cfr. ad esempio RVF, 134, v. 2) —, fatta dire ad Hyppolite in un momento particolarmente delicato della rappresentazione (V, 1, v. 1374), ossia quando l’eroe, già accusato da Phèdre e proscritto dal padre, decide di allontanarsi silenziosamente senza tentare di dimostrare la propria innocenza. La stessa figura topica ritorna nell’Alexandre le Grand (IV, 3, v. 1185), sulla bocca di Taxile. Il secondo brano della Phèdre riportato da Calepio è situato invece nel quinto atto (V.6, vv. 1522-1524) ed è tratto dalla narrazione di Théramene degli eventi occorsi ad Hyppolite; in un momento di grande concitazione Calepio preferirebbe una maggior sollecitudine nel racconto, che si impelaga invece in sterili poetismi nella descrizione degli effetti che la comparsa del mostro ha sugli agenti atmosferici e sugli elementi naturali.
Sarà interessante notare che questi ultimi versi erano stati alacremente censurati anche da Monsieur de La Motte nel suo Discours sur la Poésie en général, et sur l’Ode en particulier (1707), la cui eco si percepisce chiaramente in tutta l’argomentazione di Calepio. Il de La Motte infatti metteva in guardia i poeti drammatici dall’eccesso di affettazione, adducendo a motivo il fatto che essi, nei poemi rappresentativi, facevano parlare i personaggi e non prendevano la parola in prima persona come nella poesia lirica («Les poètes tragiques mêmes, qui s’abandonnent quelquefois à l’enflure, doivent toujours être en garde contre l’excès de l’expression. Comme ils ne font point parler des poètes, mais des hommes ordinaires, ils ne doivent qu’exprimer les sentiments qui conviennent à leurs acteurs, et prendre pour cela les tours et les termes que la passion offre le plus naturellement», Antoine Houdar de La Motte, «Discours sur la Poésie en général, et sur l’Ode en particulier», in Id., Textes critiques, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 85). Il de La Motte poi, entrando nel merito della coeva drammaturgia francese, ammetteva che Corneille era caduto talvolta in questo errore a causa della troppo ravvicinata imitazione di Lucano — ancora una volta il Calepio segue alla lettera questa teoria —, mentre Racine si era mostrato solitamente più parco di tali artifici, ad eccezione del passaggio della Phèdre sopra riportato (il de La Motte cita soltanto il verso «Le flot qui l’apporta, recule épouvanté»), che commenta in questi termini: «Ce vers de Racine […] est excessif dans la bouche de Théramène. On est choqué de voir un homme accablé de douleur, si recherché dans ses termes, et si attentif à sa description, mais ce même vers serait beau dans une ode, parce que c’est le poète qui y parle, qu’il y fait profession de peindre, qu’on ne lui suppose point de passion violente, qui partage son attention, et qu’on sent bien enfin, quand il se sert d’une expression outrée, qu’il le fait à dessein, pour suppléer par l’exagération de l’image, à l’absence de la chose même», ivi, pp. 85-86).
A questa offensiva intestina del de La Motte aveva risposto piccato il Boileau con le Réflexions sur Longin, in cui difendeva Racine sulla scorta di Longino: il drammaturgo avrebbe infatti innalzato il suo discorso attraverso l’iperbole in un punto che richiedeva tale raffinatezza perché proteso verso il sublime («En effet, si ce que dit là Longin est vrai, M. Racine a entièrement cause gagnée; pouvait-il employer la hardiesse de sa métaphore dans une circonstance plus considérable et plus sublime, que dans l’effroyable arrivée de ce Monstre», Boileau, «Réflexions critiques sur quelques passages de Longin», in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 560). Sull’episodio si vedano anche le pagine del commento alla Phèdre di Georges Forestier — che registra nei versi in questione una reminiscenza virgiliana («dissultant ripae refluitque exterritus amnis», Aen. VIII, 240) — in Jean Racine, Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, pp. 1635-1636 e 1659.
[6.3.12] I due versi dell’Iphigénie che Calepio discute in questo passo sono tratti dalla prima scena della tragedia, nella quale Agamemnon, rivolgendosi ad Archas, riflette su come salvare la figlia, destinata a un sacrificio certo qualora metta piede in Aulide, laddove Calcante e i condottieri greci la attendono per adempiere alla richiesta degli dei e così salpare per Troia. Lo stralcio riportato a testo è parte della seguente allocuzione: «Si ma fille une fois met le pié dans l’Aulide/ Elle est morte. Calchas, qui l’attend en ces lieux,/ Fera taire nos pleurs, fera parler les Dieux,/ Et la Religion contre nous irritée/ Par les timides Grecs sera seule écoutée» (I, 1, vv. 134-138). La preoccupazione di Agamennone non si esprimerebbe convenientemente, secondo Calepio, a causa del ricorso all’antitesi topica e invero poco originale tra «taire» e «parler». Lo stesso meccanismo retorico è adoperato da Thomas Corneille, come denuncia Calepio, in una battuta di Polixène ne La mort d’Achille. In quel caso, rivolgendosi a Pyrrus (V, 2), la donna considera come, di fronte alle parole di Priamo, la sua passione sconveniente per l’amante straniero debba tacere («Si j’entens mon devoir, c’est ce qu’il me demande,/ À ses barbares loix il veut que je me rende,/ Et qu’aux vœux d’un espoux un amant immolé/ Se taise dans mon cœur quand Priam a parlé», Thomas Corneille, in Id., Poèmes dramatiques, t. V, Lyon, Lions, 1711, p. 55).
Viene considerato poco efficace un altro accostamento ossimorico tra amore e odio, presente nell’ultima scena de Le Comte d’Essex, altra tragedia di Thomas Corneille, in cui Elisabeth si incolpa di essere stata la causa della morte del Conte, che pure aveva tentato di salvare nel corso della pièce, e la cui rovina è dovuta soltanto alle trame maligne tessute dai suoi rivali politici («Le Comte ne vit plus, ô Reine, injuste Reine!/ Si ton amour le perd, qu’eust pû faire ta haine?», Thomas Corneille, Le Comte d’Essex, Lyon, Amaury, 1678, p. 73). In questo caso la ricerca dell’argutezza comporta — e ciò viene ritenuto estremamente grave da Calepio — un’effettiva incoerenza a livello di inventio. Sulla tragedia del Corneille, ispirata ad un precedente dramma sullo stesso soggetto di La Calprenède del 1639, e sull’omonima pièce di Claude Boyer, rappresentata a poche settimane di distanza da quella del più noto drammaturgo, si vedano gli studi di Jane Conroy, Terres tragiques: l’Angleterre et l’Écosse dans la tragédie française du xviie siècle, Tübingen, Narr, 1999, pp. 295-359 e Monica Pavesio, «Le Comte d’Essex di Thomas Corneille e di Claude Boyer: come la tradizione francese si sovrappone a quella ispano-italiana», in Due storie inglesi, due miti europei: Maria Stuarda e il Conte di Essex sulle scene teatrali, Atti del convegno di studi comparati (Torino, 19-20 maggio 2005), a cura di Daniela Dalla Valle e Monica Pavesio, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 151-165.
[6.3.13] Giungendo con la rassegna dei passi scadenti per eccesso di affettazione ai drammi francesi settecenteschi, Calepio menziona l’Électre (1708) di Prosper Jolyot de Crébillon. L’effetto vigoroso dell’apostrofe alla personificazione della sorte («Sort! Ne m’as-tu tiré de l’abîme des flots,/ Que pour me replonger dans ce gouffre de maux?/ Pour me faire attenter sur les jours de ma mère?», Prosper Jolyot de Crébillon, Electre, tragédie, Paris, Ribou, 1709, p. 62) pronunciata da Oreste al culmine della disperazione (V, 7) risulta indebolita dalla ricerca del contrasto retorico fra abisso («abyme») e golfo («gouffre»). Lo stesso problema viene ravvisato in un passaggio successivo in cui Oreste, nell’ultima scena del dramma, si rivolge alla Natura, attraverso una reduplicatio che permette di amplificare l’ornato del suo discorso, chiedendosi chi la vendicherà per la morte della madre, dopo che lui stesso l’aveva vendicata per quella del padre (ivi, p. 64).
[6.3.14] Fra i contemporanei Calepio critica anche il de La Fosse, incline ad impreziosire i dialoghi tragici con figure eccessivamente raffinate; nei versi riportati a testo, pronunciati nella Polyxène dalla protagonista e rivolti a Pyrrhus, l’eroina confessa tutto il proprio sconforto, dettato dal fatto che gli agenti naturali e divini le sembrano avversi, e la terra le pare gemere perché stanca di sopportarne i passi («Et que prétendez-vous? Quel vain espoir vous reste?/ Vous voyez contre moi, par un accord funeste,/ Le Ciel, l’Enfer, les Flots, les vents se révolter,/ Et la terre gémir, lasse de me porter./ Seigneur, trop d’Ennemis en veulent à ma vie,/ Pour croire qu’elle échappe à leur fureur unie», Antoine de La Fosse, Polyxène [Polixene], III, 5, in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 60). Questo lamento richiama alla mente di Calepio un verso ovidiano dei Tristia (I, 4, 10), giudicato altrettanto infelice, ma tuttavia più scusabile perché posto in un contesto elegiaco e non drammatico.
In conclusione è bene notare come l’esame stilistico di Calepio verrà pienamente condiviso anche dal Napoli Signorelli; il topos critico, fondato dal Bergamasco e dalla sua puntuale analisi stilistica, secondo cui lo stile tragico dei Francesi, denso di lambiccamenti, personificazioni ed antitesi intempestive, peccava in fatto di precisione e verosimiglianza, va così cristallizzandosi nella critica e nella storiografia teatrale sette-ottocentesca («Circa lo stile di esse [le tragedie francesi], senza derogare ai pregi inimitabili di Pietro Corneille e di Giovanni Racine e di altri che gli seguirono, vengono in generale tacciati i tragici francesi, e singolarmente il Cornelio, dal marchese Scipione Maffei, dal Muratori, dal Gravina e dal Calepio, di certo lambiccamento di pensieri, di concetti ricercati e tal volta falsi, di tropi profusi e ripetuti sino alla noja, di espressioni affettate, di figure sconvenevoli alla drammatica. A ciò che fra’ Greci e gl’Italiani chiamasi poesia, trovasi ne’ drammi francesi sostituito certo parlar poetico particolare. I vizii e le virtù ed anche gli attributi accidentali nelle loro favole (osserva il Calepio) diventano le persone agenti. L’odio giura, vede, teme; il furore si lascia disarmare; la virtù trema, l’ira chiama; l’amicizia e la gloria arrossiscono. I segni si usano per le cose, come i troni, le corone, gli scettri, gli allori, le catene. Non v’ha scena in cui non s’incontri tempesta per avversità, abisso per oppressione, fulmine per castigo, sacrificio per sofferenza ecc. Sono, è vero, tali figure ammesse ancora nelle poesie de’ Greci e degl’Italiani; ma da’ Francesi drammatici usate con troppo frequenza, e di rado variate colla mescolanza di altre formole poetiche non disdicevoli alla scena, per la qual cosa partoriscono rincrescimento», Pietro Napoli Signorelli, Storia critica de’ teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi, t. VII, Napoli, Orsino, 1813, pp. 192-193).
Articolo IV.
[6.4.1] In questo breve articolo Calepio mette in discussione l’opinione — divulgata icasticamente dal Bouhours nei suoi Entretiens d’Ariste et d’Eugène — secondo cui la lingua francese veniva considerata la più nobile, e al contempo la più semplice lingua del mondo. Bouhours aveva infatti sostenuto che la lingua francese, a differenza di quella italiana, rigettasse istintivamente gli arguti giochi di parole («Nôtre langue est encore ennemie du jeu des paroles et de ces petites allusions que la langue Italienne aime tant», Dominique Bouhours, «La langue Françoise. Second entretien», in Id., Les Entretiens d’Ariste et d’Eugène, édition établie et commentée par Bernard Beugnot et Gilles Declercq, Paris, H. Champion, 2003, p. 111), e fosse nutrita, pur nella sua maestosità, di una inarrivabile «naïveté» che le permetteva di eccellere tanto nella prosa, quanto nella poesia («Mais ce qu’il y a de plus merveilleux en notre langue, […] c’est qu’étant si noble et si majestueuse, elle ne laisse pas d’être la plus simple et la plus naïve langue du monde», ivi, p. 112). Calepio, dopo aver dimostrato che la grande letteratura tragica francese era tutt’altro che priva di espressioni affettate, si impegna, a partire da questo paragrafo, a dimostrare che il teatro di Corneille e Racine ha dato prova di scarsa naturalezza impiegando in larga misura personificazioni e allegorie tutt’altro che ordinarie.
La requisitoria del Bergamasco prende le mosse da un passaggio del Discours du poème dramatique di Corneille, nel quale il drammaturgo riconosceva la differenza fra la poesia drammatica e l’arte oratoria, chiosando che, se nell’oratoria, così come nella poesia epica e nella lirica, era possibile elevare il discorso attraverso il ricorso anche abbondante alle figure retoriche, nell’arte rappresentativa il tono doveva rimanere più basso in quanto a parlare non era il poeta, bensì i personaggi («Il y a cette différence pour ce regard entre le poète dramatique et l’orateur que celui-ci peut étaler son art, et le rendre remarquable avec pleine liberté, et que l’autre doit le cacher avec soin, parce que ce n’est jamais lui qui parle, et que ceux qu’il fait parler ne sont pas des orateurs. La diction dépend de la grammaire. Aristote lui attribue les figures, que nous ne laissons pas d’appeler communément figures de rhétorique. Je n’ai rien à dire là-dessus, sinon que le langage doit être net, les figures placées à propos et diversifiées, et la versification aisée et élevée au-dessus de la prose, mais non pas jusqu’à l’enflure du poème épique, puisque ceux que le poète fait parler ne sont pas des poètes», Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 134). Tuttavia, nota Calepio, la scrittura corneilliana non si conforma a questa giusta dichiarazione teorica, soprattutto nel Pompée, in cui la traccia epica lucanea si scorge con maggior vigore. Nella battuta di Ptolomée che apre la rappresentazione, viene subito additata a cattivo esempio di questa tendenza l’immagine artificiosa della Natura che sforza le montagne di cadaveri a vendicarsi («Ses fleuves teintes du sang, et rendus plus rapides/ Par le débordement de tant de parricides,/ Cet horrible débris d’aigles, d’armes, de chars/ Sur ses champs empestés confusément épars/ Ces montagnes de morts privés d’honneurs suprêmes,/ Que la nature force à se venger eux-mêmes,/ Et dont les tronc pourris exhalent dans les vents/ De quoi faire la guerre au reste des vivants,/ Sont les titres affreux dont le droit de l’épée,/ Justifiant César, a condamné Pompée», Pierre Corneille, Pompée, I, 1, vv. 5-14, in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 1079). Nel commento al testo Couton nota come, alla base di questi versi, ci sia una precisa citazione dalla Farsaglia («[…] Cernit propulsa ruore/ flumina, et excelsos cumulis aequantia colles/ corpora, sidentes in tabem spectat acervos», VII, 789-791: cfr. Pierre Corneille, Pompée, cit., pp. 1734-1735).
[6.4.2] Un altro punto di frizione dello stile del Pompée rispetto alle dichiarazioni programmatiche contenute nei Discours si troverebbe, secondo Calepio, in un passaggio successivo del testo, nella battuta con cui Photin, rivolto a Ptolomée, chiede di non dare un pretesto a Cesare per attaccare l’Egitto — attraverso una strumentale personificazione della Nazione — alle pompe del suo carro («Seigneur, ne donnez point de prétexte à César/ Pour attacher l’Égypte aux pompes de son char», Pierre Corneille, Pompée, II, 4, vv. 664-665, in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 1100); anche Roma viene personificata in figura di donna con una fronte adorabile nel discorso di Cornélie («Rome le veut ainsi; son adorable front/ Aurait de quoi rougir d’un trop honteux affront», ivi, IV, 4, vv. 1407-1408, p. 1122). La rassegna delle personificazioni ingiustificate e inverosimili prosegue con una serie di metonimie in cui i fiumi rappresentano i differenti popoli nazionali («Son grand cœur, qu’à tes lois en vain tu crois soumis,/ En veut aux criminels plus qu’à ses ennemis,/ Et tiendrait à malheur le bien de se voir libre,/ Si l’attentat du Nil affranchissait le Tibre», ibid., vv. 1410-1414), ed infine con una battuta di Achorée, in cui si dice, sul modello dell’Eneide virgiliana («provehimur portu terraeque urbesque recedunt», Aen. III, 72), che i vascelli allontanano la città («Ses vaisseaux en bon ordre ont éloigné la ville,/ Et pour joindre César n’ont avancé qu’un mille», ivi, III, 1, vv. 741-742, p. 1103). L’elenco di passi rivedibili continuerà nell’articolo successivo, in cui l’oggetto della critica non sarà più Corneille, ma Racine e gli altri drammaturghi della sua generazione e di quella successiva.
Articolo V.
[6.5.1] Calepio prosegue il suo regesto di difetti stilistici presenti nelle tragedie francesi riallacciandosi al discorso condotto in margine all’opinione corneilliana, secondo cui il dettato tragico doveva scostarsi dalla gonfiezza dell’epico, puntualmente rinnegata dal drammaturgo nella composizione dei suoi drammi (Paragone VI, 4, [1-2]). Ancora in riferimento alla pratica teatrale francese, egli dice che sarebbe bene distinguere il linguaggio di una nutrice da quello di un eroe tragico — questo stesso difetto era stato rimproverato in precedenza anche alle tragedie italiane, in particolare a quelle di Torelli e di Marchese (Paragone VI, 2, [10-12]) —, sempre assecondando il criterio sovrano della verosimiglianza. Il «saputello» a cui fa polemicamente riferimento l’autore nella nota è Pier Jacopo Martello, il quale, all’interno del trattato Del verso tragico aveva sostenuto che la poesia tragica doveva adeguarsi al criterio supremo della “semplicità” piuttosto che della verosimiglianza e conseguentemente aveva raccomandato, a discapito della mimesi di una lingua diastratica, che i discorsi degli eroi non fossero diversi da quelli dei plebei («Anzi per me credo che quanto è più sublime il sentimento ed il concetto, tanto debba esser più semplice e più naturale la locuzione per essere anch’ella sublime. Poiché, s’io debba amare quelle parole che più immediatamente mi rappresentano nella sua nativa bellezza quel sentimento, più atte a ciò saranno quelle che sono più usate e che possono fare intendere sino al volgo la sublimità del concetto, dove le altre più rare né con tanta prestezza né con tanta chirezza né sempre a tutti lo farebbero intendere. E però sempre conchiudo che l’eroe dee parlare come il plebeo», Pier Jacopo Martello, Del verso tragico, in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 180).
Calepio si scaglia, infine, contro l’ornamento eccessivo delle tragedie francesi, i cui dialoghi gli paiono, piuttosto che improntati al «parlar comune», traboccanti di metafore, metonimie, traslati, personificazioni, allegorie ed epiteti che non si addicono allo stile che tale genere letterario impone.
Sarà bene dire che nella seconda metà del Seicento, e soprattutto verso la fine del secolo, si assisteva anche in Francia ad una complessiva messa in discussione del sistema retorico sul quale aveva poggiato le proprie fondamenta la grande letteratura del «siècle classique». Da una parte il contributo cartesiano — che spesso incideva in maniera indiretta —, dall’altra la significativa esperienza pascaliana ed in genere portroyalista, orientavano le pratiche linguistiche e letterarie verso una nuova ricerca di «clarté» che entrava spesso in conflitto con la raffinatezza dello stile, essenzialmente barocco, che aveva caratterizzato il grande teatro seicentesco. I trattati di Antoine Arnauld e Pierre Nicole (La Logique, ou l’Art de penser, 1662), nonché di Bernard Lamy (La Rhétorique, ou l’Art de parler, 1675) segnavano di fatto il tramonto della retorica, e contemporaneamente originavano una nuova estetica dell’«evidenza». Sulla messa in crisi della «rhétorique classique» nel tardo Seicento francese si vedano: Gilles Declercq, «La rhétorique classique entre évidence et sublime», in Histoire de la rhétorique dans l’Europe moderne (1450-1950), publiée sous la direction de Marc Fumaroli, Paris, Presses universitaires de France, 1999, pp. 629-706; Sophie Conte, «La rhétorique au xviie siècle: un règne contesté», Modèles linguistiques, LVIII, 2008, pp. 111-130. Sulla fortuna dell’estetica dell’evidenza nel Settecento europeo, tanto in ambito letterario, quanto figurativo, si veda invece Alberto Beniscelli, Le passioni evidenti: parola, pittura, scena nella letteratura settecentesca, Modena, Mucchi, 2000.
[6.5.2] Calepio prende di mira in prima battuta la profusione di personificazioni di affetti che si ritrova nella tragedia francese post-corneilliana, mettendone in ridicolo la sterile ampollosità che non si addice alla semplicità richiesta dal dettato drammatico. Diversa era l’opinione di Boileau, il quale, sulla scorta del Longino, difendeva Racine — nello specifico dalle accuse mossegli dal de La Motte — rivendicando la legittimità dell’impiego della personificazione all’interno del contesto drammaturgico. Egli scriveva a tale proposito: «il n’y a point de figure plus ordinaire dans la Poësie, que de personifier le chose inanimés, et de leur donner du sentiment, de la vie, et des passions» (Boileau, «Réflexions critiques sur quelques passages de Longin», in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 257).
I passi a cui l’autore del Paragone fa riferimento in questa sezione sono nello specifico: una battuta dell’Alexandre le Grand, pronunciata da Cléofile in un dialogo a Taxile, in cui viene personificato l’Odio («Ah! quittez cette ingrate Princesse/ Dont la haine a juré de nous troubler sans cesse», Jean Racine, Alexandre le Grand, IV, 4, vv. 1249-1250, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 168); due versi del Thésée di de La Fosse, assegnati a Thrasile nella prima scena del quarto atto («Juste Ciel! Ainsi donc notre haine trompée/ Verroit à tous ses coups sa victime échappée», Antoine de La Fosse, Thésée [Thesée], in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 276); un traslato, introdotto da Thomas Corneille ne La Mort d’Achille («Pourquoy sur ce projet laisser trembler ma haine?», Thomas Corneille, La Mort d’Achille, IV, 4, in Id., Poèmes dramatiques, t. V, Lyon, Lions, 1711, p. 51); la medesima figura, in cui l’oggetto della personificazione non è l’odio ma il furore, impiegata sempre ne La Mort d’Achille e messa in bocca ad Achille («Ma tremblante fureur s’en laissa désarmer», ivi, II, 1, p. 15).
Vengono ancora stigmatizzate le personificazioni a cui fanno ricorso Voltaire, nell’Œdipe, attribuendo alla virtù la capacità di tremare («Qu’êtes-vous devenus, oracles de nos Dieux?/ Vous qui faisiez trembler ma vertu trop timide,/ Vous qui me prépariez l’horreur d’un parricide», Voltaire, Œdipe, V, 2, 24-26, in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, p. 239); ancora il de La Fosse nella Polyxène («Je cours mettre obstacle à leurs desseins:/ J’y hazarderai tout; et si pour vous mon zèle/ Sort vainqueur du combat où leur fureur m’appelle,/ C’est à vous d’approuver, en recevant ma foi,/ Ce que son juste arrêt aura réglé pour moi», Antoine de La Fosse, Polyxène [Polixene], I, 4, in Id., Œuvres, cit., t. I, p. 26); Thomas Corneille nell’Arianne («Qu’il sût en s’emportant, ce que l’Amour souhaite,/ Et qu’à mon désespoir souffrant un libre cours,/ Il s’entendît chasser, et demeurât toujours», Thomas Corneille, Arianne, III, 5, in Id., Poèmes dramatiques, cit., t. IV, p. 562) il de La Fosse nel Corésus, dove l’amicizia viene caratterizzata da un pudore tutto umano («Ma sincére amitié, que touchent vos malheurs,/ Rougit de ne vous voir attacher vos pensées/ Qu’aux vains ressouvenirs de vos douleurs passées,/ Et vient vous faire part, pour en rompre le cours,/ D’un secret qui contient le bonheur de mes jours», Antoine de La Fosse, Corésus et Calirrhoé, I, 2, in Id., Œuvres, cit., t. II, p. 11); infine ancora il de La Fosse — il drammaturgo di gran lunga più criticato — nella Polyxène, laddove impiega l’immagine della gloria che arrossisce di fronte all’offerta di fuga fatta da Pyrrhus a Polyxène («Ma gloire ici rougit d’être réduite,/ Madame, à vous offrir le parti de la fuite», Antoine de La Fosse, Polyxène, IV, 4, cit., p. 76).
[6.5.3] Calepio si sofferma quindi sull’uso dei «segni», ossia dei simboli (cfr. Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, Torino, Zavatta, 1670, p. 634), evidenziando le carenze dello stile raciniano, nel quale non mancano tracce della ripresa di un lessico poetico sclerotizzato, incline a ripetere stancamente traslati oramai logori e utili soltanto a riempire la misura del verso; a questi Calepio preferirebbe un linguaggio più schietto e piano che rinunci a questi orpelli consunti per descrivere le cose così come sono.
L’elenco dei passi reprensibili comprende: una battuta di Mithridate rivolta a Monime in cui riaffiora l’immagine della corona («Jusqu’ici la Fortune, et la Victoire mêmes/ Cachaient mes cheveux blancs sous trente diadèmes», Jean Racine, Mithridate, III, 5, vv. 1039-1040, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 664); alcuni riferimenti tradizionali all’alloro, simbolo della gloria per antonomasia, che vengono chiamati in causa nell’Iphigénie («Que dis-je? Que prétend mon sacrilège zèle?/ Quels vœux en l’immolant formerai-je sur elle?/ Quelques prix glorieux qui me soient proposés,/ Quels lauriers me plairont de son sang arrosés?», Jean Racine, Iphigénie, IV, 8, vv. 1441-1444, in Id., Œuvres complètes, t. I, cit., p. 751) e nell’Alexandre le Grand, prima in una battuta di Taxile («Hé bien, perdez-vous pour leur plaire,/ De ces tyrans si chers suivez l’arrêt fatal,/ Servez-les, ou plutôt servez votre rival./ De vos propres lauriers souffrez qu’on le couronne,/ Combattez pour Porus, Axiane l’ordonne», Jean Racine, Alexandre le Grand, I, 1, vv. 74-78, in Id., Œuvres complètes, t. I, cit., p. 131) e poi in un discorso di Cléofile («Des captifs comme lui brisent bientôt leur chaîne,/ À de plus hauts desseins la gloire les entraîne,/ Et l’amour dans leurs cœurs interrompu, troublé,/ Sous le faix des lauriers est bientôt accablé», ivi, II, 1, vv. 365-368, p. 141); ed infine un ricorso alla tradizionale immagine dei ferri che ritorna sempre nell’Alexandre («Votre empire n’est plein que d’ennemis couverts./ Ils pleurent en secret leurs rois sans diadèmes./ Vos fers trop étendus se relâchent d’eux-mêmes;/ Et déjà dans leur cœur les Scythes mutinés,/ Vont sortir de la chaîne, où vous nous destinez», ivi, II, 2, vv. 492-496, p. 144).
[6.5.4] Ancora una volta è l’Alexandre le Grand di Racine ad essere attaccato da Calepio; in questo caso egli mostra come nella seconda scena del primo atto, nel dialogo fra Porus e Taxile, si accumulino due di quei traslati per nulla originali su cui egli aveva puntato il dito in precedenza, giocati questa volta sui termini «couronnes» e «sceptres» («Nos couronnes d’abord devenant ses conquêtes,/ Tant que nous régnerions flotteraient sur nos têtes,/ Et nos sceptres en proie à ses moindres dédains,/ Dès qu’il aurait parlé tomberaient de nos mains», Jean Racine, Alexandre le Grand, I, 2, vv. 205-208, cit., p. 135). Nella Polyxène del de La Fosse egli critica invece l’uso figurato del termine «Trône» (Antoine de La Fosse, Polyxène [Polixene], II, 1, in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 34).
Attorno a queste censure si sviluppa un’interessante discussione sullo stile letterario che coinvolge in prima battuta il Maffei, recensore del Paragone nelle Osservazioni letterarie. Il Veronese condanna a sua volta l’uso di tali traslati e di simili personificazioni, ma a partire da un presupposto teorico diverso; mentre per il Calepio questi artifici documenterebbero la natura eccessivamente «poetica» dello stile francese, per il Maffei essi costituirebbero la prova della scarsa poeticità della lingua francese, in cui la poesia non può di molto distaccarsi dalla prosa («Qui ognuno troverà strano, che il difetto imputato allo stile de’ Tragici Francesi, sia l’esser troppo poetico, dove si è sempre creduto, che il principal difetto della Poesia Francese sia il non aver lingua Poetica, né Poetiche forme e il potersi in questo poco differenziar dalla prosa», Scipione Maffei, «Recensione a P. Calepio, Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia», in Id., De’ teatri antichi e moderni, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, p. 59). L’errata valutazione del Calepio procederebbe da una confusione circa il significato effettivo del termine «poetico», con cui non dovrà intendersi «ogni parlare ricercato e strano» (ibid.). Nella discussione intervenne anche il francese François Granet, giornalista e critico letterario assai prolifico, il quale, proprio a partire dalla recensione maffeiana, si era interessato al trattato di Calepio, fornendone un lungo esame all’interno della rivista Réflexions sur les ouvrages de littérature, di cui era l’unico redattore (cfr. a proposito di Granet e del giornale le note critiche presenti sul sito del progetto «Dictionnaire des journalistes (1600-1789)» e «Dictionnaire des journaux (1600-1789)», allestito dall’Institut des Sciences de l’Homme di Lione con la collaborazione della Voltaire Foundation). Granet, nel suo articolo, contesta l’attribuzione di un carattere poetico a queste voci, impiegate tradizionalmente in senso figurale anche dalle persone più ordinarie («Mais ce ne sont-là que des expressions figurées; dont toutes les personnes, qui ont l’esprit cultivé, pénétrent d’abord le sens, et qui ne trompent personne. Il n’y a rien de si naturel, de si ordinaire, et de si commun, que les figures dans le langage des hommes, même dans les esprits les plus grossiers», Réflexions sur les ouvrages de litérature, t. VII, Paris, Briasson, 1738, pp. 257-258).
[6.5.5] L’autore precisa che egli non intende censurare ogni ricorso al linguaggio metaforico nella tragedia; l’impiego di iperboli e similitudini può infatti risultare utile ad esprimere le passioni più violente; tuttavia non sopporta il ricorso sistematico ai traslati, la cui abbondanza e ripetitività, a suo modo di vedere, contribuisce in primo luogo ad annoiare il pubblico e secondariamente obbliga gli autori a partirsi dal vero e a coniare formule infelici e soprattutto imprecise pur di conformarsi a questa canonica prestazione figurale.
Tra gli esempi a cui egli fa riferimento vi è l’immagine di una «flamme intimidée» per rappresentare un amante intimorito («Sur ce honteux soupçon votre fierté fondée/ Vient-elle ici braver ma flamme intimidée?», Antoine de La Fosse, Polyxène [Polixene], III, 5, in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 58); altre personificazioni della fiamma si trovano ne La Mort d’Achille di Thomas Corneille, laddova la fiamma «desidera» («Cette paix que ma flâme avoit tant souhaitée,/ M’assure un bien si cher…», Thomas Corneille, La Mort d’Achille, III, 2, in Id., Poèmes dramatiques, t. V, Lyon, Lions, 1711, p. 28), «s’inorridisce» («Ah, c’en est trop, Madame,/ Tant de sang à verser fait horreur à ma flâme», ivi, III, 4, p. 33) e si lamenta («Achille n’auroit point épousé Polixene,/ Prest à donner sa main il eust veu Briséis;/ Sa flame rallumée eust plaint mes feux trahis,/ Et dans son cœur gêné sa gloire eust fait renaistre/ Tous le traits que son crime avoit fait disparoistre», ivi, V, 7, p. 63).
[6.5.6] L’esemplificazione prosegue con altri passaggi tratti dalle tragedie raciniane. La prima allusione è ad una battuta detta da Alexandre a Taxile («Vous pourrez à loisir reconnaître mes soins./ Ne tardez point. Allez où l’amour vous appelle,/ Et couronnez vos feux d’une palme si belle», Jean Racine, Alexandre le Grand, III, 5, vv. 844-846, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 157). Allo stesso modo la citazione del Mithridate riportata a testo, in cui vengono attribuiti sentimenti umani ad una nazione, è giudicata propria di un poema lirico, e non del grave eloquio di Mithridate che si rivolge ai figli Pharnace e Xipharès (Jean Racine, Mithridate, III, 1, vv. 815-816, in Id., Œuvres complètes, t. I, cit., p. 657).
[6.5.7] «Poetiche» sono definite dal Calepio anche le immagini poste in bocca ad Ulisse, quando nel finale dell’Iphigénie di Racine, descrive lo sgomento e la discordia che serpeggia nel campo dei greci (V, 6, vv. 1730-1732). Viene ancora censurata l’immagine del carro del trionfo impiegata da Iphigénie per descrivere la propria condizione di innamorata (ivi, II, 5, vv. 693-694). Infine è menzionata una battuta pronunciata da Ephestion nell’Alexandre, in cui il fiume Hydaspe è ancora una volta personificato (Alexandre le Grand, II, 2, vv. 451-452).
[6.5.8] Nelle tragedie raciniane si trovano altri passi commendabili per l’uso di traslati che attribuiscono caratteri umani ad oggetti inanimati, oppure a nomi astratti. Dall’Alexandre le Grand Calepio ne cita due incentrati sul termine «victoire»: Cléofile dice a Taxile, riferendosi ad Alessandro, nella prima scena del dramma: «ce n’est qu’autour de lui que vole la Victoire» (Alexandre le Grand, I, 1, v. 86); quindi Cléofile aggiunge che Alessandro «trascina» la vittoria («Puis-je croire qu’un prince, au comble de la gloire,/ De mes faibles attraits garde encor la mémoire?/ Que traînant après lui la victoire et l’effroi/ Il se puisse abaisser à soupirer pour moi?», II, 1, vv. 361-364).
Altre espressioni censurate sono la «gloria ensanglanté» sempre nell’Alexandre le Grand («Ce n’est point que son bras disputant la victoire/ N’en ait aux ennemis ensanglanté la gloire», III, 2, vv. 741-742), la «nouvelle sanglante» («Quand je n’en aurais pas la nouvelle sanglante», Mithridate, V, 1, v. 1476), e infine l’espressione «attendrir sa victoire» («Laisse aux pleurs d’une épouse attendrir sa victoire», Iphigénie, III, 4, v. 874). La diffusione di questi traslati, comunemente impiegati nel linguaggio drammaturgico francese, viene poi dimostrata da Calepio attraverso la citazione di un verso de Le Comte d’Essex, pronunciato da Elisabeth, nel quale viene ripetuto un sintagma simile, «victoire enchaînée» (Thomas Corneille, Le Comte d’Essex, III, 2, in Id., Poèmes dramatiques, t. V, Lyon, Lions, 1711, p. 446).
[6.5.9] Un’immagine simile a quella segnalata nel Comte d’Essex di Thomas Corneille viene ritrovata da Calepio nel Manlius Capitolinus (1698) di Antoine de La Fosse, laddove ad essere «enchaîné» sono «les caprices» (Antoine de La Fosse, Manlius Capitolinus, II, 2, in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 135). Anche Voltaire aveva preso ad esempio lo stile di questa pièce per dimostrare contrastivamente come, nella Venice Preserved di Otway, incentrata sul medesimo soggetto, l’espressione più naturale e la struttura più complessa rendesse la tragedia inglese superiore a quella francese (Voltaire, «Discours sur la Tragédie à Mylord Bolingbroke», in Id., Le Brutus de Monsieur de Voltaire, avec un Discours sur cette Tragédie, 2e éd., Amsterdam, Ledet et Desbordes, 1731, p. 8). Troppo poetica sarebbe anche la battuta rivolta da Erixene a Thamire nel Thésée in cui Sthenelus viene descritto come un eroe condotto dalla gloria sulle tracce di Alcide (Antoine de La Fosse, Thésée [Thesée], I, 5, in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 225).
[6.5.10] Tornando al Corésus di de La Fosse Calepio ritiene poco felice un detto troppo pomposo di Agenor nel Corésus («Et moi je me flattai d’une double espérance/ Ou bien par mes exploits de trouver le moyen/ De faire quelque jour son bonheur et le mien,/ Ou des rigueurs du sort appellant à la gloire,/ Par un trépas fameux assurer ma mémoire», Antoine de La Fosse, Corésus et Callirhoé, II, 1, in Id., Œuvres, t. II, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 28).
Il Bergamasco chiama quindi in causa un altro drammaturgo francese, Joseph-François Duché, autore di un Absalon già criticato nel Paragone sotto il profilo della favola (Paragone III, 3, [9]); il traslato in questione contempla la personificazione della vittoria che cammina davanti ai nemici degli Israeliti («A nos cruels vainqueurs rien n’a pû résister,/ Mais il leur reste encor David à surmonter./ En vain devant leur pas, a marché la Victoire», Joseph-François Duché, Absalon, Tragedie, tirée de l’Ecriture Sainte, V, 4, Paris, Anisson, 1702, p. 98). Nella stessa tragedia il poeta aveva fatto figuratamente «marcher» anche la morte (David dice infatti ad Absalon: «Peut-estre dans Hébron, mon fils Adonïas/ A-t-il trouvé la mort qui marche sur nos pas», ivi, I, 2, p. 7).
Anche il Caton d’Utique di François-Michel Deschamps è ritenuto pieno di simili poetismi; Calepio cita a testo un altro traslato in cui si attribuiscono caratteristiche umane alla morte — la morte non lancia i propri strali contro i guerrieri romani — in una battuta pronunciata da Arsene a Caton (François-Michel Deschamps, Caton d’Utique, IV, 2, La Haye, Johnson, 1715, p. 46).
[6.5.11] In conclusione Calepio non risparmia neppure l’Œdipe di Voltaire, nel quale ritrova un altro di questi traslati particolarmente frequenti nella drammaturgia francese in una delle prime battute del dramma, rivolta da Dimas a Philoctete (Voltaire, Œdipe. Tragédie, I, 1, in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, p. 169). L’autore giudica questo detto più ardito e meno adatto alla poesia rappresentativa di un passo di Ariosto dell’Orlando Furioso, in cui pure una simile licenza, in virtù del fatto che il genere di appartenenza era l’epico e non il tragico, poteva benissimo ammettersi. Il verso in questione, posto nel diciassettesimo canto si trova in un contesto ben più piano, in cui si descrive la pratica di macellazione («Morte avea in casa, e d’ogni tempo appese,/ con lor mariti, assai capre e agnelle,/ onde a sé et alle sue facea le spese;/ e dal tetto pendea più d’una pelle», XVII, 45, vv. 1-4). La rivalutazione settecentesca del Furioso procedeva in primo luogo dal giudizio espresso di Gravina nella Ragion Poetica, secondo cui l’Ariosto seppe «maravigliosamente scolpire tutti gli umani affetti, e costumi, e vicende, sì pubbliche come private: in modo che quanti nell’animo umano eccita moti l’amore, l’odio, la gelosia, l’avarizia, l’ira, l’ambizione, tutti si veggono dal Furioso a luoghi opportuni scappar fuori sotto il color proprio, e naturale», Gian Vincenzo Gravina, «Della ragion poetica», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Bari, Laterza, 1973, pp. 307-308.
Sempre nella stessa scena, in un passaggio presente nella prima edizione del 1719 ma poi successivamente tagliato dall’autore, rispondeva Philoctete, con una torsione retorica che richiamava alla mente del bergamasco niente meno che il Petrarca: «Et des lieux fortunés où commence le jour,/ Jusqu’aux climats glacés, où la nature expire,/ Je traînais avec moi le trait qui me déchire» (Voltaire, Œdipe, cit., p. 176). La menzione del modello petrarchesco non è legata ad uno specifico avantesto, dal momento che Calepio si limita a rilevare la natura lirica dei pensieri di Filottete; tuttavia il brano voltairiano si può forse accostare ad alcuni passaggi della canzone XXII («Et io, da che comincia la bella alba/ a scuoter l’ombra intorno de la terra/ svegliando gli animali in ogni selva,/ non ho mai triegua di sospir’ col sole; pur quand’io veggo fiammeggiar le stelle/ vo lagrimando, et disiando il giorno», vv. 7-12) o XXVIII («Una parte del mondo è che si giace/ mai sempre in ghiaccio et in gelate nevi/ tutta lontana dal camin del sole:/ là sotto i giorni nublosi e brevi,/ nemica naturalmente di pace/ nasce una gente a cui il morir non dole», vv. 46-51).
Articolo VI.
[6.6.1] Dopo aver condannato l’uso dei traslati e delle personificazioni, Calepio passa a criticare l’impiego di allegorie e apostrofi, tipiche della lingua tragica francese sei-settecentesca, autorizzate in prima battuta dalla risistemazione teorica che accompagna come una sorta di paratesto legittimante, la pratica drammaturgica del diciassettesimo secolo. Si prenda ad esempio la Pratique du théâtre di d’Aubignac, e vi si troveranno i documenti principali di questo procedimento; il critico francese postulava infatti che non si potesse dire niente a teatro se non attraverso quelle che chiama «figures», ossia metafore, apostrofi, personificazioni, allegorie, prosopopee e iperbati, ammettendo che «il ne faut rien exprimer sur la Scéne qu’avec Figures» (François Hédelin d’Aubignac, La Pratique du théâtre, préface et notes par Pierre Martino, Genève, Slatkine Reprints, 1996, p. 347 [Amsterdam, Bernard, 1715, t. I, p. 312]). Egli inoltre non mostrava alcuna preoccupazione in merito alla natura del genere letterario; il dettato tragico non doveva risultare necessariamente meno ornato di quello lirico, anzi, doveva elevarsi per raffinatezza al di sopra di questo («En un mot, si la Poësie est l’Empire des Figures, le Theatre en est le Thrône», ibid. [ibid.]). Quanto all’apostrofe, nello specifico, d’Aubignac riteneva che questo tipo di figura fosse una delle più adatte nella penna del drammaturgo («Davantage, entre les Figures qu’on peut nommer, grandes et sérieuses, le Poëte en pourra bien trouver quelques-unes les plus propres au Theatre que les autres: par exemple, l’Apostrophe, que j’y ai toûjours remarquée fort éclatante, quand elle est bien placée et bien conduite», ivi, p. 349 [t. I, p. 314]). Non era soltanto la sensibilità estetica medio-seicentesca ad avallare una simile concezione della retorica poetica; a questa teorizzazione concorreva infatti la riscoperta del Trattato del sublime dello Pseudo-Longino, nel quale veniva elogiato il ricorso a tali immagini. Boileau, traduttore e commentatore dell’opera, si profondeva in lodi entusiastiche di un passaggio ad alta densità figurativa di Pindaro («Que de grandes images présentées d’abord! L’Eau, l’Or, le Feu, le Soleil! Que de sublimes figures ensemble! La Métaphore, l’Apostrophe, la Métonymie! Quel tour et quelle agréable circonduction de paroles!», Boileau, «Réflexions critiques sur quelques passages de Longin», in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 529). Anche nell’Art poétique il Boileau se la prendeva contro il bando dato alle figure retoriche — ed in particolare all’allegoria —, in cui si trovava invece il principale «agrément» della poesia («C’est d’un scrupule vain s’alarmer sottement,/ Et vouloir aux Lecteurs plaire sans agrément./ Bien-tost ils deffendront de peindre la Prudence,/ De donner à Themis ni bandeau, ni balance:/ De figurer aux yeux la Guerre au front d’airain:/ Ou le Temps qui s’enfuit une horloge à la main:/ Et par tout des discours, comme une idolatrie,/ Dans leur faux zele, iront chasser l’Allegorie./ Laissons-les s’applaudir de leur pieuse erreur./ Mais pour nous, bannissons une vaine terreur», Boileau, L’Art poétique, in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 174).
Eppure nel giro di qualche decennio la sensibilità era radicalmente cambiata e quella poetica gonfia e figurata aveva lasciato il passo ad una nuova idea di letteratura, più sobria ed improntata alla «clarté», come dimostrano ad esempio le Réflexions sur la poétique di Rapin, sollecito a condannare come innaturale ogni eccesso di affettazione del «grand style» («Mais c’est un écueil aux esprits médiocres, que ce grand style: on s’écarte des expressions naturelles, quand on en cherche de sublimes et de relevées, par des termes trop vastes et trop pompeux. Car ces manières de parler hautes et magnifiques deviennent froides, dès qu’elles ne sont pas soutenues par de grandes pensées: et ces grands mots qu’on affecte indiscrètement pour s’élever, ne sont d’ordinaire que du bruit», René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique publiée par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, pp. 51-52). Allo stesso modo anche il Bouhours, condannando la Prefazione del secondo volume delle poesie di Fulvio Testi, esortava a non esagerare nell’uso insistito di allegorie e metafore (Dominique Bouhours, La Manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit. Dialogues, Paris, Mabre-Cramoisy, 1687, p. 293).
In Italia non c’era stata la medesima rivoluzione del gusto, o per lo meno questa stessa non era avvenuta negli stessi tempi; ancora in Arcadia troviamo, tra il Crescimbeni e il Conti, elogi dell’allegoria e dell’uso — pur “utilmente” — figurato della letteratura (cfr. in proposito il mio «Tra pedagogia e secentismo: le radici della fortuna dell’interpretazione allegorica in Arcadia e oltre», Quaderno di Italianistica, IX, 2014, pp. 91-112). Tuttavia le medesime preoccupazioni stilistiche che animano il Paragone, e le stesse raccomandazioni circa la sobrietà nell’uso delle Figure erano presenti nella Perfetta Poesia del Muratori, che si soffermava principalmente sui difetti delle tragedie di Pierre Corneille, in cui spesso comparivano «pensieri troppo Ingegnosi, ed Inverosimili» che portavano il drammaturgo a scrivere, anziché dialoghi naturali, «Declamazioni da scuola, poco dicevoli alla Tragedia» (Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. I, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 382); il Muratori se la prendeva anche con le apostrofi, additando l’esempio di due versi pronunciati da Emilia nel Cinna («Tout beau, ma passion, deviens un peu moins forte,/ Tu vois bien des hasards, ils sont grands, mais n’importe,/ Cinna n’est pas perdu pour être hasardé», Pierre Corneille, Cinna, I, 2, vv. 125-127, in Id., Œuvres complètes, t. I, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 916), di cui condannava l’artificiosità dell’espressione, lecita ad un poeta lirico, come il Malherbe, ma non al drammaturgo Corneille («Il genio galante del Malerbe, il non parlar’egli con altri, ma con se stesso, mi fanno parere vaghissima, e Verisimile affatto questa Apostrofe. Ma non mi par già tale quella del Cornelio; poiché parlando Emilia con Fulvia, verisimilmente, e giusta la natura del ragionamento famigliare non poteva ella vlgersi a parlar colla sua passione», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. I, cit., p. 383).
Quanto al testo raciniano citato dal Calepio, esso è tratto da un lungo discorso di Iphigénie rivolto ad Achille, nel quale la figlia di Agamennone ragiona su come in definitiva la sua morte gioverà anche a colui che aspira ad averla in moglie; il bergamasco non apprezza l’allegoria agreste — le messi di gloria che si presentano al re dei Mirmidoni — a cui fa ricorso Iphigénie (Iphigénie, III, 3, vv. 1537-1540).
[6.6.2] In prima battuta Calepio critica qui l’immagine allegorica del fiume in piena con cui Taxile, nell’Alexandre le Grand, descrive a Porus l’imperatore macedone (Alexandre le Grand, I, 2, vv. 189-192). Nella Polyxène del de La Fosse la protagonista, disperata perché in procinto di essere assegnata come schiava ai Greci, combattuta fra il desiderio di coronare il proprio amore e l’imbarazzo che causerebbe una relazione con l’assassino del padre, conclude i suoi progetti di vendetta con questa sentenza declamatoria, con la quale si augura che il suo cuore diventi allegoricamente lo scoglio in cui si incagli la gloria di Pirro («J’ai depuis à venger mon Pere et Troie en flamme./ Mon sort seconde mal les projets de mon ame:/ Mais vengeons-nous, du moins, selon notre pouvoir./ Méprisons ses ardeurs, détruisons son espoir./ Que mon cœur soit l’écueil où sa gloire se brise», Antoine de La Fosse, Polyxène [Polixene], I, 5, in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 27).
[6.6.3] Calepio chiama in causa l’Atrée et Thyeste di Crébillon (1707), tragedia che ritiene molto difettosa anche a causa della vicinanza stilistica al modello corneilliano, recuperato attraverso la dominante orrorifica senecana. Il Bergamasco cita l’incipit di una lunga tirade fatta da Plisthène nel monologo che apre il quinto atto, momento culminante della catastrofe sanguinolenta che Crébillon mette in scena. La figlia di Erope e Tieste, attraverso un’apostrofe giudicata troppo poetica, si rivolge ai tristi presagi che le preconizzano l’imminente rovina della famiglia degli Atridi: «Tristes pressentimens, que le malheur enfante,/ Que la crainte nourrit, que le soupçon augmente;/ Secrets avis des Dieux, ne pressez plus un cœur/ Dont toute la fierté combat mal la frayeur», Prosper Jolyot de Crébillon, Atrée et Thyeste, V, 1, Paris, Ribou, 1709, p. 48). Per esemplificare gli eccessi retorici del Crébillon Calepio riporta anche un ulteriore segmento di un monologo di Atrée, costruito su di un’apostrofe alla vana pietà (ivi, III, 7, p. 37).
Sullo stile troppo elaborato della tragedia di Crébillon si era soffermato anche Voltaire, rilevando barbarismi, solecismi e abbondanza di espressioni improprie che davano luogo a declamazioni inutili e noiose («Ce qui a achevé de dégoûter à la longue de cette pièce, c’est l’incorrection du style. Il y a beaucoup de solécismes et de barbarismes, et encore plus d’expressions impropres. […] Le plus grand défaut de son style consiste dans des vers boursouflés, dans des sentences, qui sont toujours hors de la nature», Voltaire, «Éloge de Monsieur Crébillon», in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 56A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, p. 299).
[6.6.4] Nella prima scena del quinto atto della Thébaide di Racine Antigone entra in scena da sola per recitare un monologo disperato in cui si lamenta della tragica sorte che l’ha privata della madre e dei fratelli; Calepio condanna l’apostrofe all’amore che caratterizza gli ultimi versi di questa sconsolata invocazione, che dovrebbe a suo parere rimanere scevra di simili raffinamenti (Jean Racine, La Thébaïde, V, 1, vv. 1223-1228, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 107). Racine si avvale dello stesso procedimento retorico più tardi, in un altro passaggio, puramente declamatorio, dell’ultima scena, in cui Creonte, fermato da Atthale mentre stava per sospingersi la spada nel petto, esclama: «Ah! C’est m’assassiner que me sauver la vie!/ Amour, rage, transports, venez à mon secours,/ Venez et terminez mes détestables jours!» (ivi, V.6, vv. 1494-1496, p. 116.)
[6.6.5] Parimenti difettosa appare a Calepio l’apostrofe con cui nel Mithridate di Racine l’eroe eponimo si rivolge a Roma (Mithridate, III, 1, vv. 817-820). Anche in questo caso, secondo Calepio, versi simili si addicono più ad un poeta lirico che non ad un personaggio tragico.
Articolo VII.
[6.7.1] Calepio passa quindi a discutere della perifrasi, altra figura che a suo modo di vedere priva la scrittura tragica della verosimiglianza necessaria, largamente presente nello strumentario retorico dei drammaturghi francesi del Seicento. Fra i maggiori sostenitori della perifrasi vi era senza dubbio il Boileau, il quale ritrovava nello Pseudo-Longino la raccomandazione di fare abbondante uso di questa figura, capace, secondo una metafora musicale che divenne celebre all’epoca, di donare armonia all’intero discorso elevandolo sino a raggiungere il sublime («Il n’y a personne, comme je crois, qui puisse douter que la Périphrase ne soit encore d’un grand usage dans le Sublime. Car, comme dans la Musique le son principal devient plus agréable à l’oreille, lors qu’il est accompagné de ces différentes parties qui lui répondent: de même la Périphrase tournant à l’entour du mot propre, forme souvent par rapport avec lui une consonance et une harmonie fort belle dans le discours», Boileau, Traité du Sublime, in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 380). La perifrasi si rendeva poi necessaria a colmare una carenza intrinseca della lingua poetica francese, ossia la scarsezza dei termini; essa si prestava così ad essere accolta, come scrive Louis Racine nell’articolo delle sue Réflexions sur la poésie dedicato alla «Périphrase», in ogni genere di poesia: «J’en parle, non seulement parce qu’elle embellit beaucoup la Poësie, mais parce qu’elle est nécessaire à toute Poësie, et surtout à la nôtre, qui par un caprice bizarre ne veut point admettre un très-grand nombre de mots» (Louis Racine, Réflexions sur la poésie, in Id., Œuvres, 6e éd., t. V, Amsterdam, M. M. Rey, 1750, p. 67).
Bouhours, dal canto suo, esortava a non abusare di un simile artificio, che poteva essere ragionevolmente impiegato soltanto qualora si intendesse protendere la propria poesia verso il sublime («L’usage et le jugement doivent servir de regle en cela comme en tout le reste. Il est bon d’observer enfin que les citations figurées, et ces periphrases, qui tiennent la place des noms, n’entrent gueres que dans le genre sublime. On seroit ridicule, en écrivant une lettre, ou en faisant un discours tout simple, de citer le Génie de la nature, le Prince de la poësie latine; on pourroit dire tout au plus, un Philosophe, un Poëte, un Ancien, si on ne voulait nommer ni Aristote, ni Virgile», Dominique Bouhours, Remarques nouvelles sur la langue Françoise, 3e éd., Paris, Mabre-Cramoisy, 1682, p. 212).
Sul versante italiano vi sono talora sporadiche prese di posizione contro l’introduzione smodata di perifrasi preziose; Giovan Gioseffo Orsi difendeva il Tasso da un’accusa mossagli dal Bouhours — il quale notava un gioco troppo arguto di parole fra «scudo» e «scudiero» nella Liberata (XVI, 50, v. 1) — adducendo come scusa il fatto che tale figura etimologica era preferibile al ricorso a una «qualche circonlocuzione» (Giovan Gioseffo Orsi, Considerazioni sopra un famoso Libro Franzese intitolato La manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit, Bologna, Pisarri, 1703, p. 606).
Calepio ammette che questa figura possa piacevolmente ornare un componimento lirico, ma ne condanna qualsiasi uso nella poesia tragica in quanto ogni deroga alla brevità che accompagna il fluire impetuoso delle passioni diminuisce il tasso di verosimiglianza della rappresentazione. Fatta questa premessa, egli ravvisa un uso positivo della circonlocuzione nella Phèdre di Racine, quando Enone si riferisce alla città di Atene definendola «i superbi bastioni che Minerva ha costruito» (Phèdre, I, 5, v. 360). In questo caso egli approva tale uso figurato perché Œnone, nel tentare di convincere Phèdre, ricorre ad una tecnica persuasiva propria dell’oratoria, ed è quindi plausibile che cerchi di accattivarsi la donna attraverso delle forme più eleganti.
[6.7.2] L’autore constata che raramente i Francesi hanno utilizzato a buon diritto queste circonlocuzioni che privavano il dettato drammaturgico della dovuta concisione. A tal proposito egli riporta subito un altro passo della Phèdre, in cui Œnone introduce una lunga perifrasi per descrivere il passaggio di tre giorni e tre notti (Phèdre, I, 3, v. 191-194). Calepio concorda ancora una volta col de La Motte che, a proposito dello stesso passo della Phèdre, commentava: «On ne reconnoît pas à ce discours, la nourice de Phœdre, mais l’Auteur qui se met à sa place; et si dans une Piece tous les Personages se tenoient de pareils discours, ce ne seroit plus une action naturelle et serieuse, mais un pur jeu d’esprit, et un assaut de figures entre des Poëtes», Antoine Houdar de La Motte, «Comparaison de la premiere scene de Mithridate avec la même scene réduite en prose, d’où naissent quelques réflexions sur les Vers», in Id., Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, t. I, Paris, Dupuis, 1730, p. 227.
Anche nella Bérénice Calepio ritrova un’ingiustificata perifrasi che rende il discorso di Titus prolisso e ripetitivo; quando l’eroe si rammenta del padre morto non si accontenta di accennarvi fugacemente in un verso, ma ne impiega due dando dettagli superflui (Bérénice, II, 2, v. 459-460).
[6.7.3] Vengono messi in discussione i primi versi dell’Électre di Crébillon, in cui l’eroina si rivolge alla Notte, apostrofata con diverse perifrasi, nell’arco dei primi quattro versi (Prosper Jolyot de Crébillon, Électre. Tragédie, Paris, Ribou, 1709, p. 1). In realtà in questo caso l’autore francese cerca di rimodulare l’esordio dell’Elettra di Euripide, come dimostra Brumoy nel Théâtre des Grecs (Brumoy, Le Théâtre des Grecs, t. IX, Paris, Cussac, 1787, p. 487), ma certo al Bergamasco una simile apertura risultava inutilmente affettata e inadeguato a descrivere l’agitazione dell’eroina.
Nella Polyxène del de La Fosse altrettanto affettata e verbosa gli appare l’espressione con cui Lycas dice a Pyrrhus che la notte tarderà ancora qualche ora ad arrivare (Antoine de La Fosse, Polyxène [Polixene], III, 4, in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 57).
Articolo VIII.
[6.8.1] Dopo aver trattato delle personificazioni, dei traslati, delle allegorie e delle apostrofi, Calepio giunge a discutere degli epiteti che caratterizzano la tragedia seicentesca francese, spesso al fine di riempire la misura del verso per ragioni di rima. Sugli epiteti la battaglia retorica era stata molto ampia e si era combattuta in gran parte sul campo di battaglia della Querelle des Anciens et des Modernes, dividendo i sostenitori “anciens” dell’impiego sistematico dell’epiteto nella poesia omerica — fra questi troviamo ancora Boileau («Tous les plus habiles Critiques avoüent que ces épïthètes sont admirables dans Homere; et que c’est une des principales richesses de sa Poësie», Boileau, «Réflexions critiques sur le Traité du Sublime», in Id., Œuvres complètes, introduction par Antoine Adam, textes établis et annotés par Françoise Escal, Paris, Gallimard, 1966, p. 536) —, da coloro che invece ritenevano superfluo il ricorso a questi aggettivi esornativi e poco funzionale, come ammette ad esempio Charles Perrault («Les épithetes vagues et oisives dont s’est servi Homére, s’appellent aujourd’huy, des chevilles, et ne peuvent se souffrir dans quelque ouvrage que ce soit», Charles Perrault, Parallèle des Anciens et des Modernes en ce qui regarde la Poësie, t. III, Paris, Coignard, 1692, p. 112).
Calepio segnala la noia che produce la ripetitività e l’abbondanza degli epiteti, adducendo degli esempi di utilizzo banale di questa risorsa retorica nella tragedia francese sei-settecentesca. Nello specifico egli condanna gli attributi che caratterizzano la notte nell’Esther di Racine — laddove Esther dice: «Dejà la sombre nuit a commencé son tour» (Jean Racine, Esther, I, 3, v. 313, in Id., Œuvres complètes, t. I, édition présentée, établie et annotée par Georges Forestier, Paris, Gallimard, 1999, p. 960); nella Phèdre del medesimo, in cui Œnone si rivolge a Phèdre così: «Et le jour a trois fois chassé la nuit obscure» (Phèdre, I, 3, v. 193); nel Jonathas di Duché, in cui Samuel asserisce: «Tantôt, prêt à marcher contre nos Ennemis,/ Vous avez fait Serment, qu’avant la nuit obscure,/ Si quelqu’un se donnoit la moindre nourriture,/ Que tous les Philistins ne fussent immolez,/ Son trépas vangeroit vos Sermens violez» (Joseph-François Duché, Jonathas, Tragédie, tirée de l’Ecriture sainte, II, 3, Amsterdam, Roger, 1703, p. 21).
Lo stesso epiteto di «obscure» riferito alla notte viene impiegato anche nell’Œdipe di Voltaire, in una battuta di Jocaste, rivolta ad Egine («Egine, je voyais dans une nuit obscure,/ Près d’Œdipe et de moi, je voyais des Enfers/ Les gouffres éternels à mes pieds entr’ouverts», Voltaire, Œdipe, II, 2, vv. 106-107, in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, p. 21) e nella Polyxène del de La Fosse («La nuit qui doit, Seigneur, sous ses ombres obscures/ Cacher votre dessein, tromper tous les yeux,/ De quelque temps encor ne couvrira les Cieux», Antoine de La Fosse, Polyxène [Polixene], III, 4, in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 57).
Calepio fa quindi riferimento alla tradizione retorica e drammaturgica classica che aveva affrontato la questione degli epiteti, richiamando un luogo di Aristotele della Retorica in cui il filosofo concedeva soltanto ai poeti — e non agli Oratori — la possibilità di impiegare fruttuosamente gli epiteti nel proprio discorso (Rhet. III, 2 1406a), nonché un verso sofocleo dell’Elettra (v. 19), nel quale ricompare la formula «nera notte», ma con maggior diritto, in quanto il termine «ἐυφρόνη» è a sua volta un traslato per indicare la notte.
[6.8.2] Nell’Athalie di Racine vengono segnalati diversi epiteti superflui, introdotti soltanto al fine di creare delle parole-rima; Calepio riporta l’esempio di una battuta di Mathan in cui l’endiadi «d’amertume et du fiel» è impiegata per creare una rima con «Ciel» (Athalie, III, 4, vv. 877-878). Anche nel secondo segmento, tratto dalla prima scena della tragedia, e nello specifico da una battuta di Abner rivolta a Joad (I, 1, vv. 56-60), l’autore introduce un epiteto («sanguinaire») che è utile soltanto a fornire una rima con il successivo «sanctuaire», benché non ci fosse bisogno di alcuna perifrasi per indicare Athalie, già presentata nei versi precedenti, e qui richiamata con la circonlocuzione «de Jezabel la fille sanguinaire».
[6.8.3] Viene addotto un ulteriore esempio tratto dalla Polyxène del de La Fosse, in cui tuttavia più che epiteti si trovano sinonimi accomulati con effetto di ridondanza per arrivare a creare la rima «j’aime»: «Diadême» (Antoine de La Fosse, Polyxène [Polixene], III, 1, in Id., Œuvres, t. I, Paris, Compagnie des Libraires Associés, 1747, p. 53). Sarà da notare come ancora una volta il Quadrio convenga con il Calepio, riprendendo alla lettera le argomentazioni del Bergamasco nell’affrontare la questione dello stile tragico francese. Si riporta l’intero passo di seguito, per mostrare come nel Della storia e della ragione d’ogni poesia l’autore dia corpo ad una sorta di abrégé delle teorie stilistiche calepiane: «I Francesi, il cui gusto si pasce di gran sentimenti, e di grandi espressioni, peccano quasi generalmente, elevandosi fino alla gonfiezza degli Epici. Tolommeo presso Pier Cornelio pare dal primo principio preso da furore poetico: e in genere lo stile di questo Tragico è in ciò più difettuoso, che qualunque altro di altro Francese. I vizj dello stil tragico derivano parte dall’abuso de’ tropi nelle parole, e nelle frasi, parte da altre figure del discorso, lontane dal comun parlare; parte da perifrasi inutili, parte da epiteti, e da altri nomi superflui. L’abuso de’ tropi, delle parole, delle frasi deriva ora dalla frequenza de’ medesimi, ora dall’arditezza. Un perpetuo tessimento d’astratti, di traslati, di parti, che faccian le veci del tutto, un uso perpetuo de’ segni invece delle cose segnate, come I Troni, le Corone, gli Scettri, le Catene, gli Allori ecc. in vece di Rè, Principi, Prigionieri, Trionfanti ecc. rendono il parlare vizioso, e gonfio. Non è che le metafore non sieno assai lodevoli nelle Tragedie, come opportunissime per ispiegare le violente passioni: ma l’abbondanza di esse, la repetizione delle medesime, e l’arditezza le fa colpevoli. Figure lontane dal parlar comune, che disdicono non di rado ne’ Tragici, sono le Allegorie, e le Apostrofi, e le Comparazioni altresì, quando parla una persona appassionata. […] La Perifrasi pure è sommamente propria per li poeti: perchè loro intento è procacciarsi ornamento da quella maggior copia d’immagini, che lor può venire in acconcio. Ma perchè d’ordinario nelle diffuse espressioni di ciò, che si può colla brevità vivamente spiegare, vi trovano i Tragici una vanità pregiudiziale al lor fine, e una languidezza notabile; però essi le praticano parcamente, come inidonee a esprimere la veemenza delle passioni, e a trattare gli affari gravi. […] I nomi ancora superflui, e gli epiteti posti per cagione de’ versi, fanno un effetto non meno nojoso di quel, che si facciano la superfluità e la borra. Ciò avviene sicuramente degli epiteti perpetui, che sono al più tollerabili in quelle Opere, dove i Poeti favellano» (Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 209).
Capo VII.
Di vari metri usati dagli Italiani in tragedia e de’ tragici versi de’ Francesi
Articolo I.
[7.1.1] In questo ultimo capo Calepio si accinge a trattare l’ultimo punto di questa lunga comparazione fra la tragedia italiana e quella francese, ossia l’annosa questione della versificazione, al quale il Bergamasco deputa una sezione distinta rispetto allo stile. In prima battuta egli elenca sei diversi modelli metrici che gli autori tragici italiani hanno impiegato nel verseggiare le proprie opere, ossia: la commistione libera di endecasillabi e settenari saltuariamente rimati, impiegata nella Sofonisba dal Trissino; la terza rima, sfruttata dal padovano Marco Guazzo nella Discordia d’Amore (1526), effettivamente mai replicata dai tragici successivi; l’uso esclusivo di endecasillabi sciolti, modello sfruttato da Scipione Maffei nella Merope, di cui significativamente il bergamasco non fa cenno —; la combinazione di settenari ed endecasillabi, in numero largamente inferiore — variamente rimati, adoperata dallo Speroni nella Canace e talvolta dal Dolce nel Cinquecento, ma poi rifusa nella tradizione pastorale dall’Aminta all’Endimione di Guidi e in generale nel teatro tragico seicentesco, come si evince dall’Arsinda del Testi; quindi l’alternanza di endecasillabi e settenari non rimati praticata nel Settecento da alcuni tragici, fra cui principalmente il Lazzarini dell’Ulisse il giovane. Nel corso del capitolo Calepio paleserà la propria preferenza per questo ultimo modello metrico; tale posizione, a cui andrà assommato il giudizio velato di superiorità, fra le tragedie contemporanee italiane, concesso all’Ulisse del Lazzarini, causerà il risentimento del Maffei che manifesterà la propria disapprovazione nella recensione pubblicata sulle Osservazioni letterarie. Infine, viene menzionata la soluzione adottata dal Gratarolo nell’Altea, che constava della successione di endecasillabi sdruccioli. Sarà molto prezioso per il commento di questi passaggi il profilo storico-critico di «Lineamenti di una teoria del verso tragico tra Sei e Settecento», in Il verso tragico dal Cinquecento al Settecento, Atti del Convegno di Studi (Verona, 14-15 maggio 2003), a cura di Gilberto Lonardi e Stefano Verdino, Padova, Esedra, 2005, pp. 123-168. Sullo statuto metrico e stilistico della tragedia italiana tra il Cinque e il Settecento si rimanda inoltre agli interventi, di taglio storico-linguistico, di Antonio Sorella, «La tragedia», in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, vol. I. I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, 1993, pp. 751-792, e Tobia Zanon, «Teatro in versi: commedia e tragedia», in Storia dell’italiano scritto, a cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin, vol. I: Poesia, Roma, Carocci, 2014, pp. 325-351.
[7.1.2] Vengono elencate dal Calepio due nuove maniere di verseggiare prettamente settecentesche, una praticata dal Gravina e l’altra dal Martello. Nei confronti di entrambi i prototipi metrici il bergamasco esprime delle perplessità, sebbene l’autore censurato più alacremente in questa sede sia senz’altro il Gravina. Il Roggianese, nelle sue Tragedie Cinque, avrebbe coniato una struttura in qualche misura «barbara», nel tentativo di riprodurre i metri greci, dagli anapesti ai giambi. Il Bergamasco approva questa soluzione così movimentata, maggiormente adatta a descrivere la diversità degli affetti rappresentati; tuttavia egli condanna la resa concreta di questo principio teorico, spesso insoddisfacente, in quanto versi brevi e sonori — a causa della necessità di porre gli accenti all’interno di sedi specifiche —, tradizionalmente deputati a forme “leggere” come la canzonetta, venivano impiegati per riprodurre sentimenti gravi e maestosi. Probabilmente l’autore allude ad alcuni passaggi, soprattutto del Palamede e dell’Andromeda, in cui parrebbero infiltrarsi delle tangibili sezioni meliche che contaminano il modello tragico con quello del dramma per musica; si pensi ad esempio all’arietta pastorale plasmata su una sequenza di ottonari con cui Andromeda entra in scena nella tragedia eponima («Fresche erbette, ameni fiori,/ che corona a questo crine,/ tante volte offerto avete;/ e davate al debol fianco/ placidissimo riposo,/ quando stanca al vostro prato,/ con le dolci mie compagne/ ritornava dalle insidie,/ ch’agli augelli si tendevano», Gian Vincenzo Gravina, L’Andromeda, in Id., Tragedie cinque, Napoli, Mosca, 1712, p. 76). La sperimentazione graviniana è sicuramente guidata da un principio classicistico, come mostra Paola Luciani, parlando della «difficile messa a punto di un linguaggio drammatico» nelle Tragedie Cinque (Paola Luciani, Le passioni e gli affetti: studi sul teatro tragico del Settecento, Pisa, Pacini, 1999, p. 40); tuttavia appare non secondaria in questi passaggi — tanto nel lamento di Andromeda, quanto in quello di Polissena — una compromissione con il melodramma che rivela l’ambiguità dell’operazione graviniana, talora caratterizzata — ed è il caso dell’Andromeda — da una forte carica polemica nei confronti del modello drammaturgico della pastorale (cfr. Enrico Zucchi, «“Or che sta sotto il pericolo/ quanto è dolce la Reina!” Una proposta di lettura dell’Andromeda di Gravina», Atti e memorie dell’Accademia d’Arcadia, V, 2015, pp. 155-188). Secondariamente, ciò che Calepio non approva del sistema metrico graviniano è il ricorso frequente al verso sdrucciolo, che caratterizza molti dialoghi, nonché l’intera stesura dei Cori. Gravina, da ammiratore della metrica latina, elogiava la qualità dello sdrucciolo, che egli riteneva adatto al discorso tragico, reputandolo capace di donare alle sentenze la dovuta solennità («Ma sono di quelli i quali a dispetto dell’orecchio, che dallo sdrucciolo raccoglie, con suo piacere il suono, e della mente, che dal medesimo sdrucciolo, quand’è di ritmo sublime, è sollevata, pure, per non so qual superstizione credono che lo sdrucciolo non convenga a nobili sentimenti, perché la penultima cade: senza distinguere il corso rapido che nasce dalla brevità della penultima d’una medesima parola, dalla caduta che nasce dall’ultima parola monosillaba. La rapidità conferisce alla nobiltà, perché è numerosa e sonora; la caduta le toglie. […] La penultima breve dello sdrucciolo induce rapidità e sonorità, non bassezza, ad ogni sublime stile appresso gli antichi conveniva; e ’l piede, e ’l verso sdrucciolo, non solo alla magnificenza del poema eroico, ove entra il dattilo, dello esametro allora più nobile, quando più dattili o piedi sdruccioli contiene, ed alla gravità del discorso tragico, ove gli sdruccioli, che il jambo formano, sono più frequenti», Gian Vincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 552-553). Tuttavia la teoria del verso cinque-seicentesca aveva catalogato come bassi e comici i versi sdruccioli. Anche il Crescimbeni nella Bellezza della volgar poesia considerava lo sdrucciolo un verso comico, benché consigliasse l’impiego della prosa per la commedia, approvando il modello del Bibiena (Giovan Mario Cres c imbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, De’ Rossi, 1712, p. 126); Calepio dal canto suo si accoda a questa opinione dominante. Il giudizio negativo in merito all’impiego degli endecasillabi sdruccioli nella commedia è derivato dal Giraldi, il quale nel Giudizio sopra la Canace scriveva: «Però mi piaceria molto, che come è varietà appresso a’ Greci ed a’ Latini tra la commedia e la tragedia, quanto a’ versi (che della materia ora non parlo) quantunque siano tutti jambi; così ella vi fosse anco nella nostra favella. E loderei per Dio l’Ariosto, che coi suoi sdruccioli l’avesse trovata; se non fosse quella qualità di versi più convenevole a materia assai più bassa, che non la commedia; e non recassero quei sdruccioli sul loro sdrucciolare fastidio a chi gli ascolta; la qual cosa espresse molto bene Monsignore il Bembo nelle prose della volgar lingua», Giambattista Giraldi Cinzio, «Giudizio sopra la Canace», in Id., Scritti contro la Canace, Giudizio ed Epistola latina, a cura di Christina Roaf, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1982, p. 138. In conclusione l’autore aggiunge che l’esperimento di una metrica ibrida, parzialmente volta a recuperare alcuni accenti della prosodia greca, è riuscito molto meglio al Lazzarini che non al Gravina.
[7.1.3] Oltre alla soluzione adottata dal Gravina, il Calepio prende le distanze anche dalle scelte metriche del Martello, il quale aveva tentato di trasporre nel coturno italiano il verso tragico francese, l’alessandrino, noto appunto come martelliano (cfr. Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 305-306; Furio Brugnolo, «Breve viaggio nell’alessandrino italiano», Anticomoderno, II, 1996, pp. 257-284). Contro questo verso si erano espressi non soltanto gli Italiani, fra i quali si distingueva soprattutto il Maffei, combattivo sostenitore della superiorità dell’endecasillabo sciolto italiano all’alessandrino francese, considerato sommamente noioso («Gran pregiudizio forza è ricevano i vostri Alessandrini ancora dalla perpetua uniformità del suono, non avendo la lingua né quantità, né varietà d’accenti come la nostra, per lo che convien pronunziarli tutti col medesimo tenor di voce, avendo sempre la cesura, o sia il riposo, all’istesso sito, cioè su la sesta sillaba, o su la settima se la sillaba è feminina: con che ogni verso vien’ a comporsi di due emistichi uguali, e ogni parlar comune vien per lo più a formare un tale emistichio. Presso noi la diversa situazion degli accenti, ed il portar dove si vuole il fine del periodo, o la posatura, può variar sempre la misura, ed il suono, e però non annoiar mai», Scipione Maffei, «Lettera a Voltaire», in Id., De’ teatri antichi e moderni, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, p. 111), ma anche dai classicisti francesi, come il Rapin («La monotonie de notre vers alexandrin, qui ne peut souffrir aucune différence, ny aucune diversité de nombre me paroist aussi un grand foible dans la poésie françoise», René Rapin, Les Réflexions sur la poétique de ce temps et sur les ouvrages des poètes anciens et modernes, édition critique publiée par Elfrieda Theresa Dubois, Genève, Droz, 1970, p. 82), oppure il Dacier, laconico nell’osservare come la tradizione letteraria francese avesse un unico verso per la lirica, l’epopea e la tragedia, laddove tuttavia risultava poco naturale: «Nôtre Tragedie est donc malheureuse en cela, de n’avoir qu’une même sorte de vers pour elle, pour l’Elegie, et pour l’Epopée. On a beau dire que le vers de la Tragedie est plus simple et moins pompeux que celuy de l’Epopée, c’est toujours un grand vers de douze syllabes; et puisque ce vers ne nous échappe jamais dans la conversation et quand nous écrivons en prose, que ceux qui ont l’oreille délicate n’en soient choquez, c’est une marque seure que si nos oreilles n’étoient pas corrompuës par une longue habitude, on le trouveroit peu naturel dans la Tragedie, dont le langage doit ressembler autant qu’il est possible à celuy de l’entretien familier» (André Dacier, La Poëtique d’Aristote…, Paris, Barbin, 1692, pp. 53-54).
Ciò non impediva al Martello, uomo capace di scorgere la tenuta scenica del verso francese, di rivalutare l’alessandrino nella sua esplorazione storiografica alla ricerca del verso tragico perfetto condotta nel trattato Del verso tragico. Insoddisfatto dell’endecasillabo sciolto, ritenuto più tedioso della prosa, perplesso circa la possibilità di impiegare nella tragedia una soluzione mista di settenari ed endecasillabi saltuariamente rimati, in quanto richiamavano troppo da vicino la leggerezza della pastorale, il Martello si era deciso a ritrovare quel verso e quello stile italiano che erano sino ad allora mancati alla tradizione tragica nostrana. Appurato che tale stile deve essere lontano dall’affettazione barocca, ma non del tutto piano e semplice, egli propende per l’alessandrino, che gli sembra assai conveniente alla tragedia in quanto permette di esprimere pensieri complessi grazie alla sua lunghezza («Tornando a’ Franzesi, è forza per verità confessare che il loro verso alessandrino, avvegnaché di un suono non molto ritondo o colante, è assai comodo per la sua lunghezza ad esprimere interamente qualunque difficile sentimento», Pier Jacopo Martello, «Del verso tragico», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 182). Egli inoltre assume una posizione originale circa l’impiego dell’uso della rima; se questa era stata tradizionalmente condannata nella trattatistica sei-settecentesca, il Martello la giudica invece positivamente, convinto del fatto che, sempre in virtù della lunghezza del verso, una rima che torna dopo dodici o tredici sillabe non infastidisca l’orecchio dello spettatore («Le rime, che per esser tanto contigue dovrebbono stomacare con troppa dolcezza, scemando ancora la gravità e la maestà de’ ragionamenti, pur tuttavia non lo fanno, mercè che non si ascoltano così da vicino come si vedon, e dall’una all’altra rima intercorrendo una distanza di dodici sillabe, se i versi son mascolini, e di tredici, se femminni, non viene ad essere infastidito l’orecchio dall’uniformità di troppo frequenti cadenze», ivi, p. 182). D’altra parte egli si volgeva al verso rimato francese proprio in virtù delle prove fallimentari con l’endecasillabo sciolto; una volta spogliato delle «forme del favellare che sanno alquanto del lirico», questo metro gli appariva inadatto a dipingere gli affetti con quella piacevolezza che era necessaria ad interessare lo spettatore («Via dunque, dissi, le forme del favellare che sanno alquanto del lirico, e si pensi ad altre men ricercate e più gravi, di modo tale che in esse non appaia mica il poeta ma solamente l’attore. E perché lasciando a parte il fraseggiamento poetico, temei che spogliato il mio sciolto verso del suo maggiore ornamento, facesse bensì apparire più vigorosi i sentimenti, ma o li snervasse con istucchevole e secca prolissità, o con troppa brevità li oscurasse, mi feci a frequentar più le rime, alternandole a mio capriccio, per isfuggire la soverchia uniformità», ivi, p. 155).
Nel tradurre il verso alessandrino all’interno del sistema prosodico italiano il drammaturgo rivela di aver trovato dapprima qualche problema a causa del fatto che le parole italiane sono per lo più piane e non tronche; questa disparità lo porta a coniare un verso composto di fatto di due settenari che richiamavano — attraverso il Chiabrera — l’antecedente del dimetro giambico, avvertendo i drammaturghi italiani che volessero intraprendere questa strada di avere l’accortezza di variare molto più frequentemente di quanto facevano i Francesi le parole-rima («Meglio dunque stimai trovar verso che nell’effetto, non nella misura, a quello corrispondesse; la cui lunghezza fosse egualmente ed anzi più comoda a comprendere qualunque fossesi sentimento, ed il cui suono non riuscisse sì barbaro agli orecchi italiani, i quali hanno condannata per lo passato la quantità di que’ metri che la quantità de’ versi latini, o epici o saffici o in qualunque modo lirici, hanno voluto introdurre nel nostro idioma. E per vero dire che due di quelli i quali dal Chiabrera nelle sue Maniere de’ versi toscani vengono nominati “giambici dimetri scemi” di sette sillabe l’uno, insieme accoppiati compongono un verso capace, tardo, e però maestoso, e niente nuovo all’orecchio italiano, se nelle sue parti considerar lo vogliamo», ivi, p. 183). Calepio dimostra di avere ben presente queste pagine di Martello — alcune coincidenze terminologiche suggeriscono che egli avesse il trattato sul tavolo mentre componeva queste sezioni —, ma non condivide il merito del giudizio del drammaturgo, reo di non aver compreso le potenzialità del verso tragico italiano. Nella drammaturgia del Settecento l’alessandrino godrà di alterna fortuna: criticato dai più, esso verrà recuperato alle scene veneziane da Goldoni e Chiari, causando le gustose parodie di Carlo Gozzi nelle Fiabe Italiane (sulle quali cfr. Alberto Beniscelli, La finzione del fiabesco: studi sul teatro di Carlo Gozzi, Genova, Marietti, 1986; Arnaldo Momo, La carriera delle maschere, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 231-367; Javier Gutièrrez Carou, Carlo Gozzi: la vita, le opere, la critica, Venezia, Supernova, 2006; al sito http://www.usc.es/gozzi/biblio.html si trova peraltro un’ampia bibliografia aggiornata sull’opera gozziana). Sulla ricezione francese della caricatura gozziana, interessante tra l’altro anche per la resa metrica, cfr. Françoise Decroisette, «Recitazione vs lettura: la traduzione delle fiabe teatrali di Carlo Gozzi in Francia», TheMA, III, 1-2, 2014, pp. 46-67. Sulla teoria drammaturgica del Gozzi si rimanda all’edizione, con ampi apparati critici e puntuale commento, curata da Anna Scannapieco di Carlo Gozzi, Ragionamento ingenuo. Dai «preamboli» all’«appendice»: scritti di teoria teatrale, a cura di Anna Scannapieco, Venezia, Marsilio, 2013.
Articolo II.
[7.2.1] Riprendendo le tesi dei classicisti settecenteschi, Calepio considera i versi antichi, e soprattutto greci, sempre migliori rispetto a quelli moderni, italiani o francesi. La pecca principale di questi ultimi consiste nella maggiore prosasticità che si comprende icasticamente nel confronto comparatistico offerto dalla traduzione. L’autore richiama quindi le osservazioni di Paolo Beni, il quale, analizzando la pur pregevole versione italiana dall’Eneide approntata da Annibal Caro, notava come la traduzione risultasse molto più lunga dell’originale proprio in ragione dell’intrinseca verbosità del verso italiano: «Che l’Italiana Musa non possa se non con maggior numero e mole di versi che ad Italiana Heroico Poeta con rime si conviene. Ma facciasi di gratia con essempi alquanto più aperta e chiara questa ragione, anzi vengasi a stretto paragone e a prova sicura e certa. E che l’Italiana Musa non possa se non con maggior numero e mole di versi che la Latina spiegar l’istessa attione, etiandio che usi verso libero e scevro di rime, se ne potrà avveder qualunque paragoni l’Eneide latina di Virgilio con l’Italiana di Annibal Caro, posciaché se ben questi ha posto ogni suo studio per fedelmente tradurre, e non interporvi alcuna cosa di suo, come pur troppo ha fatto qualch’altro, tuttavia il numero de’ versi Italiani sopravanza il numero de’ Latini di più di cinque mila», Paolo Beni, Comparatione di Homero, Virgilio e Torquato, et a chi di loro si debba la Palma nell’Heroico Poema, Padova, Pasquati, 1607, pp. 152-153). Ancora più prolissa era la traduzione in ottave del Dolce (L’Achille et l’Enea di messer Lodovico Dolce. Dove egli tessendo l’historia della Iliade di Homero a quella dell’Eneide di Vergilio, ambedue l’ha divinamente ridotte in ottava rima, Vinegia, Giolito, 1570). Sulle traduzioni cinquecentesche dell’Eneide si veda il contributo di Luciana Borsetto, L’Eneide tradotta: riscritture poetiche del testo di Virgilio nel XVI secolo, Milano, Unicopli, 1989. Passando al greco, Calepio cita subito l’esempio di traduzione dell’Iliade che considerava più mirabile, ossia quella del Salvini, giudicata la migliore, benché talora imperfetta in quanto, proprio a causa del fatto che la conformazione della lingua italiana lo costringeva ad impiegare lunghe perifrasi per tradurre espressioni che nel greco risultavano concise e puntuali. Sul giudizio, estremamente positivo, espresso dal Calepio in merito alla traduzione del Salvini, cfr. anche Mario Scotti, «L’“Apologia di Sofocle” di P. de’ Conti Calepio», Giornale storico della letteratura italiana, CXXXIX, 427, 1962, pp. 392-423; sulla traduzione omerica del Salvini si rimanda al contributo di Vincenzo Placella, «Il padre dei traduttori omerici settecenteschi: Anton Maria Salvini», Filologia e letteratura, XV, pp. 379-409.
[7.2.2] Calepio insiste sul fatto che questa prolissità nel rendere “l’enfasi” del verso greco e latino non è prerogativa dell’italiano, ma si configura come caratteristica comune di tutte le lingue moderne, compreso il francese. Le traduzioni in francese dell’Iliade, a partire da quella in versi rimati composta, su invito di re François I, da Hugues Salel per i primi undici canti, strutturati in decasyllabes, e da Amadys Jamyn per i successivi, in alessandrini, appaiono assai più estese del testo di partenza (Les XXXIII livres de l’Iliade d’Homère, Prince des poëtes Grecs. Traduicts du grec en vers François. Les XI premiers par M. Hugues Salel Abbé de Sainct Chéron. Et les XIII derniers par Amadis Jamyn, Secrétaire de la Chambre du Roy, tous les XXIIII reveuz et corrigez par ledit Am. Jamyn, avec les trois premiers livres de l’Odyssee d’Homère traduicts par ledit. Jamyn, Paris, Breyer, 1577). Molto più lunga dell’originale risultava anche la recente traduzione in prosa di Madame Dacier (L’Iliade d’Homere traduite en François, Paris, Brunet, 1709), protagonista della Querelle des Anciens et des Modernes, spinta a volgere i versi omerici nell’idioma nazionale in seguito alla pubblicazione nel 1681 di una cattiva traduzione in prosa curata da Père de La Valterie, il quale aveva lavorato su di un esemplare latino. Sulle traduzioni di Omero in Francia si rimanda in prima battuta a: Paul Mazon, Madame Dacier et les traductions d’Homère en France, Oxford, Clarendon Press, 1936, nonché a Noémi Hepp, Homère en France au xviie siècle, Paris, Klincksieck, 1968. Sono invece specificamente diretti all’operazione culturale, filologica e translinguistica della Dacier i seguenti contributi: Giovanni Saverio Santangelo, Madame Dacier, una filologa nella « crisi » (1672-1720), Roma, Bulzoni, 1984; Éric Francalanza, «Les prémisses de l’histoire littéraire dans la Querelle d’Homère: quelques remarques sur le travail d’Anne Dacier», in L’Histoire littéraire à l’aube du xxie siècle, sous la direction de Luc Fraisse, Paris, Presses universitaires de France, 2005, pp. 65-85; Éliane Itti, Madame Dacier, femme et savante du Grand Siècle (1645-1720), Paris, L’Harmattan, 2012. Sulla valenza politica delle traduzioni cinquecentesche si veda Marc Bizer, Homer and the Politics of Authority in Renaissance France, Oxford, Oxford University Press, 2011.
[7.2.3] L’autore contesta la giustificazione offerta da Terrasson alla Dacier e in generale a tutti i traduttori: il critico transalpino asseriva infatti che la lunghezza sovrabbondante della traduzione rispetto al testo di partenza non fosse dovuta ad un effettivo difetto del francese e, in generale, delle lingue moderne, ma allo scrupolo connaturato al lavoro di chi compie questa trasposizione, propenso ad impiegare un maggior numero di parole per paura di non rendere al meglio il significato dell’originale («Or je prétends que tout bon Traducteur éprouvera la même impuissance d’une langue à l’autre: et ma preuve de fait est que toute traduction faite avec soin est plus longue que l’original; parceque le Traducteur ayant toûjours peur que ses équivalents ne rendent pas tout le sens de son Auteur, est souvent porté à mettre deux mots pour un. Cet allongement des traductions se voit non-seulement dans les Ouvrages Grecs et Latins mis en nôtre langue que l’on croît inférieure à ces deux là; mais encore dans plusieurs Ouvrages qui ont été mis de François en Latin, ou de Latin en Grec», Jean Terrasson, Dissertation critique sur l’Iliade d’Homere, Paris, Fournier-Coustelier, 1715, t. II, p. 576). Per suffragare la propria tesi, l’abate francese richiamava l’esempio della traduzione in latino del Panégyrique du Roy in onore di Louis XIV, pronunciata nel 1671 da Paul Pellisson, consigliere e storiografo del re. In questa traduzione si noterebbe infatti il medesimo processo di dilatazione del testo che si percepisce nelle traduzioni dal latino al francese («entre plusieurs versions Latines plus longues que l’original François, et qui sont toutes assez connuës; je me borne au Panegyrique du Roi fait par Mr Pelisson. Le Latin quoique de bonne main, excede le François d’un tiers; car je ne parle point des versions Italienne et Espagnole du même discours plus longues aussi que l’original», ivi, p. 576-577). Calepio è convinto tuttavia che questo unico esempio non possa avvalorare la teoria del francese, tanto più che le traduzioni ad verbum dalla Sacra Scrittura mostrerebbero con evidenza come il latino, e soprattutto il greco, conservino una precisione nel volgere il testo ebraico e una capacità di evitare perifrasi e circonlocuzioni che è sconosciuta alle lingue moderne. Il panegirico era stato peraltro chiamato in causa qualche decennio prima dal Muratori, il quale, nella sua Vita del Maggi, aveva menzionato alcuni passaggi dell’orazione per difendere la legittimità di alcuni concetti di una canzone del poeta milanese censurati dal Bouhours nella Manière de bien penser (Cfr. Ludovico Antonio Muratori, Vita di Carlo Maria Maggi, Milano, Malatesta, 1700, p. 179).
[7.2.4] Calepio accenna qui ad un episodio piuttosto rilevante del fecondo dialogo fra Italia, Francia e Svizzera nel primo Settecento che aveva avuto luogo nelle pagine della rivista ginevrina Bibliothèque Italique, periodico adibito a diffondere la cultura italiana contemporanea e che ospiterà anche la traduzione annotata della Descrizione de’ costumi italiani del Bergamasco. Nel secondo tomo della «Bibliothèque» veniva pubblicata la traduzione, corredata dalle note di Gabriel Seigneux de Correvon, della seconda parte del Discorso de’ migliori poeti italiani pronunciato da Scipione Maffei in occasione dell’inaugurazione della colonia arcadica veronese e stampata nel volume di Rime e prose del marchese nel 1719 (Scipione Maffei, Discorso de’ migliori poeti italiani, in Id., Rime e prose, Venezia, Coleti, 1719, pp. 132-137). In questo abregé di storia della letteratura, il veronese, rimodulando in chiave didattica il medesimo canone che aveva proposto il Crescimbeni nell’Istoria della volgar poesia (cfr. a proposito Franco Arato, La storiografia letteraria nel Settecento, Pisa, ETS, 2002, pp. 112-113 e Corrado Viola, «Il canone arcadico secondo Maffei», in Id., Canoni d’Arcadia: Muratori Maffei Lemene Ceva Quadrio, Pisa, ETS, 2009, pp. 92-94), nel menzionare i migliori poeti contemporanei, tutti provenienti dalla fiorente fucina d’Arcadia, nominava, oltre ai vari Menzini, Crescimbeni, Manfredi e Salvini, anche Pier Jacopo Martello. In margine a quest’ultima menzione il Seigneux de Correvon, commentatore tendenzialmente esuberante e indiscreto — come aveva sperimentato lo stesso Calepio, che aveva avuto da ridire su alcune annotazioni del Francese alla sua Descrizione (Romagnoli descrive con acutezza quelli che definisce gli «interventi ideologici» del Seigneux sul testo di Calepio, cfr. Sergio Romagnoli, Introduzione a Pietro Calepio, Descrizione de’ costumi italiani, a cura di Sergio Romagnoli, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1962, pp. XLIII-LVI) —, si permetteva di contestare al Martello una considerazione, contenuta nel Della tragedia antica e moderna, circa la superiorità della tragedia italiana a quella francese. Secondo il Seigneux il drammaturgo emiliano dimenticava che, in fatto di drammaturgia, tanto i letterati transalpini quanto i suoi connazionali avevano concordemente assegnato la preferenza ai francesi: «D’abord il avouë, contre la commune opinion de son Pays, que la France a l’avantage sur l’Italie pour la Poësie Tragique et Comique; comme il la croit inférieure dans la Poësie Lyrique, Epique et Pastorale… Il observe que les Tragédies Françoises qui ont été bien traduites en Italien, y ont eu, même sur le Théatre, un très-grand succès; et que lors-qu’on y a inséré des Scénes entiéres, là où il a paru nécéssaire pour rendre l’action plus parfaite, rien n’a coupé, et le tout ensemble a également réüssi», [Gabriel Seigneux de Correvon], «Suite de la Traduction du Discours sur le Génie des meilleurs Poëtes Italiens», Bibliothèque Italique, t. II, mai-août 1728, pp. 276-309: 298. Più avanti, nelle note, il Francese attaccava direttamente il Maffei, in merito alla seguente affermazione: «Prima di terminare il ragionamento necessario è d’avvertire, che l’averci proposti avanti tanti sublimi esemplari, non vuol però inferire, che altri sia tenuto sempre a lavorar d’imitazione, onde resti vietato all’ingegno il formarsi, se da tanto fosse, un nuovo modo: e tanto più in nostra lingua, che delle viventi, di cui notizia abbiamo, l’unica essendo, che atta alla vera Poesia dir si possa, sempre di nuove cose è capace», Scipione Maffei, Discorso de’ migliori poeti italiani, cit., p. 137. Il Seigneux reputava ardito il ragionamento del veronese in questo passaggio, accusandolo di zelo eccessivo nei confronti della patria — proprio il Maffei, che era stato accusato da Giuseppe Maria Bianchini di scarso patriottismo (cfr. Valentina Varano, «L’Apologia per le stampe d’Italia: Giuseppe Maria Bianchini vs la “bella Margherita”» di Scipione Maffei», in I cantieri dell’italianistica: ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del XVII congresso dell’ADI, (Roma, 18-21 settembre 2013), a cura di Beatrice Alfonzetti, Guido Baldassarri e Franco Tomasi, Roma, Adi editore, 2014) —, e di scarsa lucidità nella sua analisi («Décision hardie (avec la permission de cet homme illustre) puisqu’elle suppose une connoissance parfaite des beautés, de la force, et du génie de chaque Langue, avec une dépréoccupation entiére sur la préséance qu’on veut assigner. On pourroit peut-être, par ces raisons, mettre le Jugement dont je parle, au rang des Paradoxes Nationaux que produit l’amour excessif de la Patrie. Le zéle pour la gloire d’un Pays de tout tems Illustre, est bien légitime; et cette gloire ne peut qu’être bien intéressante lorsqu’on y contribue, comme le fait Mr. Maffeï par tant d’endroits. Mais pourquoi la Langue Italienne seroit-elle seule propre à la Poësie? puis que chaque Langue a comme elle ses beautés, ses forces, ses Priviléges et ses Chef-d’œuvres […]. L’origine de la Langue Italienne n’est pas plus pure, ni sa source plus abondante que celle de plusieurs autres», [Gabriel Seigneux de Correvon], «Suite de la Traduction du Discours sur le Génie des meilleurs Poëtes Italiens», cit., pp. 301-302). Egli ammette inoltre che l’italiano è, come riporta Calepio a testo, più grazioso e adatto ai soggetti teneri del francese, la cui maestosità lo rende confacente a generi più nobili, come quello tragico, adducendo a riprova della validità delle proprie tesi il trattato Del verso tragico di Martello («L’Italienne est peut-être plus gracieuse dans les sujets tendres; sa consonance a pour l’oreille quelque chose de plus enjoué et de plus flatteur: Elle a une légèreté insinuante, et un agrément qui chatouille; mais la Françoise a plus de poids et de majesté: elle jouït d’une précision heureuse, d’une netteté et d’une éxactitude ennemie de l’Equivoque; d’une Elégance naturelle, d’une douce et noble délicatesse. L’Italienne paroît plus propre à exprimer agréablement les petites choses; la Françoise semble plus capable de toucher dignement les grandes. Cela paroît par l’avantage qu’elle a, de l’aveu propre de l’Illustre Mr. Martelli, dans la Poèsie Dramatique, qui comprend ce qu’il y a de plus délicat dans la Satyre, et de plus grand dans les sentimens», ivi, p. 304). Sull’operazione culturale, assai rilevante, svolta dalla redazione della Bibliothèque Italique, nonché sull’eclettica figura del Seigneux de Correvon, si veda la monografia di Francesca Bianca Crocitti Ullrich, La «Bibliothèque Italique»: cultura italianisante e giornalismo letterario, Milano-Napoli, Ricciardi, 1974.
[7.2.5] Rispetto alle critiche del Seigneux, Calepio si limita a richiamare la consolidata gerarchia tassiana dei generi letterari, già in precedenza descritta, soffermandosi sul fatto che una dizione assai grave e solenne conviene più all’epica che non alla tragedia; i ripetuti fallimenti dei Francesi nel poema eroico documenterebbero di conseguenza l’incapacità della loro lingua di sostenere la nobiltà che l’epopea comporta. Capovolgendo la strategia sfruttata dal francese — ossia citare uno straniero che loda le bellezze della lingua altrui —, il Bergamasco richiama l’introduzione di Madame Dacier alla sua versione dell’Iliade, in cui denunciava che la difficoltà più grande incontrata nel volgere i versi omerici in francese consisteva nell’inadeguatezza della lingua d’arrivo («Toutes les difficultez que j’ai envisagées se réduisent à cinq. […] Et la cinquiéme enfin, qui est celle qui m’a le plus effrayée, c’est la grandeur, la noblesse et l’harmonie de la diction, dont personne n’a approché, et qui est non seulement audessus de mes forces, mais peut-être même audessus de celles de notre langue», Anne Dacier, «Préface», in L’Iliade d’Homere, traduite en François avec des Remarques, 2e éd., t. I, Amsterdam, Aux dépens de la Compagnie, 1712, p. viii, x). Soprattutto il francese le sembrava carente nel rendere quell’«heureux mêlange» omerico di vigore ed eleganza, su cui si fondava gran parte della bellezza del poema: «Mais cette composition mêlée, source de ces graces, est inconnue à notre Langue; elle n’admet point toutes ces differences; elle ne sait que faire d’un mot bas, dur, ou desagréable; elle n’a rien dans ses thrésors qu’elle puisse employer pour cacher ce qui est defectueux; elle n’a ni ces particules nombreuses, dont elle puisse soûtenir ses termes, ni cette differente harmonie qui naît du different arrangement des mots, et par conséquent elle est incapable de rendre la plûpart des beautez qui éclatent dans cette Poësie» (ivi, p. xliii). Questa condanna della limitatezza espressiva del francese si inseriva all’interno di una lunga tradizione critica, che andava fra gli altri dal Bayle e dal Sanadon fino almeno al Du Bos, come si evince dall’attenta ricostruzione storiografica dell’Algarotti nel suo Saggio sopra la lingua francese (Francesco Algarotti, Saggi, a cura di Giovanni Da Pozzo, Bari, Laterza, 1963, pp. 245-261). Alla difesa dei Modernes, che rispondevano piccati alla Dacier esaltando l’«exactitude» della lingua francese, Calepio rinfacciava la scarsa estensione del vocabolario e ritorceva contro di loro la mancanza di sinonimi, nonché l’impossibilità di ricorrere a nomi composti oppure alla gradazione degli aggettivi, tipica invece dell’italiano. La polemica è in questo caso diretta agli scritti di Dominique Bouhours, il quale, negli Entretiens d’Ariste et d’Eugène, accusava la lingua italiana di «tombe[r] dans le ridicule» nel fare largo ricorso ai diminutivi, a cui attribuiva una natura burlesca («Mais la langue Italienne, dit Ariste, n’a rien de cette vaine grandeur, et de cét orgueil que vous reprochez à la langue Espagnole. Je l’avouë, reprit Eugene, mais avouëz aussi qu’elle va dans une autre extremité; et qu’en s’éloignant de la gravité et du faste, elle tombe dans le ridicule. Car enfin elle n’a presque rien de serieux: cét enjouement qui luy semble si naturel, approche de la badinerie: la pluspart de ses mots et de ses phrases sentent un peu le burlesque. Y a-t-il rien de plus folastre que ces diminutifs qui luy sont si familiers? Ne dirait-on pas qu’elle ait dessein de faire rire avec ces fanciulletto, fanciullino; bambino, bambinello, bambinelluccio; huometto, huomicino, huomicello; dottoretto, dottorino, dottorello, dottoruzzo; vecchino, vecchietto, vecchiettino, vecchiuzzo, vecchiarello», Dominique Bouhours, Les Entretiens d’Ariste et d’Eugène, édition établie et commentée par Bernard Beugnot et Gilles Declercq, Paris, H. Champion, 2003, pp. 108-109). Già il Muratori, nella Perfetta poesia, difendeva l’uso dei diminutivi, reputandoli una risorsa ulteriore dell’italiano — e anche del greco e del latino — che permettevano di arricchire le possibilità espressive della lingua; i Francesi, non avendo diminutivi, erano costretti a riferire con un giro di parole ciò che gli Italiani potevano dire concisamente attraverso l’uso di un solo termine preciso («Tanto è dunque lungi dal potersi provare, che sia vizio dell’Idioma Italiano l’uso de i Diminutivi, che più tosto convien confessare, ciò essere una virtù, un privilegio proprio delle più nobili, ricche e famose Lingue. Ancor dee confessarsi, che questo Autore in vece di far comparire maestosa, e grave più dell’Italiana la Lingua Franzese, ha pubblicata contra suo volere per molto povera la sua in paragon della nostra; scoprendo a chi nol sapea, che i Franzesi non hanno Diminutivi, e ch’essi con due, o più parole debbono talvolta esprimere ciò, che da gl’Italiani, da i Latini, e da i Greci si può significare con una sola», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 644.
[7.2.6] Viene riconosciuta al francese la superiorità rispetto alle lingua classiche in quanto ad estensione del vocabolario scientifico e filosofico, ma questo parziale vantaggio non costituisce, secondo Calepio, un elemento che avrebbe permesso ai francesi di comporre poemi migliori. Egli di conseguenza se la prende con un’affermazione del Terrasson, il quale aveva scritto che il poeta, benché non fosse un fisico di professione, si rendeva ammirevole se dimostrava, nei propri scritti, qualche nozione di fisica, magari con l’intenzione pedagogica di condividerla con i propri lettori («Au fond, quoiqu’un Poëte ne soit pas Physicien de profession, et qu’en certaines choses il lui soit même permis de suivre le courant des opinions populaires; cependant rien ne luy fait plus d’honneur que lorsqu’on voit par ses expressions qu’il n’ignore pas le fait physique, et à plus forte raison, lorsqu’il en instruit lui-même son Lecteur», Jean Terrasson, Dissertation critique sur l’Iliade d’Homere, Paris, Fournier-Coustelier, 1715, t. II, p. 601). Il francese citava poi, per comprovare il proprio ragionamento, il passaggio della Gerusalemme liberata (XX, 55, vv. 2-8) riportato a testo, nel quale si riferisce la bravura militare di Rinaldo, che sembra avere tre braccia da tanto velocemente mena i colpi, creando una sorta di illusione ottica negli astanti.
[7.2.7] Secondo Calepio la tesi del Terrasson secondo cui l’introduzione di un lessico e di concetti scientifici giovi alla poesia è falsa, così come inopportuno gli sembra l’esempio tratto dal Tasso; il compito principale della poesia è infatti quello di giovare dilettando, non di istruire nelle scienze, e quindi lo scopo didattico non è che accessorio. Inoltre, a suo parere, la bellezza dei versi della Liberata non sarebbe dipendente dall’arditezza delle idee scientifiche riportate, ma si risolverebbe esclusivamente a livello poetico, in quanto nasce dalla puntualità e dalla verosimiglianza della descrizione. L’autore torna quindi sull’impiego — che egli giudica strumentale — delle parole del Martello circa la presunta superiorità della lingua tragica francese a quella italiana fatta dal Seigneux de Correvon nelle note alla traduzione francese del Discorso de’ migliori poeti italiani pubblicata sui tomi della Bibliothèque Italique. Se a partire dall’asserzione del Martello in apertura del trattato Del verso tragico, che fungeva da prefazione all’edizione del Teatro Italiano, il Seigneux tentava di dimostrare come anche uno dei drammaturghi italiani più rappresentativi riconoscesse la preminenza della tragedia francese («Quanto nelle poesie liriche, nell’epiche e nelle pastorali siamo, e possiamo dirci senza iattanza, molto superiori a’ Franzesi, tanto dobbiamo nelle tragedie con disinteressata ingenuità confessarci ad essi inferiori», Pier Jacopo Martello, «Del verso tragico», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, p. 151), Calepio oppone a questa premessa il fatto che Martello ammetta pure che la lingua italiana aveva le potenzialità di forgiare una forma tragica perfetta («Io pertanto, che sono uomo il quale né arduità d’impresa né pericolo di severa censura né strepito di gran nomi ha mai sgomentato, mi son fatto a credere potersi anche in questo, se non superare, almeno emulare i Franzesi, quando si resti d’accordo di ciò che fa tanto valere i loro drammi», ivi, pp. 151-152).
Articolo III.
[7.3.1] In questo articolo l’autore propone la propria soluzione al problema del verso tragico posto dal Martello nel trattato Del verso tragico, respingendo tanto l’alessandrino, quanto l’endecasillabo sciolto — sicuramente preferibile al primo, ma non del tutto soddisfacente a causa della «noiosa armonia» che produce —, in favore di un modello misto di versi lunghi (endecasillabi) e brevi (settenari) non rimati e presenti nella medesima proporzione, a differenza di quanto accadeva nei due contrari prototipi della Canace, in cui largheggiavano i settenari, e della Sofonisba, in cui abbondavano gli endecasillabi. Calepio si inserisce qui nell’ampia discussione intorno al verso tragico che aveva coinvolto i maggiori letterati dell’epoca, riprendendo di fatto la posizione espressa dall’Orsi nelle sue Considerazioni («Nelle nostre tragedie si usa non tanto l’endecasillabo solo, quanto l’arbitraria mistura con esso del settesillabo, maggiormente giudicata convenevole nelle passioni concitate», Giovan Gioseffo Orsi, Considerazioni sopra un famoso libri franzese intitolato La manière de bien penser dans les ouvrages d’esprit, Bologna, Pisarri, 1703, p. 295). I limiti dell’endecasillabo piano erano stati ravvisati già dal Gravina, il quale nel Della tragedia ammetteva di preferire gli sdruccioli, in quanto maggiormente armoniosi e capaci di riprodurre più fedelmente il giambo greco («Lo sdrucciolo però è superiore all’endecasillabo di armonia, per cagion della penultima breve: la quale succedendo all’antipenultima, e variando il tempo, produce nell’orecchio quel suono, che nasce dal giambo e che non può uscire dall’endecasillabo; le cui ultime tre sillabe son tutte di tempo uguale, e formano un molosso, piede inutile», Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Bari, Laterza, 1973, p. 551). Tuttavia oltre all’Orsi e al Gravina, sono pochi gli autori dell’epoca disposti a rinunciare all’endecasillabo sciolto, che andava acquistando la comunione dei consensi tanto dei drammaturghi, quanto degli attori, altrettanto impegnati nella ricerca di un verso che risultasse naturale e lontano dall’alessandrino declamatorio dei francesi (cfr. a proposito Valentina Gallo, «Lineamenti di una teoria del verso tragico tra Sei e Settecento», in Il verso tragico dal Cinquecento al Settecento, Atti del Convegno di Studi [Verona, 14-15 maggio 2003], a cura di Gilberto Lonardi e Stefano Verdino, Padova, Esedra, 2005, pp. 123-168: 164-166, nonché l’edizione digitale del trattato in versi di Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa, a cura di Valentina Gallo, «Les savoirs des acteurs italiens», collection numérique dirigée par Andrea Fabiano http://www.iremus.cnrs.fr/fr/publications/les-savoirs-des-acteurs-italiens). L’alfiere di questa battaglia a favore dell’endecasillabo era senz’altro Scipione Maffei, che aveva esperito come autore le potenzialità di questa soluzione e ne aveva sostenuto la validità — soprattutto in rapporto agonistico con l’alessandrino francese — in molteplici occasioni critiche (cfr. Vincenzo Placella, «Le possibilità espressive dell’endecasillabo sciolto in uno scritto di Scipione Maffei», Filologia e critica, XV, 1969, pp. 144-173. Nella recensione al Paragone pubblicata sulle Osservazioni letterarie il veronese opponeva al Calepio l’eccessiva musicalità della soluzione mista, più conveniente al dramma per musica che non alla tragedia, anche in ragione del fatto che un verso breve come il settenario riduceva la gravità della dizione tragica («Tornando a metri, antepone [il Calepio] a tutti il verso undicisillabo puro, o misto col settisillabo, e stima migliore cotal mischianza; il che per verità non gli sarà conceduto da tutti, perché sembra disconvenir troppo all’odierna Tragedia che si recita, quell’alternamento che sa di musica e che solamente riesce bene in que’ componimenti che dovrebbero cantarsi in musica, come i Lirici. Molto disconviene ancora per se stesso alla Tragica gravità il verso corto, quando non si usasse a luogo e con disegno, come gli Antichi faceano», Scipione Maffei, Recensione a P. Calepio…, in Id., De’ teatri antichi e moderni, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, p. 61). Nella risposta alla lettera di Voltaire il Maffei rimarcava la propria posizione, giudicando l’endecasillabo assai più proprio per la tragedia, in quanto più duttile e variabile dell’alessandrino («Gran pregiudizio forza è ricevano i vostri Alessandrini ancora dalla perpetua uniformità del suono, non avendo la lingua né quantità, né varietà d’accenti come la nostra, per lo che convien pronunziarli tutti col medesimo tenor di voce, avendo sempre la cesura, o sia il riposo, all’istesso sito, cioè su la sesta sillaba, o su la settima se la sillaba è feminina: con che ogni verso vien’ a comporsi di due emistichi uguali, e ogni parlar comune vien per lo più a formare un tale emistichio. Presso noi la diversa situazion degli accenti, ed il portar dove si vuole il fine del periodo, o la posatura, può variar sempre la misura, ed il suono, e però non annoiar mai», Scipione Maffei, Lettera a Voltaire, ivi, p. 111). Risolutamente a favore dell’endecasillabo sciolto era anche Antonio Conti, incapace di apprezzare la soluzione mista adottata nell’Ulisse il giovane del Lazzarini per ragioni prettamente teatrali, come spiega nella prefazione al Marco Bruto («I Comici più facilmente imparano a memoria i versi endecasillabi, e più naturalmente gli pronunziano e atteggiano. Interrogati da me su questo punto, concordemente me l’attestarono, ed io per tre sere consecutive udii l’Ulisse il giovane del Lazzarini, nel quale i versi di sette e di undici sono intrecciati, e ritrovasi coll’esperienza e sul fatto vero il detto de’ Comici», Antonio Conti, Le quattro tragedie, Firenze, Bonducci, 1751, p. 186). Inoltre anch’egli dimostrava di apprezzare la varietà delle cesure dell’endecasillabo nonché la sua predisposizione a contenere, attraverso delle inarcature, periodi che oltrepassassero l’unità metrica («La varietà delle cesure del verso endecasillabo e l’intreccio suo co’ versi seguenti, sostengono e diversificano il periodo, e lo rendono tanto più atto al dialogo quanto più che il verso, potendosi rompere in qualsivoglia sillaba, introduce nel dir legato la libertà del dir sciolto. Il modo delle spezzature e il giro de’ periodi dell’endecasillabo tragico distinguono il suo metro da quello dell’endecasillabo epico», Antonio Conti, Dissertazione su l’Atalia del Racine tradotta nella lingua italiana, in Id., Prose e poesie, t. I, Venezia, Pasquali, 1739, p. clviii). Sull’apprezzamento del Conti per l’endecasillabo Calepio si soffermava peraltro nelle Giunte postume, contestando la posizione assunta dal padovano nella prefazione del Marco Bruto, in cui si ammetteva che l’endecasillabo corrispondesse all’esametro latino; che questo verso fosse capace di sostenere una costruzione sintattica assai complessa; che la possibilità di diversificare le sedi accentuative e le cesure permette all’endecasillabo un numero pressoché infinito di combinazioni sempre diverse; che fosse eccellente per gravità, varietà e chiarezza. Calepio procede ad una requisitoria contro ognuna di queste affermazioni, tentando di avallare la propria proposta di una soluzione metrica mista (Pietro Calepio, «Giunte postume attinenti al Paragone», in Id., Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, e sua Difesa, con l’Apologia di Sofocle, Venezia, Zatta, 1770, pp. 188-192).
Si distacca in questo caso dall’opinione del Calepio anche il Quadrio, che spesso ne aveva parafrasato le opinioni; l’autore del Della storia e della ragione d’ogni poesia riporta infatti il pensiero del bergamasco («Un erudito e illustre Scrittore Moderno approva più, che altro modo, il quinto da noi riferito, di mescolare insieme gli Endecasillabi e gli Ettasillabi, sul fondamento, che l’Endecasillabo, che ha suono alquanto più distinto dalla prosa, se non s’interrompe talora con l’altro più familiare, produce una noiosa armonia, che fa degenerar qualche fiata la tragedia dalla natura de’ gravi discorsi», Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. III, Milano, Agnelli, 1743, p. 212), salvo poi prenderne le distanze, prediligendo l’uso esclusivo dell’endecasillabo («S’io debbo a ogni modo dir quello, che a me ne sembra, dico primieramente, che il Settenario non si conviene in veruna guisa, al dir tragico, per essere molle e dolce. […] Dico in appresso, che non ostante che il Settenario non fosse per pregiudicare alla tragica gravità; a ogni modo un tale mescolamento di Settenario, e di Endecasillabo, o qualunque altro mescolamento egli sia, si disconviene grandemente alla Tragedia, in quanto è pur solo mescolamento […]; perché come mescolamento, importa imperfezione, instabilità e mollezza, cose tutte che all’eroico e grave parlare sommamente disdicono, che ama la perfezione, la stabilità e la sodezza. […] Alle ragioni per tanto dall’erudito Moderno prodotte si può rispondere, che non ha mestieri di questo vizioso frammischiamento per variar l’armonia: perché l’Endecasillabo da sé si può formare variamente armonico, quanto piace, colla sola diversità delle pose, che ne costituiscono le dimensioni», Francesco Saverio Quadrio, ivi, pp. 212-213).
[7.3.2] Calepio ritorna quindi sulla trattazione del Martello nel Verso tragico, riportando il tentativo di trasposizione in prosa di una scena del Torrismondo del Tasso che il drammaturgo bolognese aveva approntato, dopo aver illustrato i difetti dell’Arsinda del Testi, per mostrare come quelle tragedie seicentesche riuscissero molto migliori se private dell’eccessivo ornamento retorico e della prolissità che le caratterizzavano (cfr. Pier Jacopo Martello, Del verso tragico, in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 166-172). Il bergamasco puntualizza che il giovamento principale che ricevono questi passaggi non è dovuto al fatto che essi siano volti dal verso alla prosa, ma in virtù del processo di semplificazione della lingua poetica.
[7.3.3] Nelle anonime Réflexions d’un Allemand sur les défauts de la versification Française (Altona, Korte, 1727) veniva messo polemicamente in discussione l’intero sistema prosodico francese, con punte polemiche che Calepio dimostra qui di non condividere. Egli tuttavia ritiene, come d’altra parte la maggioranza dei letterati italiani dell’epoca (cfr. supra) che l’alessandrino sia inferiore all’endecasillabo perché meno mosso e tendenzialmente più noioso. Il verso italiano può essere declinato variamente perché diverse sono le potenziali sedi accentuative (egli cita la quarta, la sesta e l’ottava e la seconda come opzionale; pochi anni dopo il Quadrio considererà migliore l’endecasillabo con accenti sulla quarta, settima e decima, cfr. Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, vol. I, Bologna, Pisarri, 1739, pp. 672-673). A questa varietà accentuativa dell’endecasillabo corrisponde per contro l’immobilità dell’alessandrino, che si compone di due emistichi uguali, in cui, secondo Calepio, la seconda parte si riduce ad essere una ripetizione della prima, creando un effetto di tediosità nell’ascolto.
[7.3.4] Il verso martelliano erediterebbe, secondo Calepio, la stessa rigidità dell’alessandrino, in quanto i due emistichi gli appaiono entità separate che riproducono, con una soluzione di continuità estenuante, la medesima armonia. Il Bergamasco confuta quindi le velleità classicistiche con cui il Martello aveva tentato di legittimare il suo nuovo verso come la riproduzione di un esametro composto di tre adonii, ossia versi composti da un dattilo e da uno spondeo («Né mi sia detto che vanamente io pretenda di dare, con questa congiunzione di due versi in uno, gravità all’armonia differente da quella che sortirebbe se non accoppiati in tal guisa, ma l’uno dall’altro divisi si leggessero; perch’io risponderò che quantunque questo comporli insieme sia accidentale ed esterno, mostrerebbe però il fatto in dividerli che ciascheduno di essi, considerato nella sua breve misura, avrebbe non so che dell’anacreontico e del leggero, che insieme combinato non ha; e, qualunque ne sia la cagione, imprime per via dell’occhio e dell’orecchio negli animi qualche cosa di più maestoso ed a tragedia conveniente; in quella guisa appunto che un verso esametro di tre versi adonii composto, o di uno di questi e d’altra più breve sorta di verso, sarà sempre considerato per un esametro, e per un verso in cui si possano cantare con gravità fatti d’arme», Pier Jacopo Martello, «Del verso tragico», in Id., Scritti critici e satirici, a cura di Hannibal S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 184-185). Parimenti viene anche ridicolizzata l’opinione del drammaturgo secondo cui un verso più lungo sarebbe più comodo per esprimere sentimenti complessi («Tornando a’ Franzesi, è forza per verità confessare che il loro verso alessandrino, avvegnaché di un suono non molto ritondo o colante, è assai comodo per la sua lunghezza ad esprimere interamente qualunque difficile sentimento», ivi, p. 182). Calepio richiama quindi l’opinione del Nisiely, il quale, parziale della versificazione della Canace, giustificava l’uso dei metri più brevi sulla base del fatto che anche i tragici greci li impiegassero nelle loro tragedie («Qui i letterati riprendono i troppi versi non interi [della Canace], come poco dicevoli allo stile tragico; il quale quivi amerebbe i versi delle tre parti due, interi, per dar più il suo pieno alla magnificenza elocutoria. Ma si potrebbe in ciò muovere una lite a i Greci e ai Latini, perché alla Commedia adattassero i versi più lunghi, e alla Tragedia i più brevi», Udeno Nisiely, Proginnasmi poetici, vol. II, Firenze, Pignoni, 1620, p. 130); tuttavia, spiega il Bergamasco, ciò avveniva soltanto nei cori e nelle sezioni atte ad esprimere plasticamente la commozione dei personaggi.
Articolo IV.
[7.4.1] Calepio affronta in questo articolo la spinosa questione dell’introduzione delle rime nella versificazione tragica, che egli ritiene incompatibile con la gravità propria del genere letterario e problematico in rapporto alla ricerca del verosimile che imponeva il bando di ogni artificio che apparisse eccessivamente studiato e potesse entrare in qualche misura in conflitto con l’impressionismo emozionalistico al quale avrebbero dovuto conformarsi i personaggi nel pieno dei loro sfoghi passionali. La polemica nei confronti del verso rimato veniva alimentata tanto dall’antagonismo nei confronti dei tragici francesi, quanto dall’assenza, nei venerandi autori classici, di quella rima che veniva considerata a tutti gli effetti come una corruzione barbara dei versi latini, come sottolineava ad esempio Gian Vincenzo Gravina, risalendo alle origini della rima nelle lingue romanze, nel passaggio della Ragion Poetica a cui allude Calepio in questa sede («Or tanto l’ignoranza naturale delle nazioni barbare, quanto il giudizio già corrotto delle nazioni latine convennero all’estinzion del metro antico ed alla produzion della rima. Vi concorsero l’ignoranza della natura, poiché il commercio dei Goti e dei Vandali stemperò l’orecchio e sconcertò la pronunzia, in modo che rimase estinto il senso della quantità, di cui gli antichi portavano nella favella l’espressione e nell’udito il discernimento. […] Vi concorse la barbarie dell’artifizio, perché sin dal secondo secolo della nostra redenzione avea la scuola declamatoria dei retori talmente assottigliato i concetti ed infiorato lo stile […] che sì l’invenzione come la tessitura e ’l numero si resero affettati e nauseosi coll’arguzie, contrapposti e somiglianze di suono», Gian Vincenzo Gravina, «Della ragion poetica», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Bari, Laterza, 1973, pp. 275-276). Se pure il Gravina riconosce al verso senza rima una maggiore naturalezza rispetto a quello rimato («L’artifizio della rima è troppo lontano dalla natura, perché comparisce tutto al di fuori, ed all’incontro il verso greco e latino è molto vicino al naturale», ivi, p. 277), andrà ricordato, come nota giustamente Valentina Gallo che la naturalezza teorizzata da questi letterati «non giunge affatto a presupporre una mimesi oltranzistica» (Valentina Gallo, «Lineamenti di una teoria del verso tragico tra Sei e Settecento», in Il verso tragico dal Cinquecento al Settecento, Atti del Convegno di Studi [Verona, 14-15 maggio 2003], a cura di Gilberto Lonardi e Stefano Verdino, Padova, Esedra, 2005, p. 153), ed infatti soltanto all’interno di un tale contesto è comprensibile la parziale rivalutazione della rima proposta dal Muratori, non indifferente ai successi della drammaturgia francese («Si ha ancora a considerare se le rime si potessero quivi, o di quando in quando o regolatamente, permettere, essendo certo per isperienza ch’esse danno almeno ne gli altri componimenti maravigliosa vaghezza, forza ed anima a i concetti e a’ versi delle moderne lingue. Si scostano esse, non può negarsi, dal parlare ordinario della gente, e alcune tragedie rimate hanno finora ottenuto poco plauso […]. Ma se si ritrovasse la vera maniera di usar questo condimento nelle tragedie e vi si avvezzasse l’orecchio degli ascoltanti può essere che niun conto si tenesse del pericolo dell’inverosimiglianza», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 590).
Neppure in Calepio la rivendicazione di una prosodia verosimile implica l’adesione ad un rigido «oltranzismo» mimetico, ma nel Bergamasco prevale in questo caso — in sensibile contrasto con l’opinione del Muratori, altrove spesso seguita — l’argomento tradizionale dell’incapacità del verso rimato di dipingere il fluire vigoroso delle passioni, argomento risalente addirittura al Trissino, e segnatamente alla lettera dedicatoria della Sofonisba («Quanto poi al non aver per tutto accordate le rime, non dirò altra ragione, perciocchè io mi persuado, che se a Vostra Beatitudine non spiacerà di voler alquanto le orecchie a tal numero accomodare, che la troverà e migliore, e più nobile, e forse men facile ad eseguire di quello che per avventura è riputato. E lo vederà non solamente nelle narrazioni ed orazioni abilissimo, ma nel mover compassione necessario; perciocché quel sermone, il quale suol mover questa, nasce dal dolore, ed il dolore manda fuori non pensate parole, onde la rima, che pensamento dimostra, è veramente alla compassione contraria», Gian Giorgio Trissino, La Sofonisba, in Teatro del Cinquecento. La tragedia, a cura di Renzo Cremante, Milano-Napoli, Ricciardi, 1997, pp. 31-32), ma presente anche in molti altri luoghi della teoria drammatica cinquecentesca (cfr. Paola Cosentino, Fra versi sciolto e sperimentalismo volgare: la rinascita tragica fiorentina, in Il verso tragico tra Cinque e Settecento, cit., pp. 39-62: 46-47). In generale sull’accesa disputa in merito al verso tragico da adottare nel Cinquecento, con importanti osservanti sulle due tragedie criticate da Calepio in ragione della rima, ossia Canace e Sofonisba, è indispensabile il contributo di Elisabetta Selmi, Il dibattito retorico sul verso tragico nel Cinquecento, in Il verso tragico tra Cinque e Settecento, cit., pp. 63-105.
Se il modello versificatorio martelliano, ancora una volta censurato aspramente dal Bergamasco, non gode nella tragedia settecentesca di grande fortuna, ciò non significa che la rima venga integralmente aborrita nella drammaturgia coeva. A fronte di tante condanne, come ad esempio quella veemente, contenuta nel Saggio sopra la rima di Algarotti, o quella, altrettanto decisa, di Alfieri, si contano anche prestigiosi apprezzamenti, soprattutto in coincidenza con l’affermazione del dramma per musica metastasiano, giudicato dal Baretti bellissimo proprio in virtù del ricorso a quella rima che il canone tragico aristotelicheggiante proscriveva («Io ho vedute recitare in Venezia ed altrove alcune tragedie in verso sciolto, e fatte secondo le buone regole di messer Aristotile, ed ho visto su gli stessi teatri e da’ medesimi attori recitare de’ drammi dell’immortal Metastasio; e quantunque questi abbia poco badato a’ percetti dello Stagirita, tuttavia que’ suoi drammi sempre gli ho visti con molto più piacere ascoltati, che non le tragedia alla greca. Perché ciò? Se non perché i suoi dolcissimi versi, pieni de’ bei sentimenti che convengono alla tragedia, sono pur pieni di belli e di facili rime? Io credo che questa sia, se non l’unica, almeno la principal ragione che si può addurre dell’universal gradimento di que’ drammi», Giuseppe Baretti, «Lettera I sulle tragedie di Pier Cornelio», in Id., Opere scelte, a cura di Bruno Maier, Torino, Utet, 1972, p. 16). Lo stesso Metastasio autorizzava il ricorso alla rima, la cui assenza aveva condannato poemi di autori peraltro notevoli, come il Trissino dell’Italia liberata dai Goti o il Tasso del Mondo creato; rispetto al verso libero, il verso rimato possedeva innumerevoli vantaggi — ammoniva il poeta cesareo —, purché l’autore fosse capace di destreggiarsi con questo strumentario prosodico («Parimente, è sicuro che fra il vigore d’un istesso pensiero, espresso in verso sciolto o rimato, corre la differenza medesima che si vede fra la violenza d’un istesso sasso, tratto con la semplice mano o scagliato con la fionda, ma da chi sappia adoperarla», Metastasio, Estratto dell’arte poetica, a cura di Elisabetta Selmi, Palermo, Aesthetica, 1998, p. 159).
[7.4.2] A riprova del fatto che la tragedia francese, cadenzata dal suono cantilentante dell’alessandrino a rima baciata, riesce alla fine noiosa, Calepio riporta l’opinione di Corneille contenuta nell’esame della sua Andromède. In questo contesto Corneille si interrogava sulla natura del verso tragico, che doveva essere il più prossimo possibile alla prosa, dubitando tuttavia che l’alessandrino, con un ritmo così monotono e regolare, fosse più «prosaico» dei versi contenuti nelle stanze, i quali, essendo alternativamente talora lunghi, talaltra corti, talvolta rimati, talvolta sciolti, parevano più adatti a simulare l’andamento discontinuo della prosa («J’avoue que les vers qu’on récite sur le théâtre sont présumés être prose: nous ne parlons pas d’ordinaire en vers, et sans cette fiction leur mesure et leur rime sortiraient du vraisemblable. Mais par quelle raison peut-on dire que les vers alexandrins tiennent nature de prose, et que ceux des stances n’en peuvent faire autant? Si nous en croyons Aristote, il faut se servir au théâtre des vers qui sont les moins vers, et qui se mêlent au langage commun sans y penser plus souvent que les autres. […] Par cette même raison les vers de stances sont moins vers que les alexandrins, parce que parmi notre langage commun il se coule plus de ces vers inégaux, les uns courts, les autres longs, avec des rimes croisées et éloignées les unes des autres, que de ceux dont la mesure est toujours égale, et les rimes toujours mariées», Pierre Corneille, Andromède, in Id., Œuvres complètes, t. II, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 455). Nel prosieguo dell’esame Corneille pareva vagheggiare per la tragedia francese una versificazione da dramma per musica, in cui l’andamento cadenzato dell’alessandrino fosse interrotto dall’introduzione di versi brevi, adatti ad esprimere — in posizione di aria — le inquietudini, i sogni, i progetti e le irresoluzioni dei protagonisti. Concludendo, tuttavia, come nota Calepio, il Francese tornava parzialmente sui propri passi, nelle conclusioni, palesando qualche perplessità sull’effetto scenico di questo tipo di commistione; anche quei versi diseguali, se imparati a memoria dagli attori, sarebbero infatti risultati troppo artificiosi e per nulla adatti a commuovere lo spettatore («Je ne pourrais approuver qu’un acteur touché fortement de ce qui lui vient d’arriver dans la tragédie se donnât la patience de faire des stances, ou prît soin d’en faire faire par un autre, et de les apprendre par cœur, pour exprimer son déplaisir devant les spectateurs. Ce sentiment étudié ne les toucherait pas beaucoup, parce que cette étude marquerait un esprit tranquille, et un effort de mémoire plutôt qu’un effet de passion», Pierre Corneille, Andromède, cit., p. 456).
[7.4.3] Il difetto principale che Calepio attribuisce alla lingua poetica francese è la scarsità di desinenze che comporta la continua ripetizione delle medesime rime, producendo una monotonia che egli ritiene insopportabile. Indugiando sulle caratteristiche linguistiche del francese, egli osserva come la presenza esclusiva, in rima, di parole tronche, nonché i copiosi fenomeni di omofonia facciano sì che, anche quando le parole-rima sono graficamente differenti, esse vengano di fatto pronunciate sempre nella medesima maniera, dando vita a scene in cui lo stesso suono ritorna spessissimo in fine di verso. Sulle medesime caratteristiche della lingua francese aveva ragionato anche il Muratori, in risposta alle accuse mosse dal Bouhours alla lingua italiana negli Entretiens d’Ariste et Eugène, in cui il Francese rimproverava all’Italiano non soltanto l’abuso di diminutivi, ma anche la limitatezza delle desinenze, che, continuamente ripetute, creavano anche nella prosa l’effetto di una «rime perpetuelle» («Ajoûtez à cela les mesmes terminaisons qui reviennent si souvent, et qui font une rime perpetuelle dans la prose. Le discours est quelquefois tout en A, et quelquefois tout en O: ou du moins les O, et les A se suivent de si prés, qu’ils étouffent le son des I, et des E, qui de leur costé font aussi en quelques autres endroits une musique assez mal-plaisante», Dominique Bouhours, Les Entretiens d’Ariste et d’Eugène, édition établie et commentée par Bernard Beugnot et Gilles Declercq, Paris, H. Champion, 2003, p. 109). Il Bouhours, nell’esaltare la varietà della lingua francese («Pour les rimes, nostre langue ne les peut souffrir dans la prose; et elle n’a pas de peine à les éviter, parce que les terminaisons de ses mots sont fort différentes», ivi, p. 110), considerava “rimate” tutte le parole che finivano con la medesima vocale, riversando impropriamente sul sistema linguistico italiano le caratteristiche peculiari di quello Francese, in cui tutte le parole sono tronche. Il Muratori, nella Perfetta poesia, faceva notare con eleganza questo fraintendimento («Quantunque fosse vero, che un periodo Italiano alle volte si costituisse di sole parole terminanti in A, ovvero in O […] contuttociò il suon delle parole riesce vario per lo differente riposo colla voce sopra le Vocali, o per la differenza delle stesse Vocali accentati; né s’ode una perpetua, e continua Rima nelle Prose Italiane, come si diede a credere lo Scrittor Francese. Ma per avventura egli è degno di scusa, poichè le orecchie Francesi non possono sì agevolmente immaginar l’armonia del nostro Idioma, essendo quelle avvezzate ad un’altra Musica», Lodovico Antonio Muratori, Della perfetta poesia italiana, vol. II, a cura di Ada Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, p. 645), che sarà peraltro riproposto da Voltaire in una sua tarda lettera all’italiano Deodati de Tovazzi («Avouez, Monsieur, que la prodigieuse variété de toutes ces désinences peut avoir quelque avantage sur les cinq terminaisons de tous les mots de votre langue», Voltaire, «Lettre à M. Deodati de Tovazzi [24 janvier 1761], in Id., Correspondance, t. XXII (1760-1761), in Les Œuvres complètes de Voltaire, vol. 116, definitive edition by Theodore Besterman, Oxford, The Voltaire Foundation, 1974, p. 492; il Calepio, passava anche in questo caso al contrattacco, mettendo in evidenza la scarsezza di fonemi che i Francesi adoperavano in sede rimica.
[7.4.4] L’abate Terrasson, ponendosi sulla scia delle riflessioni di Bouhours, celebrava la grande varietà delle terminazioni delle parole francesi, che permetteva ai poeti di non ripetere se non a grande distanza le medesime rime: «Et comment n’y auroit-il pas de la grace et de l’harmonie dans une langue qui est fournie des mots de toutes sortes de longueur, et de terminaisons si differentes, qu’on peut s’engager à faire plus de deux cents Vers sans tomber dans la même rime» (Jean Terrasson, Dissertation critique sur l’Iliade d’Homere, Paris, Fournier-Coustelier, 1715, t. II, p. 594). A suffragare tale opinione il Francese allegava il giudizio di La Bruyère sulla versificazione delle tragedie di Racine, che era definita «correcte, riche dans ses rimes, élégante, nombreuse, harmonieuse» (Œuvres completès, texte établi par Julien Benda, Paris, Gallimard, 1951, p. 54). Anche in questo caso Calepio tenta di delegittimare concretamente tale valutazione, mostrando non soltanto che in posizione finale di verso vengono dai Francesi riproposti sempre i medesimi suoni, ma che addirittura spesso, e anche in Racine, vengono insistentemente ripetute le medesime parole-rima. Il Bergamasco infatti si impegna a enumerare le occasioni in cui, nel solo Alexandre le Grand, viene reiterata la rima «gloire»: «victoire», arrivando a contare diciassette occorrenze, molte volte presenti nelle stesse scene (I, 1, vv. 21-22; I, 3, vv. 337-338; II, 2, vv. 465-466 e 597-598; III, 2, vv. 765-766 e 821-822; III, 3, vv. 844-845; III, 6, vv. 873-874 e 925-926; IV, 1, vv. 981-982 e 1005-1006; IV, 2, vv. 1065-1066 e 1085-1086; V, 3, vv. 1481-1482, 1545-1546, 1557-1558 e 1597-1598).
Articolo V.
[7.5.1] L’esigenza di introdurre la rima per ogni coppia di alessandrini spingerebbe, secondo Calepio, i drammaturghi francesi a inserire nei propri versi numerose figure retoriche che sarebbero superflue allo svolgimento del discorso, ma si renderebbero necessarie a riempire la misura del verso. Anche Voltaire, come ricorda il Bergamasco, nei paratesti del suo Œdipe criticava la tirannia della rima, che costringeva i poeti a trascurare, in virtù della ricerca di quest’ultima, ogni altra sorta di bellezza retorica; la scarsità di parole-rima comportava poi, oltre che ad una fastidiosa ripetitività, svariate imprecisioni logiche («Je ne puis souffrir qu’on sacrifie à la richesse de la rime toutes les autres beautés de la Poésie, et qu’on cherche plutôt à plaire à l’oreille qu’au cœur et à l’esprit. […] Il me paraît que la Poésie française y gagnerait beaucoup, si on voulait secouer le joug de cet usage déraisonnable et tyrannique. Donner aux Auteurs de nouvelles rimes, ce serait leur donner de nouvelles pensées; car l’assujettissement à la rime fait que souvent on ne trouve dans la langue qu’un seul mot qui puisse finir un vers: on ne dit presque jamais ce qu’on voulait dire; on ne peut se servir du mot propre; on est obligé de chercher une pensée pour la rime, parce qu’on ne peut trouver de rime pour exprimer ce qu’on pense. C’est à cet esclavage qu’il faut imputer plusieurs impropriétés qu’on est choqué de rencontrer dans nos Poètes les plus exacts», Voltaire, «Cinquième lettre qui contient la critique du nouvel Œdipe», in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, pp. 372-373).
[7.5.2] Per dimostrare la maggiore gravità del verso tragico italiano rispetto al corrispettivo francese Calepio allega una sua traduzione del lungo discorso di Sabine nella sesta scena del secondo atto dell’Horace di Corneille (Pierre Corneille, Horace, in Id., Œuvres complètes, I, cit., pp. 864-865). Contrariamente alle soluzioni predilette per le versioni italiane delle tragedie francesi, imperniate sull’uso dello sciolto, Calepio propende appunto per una commistione di endecasillabi e settenari non rimati, formula usata occasionalmente da traduttori adusi alla scrittura melodrammatica, come ad esempio Paolo Rolli, traduttore di Racine (sulla prosodia delle traduzioni italiane di tragedie francesi nel Settecento si veda l’indispensabile contributo di Tobia Zanon, La musa del traduttore: traduzioni settecentesche dei tragici classici francese, Verona, Fiorini, 2009, in part. pp. 19-71). Se tuttavia nelle traduzioni del Rolli l’endecasillabo è largamente maggioritario (come osserva Zanon, op. cit., pp. 31-32), in quella del Calepio il rapporto è quasi equivalente, con una leggera maggioranza di endecasillabi. La versione italiana risulta in questo caso poco più lunga di quella francese; il Bergamasco tenta di ridurre il più possibile lo scarto fra i due sistemi metrici, instaurando, ove possibile, un rapporto di uno ad uno fra verso italiano e francese; talvolta riesce a tradurre l’alessandrino con un verso solo (efficace la chiusa finale « Pourrai-je toute fois vous faire une prière/ digne d’un tel époux, et digne d’un tel frère?», tradotto con due endecasillabi «Ma deh poss’io porgervi almeno un priego/ degno di sposo tal, di tal fratello?»), talora invece è costretto a ricorrere a due settenari per tradurre un verso («Si ce malheur illustre ébranlait l’un de vous» diventa, nella versione calepiana «Se questa alta sciagura/ Piegasse alcun di voi»).
[7.5.3] Dal punto di vista retorico Calepio introduce processi di inversione e altre figure di posizione che sono tipiche del verso italiano (lirico ed epico) e latino, ma non del francese; in qualche modo quindi egli aumenta il tasso poetico del testo francese, di cui criticava l’eccessiva letterarietà, come si evince ad esempio dall’introduzione dell’iperbato «pura all’atteso onor render la luce», con cui viene resa l’espressione francese necessariamente più piana «a l’honneur qui l’attend rendre sa pureté». Nel volgere in italiano, inoltre, il bergamasco dissipa la quantità di sentenze declamatorie che caratterizzavano il testo corneilliano. Ad esempio la battuta di Sabine «quand je ne serai plus, vous ne vous serez rien», diventa, prosaicamente, un semplice «Più senza me non rimarreste uniti». La concitazione di questo passaggio, animato nell’originale francese da una forte tensione oratoria, è reso con una grande quantità di settenari.
[7.5.4] Questo passaggio, in precedenza condannato da Calepio poiché guastava la bellezza della scena, ricca di passioni forti, con una dizione eccessivamente artificiosa (Paragone VI, 3, [5]), viene emendata di quelle escrescenze retoriche che caratterizzavano il testo corneilliano: eliminata la tripla anafora del «commencez par», il Bergamasco conserva un accenno di iterazione nella struttura dei primi due versi del periodo («spandi tu pria»; «apri tu pria»), variando poi la configurazione dell’ultimo.
[7.5.5] Molto letterale la traduzione del Calepio in questo passaggio; il Bergamasco si limita a tradurre ad verbum, riproducendo le medesime espressioni figurate del testo francese, che pure aveva criticato in precedenza.
[7.5.6] Nel finale, l’autore riassume brevemente le proprie tesi, esponendo le conclusioni di questo paragone; la tragedia italiana viene riconosciuta come difettosa in quanto troppo condizionata dalla necessità di imitare gli antichi, cosa che non ha permesso di adattare la propria forma ai gusti del pubblico moderno. Al contrario i le tragedie francesi risultano meno ortodosse dal punto di vista della favola, ma più godibili per lo spettatore, benché, nel complesso, esse possano essere considerate inferiori alle tragedie italiane più recenti. Il giudizio che Calepio esprime in questa sede è dunque nettamente a favore della drammaturgia italiana, i cui frutti più recenti — dalla Merope di Maffei, all’Ulisse di Lazzarini e alle tragedie di Conti — vengono reputati migliori rispetto ai drammi francesi di Corneille e di Racine. Non manca comunque un invito a fondere le prerogative delle due tragedie nazionali per raggiungere un prototipo tragico perfetto.
Giunta toccante le tragedie di Monsieur La Motte.
[Giunta.1] Questa «giunta» sulle tragedie di Houdar de La Motte si giustifica sulla base del ritardo con cui Calepio aveva ricevuto i tomi delle opere dell’autore da Jakob Bodmer, il quale gliene aveva raccomandato la lettura. Anche in questo caso, come per Joseph François Duché de Vancy (Pietro Calepio, Lettere a J. J. Bodmer, a cura di Rinaldo Boldini, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1964, p. 117, lettera del 20 Agosto 1730), è il sodale svizzero a informare il Bergamasco dei più recenti sviluppi del dibattito culturale francese contemporaneo e a spingere il Conte a esaminare un’opera che, a suo dire, avrebbe potuto giovare molto all’estensore del Paragone. Anche Calepio si mostra d’accordo, ammettendo che avrebbe desiderato leggere le riflessioni del de La Motte prima di terminare il suo Paragone, ma a causa del ritardo nell’invio dei tomi delle tragedie del Francese — appena usciti in Francia, giacché l’edizione a cui si fa riferimento dovrebbe proprio essere quella completa in due tomi, stampata nel 1730 (Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, Paris, Depuis, 1730) —, si era risolto a concludere il trattato e a deputare eventualmente a un’appendice i suoi commenti in merito ai lavori di quel drammaturgo: «Avrei avuto caro di leggere sì le tragedie che le riflessioni <del> de la Motte prima di dar sesto al mio esame toccante la tragica poesia. Ma ora che coll’agio dell’autunno l’ho quasi terminato, mi sarebbe incommodo mutar ordine; però dopo che avrò veduto le predette opere, giudico che sarammi più opportuno fare una giunta staccata intorno le medesime» (Pietro Calepio, Lettere a J. J. Bodmer, cit., pp. 118-119, lettera del 12 Novembre 1730). Nella lettera del 10 Dicembre del 1730, quando Calepio annuncia al Bodmer di avere definitivamente concluso la scrittura del Paragone e di essere sul punto di ricopiarlo, i tomi dell’opera del de La Motte non sono ancora giunti, e ciò alimenta la curiosità del Bergamasco in merito alla recente polemica tra l’autore di Inès de Castro e il Voltaire, il quale, nella prefazione alla riedizione del suo Œdipe, si era fatto opportunisticamente difensore della tragedia classicistica, attaccando le opinioni del de La Motte, pronto ad abbattere le unità aristoteliche e incline a preferire la tragedia in prosa a quella in verso («Puisque M. de La Motte veut établir des règles toutes contraires à celles qui ont guidé nos grands maîtres, il est juste de défendre ces anciennes lois, non pas parcequ’elles sont anciennes, mais parcequ’elles sont bonnes et nécessaire, et qu’elles pourraient avoir dans un homme de son mérite un adversaire redoutable», Voltaire, «Preface d’Œdipe» [1730], in The Complete Works of Voltaire, vol. 1A, Oxford, Voltaire Foundation, 2001, p. 262). Il Paragone verrà poi inviato al Bodmer con la lettera del 9 Aprile del 1731 (Pietro Calepio, Lettere a J. J. Bodmer, cit., pp. 124-125), quindi dobbiamo immaginare che i tomi contenenti le tragedie del de La Motte siano giunti a Calepio nei primi mesi dell’anno e che egli si sia impegnato a stendere questa «giunta» quasi di getto, appena terminata la lettura. Essa consiste in realtà in una lunga recensione all’opera critica e teatrale del Francese, in cui l’autore torna su alcuni punti che aveva già sottolineato con particolare cura nel Paragone: la necessità di improntare la scrittura tragica a una naturalezza che tuttavia non autorizza a confondere il finto della rappresentazione con il vero della realtà; l’esigenza di infondere alla pratica scenica un sovrasenso morale e didattico senza il quale è inutile comporre tragedie; la centralità del nodo catartico nel progetto di edificazione del popolo che passa attraverso la messa in scena delle opere teatrali. Nei confronti delle innovazioni proposte dal de La Motte il Calepio mostra una certa simpatia, soprattutto in merito alla proposta di ridimensionare — quando non di sopprimere — la regola delle tre unità, ma non condivide il merito di alcuni giudizi, come quelli entusiastici nei confronti di Corneille. Il dato importante che sarà utile tenere presente, dopo aver sottolineato ancora una volta la fondamentale ripetitività della scrittura calepiana, sempre tesa a riproporre alcuni semplici concetti cardine, ma in generale organizzata in modo poco perspicuo, è la precocissima ricezione, da parte del bergamasco, dei maggiori dibattiti culturali europei dell’epoca.
Il Giornal letterario d’Aia a cui fa riferimento in questo caso l’autore è il Journal Littéraire, uno dei più importanti periodici olandesi, stampato appunto a La Haye a partire dal 1713, nel quale figuravano diversi articoli e recensioni; della sezione letteraria si occupava per lo più il francese Prosper Marchand, rifugiatosi nei Paesi Bassi per questioni religiose. Il contributo menzionato da Calepio è, nello specifico, una lunga discussione, comparsa nel terzo tomo della rivista (gennaio-febbraio 1714), sull’Extrait des Poësies d’Ansloo, un piccolo libretto che aveva dato modo a uno dei redattori, Julius Van Effen, di soffermarsi, più distesamente di quanto aveva già fatto nel primo tomo della rivista, sulla superiorità della lingua e della letteratura francese a quella olandese, di cui veniva peraltro ridimensionato il campione, quel Joost van den Vondel, tragediografo di rilevanza internazionale nel Seicento (cfr. Joost van den Vondel (1587-1679): Dutch playwright in the golden age, edited by Jan Bloemendal and Frans-Willem Korsten, Leiden, Brill, 2012) che veniva definito sommo per ingegno, ma di stile rude. Il giornalista, discorrendo del dotto pubblico teatrale francese, il cui gusto raffinato era sostenuto da una profonda conoscenza delle regole fissate dai critici dell’epoca, afferma che opere innovative come quelle di Jean de La Fontaine, oppure di Houdar de La Motte, non potevano avere un grande successo («Réflexions sur la Poësie Hollandoise, faites à l’occasione d’une Brochure, publiée contre l’Extrait des Poësies d’Ansloo», Journal Literaire de Janvier et Fevrier MDCCXIV, t. III, La Haye, Johnson, 1714, pp. 177-209: 188).
Sulla polemica in merito alla natura del verso tra Voltaire e de La Motte cfr. Stefano Castelvecchi, Sentimental Opera: Questions of Genre in the Age of Bourgeois, Cambridge, Cambridge University Press, 2013, pp. 44-46, mentre una rassegna dei passaggi decisivi per l’affermazione della tragédie en prose, a partire proprio dal dibattito sugli Œdipes, è offerta da Russel Gouldbourn, «The Eighteenth-Century “querelle des vers” and Jean Du Castre d’Auvigny’s La Tragédie en prose», Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, V, 2000, pp. 371-410.
Sulla discussione in merito agli Edipi, da Corneille a Voltaire, passando appunto per la prova di de La Motte, si sono soffermati, recentemente: Alfonso Saura Sánchez, «El mito de Edipo en la tragedia francesa del siglo XVIII: los Œdipes de Voltaire y Houdar de La Motte«, Anales de filologia francesa, X, 2001-2002, pp. 183-197; Dario Cecchetti, «Il debat sull’Œdipe di Voltaire», in Contatti, passaggi, metamorfosi: studi di letteratura francese e comparata in onore di Daniela Dalla Valle, a cura di Gabriella Bosco, Monica Pavesio e Laura Rescia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010, pp. 399-420; Karine Bénac-Giroux, «Les vacillements du sujet dans les réécritures d’Œdipe, de Corneille à La Motte», Cahiers Voltaire, XI, 2012, pp. 47-57.
Su Justus Van Effen si veda la monografia di James L. Schorr, The Life and Works of Justus Van Effen, Laramie, Wyoming University Press, 1982. Sul Journal Littéraire e sul contesto culturale olandese entro il quale nacque questa esperienza cfr. Jonathan Israel, Enlightenment Contested: Philosophy, Modernity, and the Emancipation of Man, 1670-1752, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 393-396.
[Giunta.2] Nel primo discorso del de La Motte, condotto in margine alla tragedia Les Maccabées, dopo aver giustificato la scelta del soggetto, imperniato sulla figura di una madre eroica, l’autore critica l’eccessivo ricorso, da parte dei drammaturghi francesi, alle situazioni amorose, inserite soltanto allo scopo di soddisfare il gusto primitivo del pubblico, in gran parte femminile («Mais quoi, pourrait-on dire ici, les poètes n’ont-ils de ressource que l’amour, pour étendre une action théâtrale? Nous n’avons presque point de tragédie qui marche par d’autres ressorts, et les étrangers ne nous épargnent pas là-dessus le reproche d’uniformité. […] La raison s’en offre d’elle-même. Un poète veut réussir; et pour réussir, il faut plaire. Les femmes forment une grande partie de ses spectateurs, et c’est cette partie même qui attire l’autre», Houdar de La Motte, «Premier discours sur la tragédie à l’occasion des Macchabées», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 549). Calepio non poteva che sottoscrivere questa auto-censura di parte francese, perfettamente conforme a quanto aveva stabilito in precedenza sulla copiosità delle digressioni amorose presenti nelle pièces transalpine (Paragone III, 3, [1-4]). Il de La Motte osserva poi che Racine, sotto questo profilo, si era dimostrato assai più difettoso di Corneille, in quanto aveva rivestito del medesimo carattere amoroso ogni personaggio indistintamente, senza porre attenzione ai costumi e alla provenienza dei singoli eroi («D’ailleurs indépendamment du goût d’un sexe ou d’une nation particulière, l’amour peut entrer dans la plupart des événements, sans en blesser la vraisemblance […]. Il me semble qu’en cette partie Corneille est bien supérieur à Racine. Celui-ci, plus attentif au succès, a toujours pris la route la plus sûre pour réussir, sans s’embarrasser que ce fût la même, au lieu que l’autre plus fidèle au caractère de ses sujets, s’est laissé conduire au vrai et aux convenances, aux risques d’en plaire moins» (Houdar de La Motte, «Premier discours sur la tragédie…», cit., p. 550). Calepio condivide soltanto in parte queste ultime affermazioni in quanto egli, a partire da questo principio, condannava non soltanto le tragedie a sfondo amoroso di Racine, e su tutte l’Andromaque e la Bérénice, ma anche quelle di Corneille, come ad esempio la Sophonisbe o addirittura l’Œdipe (Paragone III, 3, [5-6]). Andrà sottolineato che la parziale opposizione all’opinione del de La Motte procede anche dal fatto che il Francese riprenda in sostanza, nel suo ragionamento, le parole di Saint-Évremond circa l’inclinazione del pubblico femminile a godere esclusivamente della rappresentazione degli amori che venivano condannate in Paragone III, 3, [3].
Calepio passa quindi ad esaminare la condanna delle tre unità classiche fatta da Houdar de La Motte, il quale anteponeva a queste una nuova unità di propria invenzione, l’unità di interesse («Je hasarderai ici un paradoxe: c’est qu’entre les premières règles du théâtre on a presque oublié la plus importante. On ne traite d’ordinaire que des trois unités, de lieu, de temps, et d’action; et j’y en ajouterais une quatrième, sans laquelle les trois autres sont inutiles, et qui toute seule pourrait encore produire un grand effet, c’est l’unité d’intérêt, qui est la vraie source de l’émotion continue, au lieu que les trois autres conditions exactement remplies ne sauveraient pas un ouvrage de la langueur», Houdar de La Motte, «Premier discours sur la tragédie…», cit., p. 553). Al Francese non sembra naturale che l’intera rappresentazione si svolga in un medesimo luogo e non crede che restringere la favola nel giro di ventiquattrore garantisca all’intreccio una maggiore verosimiglianza (ivi, pp. 554-555) e distingue fra unità d’azione e la preferibile unità di interesse, una sorta di unità d’azione concentrata alle gesta del solo personaggio principale («Si plusieurs personnages sont diversement intéressés dans le même événement, et s’ils sont tous dignes que j’entre dans leur passions, il y a alors unité d’action et non pas unité d’intérêt, parce que souvent en ce cas je perds de vue les uns, pour suivre les autres […]. Mais en quoi consiste l’art de cette unité [d’intérêt] dont je parle? C’est, si je ne me trompe, à savoir dès les commencements d’une pièce, indiquer à l’esprit et au cœur, l’objet principal dont on veut occuper l’un et émouvoir l’autre», ivi, p. 557). Anche in questo caso Calepio non può non sottoscrivere le asserzioni del Francese, prossime a quelle contenute nel Paragone, sia per quanto riguarda la scarsa considerazione dell’unità di luogo (Paragone IV, 6, [5-6]), che a proposito della necessità di concentrare l’attenzione del pubblico su di un preciso sentimento, o forse, con una interpretazione più letterale, che però asseconderebbe quanto già ammesso in precedenza, esclusivamente sul protagonista (Paragone IV, 4, [2]). Il Bergamasco approva anche il sentimento di de La Motte sulla superiorità metrica del verso libero impiegato nell’Agesilas di Pierre Corneille all’alessandrino (Houdar de La Motte, «Premier discours sur la tragédie…», cit., p. 560). Quanto allo stile prescritto nel Discours sur la tragédie le raccomandazioni del Francese sono in realtà piuttosto tradizionali: esso deve essere puro — usando termini ed espressioni in senso letterale —, chiaro, nobile e conveniente, e Calepio ammette che nelle tragedie il de La Motte non ha sempre applicato correttamente questi principi.
Sulla fondazione, da parte del de La Motte, dell’unità di interesse, all’interno di una drammaturgia che valorizza in modo significativo il dato patetico-emotivo cfr. Jean-Philippe Grosperrin, «D’un merveilleux l’autre: Houdar de La Motte interprète de la tragédie cornélienne», Dix-septième siècle, CCXXV, 2004, pp. 697-705: 699; Sophie Marchand, Théâtre et pathétique au xviiie siècle: pour une esthétique de l’effet dramatique, Paris, H. Champion, 2009, pp. 376-378. Sulla tragedia Les Macchabées si sofferma Christelle Bahier-Porte, «C’est ce courage qui m’a été le plus sacré: Les Macchabées de Houdar de La Motte (1721) du “sublime de la religion” à la tentation de l’émotion», in Le Sacré en question: Bible et mythes sur les scènes du xviiie siècle, sous la directon de Béatrice Ferrier, Paris, Garnier, 2015, p. 41-57.
Sull’Agésilas e sugli esperimenti metrici di Corneille, cfr. Simone Dosmond, «Le vers libre dans l’Agésilas de Corneille et l’Amphitryon de Molière», Cahiers de l’Association internationale des études françaises, LII, 2000, pp. 279-293.
[Giunta.3] Nei confronti del secondo discorso del de La Motte, scritto «à l’occasion de la tragédie Romulus», Calepio mostra maggiori perplessità, legate non tanto alla teorizzazione della «multiplicité d’évènements», che veniva rimproverato al Francese da molti connazionali (cfr. Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 585), quanto piuttosto, come si vedrà, all’insistenza, di marca corneilliana, sulla centralità del «merveilleux» all’interno dell’impianto tragico. Nel Romulus si intrecciano in effetti molteplici sottotrame, tese a sostenere e ad alimentare il patetismo di una favola che pare in sostanza riproporre, nel contesto dell’antica Roma, una vicenda per molti tratti simile a quella messa in scena nel Cid. Anche qui il condottiero Romulus ama la sabina Hersilie — predata nel famoso “ratto” — che vorrebbe sposare, ma questa si oppone, pur amando a sua volta il Romano, per rispetto della sua gente e del padre Tatius, feroce nemico di Romulus. Nella vicenda si intromettono per altro continui colpi di scena, plurimi scontri fra i due protagonisti maschili, scene larmoyantes spesso caricate sulle spalle di Hersilie, nonché una congiura animata da ragioni di ordine politico e sentimentale e l’immancabile critica degli oracoli, pilotati dal personaggio, tipico nella tragedia dell’epoca, da Gravina a Voltaire, del sacerdote corrotto. Il de La Motte giustifica questa girandola di eventi sulla base della regola dell’unità di tempo, impegnandosi a dimostrare come tutti i fatti rappresentati potessero effettivamente svolgersi nell’arco di ventiquattr’ore (cfr. Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», cit., pp. 586-587). Quindi passa a riflettere sugli svantaggi di una favola semplice: benché possa essere più facilmente seguita dallo spettatore, essa non stimola molto l’immaginazione degli astanti. Al contrario, il vantaggio della molteplicità di episodi starebbe nel «promener l’esprit d’objets en objets, de faire renaître sa curiosité en la satisfant, et d’ajouter toujours aux émotions du cœur la nouvelle force que leur donne la surprise» (ivi, p. 588). Calepio approva questo discorso; dal canto suo non aveva mai raccomandato di espungere digressioni ed episodi, ma di inserirli con equilibrio, in modo da non confondere l’uditore che avrebbe dovuto sempre restare concentrato sul provare compassione e timore (Paragone III, 1-2).
Il punto dell’argomentazione del de La Motte che più dispiace a Calepio è tuttavia quello riguardante la strategia per costruire dei caratteri interessanti: il Francese ammette infatti che per fare impressione sull’immaginazione del pubblico, i personaggi devono manifestare un tale tasso di virtù e di grandezza che va ben oltre l’ordinario — e finanche il razionale («J’ai dit qu’on intéressait encore par des qualités qui, quoique déraisonnables, font sur les esprits une impression de grandeur et de vertu; et tels sont, dans ma tragédie, les caractères de Tatius et de Romulus. Romulus pousse la valeur jusqu’à la témérité, et la confiance en ses propres forces jusqu’au fanatisme», Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», cit., p. 602). E ancora, a proposito dell’eroe della pièce, ammetteva, con frasi che finiscono appunto nel mirino di Calepio: «Voilà ce que je me suis proposé dans le caractère de Romulus. Je n’ai pas prétendu le faire raisonnable; je n’ai prétendu que le rendre imposant par cette sorte de présomption dont je moquerai volontiers en philosophe, mais que je crois d’une grande ressource comme poète» (ibid.). Un protagonista di tale statura eccedeva di gran lunga i termini, raccomandati da Calepio, della bontà mezzana e della virtù mediocre; del resto de La Motte in questo frangente dialoga apertamente con i Discours du poème dramatique di Corneille, dai quali deriva la fondamentale nozione di «merveilleux», la caratteristica fondamentale per innescare l’ammirazione del pubblico. L’ascendenza corneilliana del discorso del de La Motte — benché non implichi una coincidenza totale con il pensiero dell’autore dei Discours, come ha dimostrato Jean-Philippe Grosperrin, il quale arriva a parlare di «embourgeoisement» della tragedia nel descrivere la prospettiva estetica dell’epigono (Jean-Philippe Grosperrin, «D’un merveilleux l’autre: Houdar de La Motte interprète de la tragédie cornélienne», Dix-septième siècle, CCXXV, 2004, pp. 697-705:702) — è respinta in toto dal Bergamasco, che imputa al Francese di aver voluto assecondare ingiustificatamente il gusto del pubblico, mancando l’obiettivo principale della scrittura tragica.
[Giunta.4] Ancora una volta, in questo paragrafo, Calepio insiste sui principi cardine della propria poetica teatrale, ossia destare nel pubblico compassione e timore attraverso la messa in scena di personaggi di mezzana virtù. Ogni eccesso dovrebbe essere punito alla fine del dramma, secondo il Bergamasco, affinché l’azione esagerata del protagonista assuma un valore istruttivo per gli spettatori. Così, riprendendo il celebre verso dell’Ars Poetica («omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci», Hor., Ars Poetica, v. 343), egli afferma che, per bilanciare in modo equo e corretto diletto e giovamento morale, il de La Motte avrebbe dovuto far sì che Romulus venisse punito nel finale per la sua eccessiva arroganza, con cui pretendeva di forzare la donna che aveva rapito a sposarlo, contro alla volontà del padre, mentre la pièce si conclude con il rappacificamento fra Romulus e Tatius e con la morte dei congiurati, guidati da Proculus. In questo modo il poeta non innesca il meccanismo catartico, disperdendo l’utile della composizione, a cui antepone il divertimento del pubblico. Calepio si era espresso in termini molto simili in precedenza nei confronti del Cid di Corneille (Paragone I, 4, [2]).
Sarà anche da notare che l’eccessiva grandezza di questi eroi tragici era stata dileggiata in numerose parodie che avevano preso di mira proprio i drammi del de La Motte, dal Romulus all’Inès de Castro. Nel giro di un mese dalla prima rappresentazione del Romulus, tra gennaio e febbraio del 1722, erano state messe in scena due parodie, l’Arlequin Romulus di Biancolelli, agito dalla troupe della Comédie-Italienne, e il Pierrot Romulus, ou le Ravisseur poli di Lesage e Fuzelier, per il teatro della Foire (cfr. Houdar de La Motte, Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 575). Sulle ragioni di questa sistematica messa in ridicolo delle grandi tragedie francesi dell’epoca si sofferma molto utilmente Andrea Fabiano nell’introduzione a Il pastor fido ridicolo. Scherzo comico in musica, a cura di Andrea Fabiano, Venezia, Lineadacqua edizioni, 2013, pp. 9-10.
[Giunta.5] Le frasi riportate in traduzione nel testo sono quelle in cui il drammaturgo si interroga sulla natura del personaggio di Tatius: cosa avrebbe dovuto fare costui davanti alle suppliche di Romolus, disposto a chiedergli in ginocchio la mano della figlia e a concedergli un vantaggioso accordo di pace? «La raison ne demandait-elle pas qu’il cédât à la nécessité — scrive il de La Motte —, et qu’il ne désespérât pas un homme maître de sa vie et de l’honneur même de sa fille? Oui sans doute, cela eût été plus raisonnable. Mais son inflexibilité a l’air plus grand: on admire qu’il ne plie pas, sans songer qu’il devrait plier» (Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 603). Calepio in primo luogo afferma che l’ammirazione non è frutto dell’osservazione della virtù, ma della visione di qualcosa di sorprendente, tanto più che, come assumeva lo stesso Corneille, l’admiration procede tanto da esempi estremamente virtuosi, quanto assolutamente pessimi, come nel caso della Cléopâtre nella Rodogune («Cléopâtre, dans Rodogune, est très méchante; il n’y a point de parricide qui lui fasse horreur, pourvu qu’il la puisse conserver sur un trône qu’elle préfère à toutes choses, tant son attachement à la domination est violent; mais tous ses crimes sont accompagnés d’une grandeur d’âme qui a quelque chose de si haut, qu’en même temps qu’on déteste ses actions, on admire la source dont elles partent», Pierre Corneille, «Discours de l’utilité et des parties du poème dramatique», in Id., Œuvres complètes, t. III, textes établis, présentés et annotés par Georges Couton, Paris, Gallimard, 1987, p. 129). Egli conclude poi che l’ammirazione che Tatius provoca sarà accolta diversamente dagli spettatori, a seconda che questi siano savi — e quindi comprendano e condannino l’esagerata ostinazione del padre sabino — oppure sciocchi: questi ultimi rimarranno colpiti da un esempio di fierezza irrazionale e valuteranno positivamente un modello palesemente difettoso. Ritornano così le preoccupazioni già espresse nei confronti dei personaggi di Corneille, maestosi e ammirevoli anche nella pravità più scoperta, e proprio per questo pericolosi nel momento in cui venivano presentati ad un pubblico eterogeneo e spesso incolto, incapace di scindere il bene dal male nei caratteri che il drammaturgo metteva in scena (Paragone 5, 2, [4]). Calepio non giunge, in effetti, come farà invece il Lessing, a tratteggiare l’idea di un teatro che formi l’opinione pubblica, aiutando lo spettatore a formarsi una visione critica; al contrario, conscio delle insidie etiche a cui gli uditori erano messi di fronte, rimarca l’esigenza di fornire al pubblico una lezione morale precisa e inequivocabile.
Ad ogni modo va sottolineato come la lettura di Calepio tenda ad appiattire le differenze fra la teoria corneilliana e quella delineata nei Discours del de La Motte in merito al concetto di merveille; chiarisce bene la posizione di quest’ultimo Jean-Philippe Grosperrin, rilevando il carattere meno spregiudicato del pensiero dell’autore del Romulus: «De Corneille à La Motte, le merveilleux et le vraisemblable auront donc changé de qualité poétique et idéologique. La révérence envers le modèle cornélien dissimulait une reconfiguration complète des rapports du pathétique, de la fable, du spectacle et de l’éthique, sans doute incompatible avec l’ancien esprit aristocratique et monarchique. Chez La Motte, le merveilleux, subverti de façon singulière, se voit supplanté par la surprise, sa forme édulcorée, tandis que le sublime se constitue en objet moral dissocié de l’énergie pathétique du raptus» (Jean-Philippe Grosperrin, «D’un merveilleux l’autre: Houdar de La Motte interprète de la tragédie cornélienne», Dix-septième siècle, CCXXV, 2004, pp. 697-705: 704).
[Giunta.6] Se la precedente affermazione sul carattere di Tatius si poneva in conflitto con la poetica tragica portata avanti dal Calepio, con ben maggiore insofferenza il Bergamasco doveva accogliere l’affermazione successiva del de La Motte, ancora una volta in continuità con la posizione del Corneille dei Discours, secondo cui la virtù mediocre non ci appassiona tanto quanto fa la virtù o il vizio spinto fino all’eccesso (Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 603). Per l’autore del Paragone ciò che maggiormente ci attira è la compassione nei confronti dei nostri simili disgraziati, con i quali condividiamo la comune fallibilità («Il fine della vera tragedia non è di dilettare a guisa della epopeia colla rassomiglianza di molte cose, ma colla compassione. E questo piacere si forma principalmente secondo il mio sentimento da quell’interesse che per la conformità della natura s’assume lo spettatore nelle peripezie de’ miseri», Paragone III, 1, [1]). Secondo Calepio, peraltro, ciò che appassiona di più nel carattere di Romulus, è il suo essere sul punto di morire sacrificato di fronte ai responsi degli auguri contraffatti dal sacerdote Muréna (Romulus IV, 3), desideroso di uccidere il protagonista, e non la temerarietà del suo impetuoso carattere. Il discorso si riallaccia alle osservazioni già fatte dall’autore in Paragone V, 2, [2-4].
In questo passaggio il Bergamasco, estrapolando la frase riportata a testo, forza, almeno in parte, il pensiero del de La Motte, il quale, a differenza di Corneille, tiene in gran conto l’aspetto “utile” della rappresentazione, tanto più che, qualche riga più avanti, ammette che il modo migliore per rendere interessante un personaggio consiste nel dosare virtù e debolezze in modo equo, sacrificando l’ammirazione alla compassione: «Enfin on rend encore un caractère intéressant par le mélange des vertus et des faiblesses reconnues pour telles. Je crois même que c’est la voie la plus sûre: on admire moins, mais on est plus touché. Les malheurs de nos proches ont plus de droit à notre compassion que ceux des étrangers» (Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», cit., p. 603).
[Giunta.7] Nel Discours à l’occasion de Romulus del de La Motte veniva anche dibattuto il problema dell’introduzione di personaggi parzialmente o totalmente malvagi nella rappresentazione. Il Francese ammetteva l’uso dei secondi soltanto in rarissime occasioni e all’unico scopo di aumentare l’interesse degli spettatori nei confronti dei protagonisti vessati («Il y en a de deux sortes: les uns totalement odieux, et les autres qui ne le sont qu’en partie. On ne doit employer les premiers que rarement, et ne leur laisser que peu de place dans la pièce; car tout nécessaires qu’ils sont pour augmenter le péril des personnages intéressants, et par là l’émotion des spectateurs, ils causent toujours un sentiment désagréable d’indignation et d’horreur, que l’art doit épargner le plus qu’il est possible», Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 605). Tuttavia egli catalogava, al pari di Medea, anche la Cléopâtre che campeggiava nella Rodogune, condannata come carattere integralmente pravo nei trattati di Maffei e Calepio (Paragone II, 4, [2]; V, 2, [4]), tra i personaggi solo parzialmente cattivi e assai utili al drammaturgo («Cléopâtre, accoutumée au trône, ne saurait se résoudre à en descendre: elle trouve de la bassesse à devenir la sujette de son fils, et elle consent à tout perdre plutôt qu’à se dessaisir de l’autorité. Le préjugé prendra toujours cette ambition intrépide pour la témoignage d’une âme forte; et c’est ce motif, prétendu grand, qui sauve du mépris, si ce n’est de la haine, tous les crimes de Cléopâtre», Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», cit., p. 606). Calepio, oltre ad avanzare una netta distinzione fra i personaggi di Medea e di Cleopatra, i cui delitti gli appaiono di natura diversa, ritorna ancora una volta sulla centralità dell’orientamento educativo e morale della tragedia: la messa in scena di personaggi così colpevoli impedirebbe al pubblico di trarre un qualsiasi giovamento dalla rappresentazione che non raggiungerebbe il fine catartico a cui era originariamente destinata. Nella coda del paragrafo del Discours si amplifica il distacco fra la concezione di teatro del de la Motte e quella di Calepio: il Francese sembra rassegnato a concedere che uno spettacolo teatrale possa incidere pochissimo sulla crescita morale del pubblico e ritiene che il compito del tragediografo debba essere piuttosto quello di smuovere le passioni che di correggere i costumi («Si on concluait de tout ce que je viens de dire que les tragédies ne peuvent donc pas être d’un grand fruit pour les mœurs, la sincérité m’obligerait d’en demeurer d’accord. Nous ne nous proposons pas d’ordinaire d’éclairer l’esprit sur le vice et la vertu en les peignant de leurs vraies couleurs; nous ne songeons qu’à émouvoir les passions par le mélange de l’un et de l’autre. […] Tout cela ne va que bien indirectement à l’instruction», ibid.). Calepio riconosce da parte sua la verità delle opinioni del Francese, ma rimprovera la sua rinuncia a perfezionare il proprio sistema tragico al fine di ottenere invece quell’utilità che egli crede connaturata alla scrittura teatrale. Infine il Bergamasco si mostra d’accordo con una successiva affermazione del de La Motte, riguardante la maggiore impressione che avevano le azioni rispetto alle parole a teatro: il drammaturgo francese capovolge qui il consueto rapporto di equivalenza tra «parler» e «agir» instaurato dal d’Aubignac nella sua Pratique du théâtre, ammettendo la superiorità dell’agire rispetto alla recitazione di lunghi e noiosi «récits» che guastavano l’attenzione degli spettatori («La plupart de nos pièces ne sont que des dialogues et des récits; et ce qu’il y a de surprenant, c’est que l’action même qui a frappé l’auteur, et qui l’a déterminé à choisir son sujet, se passe presque toujours derrière le théâtre. […] Combien d’actions importantes que le spectateur voudrait voir, et qu’on lui dérobe sous prétexte de règle, pour ne les remplacer que par des récits insipides en comparaison des actions mêmes», ivi, pp. 607-608). Vengono qui ribadite le stesse osservazioni che aveva fatto il Du Bos nelle sue Réflexions, rilevando come i poeti francesi «évitent avec trop d’affectation de donner du spectacle» (Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, 7e éd., Paris, Pissot, 1770, t. I, p. 447). La sollecitazione della opsis, legata all’aspetto mimetico del genere drammatico prescritto da Aristotele, peraltro spesso evaso (cfr. Piermario Vescovo, A viva voce: percorsi del genere drammatico, Venezia, Marsilio, 2015), era stata frenata nel corso dei secoli da considerazioni tanto di ordine morale, quanto religioso. Sul primo versante si segnalano le ampie discussioni intorno all’opportunità di rappresentare il delitto in scena, questione che naturalmente andava incontro a problemi di «bienséance», ma anche di natura propriamente politica quando a essere esposto sulla scena, cadavere, era il «corpo del capo» (cfr. Beatrice Alfonzetti, Il corpo di Cesare: percorsi di una catastrofe nella tragedia del Settecento, Modena, Mucchi, 1989). Eppure, tra Sei e Settecento, nonostante gli espliciti e ripetuti divieti da parte dei teorici, i drammaturghi non mancano di sottolineare la maggiore efficacia della dimensione visiva su quella puramente oratoria — si pensi, proseguendo sul tema dell’ostensione del corpo morto come fonte di commozione nel pubblico e di reazione, all’interno della favola, dei personaggi, al lungo elenco di tragedie incentrate, oltre che sul soggetto della «Mort de César» su quelli di Virginia e Lucrezia, dall’Appius and Virginia di Webster al Bruto primo di Alfieri. Non di poco conto era, tuttavia, la polemica, di parte cattolica e giansenista, contro il teatro, che denunciava in primo luogo, a partire da Sant’Agostino e Tertulliano fino ad arrivare a Pierre Nicole, proprio l’aspetto deleterio e inquinante che la opsis aveva sul pubblico.
[Giunta.8] Il terzo Discours sur la tragédie è scritto dal de La Motte «à l’occasion d’Inès», ossia di quella Inès de Castro rappresentata per la prima volta a Parigi nell’aprile del 1723 e capace di ottenere immediatamente uno strepitoso successo di pubblico che si protrarrà poi per tutto il secolo, come dimostrano le numerose rappresentazioni e ristampe. La vicenda, tratta dalla storia portoghese, è basata sulla storia d’amore irrealizzabile fra Inès e l’infante Dom Pèdre, che il padre, re Alphonse, destina a nozze con Constance, figlia della seconda moglie del sovrano. I reiterati rifiuti dell’infante, pronto a un certo punto a scatenare contro il padre una guerra civile, e l’umanità di Constance, non serviranno a salvare la vita di Inès, che nel finale muore avvelenata, sacrificata sull’altare della ragion di stato, proprio quando, alla vista dei nipoti, Alphonse stava per cedere alla compassione. Il terzo Discours si apre con una dura riflessione sulle parodie — a cui l’Inès, come altre opere del drammaturgo, era andata incontro — in cui si sostiene che la strategia demistificatoria di queste riscritture tende non solo a ridicolizzare situazioni e personaggi, ma anche a dissipare quell’utile che gli spettatori potrebbero trarre dalla rappresentazione («L’inconvénient le plus sérieux de ces ouvrages, c’est de tourner la vertu en paradoxe et d’essayer souvent de la rendre ridicule», Houdar de La Motte, «Troisième discours à l’occasion d’Inès», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 627); l’autore passa quindi a contestare l’opinione secondo cui la messa in scena dell’amore coniugale — giacché Inès e Pèdre si erano sposati in segreto — non sia adatta al teatro e giunge a discutere della «gradation de l’intérêt», raccomandando di infondere all’azione elementi di interesse fin dalla prima scena, in modo da catturare l’attenzione degli spettatori, da mantenere attraverso un progressivo e costante aumento della tensione, senza interruzioni: «Une autre cause du plaisir propre à la tragédie, c’est que l’action soit portée dès le commencement à un haut point d’intérêt, et que cet intérêt croisse sans interruption jusqu’à la fin» (ivi, p. 632). Il Francese rimprovera quei drammaturghi che frappongono nella composizione lunghe e fredde scene preparatorie, concentrando la peripezia negli atti finali: «La pitié a ses degrés, surtout au théâtre. D’attendrissement en attendrissement, vous la pouvez conduire jusqu’aux larmes. Mais si vous tardez trop à exciter les premières émotions, vous n’aurez peut-être pas le temps d’arriver aux grands effets. Il n’y a que trop de tragédie où des actes entiers se perdent en préparation» (ibid.). Calepio prende in parte le distanze da questa analisi; concede al Francese che sia necessario interessare l’uditore alle vicende che occorrono al protagonista e fargli presagire che da un momento all’altro la catastrofe potrebbe giungere, ma il rivolgimento, per amplificare l’effetto patetico e sorprendente, deve, a suo dire, arrivare inaspettato.
Sul conflitto fra sentimento e ragion di stato nell’Inès de Castro si veda l’intervento di Charles Mazouer, «Un mariage secret contre les lois de l’État: la révolte du fils dans Inès de Castro de La Motte», Vives Lettres, IV, 1998, p. 149-169.
[Giunta.9] Quanto alla condotta dell’azione, il de La Motte prescrive un’organizzazione elaborata e puntuale, capace di far sì che ogni scena appaia come necessaria nel punto in cui è stata introdotta perché prepara i successivi sviluppi dell’intreccio («Il consiste à ranger tellement ce qu’on a à dire que, du commencement à la fin, les choses se servent de préparation les unes aux autres, et que cependant elles ne paraissent jamais dites pour rien préparer. C’est une attention de tous les instants à mettre si bien toutes les circonstances à leur place qu’elles soient nécessaires où on les met et que d’ailleurs elles s’éclaircissent et s’embellissent toutes réciproquement», Houdar de La Motte, «Troisième discours à l’occasion d’Inès», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 639). Calepio approva questo ragionamento, mentre non si trova d’accordo con quanto scrive il de La Motte sull’Iphigénie di Racine. Della pièce viene censurato l’innesto, nello sfogo di Clytemnestre contro il marito, di un riferimento a Elena che parrebbe in quel punto fuori luogo («Avant qu’un nœud fatal l’unît à votre frère,/ Thésée avait osé l’enlever à son père./ Vous savez, et Calchas mille fois vous l’a dit,/ Qu’un hymen clandestin mit ce prince en son lit,/ Et qu’il en eut pour gage un jeune princesse,/ Que sa mère a cachée au reste de la Grèce», Iphigénie, IV, 4, vv. 1277-1282), e appare inserito a bella posta per preparare il riconoscimento di Eriphile, da parte di Calchas, come l’Ifigenia che gli dei domandavano in sacrificio (Houdar de La Motte, «Troisième discours à l’occasion d’Inès», cit., p. 641). Su questo punto il Bergamasco non si esprime, mentre dissente, nel paragrafo dedicato alla composizione dei dialoghi, sul pronunciamento in merito all’atteggiamento con cui Achille (Iphigénie, II, 6, vv. 725-728) lascia andare Ifigenia («Dans le second acte d’Iphigénie, Achille laisse aller la princesse, quand la passion exigerait absolument qu’il la suivît ou qu’il la retînt», Houdar de La Motte, «Troisième discours à l’occasion d’Inès», cit., p. 646). Per Calepio il problema in questo caso non è soltanto legato all’organizzazione dei dialoghi, quanto piuttosto alla cattiva costruzione del carattere di Achille.
[Giunta.10] Anche in questo segmento Calepio si dimostra in disaccordo con la lettura del de La Motte, il quale, dopo aver raccomandato che l’autore non mescoli al carattere del protagonista nulla che possa intiepidire l’interesse che il pubblico prova per lui («Il me reste une réflexion à faire sur le soin que doit avoir un auteur de ne rien mêler dans le caractère d’un personnage qui puisse repousser ou affaiblir l’intérêt qu’il a dessein d’y faire prendre», Houdar de La Motte, «Troisième discours à l’occasion d’Inès», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 655), contesta l’opzione adottata da Corneille nell’Horace: a suo parere egli non doveva far commettere un fratricidio al protagonista, perché in questo modo ne avrebbe minato il carattere virtuoso ed eroico («Dans Les Horaces, Horace tue sa sœur au quatrième acte, ce qui fait une nouvelle action, où il ne s’agit plus que de juger un coupable, et la pièce n’est pas si vicieuse par la duplicité d’action que par cette idée d’un héros qui se termine en parricide», ivi, pp. 656-657). Per Calepio questo commento non è condivisibile, in quanto il drammaturgo, a suo parere, non deve badare a costruire un eroe immacolato e irreprensibile, ma a dare vita ad un personaggio che attiri la compassione del pubblico in virtù delle sue debolezze. D’altra parte egli già aveva approvato, in Paragone I, 4, [4], il soggetto degli Orazi e Curiazi, benché reputasse migliore la condotta della tragedia dell’Aretino rispetto a quello di Corneille.
[Giunta.11] Nel quarto dei suoi Discours il de la Motte affrontava una delle questioni maggiormente delicate e originali della sua proposta poetica, ossia l’accreditamento della scrittura di tragedie in prosa: egli aveva infatti deciso di pubblicare, accanto alla versione dell’Œdipe in versi, recitata a teatro, anche una precedente scrittura in prosa, da cui era partito per verseggiare la pièce. Nonostante il Francese non si fosse arrischiato a proporre la messa in scena di questo prototipo in prosa — a causa dell’abitudine del pubblico a ricevere composizioni in verso, nonché al costume degli attori di preparare tragedie esclusivamente in quel modo —, egli sostiene che vi siano diverse ragioni per preferire la prosa al verso: la prima avrebbe infatti un vantaggio di verosimiglianza («Pourquoi, en faisant agir des hommes, ne les pas faire parler comme des hommes?», Houdar de La Motte, «Quatrième discours à l’occasion de la tragédie d’Œdipe», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 677), lascerebbe i drammaturghi più liberi di concentrarsi sulla definizione di intreccio e dialoghi, senza costringerli a subire i condizionamenti del verso, permetterebbe di correggere molto più agevolmente la composizione, e inoltre favorirebbe l’avvento di nuovi autori drammatici (ivi, p. 679).
La disputa in merito all’opportunità di scrivere le tragedie in prosa anziché in verso era presente fin dal Cinquecento e ruotava attorno ad alcuni specifici passaggi della Poetica; i sostenitori della prosa fondavano la propria opinione sul primo paragrafo del testo greco, in cui si ammetteva che l’imitazione doveva essere diversificata rispetto al mezzo attraverso cui la si faceva: lo Stagirita ne deduceva che l’essenza fondamentale della poesia stava nella mimesis e non nel metro, tanto più che, mentre alcune composizioni in verso non potevano essere propriamente definite poetiche — come dimostrava l’esempio di Empedocle — altre, seppure non plasmate sul verso, ma in prosa, come i mimi siciliani o i dialoghi socratici, meritavano maggiormente questo titolo (1447b 11-19). Dall’altra parte, i sostenitori del verso, assai più numerosi, ricordavano il passo in cui si ammetteva che il linguaggio adorno, ossia quello composto di ritmo e armonia, era una delle sei parti essenziali della tragedia, nella quale alcune parti venivano rifinite soltanto con il metro, altre con il canto (1449b 25-30). Aristotele, del resto, nel ricostruire le origini della tragedia, mostrava come il progressivo raffinamento delle tecniche compositive aveva comportato l’abbandono del primitivo tetrametro in favore del giambo, metro vicino al parlato e più adatto per la poesia drammatica (1449a 22-29). Attorno a questo nodo testuale, come ad altri della Logica o dei Problemi, si accende una battaglia esegetica notevole, di volta in volta improntata sulla naturalezza, oppure sulla maestosità, che si richiedeva alla nascente lingua tragica italiana. Nello scontro ebbe la meglio il partito del verso, come mostra non solo l’elenco di Calepio, ma anche il confronto quantitativo fra tragedie scritte in prosa e in verso nel Cinquecento. Su questo punto si accordavano tanto i critici di formazione platonica, come Francesco Patrizi, che considerava il verso ancor più sostanziale all’esercizio poetico rispetto alla favola (Francesco Patrizi da Cherso, Della Poetica, vol. II, edizione critica a cura di Danilo Aguzzi Barbaglia, Firenze, Istituto di Studi sul Rinascimento, 1969, pp. 118-119), quanto quelli di matrice aristotelica, e in primis Castelvetro, colui che forgerà gli argomenti di superiorità del verso che verranno costantemente ribaditi nell’ambito di questa polemica fino al Settecento, ossia: maggior funzionalità del metro per la recitazione degli attori; maggior godibilità da parte del pubblico; aderenza del verso al dato imitativo, a differenza della prosa, adatta alla messa in forma del reale, e non della fictio (Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 37).
Il modello per la ricostruzione del dibattito da parte di Calepio — in realtà limitato al solo elenco dei protagonisti della Querelle — è evidentemente il Nisiely dei Proginnasmi, e in particolare del proginnasmo XLVI, in cui il Fioretti si scaglia con veemenza contro «alcuni tiranni della Poesia, invigliacchiti dalla fatica» che dichiaravano che la commedia dovesse essere composta in prosa. Fedele al dettato aristotelico, il Nisiely fa propria l’opinione del Patrizi e sottoscrive le tesi di Faustino Summo (Risposta in difesa del metro nella Poesia e nei Poemi, e in particolare nelle Tragedie e Commedie, contro il parere del signor Paolo Beni, Padova, Bolzetta, 1601), volte a contrastare la dissertazione di Paolo Beni, con cui il Padovano non soltanto ribadiva il consueto topos della maggiore verosimiglianza della prosa, ma mostrava come questa, spoglia degli orpelli del verso, permettesse di veicolare l’utile proprio del genere senza disperderlo negli ornamenti del metro ( Pauli Benii Eugubini Disputatio in qua ostenditur praestare comoediam atque tragoediam metrorum vinculis solvere: nec posse satis, nisi soluta oratione, aut illarum decorum ac dignitatem retineri; aut honestam inde voluptatem soliamque utilitatem percipi, Patavii, Bolzetam, 1600). Inoltre, in una rapida ma documentata scorribanda fra i testi critici cinque-seicenteschi, il Nisiely cita tutti i teorici menzionati dal Calepio (Udeno Nisiely, Proginnasmi poetici, vol. III, Firenze, Pignoni, 1627, pp. 120-121). A questa prima fonte ne andrà aggiunta una seconda, più vicina a Calepio, ossia una pagina dell’Istoria della volgar poesia in cui Crescimbeni faceva il punto sulla tragedia in prosa nel Cinquecento, accennando ai paratesti del Cianippo di Agostino Michele e del Costantino di Giovanni Battista Filippo Gherardelli (Giovan Mario Crescimbeni, L’istoria della volgar poesia, Roma, Chracas, 1698, p. 386); questa stessa pagina sarà poi ampliata dal Fontanini (Bibliotheca della eloquenza italiana, t. I, Venezia, Pasquali, 1753, pp. 462-463).
Sulla distinzione poetica fra verso e prosa in Aristotele e nel Cinquecento: Giancarlo Alfano, «Il racconto e la voce: mimesi ed imitatio nel dibattito aristotelico cinquecentesco sul dialogo», Filologia e critica, XXIX, 2, 2004, pp. 161-200. Per la discussione in merito al verso nel Cinquecento cfr. Elisabetta Selmi, «Il dibattito trattatistico del Cinquecento sul verso tragico», in Il verso tragico dal Cinque al Settecento, Atti del Convegno di Verona (14-15 maggio 2003), a cura di Gilberto Lonardi e Stefano Verdino, Padova, Esedra, 2005, pp. 63-104. Utile, seppur datato, in merito allo sviluppo della tragedia in prosa nel Cinquecento, Ferdinando Neri, La tragedia italiana del Cinquecento, Firenze, Galletti, 1904, pp. 130-134.
[Giunta.12] Calepio osserva come le precedenti discussioni in merito all’uso del verso o della prosa in tragedia vertessero principalmente sui passi della Poetica di Aristotele già accennati (cfr. Giunta.11), mentre il suo giudizio procederebbe esclusivamente dall’esercizio della ragione rivendicata come criterio-guida del Paragone fin dall’esordio (Paragone I, 1, [11]). In realtà anche in questo caso egli non si allontana molto dal discorso aristotelico, confermando l’opinione secondo cui lo stile drammatico, dovendo avvicinarsi il più possibile al parlato — e di conseguenza escludere il raffinamento retorico tipico di altri generi, in cui è il poeta a esprimersi in prima persona —, non doveva distanziarsi troppo dalla prosa: per questa ragione egli ammette che la prosa potrebbe essere ricevuta molto più convenientemente nella tragedia che non nell’epica o ancor più nella lirica. Il discorso del de La Motte permetteva peraltro anche in questo caso a Calepio di ribadire un elemento importante della propria poetica, ossia la necessità del linguaggio tragico di non perdersi in freddi arzigogoli che riuscivano inverosimili al pubblico e bloccavano il fluire del meccanismo catartico. Sarà bene notare che il Bergamasco rigetta, sotto questo profilo, la teoria giraldiana, altrove tenuta in grande considerazione: il tragediografo ferrarese, il quale reputava lo stile tragico più elevato di quello epico, raccomandava che le rhesis tragiche fossero caratterizzate da un sofisticato ornamento retorico, capace di destare maggior compassione: così egli aveva fatto nell’Orbecche, in cui il monologo del messo era particolarmente adorno («Noi anco seguimmo le lor vestigia nella nostra Orbecche, nel messo che apporta la morte di Oronte e de’ figliuoli. Et questo, credo io, che si conceda in persona tale, perché indi nasce tutto l’orrore e la compassione, il quale è il nervo della favola; et si dee ciò aggrandire con ogni maniera di dire che gli convenga», Giovan Battista Giraldi Cinzio, Discorsi intorno al comporre, rivisti dall’autore nell’esemplare ferrarese CI. I 90, a cura di Susanna Villari, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2002, pp. 296-297). Qui si nota al contrario la vicinanza alla più diffusa teoria tassiana, secondo cui l’«affetto» che popolava le tragedie richiedeva «purità e semplicità, perch’in tal guisa è verisimile che ragioni uno che sia pieno d’affanno o di timore o di misericordia o d’altra simile perturbazione» (Torquato Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di Luigi Poma, Bari, Laterza, 1964, p. 198).
A questo punto Calepio passa bruscamente dal Discours sur l’Œdipe all’ode in prosa La Libre Éloquence, in cui le considerazioni fatte dal de La Motte in precedenza vengono esasperate. Questa ode polemica, letta con qualche successo, stando all’autore, in una seduta dell’Académie Française nel 1730, è incentrata sul panegirico della prosa a detrimento delle costrizioni imposte dalla misura del verso (Houdar de La Motte, «La Libre Éloquence, ode en prose», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, pp. 705-709). Calepio non approva la punta estrema del pensiero del Francese, mantenendosi su posizioni più tradizionali: se è vero che la lingua drammatica deve imitare la prosa, senza la lusinga del verso essa sarebbe troppo spoglia per piacere al pubblico e veicolare utilmente i preziosi messaggi morali di cui si fa carico.
[Giunta.13] Davanti agli attacchi contro il verso di de La Motte Calepio ricorre ad argomenti tradizionali e correnti, avendo gioco facile nell’abbattere le ragioni — non meno consuete, almeno per i punti riportati in questo paragrafo — dell’avversario. Il Bergamasco, innanzitutto, fa leva sul piacere — argomento francese par excellence — che procura la recitazione dei versi e la meraviglia che desta questo parlare misurato negli uditori. Nel farlo, tuttavia, sembra richiamarsi non tanto ad una concezione edonistica del teatro, votata appunto, sulla linea dubosiana, alla ricerca del «plaisir», quanto piuttosto alla riflessione critica italiana contemporanea, unanime nel condannare l’impiego della prosa in tragedia. Lo stesso argomento della «meraviglia» del verso parrebbe riprendere proprio il pronunciamento di Giason de’ Nores, molto diffuso all’epoca grazie a GianVincenzo Gravina che lo aveva riportato nel Della tragedia: «Né mi posso astenere di qui recare quel che scrive Giason di Nores delle antiche commedie e tragedie, dicendo che la meraviglia del verso nella tragedia, e commedia procede da questo, che essendo versi paiano prosa» (GianVincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 544). Una meraviglia quindi non improntata alla maestosità retorica dei Francesi, ma alla semplicità assoluta, addirittura al camuffamento dell’aspetto retorico del verso che doveva confondersi con la prosa.
L’altra autorità che veniva spesso richiamata era il Castelvetro, le cui pagine vengono in questi paragrafi lambite dal Calepio. Secondo Castelvetro il verso autorizzava gli attori ad alzare la voce sul palco, così da rendere le proprie battute maggiormente comprensibili al pubblico, cosa che non poteva avvenire nel caso in cui si recitasse in prosa: «Se vogliamo a ragionamenti così fatti donar la loro perfezione, come è stato detto, convengono montare in palco, nel quale, ragionando in prosa, due o tre persone non possono alzare la voce più di quello che sia di necessità il farsi udire l’uno l’altro, altrimenti parranno sordi o pazzi, se grideranno in modo che il popolo circostante gli possa udire; la quale sconvenevolezza cessa ne’ ragionamenti fatti in verso, portando per forza con esso seco il verso, lo «nalzamento della voce, senza che altri paia sordo o pazzo. Laonde si può giudicare ancora quanto siano da lodare coloro che a nostri dì hanno composto tragedie e comedie in prosa» (Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 37). Questo ragionamento veniva peraltro replicato in modo assai fedele dal Maffei nell’introduzione all’edizione del Teatro Italiano: «Imprimer con forza, porger con Grazia e, ciò che ne’ teatri è sopra tutto necessario, sostener la voce, non si può mai fare se non col verso che, con la gravità sua, con gli stessi posamenti e con l’armonia, tutto ciò per sé conseguisce. Dove all’incontro in teatro grande languisce sempre nelle serie recite e fiaccamente arriva la prosaica voce, a riserva ch’altri non gridi» (Scipione Maffei, «Istoria del teatro e difesa di esso», in Id., De’ teatri antichi e moderni, a cura di Laura Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1988, p. 47).
Più che del Maffei, tuttavia, il ragionamento di Calepio appare debitore delle parole di Gravina, preciso nel segnare i confini tra vero e verosimile, e conseguentemente tra prosa e poesia: «Ogni simile, perché sia simile dee ancora esser diverso dalla cosa, di cui rassomiglia: altrimenti non simile sarebbe, ma l’istesso. E perché l’imitazione, la quale è somiglianza del vero non dee per tutte le parti verità contenere, altrimenti non sarebbe più imitazione, ma realtà e natura. […] Perciò la favella tragica, che come favella poetica, è imitativa, e dee la vera somigliare; se fosse sciolta da’ numeri, che dalla prosa la distinguono più favella simile non sarebbe, ma vera, né quella maraviglia ecciterebbe, che eccita la naturalezza impressa nell’armonia, la quale alla favella poetica è come il marmo alla statua» (GianVincenzo Gravina, «Della tragedia», in Id., Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 542-543). Calepio ammette a sua volta che in nome della verosimiglianza non si può dimenticare il fatto che la rappresentazione teatrale consti di finzione: le motivazioni del de La Motte — simili peraltro a quelle che venivano contrapposte al dramma per musica — vengono liquidate in nome di questo principio.
Sulla Libre Éloquence del de La Motte e sulle polemiche che seguirono in Francia a questa prima autorevole proposta di «poème en prose», che alla lunga si imporrà sulla scena europea, si veda Fabienne Moore, Prose Poems of the French Enlightenment: Delimiting Genre, Farnham-Burlington, Ashgate, 2009, pp. 70-82.
[Giunta.14] In questo punto riaffiora una tangenza dubosiana nel pensiero di Calepio: egli demarca ancora una volta con precisione i confini tra imitazione e illusione, affermando che lo scopo del drammaturgo non è quello di illudere lo spettatore di trovarsi ad assistere ad uno spettacolo reale, bensì quello di imitare la realtà alla perfezione. Già in precedenza, contrapponendosi alla tesi con cui il Martello sosteneva che fosse necessario di tanto in tanto destare il pubblico, con l’introduzione di qualche elemento inverosimile, dall’illusione creata a teatro, Calepio aveva constatato che il meccanismo di finzione che reggeva l’intera struttura della rappresentazione era ben noto agli astanti («Non occorrono artifizi per dare a vedere l’imitazione, la quale è già nota a chiunque sente o legge tragedie», cfr. Paragone VI, 2, [6]), avvicinandosi, ancor più che a Gravina, a certe affermazioni del Du Bos (Jean-Baptiste Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, 7e éd., Paris, Pissot, 1770, t. I, pp. 451-453). In questo caso, riprendendo le mosse da quelle considerazioni, Calepio insiste sul fatto che non sia necessario modulare sulla prosa la composizione di tragedie, ma, per raggiungere ottimi livelli di verosimiglianza — senza ridurre la letteratura a mera riproduzione del reale —, è sufficiente limare la lingua poetica così da renderla spoglia di quell’ornato estrinseco alla posa drammatica e dell’affettazione della rima, il che ovviamente, non implica una rinuncia all’uso del verso. A questa stessa soluzione sono peraltro improntate la gran parte delle poetiche drammaturgiche primo-settecentesche, concordi nell’esigere naturalezza nella composizione e nella recitazione del verso: anche i maestri dell’arte attorica, come Riccoboni, prescrivevano al fondo la stessa regola («Gli eroici fatti o i famigliari intrichi,/ non può negarsi ragionevolmente,/ che cantandoli al vero non disdichi./ Certo è però che la tragica gente/ è di una specie a non esser confusa/ col volgo, da cui molto è differente;/ e che il metrico stile, vuol la musa,/ che vario dal comun sia sostenuto,/ ma non vuol che sia natura esclusa», Luigi Riccoboni, Dell’arte rappresentativa. Capitoli sei, Londra, 1728, pp. 45-46). Certo, per assecondare questa naturalezza che già i versi giambici avevano (Poetica, 1449a 22-29) — e che gli endecasillabi in qualche modo replicavano —, è necessario, secondo Calepio, che a farsi carico dell’espressione degli affetti tragici sia una retorica sobria, lontana dalle «traslazioni» prescritte da Castelvetro («I passionati che sono occupati da amore, da odio e da sdegno e da simili turbazioni di mente, volendo far vedere il loro concetto con alcuna similitudine, non parendo loro che le parole proprie bastino a scoprirlo tutto, non hanno, per le passioni che gli stimolano, tanto agio che possano distendere la comperazione, ma l’accorciano, e accorciandola ne riesce la traslazione. E quindi peraventura Aristotele dice che a’ versi giambici, co’ quali ragionano le persone tragiche passionate, si convengono le traslazioni, le quali similmente ne’ veri vincendevol ragionamenti in prosa si veggono avenire naturalmente per la predetta ragione», Lodovico Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, vol. I, a cura di Werther Romani, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 97), e sottoscritte dal Giraldi (cfr. Giunta.12).
Sullo sviluppo della discussione in merito al prospetto metrico della tragedia e alla capacità dei versi di esprimere gli affetti fra Cinque e Seicento si rimanda ancora a Elisabetta Selmi, «Il dibattito trattatistico del Cinquecento sul verso tragico», in Il verso tragico dal Cinque al Settecento, Atti del Convegno di Verona (14-15 maggio 2003), a cura di Gilberto Lonardi e Stefano Verdino, Padova, Esedra, 2005, pp. 63-104, e Valentina Gallo, «Lineamenti di una teoria del verso tragico tra Sei e Settecento», ivi, pp. 123-168, nonché, più in generale Silvia Contarini, Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo, Pisa, Pacini, 2006.
[Giunta.15] Il de La Motte, tanto nel Discours à l’occasion de la tragédie d’Œdipe, quanto ne La Libre Éloquence, ammetteva che l’introduzione delle rime negli alessandrini delle tragedie francesi danneggiava non soltanto l’espressione, ma soprattutto la facoltà del drammaturgo di dare libero sfogo al proprio genio creativo. Nel discorso mostrava come, lontano dalle regole ritmiche del verso e dalla rima, l’autore poteva concentrarsi maggiormente sulla definizione dei ragionamenti dei personaggi («Il est encore évident qu’avec la liberté de choisir et d’arranger les paroles, on en aurait plus de facilité à perfectionner les choses. Jamais on ne serait forcé d’adopter un mot impropre avec connaissance de cause par l’impossibilité d’ajuster à son gré le mot nécessaire. On pourrait toujours donner à un raisonnement sa gradation et sa force, au lieu que le caprice des rimes contraint souvent d’y mêler quelques faiblesses, ou quelque inutilité», Houdar de La Motte, «Quatrième discours à l’occasion de la tragédie d’Œdipe», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 678). Nell’ode svolgeva pensieri non molto dissimili, sebbene formulati con tono più sferzante: «Rime, aussi bizarre qu’impérieuse, mesure tyrannique, mes pensées seront-elles toujours vos esclaves? Jusque à quand usurperez-vous sur elles l’empire de la raison? Dès que le nombre et la cadence l’ordonnent, il faut vous immoler, comme vos victimes, la justesse, la précision, la clarté. […] Je vois le soleil se lever, se coucher, se relever plus d’une fois, avant que j’aie pu vous réconcilier avec une pensée qui valait à peine quelques moments. C’est à toi seule, Éloquence libre et indépendante, c’est à toi de m’affranchir d’un esclavage si injurieux à la raison» (Houdar de La Motte, La Libre Éloquence, ivi, p. 705). Calepio concorda perfettamente con il Francese sui problemi che comporta l’introduzione del verso rimato: d’altra parte aveva pronunciato un’omologa condanna alla rima in Paragone VII, 4. Tuttavia l’eliminazione della rima non comporta, nella sua poetica, un cedimento verso la prosa, bensì l’opzione di un verso differente, meno cadenzato dell’alessandrino, come l’endecasillabo italiano. Infine dissente nel merito dal giudizio del de La Motte, secondo cui la scrittura di tragedie in prosa gioverebbe all’incremento del numero degli autori teatrali («Voici enfin un dernier fruit de l’usage que je voudrais établir: c’est de multiplier le nombre des auteurs dramatiques en les dispensant d’un talent que bien des gens d’esprit n’ont pas. N’y a-t-il pas des écrivains qui ont assez d’invention pour imaginer de grands desseins, assez de génie pour les bien arranger, assez de raison et d’esprit pour les bien exécuter, mais qui ne se sont jamais exercés à la versification, ou qui par bon sens s’en sont rebutés de bonne heure par la perte de temps qu’elle coûte? Quel dommage que tout ce mérite soit perdu pour le théâtre!», Houdar de La Motte, «Quatrième discours… », cit., p. 679): questo accrescimento della platea dei drammaturghi secondo Calepio avrebbe provocato al contrario uno scadimento dell’arte tragica.
[Giunta.16] Calepio passa quindi ad esaminare le tragedie del drammaturgo francese, cominciando con Les Macchabées. Lo stile di questo dramma è reputato superiore rispetto alla media delle tragedie francesi in quanto meno affettato, ma vengono mossi rilievi allo svolgimento dell’azione e in particolare nella ripartizione della favola che mette in scena l’episodio tratto dal secondo libro dei Maccabei e incentrato sul martirio destinato ai sette Maccabei che rifiutarono di rinnegare la propria fede e furono messi a morte dal crudele Antioco IV. L’apice del patetico sarebbe infatti raggiunto, secondo Calepio, già nel primo atto, aperto dal pronunciamento di Antioco, già risoluto a mandare a morte i Maccabei e a sterminare tutti gli ebrei, come egli confessa nel successivo dialogo con la madre dei sette fratelli, Salmonée («Oui, oui de l’Univers je ferai disparoître/ Cette religion que l’Erreur a fait naître,/ Et qui couronne encor ses superstions/ De l’insolent mépris des autres Nations./ Je lui jure, Madame, une éternelle guerre./ S’il n’adore nos Dieux, tout Hebreu périra», Houdar de La Motte, Les Machabées, I, 2, in Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, t. II, Paris, Dupuis, 1730, p. 6). In questa serie serrata di sticomitie, in cui il sovrano minaccia la donna e questa si mostra salda nella propria fede affidandosi a Dio per ottenere vendetta, Calepio scorgeva probabilmente il vertice commotivo della rappresentazione, destinata poi nel prosieguo a languire nella messa in scena di affetti meno vividi. In secondo luogo al de La Motte viene contestata l’eccessiva passività di Salmonée fino al quinto atto, in cui essa è costantemente sul palco per convincere il figlio Misaël ad accettare la morte piuttosto che a perdere la propria fede e poi per rimproverare il tiranno, il cui piano di convertire al paganesimo l’ultimo dei Maccabei è miseramente fallito. Oltre all’incostanza di questo personaggio vengono criticati anche alcuni specifici passaggi ritenuti poco plausibili; all’autore del Paragone sembra inverosimile che il tiranno dia modo a Salmonée di abboccarsi da sola col figlio per darle maggior tormento, come ammette la donna («Ah! mon fils! Je tremble à ton aproche./ J’ai voulu sur ta fuite interroger le Roi,/ Qui d’un regard farouche augmentant mon effroi,/ Et sur tes sentimens s’obstinant au silence,/ Pour mon tourment, dit-il, me permet ta presence», ivi, V, 2, p. 65); questo sembra a Calepio un espediente di comodo impiegato dall’autore per inserire un confronto patetico e risolutivo fra madre e figlio, che in origine erano stati separati dal sovrano proprio perché la donna non potesse rinfocolare la fede di Misaël.
[Giunta.17] Anche in questo caso Calepio afferma che la presenza dell’autore, intento ad accomodare l’andamento della favola per potenziare l’effetto patetico si scorga in maniera evidente e maldestra. La scena in questione è la prima del terzo atto, in cui Antigone, inviata da Antiocus a far vacillare la fede del giovane Misaël, prefigura impropriamente il successivo sviluppo dell’intreccio e la successiva commozione che proverà nei confronti del dolore di Salmonée (III, 4-5), che la porterà infine ad abbandonare il proprio progetto (Houdar de La Motte, Les Machabées, I, 2, in Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, t. II, Paris, Dupuis, 1730, p. 35). Secondo il Bergamasco è ancora inverosimile che Misaël (III, 7) arrivi soltanto qualche battuta dopo che Antigone aveva ordinato a Barsés di farlo chiamare (III, 5).
[Giunta.18] Calepio disapprova anche l’uso dei monologhi e degli a parte nella tragedia del de la Motte, rimproverando i primi di un carattere narrativo funzionale soltanto allo sviluppo dell’intreccio — ma in modo meccanico e rivedibile —, i secondi, al solito, di inverosimiglianza. I soliloqui citati sono quelli di Antiochus, in cui si dice preoccupato per la fuga della favorita Antigone con Misaël (Antoine Houdar de La Motte, Les Machabées, IV, 6, in Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, tome II, Paris, Dupuis, 1730, p. 55), e quello con cui Misaël riporta l’ultima offerta fattagli dal re Antiochus per evitare la morte (ivi, V, 1, p. 64). L’a parte che Calepio condanna si trova invece nella terza scena del terzo atto, ed è pronunciato da Antigone, abbagliata dalla virtù orgogliosa che scorge nelle parole di Salmonée («O courage héroïque! O vertu que j’admire!», ivi, p. 40). Infine il de la Motte viene redarguito per la cattiva gestione dei tempi teatrali, caratteristica in cui invece solitamente i Francesi sembravano a Calepio nettamente superiori agli Italiani (Paragone IV, 6, [1]).
[Giunta.19] Passando al Romulus, Calepio attacca in prima battuta il carattere amoroso del protagonista. Questa accusa era stata già mossa alla tragedia del de La Motte fin dal principio, tanto che il drammaturgo aveva provveduto, nel Discours preposto all’edizione della pièce, a difendersi da tale rimprovero, affermando che Romulus avrebbe potuto benissimo essere al contempo un amante tenero e un combattente gagliardo, dal momento che la sua natura era profondamente diversa da quella dei soldati che guidava: «Quant à ce qui me regarde; le reproche que les Critiques m’ont fait avec le plus de confiance, c’est la contradiction du caractère de Romulus. Je ne crois pas cependant qu’on me pût faire un reproche moins raisonnable. Ils prétendent que Romulus, violent comme je l’établis, ne pouvait pas perdre une année entière à tâcher de gagner Hersilie, tandis que ses soldats s’étaient rendus heureux par la force: mais il y a de la grossièreté, ce me semble, à confondre ainsi ce prince avec ses soldats. Ce n’étaient que des brigands et des esclaves fugitifs, qu’il avait rassemblés, pour se faire un peuple: il lui fallait à lui de grandes qualités, pour les assujettir à des lois, et les discipliner, comme il l’avait fait: en un mot ce pouvait être un héros, et c’étaient des brigands: on n’en saurait exiger la même conduite» (Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, pp. 599-600). Calepio concorda con il de La Motte su questa giustificazione — sebbene comunque riscontri una certa incoerenza nel carattere di Romulus, come si evince dalla conclusione del paragrafo — ma taccia l’autore francese di non essere esperto della filosofia amorosa; a suo dire infatti, l’amore di Romulus non avrebbe potuto verosimilmente crescere senza un qualche incoraggiamento da parte di Hersilie, la quale invece è nei suoi confronti sempre sprezzante e crudele. Si veda ad esempio di ciò il primo colloquio fra i due, nella seconda scena del primo atto, in cui Romulus è presentato come un supplice disperato («Madame, Romulus tremblant à votre aproche/ Sçait trop qu’il vient chercher la plainte et le reproche./ Depuis un an entier que je vois chaque jour/ Votre haine pour moi croître avec mon amour,/ Je devrois étouffer des feux que l’on déteste:/ Mais tel est sur mon cœur votre empire funeste,/ Que toujours plus épris, quoique desesperé,/ J’aime encore le trait dont je suis déchiré», Antoine Houdar de La Motte, Romulus, in Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, tome II, Paris, Dupuis, 1730, p. 87).
[Giunta.20] Il rimprovero di inverosimiglianza da parte di Calepio è diretto in questo caso ad un passaggio della scena seconda del secondo atto, quando Tatius, a colloquio con la figlia, racconta il fallimento del proprio progetto di conquista: egli aveva infatti radunato un esercito che marciasse di notte verso Roma, nascondendosi nei boschi durante il giorno («J’assemblois de long-temps une nombreuse armée,/ Que par des soins secrets, en divers lieux formée,/ Se répand dans les bois, où se couvrant le jour,/ Elle marche la nuit de détour en détour./ Je n’ai de mes soldats réuni les Cohortes,/ Que lorsque de la Ville ils ont touché les portes», Antoine Houdar de La Motte, Romulus, in Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, tome II, Paris, Dupuis, 1730, p. 102). A Calepio non pare credibile il fatto che non sia giunta notizia a Roma dell’avanzamento di un’armata così cospicua. Nel prosieguo del racconto di Tatius si espongono i fatti relativi all’assedio fallito: dopo il successo del primo slancio, i Sabini vengono respinti grazie al valore di Romulus, il quale riesce a catturare il re dei Sabini. A quel punto, secondo Calepio, l’esercito sconfitto dovrebbe disperdersi e fuggire, a differenza di quanto accade secondo la rhesis di Tatius, impegnato a descrivere il duello con l’avversario («Dès qu’il voit ses soldats voler à sa defense,/ C’est peu de résister, dans nos rangs il [Romulus] s’élance;/ J’y répandois l’audace; il y porte l’effroi;/ Je le cherchois lui seul; il ne cherchoit que moi;/ Et volant à travers le sang et le carnage,/ Tous deux nous nous faisions l’un à l’autre un passage./ Je le joins; mais le fer qui se brise en mes mains/ Me livre sans défense au pouvoir des Romains./ Arrêtez, a-t-il dit; calmez votre furie,/ Soldats de Tatius; il y va de sa vie./ Vous, Romains, suspendez d’inutiles exploits:/ Il est en mon pouvoir; nous reglerons nos droits./ Il dit. Le combat cesse. […]», ivi, p. 103). Infine, viene giudicato inverosimile la scena dell’arrivo delle Sabine e delle Romane sul campo di battaglia, con cui le donne interrompono il combattimento fratricida; l’esposizione è questa volta fatta da Tullus («Le trouble dans les yeux, et les cheveux épars,/ Les femmes des Romains de fureur enflâmées,/ Accourent se jetter entre les deux armées./ Leur furie intrépide offre au glaive inhumain/ Leurs enfans effraïez, renversez sur leur sein./ Nous sommes à la fois Sabines et Romaines,/ Disent-elles; sur nous assouvissez vos haines;/ Et venez massacrer entre nos bras sanglans,/ Vous Sabins, vos neveux; vous, Romains, vos enfans», ivi, III, 5, p. 123). Anche in questo caso, secondo Calepio, il de la Motte non avrebbe prestato sufficiente attenzione alla scansione dei tempi scenici, sebbene non venga mosso alcun rilievo circa il rispetto dell’unità di tempo che veniva contestata al francese, e sulla quale lo stesso autore del Romulus si era soffermato nei suoi Discours («Il n’en demeure pas moins vrai qu’il ne me fut presque pour cela que le temps même de la représentation, et qu’à peine ai-je besoin de supposer une demi-heure entre quelques actes. Le premier combat se donne dans Rome, entre le premier et le second acte; et il ne faut pas abuser de ce que je dis que Romulus lui seule défendit longtemps le pont contre les Sabins; le temps se mesure là à l’effort qu’il avait à soutenir; et quelques minutes en ce cas deviennent un temps considérable. D’aileurs qui pouvait empêcher ses soldats de le joindre aussitôt? Etaient-ils loin de lui? N’étaient-ils pas gens à se tenir toujours sur leurs gardes? Enfin, quoique les armées se mêlent, ce n’est qu’un commencement de combat puisque, Tatius tombant entre les mains de Romulus, le combat demeure suspendu par l’ordre du vainqueur. Une demi-heure y suffisait de reste», Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 586).
[Giunta.21] A Calepio appare poco verosimile il modo in cui Romulus sventa la congiura ai suoi danni, grazie all’aiuto di Tatius, il quale riferisce l’accaduto a Hersilie nella scena quinta dell’atto quinto. Su questo punto si era già soffermato il de La Motte, concedendo che questo episodio aveva un aspetto piuttosto artificioso: «On a été sans comparaison mieux fondé à blâmer la manière dont Romulus se sauve des assassins dans l’instant de son sacrifice: les circonstances que je raconte sont difficiles à l’imaginer, et elles ont le défaut du romanesque» (Houdar de La Motte, «Discours à l’occasion de Romulus», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 587). Il drammaturgo si difendeva citando l’esempio, reale sebbene all’apparenza ancor meno credibile, di Siccio Dentato, un plebeo soprannominato l’Achille dei Romani, le cui imprese vengono narrate nelle Antichità Romane di Dionigi d’Alicarnasso (XI, 4 [10]). Questo eroe di straordinario valore avrebbe sventato una simile congiura tesagli dai decemviri, gelosi del suo prestigio presso il popolo, vincendo in combattimento da solo una cinquantina di uomini (ibid.). Tuttavia al bergamasco non sembra inverosimile che un condottiero valoroso come Romolo abbia da solo affrontato vittoriosamente un nutrito manipolo di uomini, quanto piuttosto la preparazione dell’episodio e la condotta dei congiurati, nonché di Tatius, il quale racconta di aver visto da lontano i cospiratori sfoderare le armi, quando invece verosimilmente essi avrebbero dovuto farlo all’ultimo momento, per cogliere di sorpresa Romulus («Tandis qu’il se baissoit, d’étincelans poignards,/ De loin, ont tout à coup effraïé nos regards;/ Aux cris que nous poussons il détourne la tête;/ Et soudains sa valeur conjurant la tempête,/ Il arrache le fer d’un de ses assasins;/ Par tout autour de lui porte des coups certains:/ Plusieurs étoient tombez, avant que ma colère/ Pût l’aider à punir ce complot sanguinaire», Antoine Houdar de La Motte, Romulus, in Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, tome II, Paris, Dupuis, 1730, p. 146). Neppure la preparazione della scena dirimente, nel dialogo fra i traditori Proculus e Murena, appare a Calepio meno affettata (ivi, IV, 1, p. 124). Il Bergamasco si sofferma anche l’espediente del biglietto, recante notizie in merito al progetto di congiura da parte dei romani, che viene misteriosamente recapitato a Romulus nella prima scena dell’atto terzo; nella scena successiva viene svelato al pubblico, attraverso un macchinoso a parte di Hersilie, che è stata la stessa ragazza a scrivere quel biglietto per avvertire l’amato («Il faut encor me taire./ De ce billet sur tout cachons-lui le mistere;/ Qu’il ignore toujours qu’il me doit cet avis», ivi, p. 114).
[Giunta.22] Per quanto riguarda la fortuna dell’Inès de Castro, Calepio si limita ad accogliere le parole con cui il de La Motte ricostruiva le critiche — e le parodie — ricevute dalla sua tragedia, ma anche l’incredibile successo di pubblico che essa aveva ottenuto (Houdar de La Motte, Discours à l’occasion de la tragédie d’Inès, in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, pp. 623-629). Da parte sua, pur riconoscendo i meriti della tragedia, imperniata su di una protagonista estremamente capace di commuovere, il Bergamasco non si esime dall’indicarne i difetti strutturali, e in particolare l’eccessivo spazio assegnato a personaggi secondari, come Alfonso, il sovrano portoghese, padre di Dom Pèdre, spinto dalla moglie a condannare a morte Inès, la quale non rinunciava all’amore con l’infante (III, 1-2). Da questa decisione nasce la guerra civile che porterà Dom Pèdre a contendere il trono ad Alphonse, a cui, nel quarto atto, viene affidato prima un lungo monologo (IV, 1), nel quale dà sfogo al proprio turbamento, indeciso fra la rivendicazione del proprio potere e la tenerezza nei confronti del figlio, e successivamente (IV, 2), un’altra scena di dialogo con Dom Pèdre in cui tenta ancora di convincere il giovane a tornare sui propri passi e abbandonare Inès. Questo episodio avrebbe secondo Calepio uno spazio eccessivo e distoglierebbe l’attenzione del pubblico dalle vicende patetiche della protagonista.
[Giunta.23] Un altro personaggio secondario dell’Inès a cui è riservato troppo spazio, a discapito della protagonista, sarebbe Constance, figlia della regina e destinata a sposare Dom Pèdre, ma rifiutata dall’infante. Constance si configura a sua volta come un personaggio languidamente positivo, introdotta in scena a più riprese per supplicare il re (II, 1) e la regina (II, 3) di non forzare l’amato a sposarla, e poi a prodigarsi, di concerto con Inès, per salvare la vita dell’infante (III, 8; IV, 7-8; V, 1). Calepio registra poi delle pecche nella condotta della favola, ancora una volta macchinosa in certi passaggi, e nello stile. Sul primo versante, egli riporta i versi di una battuta di Inès (Antoine Houdar de La Motte, Romulus, I, 6, in Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, tome II, Paris, Dupuis, 1730, p. 164), che risulterebbero freddi e inappropriati, in quanto mossi soltanto dalla necessità di dar modo all’autore di raccontare al pubblico qualcosa che è accaduto fuori scena, ossia il matrimonio segreto fra Inès e Dom Pèdre e le sue conseguenze politico-giuridiche di quell’azione («Vous le sçavez: l’espoir d’être un jour couronnée,/ Ne m’a point fait chercher votre auguste himenée;/ Et quand j’ai violé la loi de cet état,/ Qui traite un tel himen de rebelle attentat:/ Vous sçavez que pour vous, me chargeant de ce crime/ De vos seuls interêts je me fis la victime», ibid.). Sul fronte stilistico invece Calepio giudica inadeguati gli elogi che la Regina fa di Constance, più idonei per un amante che recita versi lirici, che non per una madre («Ma Fille à ses yeux seuls n’a-t-elle point de charmes?/ A ce cœur prévenu, quel funeste bandeau/ Cache ce que le Ciel a formé de plus beau?/ Car quel objet jamais aussi digne de plaire/ A mieux justifié tout l’orgueil d’une mère!/ Les cœurs à son aspect partagent mes transports;/ La nature a pour elle épuisé ses trésors;/ De cent dons précieux l’assemblage céleste,/ De ses propres attraits l’oubli le plus modeste», ivi, I, 4, p. 161). In questa stessa scena, peraltro, Calepio nota un altro difetto di verosimiglianza: le parole con cui la regina accenna al continuo gioco di sguardi fra Inès e Dom Pèdre («S’il honore ma Cour, ses yeux toujours distraits,/ Paroissent n’y chercher, n’y rencontrer qu’Inès», ivi, p. 160) sarebbe utile soltanto a introdurre giustificatamente il sospetto di una relazione tra i due, ma la situazione appare poco credibile al Bergamasco, il quale mette in dubbio che la passione che può vibrare negli occhi di due giovani innamorati, rimanga altrettanto viva nella coppia dopo alcuni anni di matrimonio. Sempre restando allo stile, giudicato migliore che nel Romulus, Calepio non manca di notare alcune sconvenevolezze, come il classico traslato del fuoco e delle fiamme, atte a rappresentare l’amore fra Dom Pèdre e Inès (ivi, p. 165), indecoroso non tanto per la riproposizione di un topos logoro, quanto piuttosto perché pronunciato all’interno di un disperato discorso dell’infante, il quale propone a Inès, come unica soluzione per continuare a vivere insieme, la fuga dal regno, opzione che tuttavia la protagonista rifiuterà.
[Giunta.24] L’Œdipe del de La Motte viene considerato superiore a quelli di Corneille e Voltaire in quanto alla composizione dell’intreccio, dal momento che in quest’ultima tragedia viene eliminato un difetto che affliggeva tutte le prove precedenti, compresa quella di Sofocle, ossia l’ignoranza di Edipo circa le circostanze in cui Laio era stato ucciso. In effetti nella pièce del de La Motte, costituita su una continua sequela di colpi di scena, una volta che Jocaste svela, riportando le parole dette in punto di morte da Iphicrate, che Laio non era perito in seguito all’attacco di un leone, come il vecchio aveva in precedenza sostenuto, ma era stato assassinato da un «jeune guerrier», immediatamente Œdipe si riconosce come colpevole del misfatto («Jocaste: Jugez donc si ce trait nomme le parricide./ Mon Epoux, abbatu par un jeune guerrier,/ Périt avec sa suite en un étroit sentier;/ Et la Terre, Seigneur, qui de son sang fut teinte,/ Partage les Etats, de Thébe et de Corinthe. Œdipe à part: «Entre Thébe et Corinthe! un seul guerrier! Grands Dieux!/ Quels funestes rapports viennent luire à mes yeux!/ A ces premiers soupçons que devient mon courage!/ Malheureux! oserai-je en sçavoir davantage!», Antoine Houdar de La Motte, Œdipe, III, 5, in Les Œuvres de théâtre de M. de la Motte, de l’Academie Françoise. Avec plusieurs Discours sur la Tragédie, tome II, Paris, Dupuis, 1730, p. 260). Gravemente biasimevole sembra invece a Calepio il fatto che l’autore insista nel dipingere Edipo come un personaggio innocente, cosa che si evince del racconto che il re tebano fa alla regina, esponendole i fatti avvenuti molti anni prima in quella strada che portava da Corinto a Tebe; provocato da uno dei servitori di Laio, infatti, egli lo aveva ferito e subito il sovrano era sceso dal carro per combattere contro Edipo, il quale, pur limitandosi soltanto a parare i colpi del vegliardo, lo aveva inavvertitamente colpito a morte: «Ce nouvel ennemi [Laius] me devint respectable/ La majesté brilloit sur son front vénérable./ A son bras généreux content de résister,/ Ma main paroit ses coups, et n’osoit en porter./ D’un mouvement secret mon ame pénétrée,/ Rendoit, à ma fureur, sa personne sacrée./ Malgré cette pitié, le destin inhumain,/ Au fer qui le fuïoit, vint exposer son sein./ Avec les défenseurs, il tomba ma victime» (ivi, p. 262). Questa nuova configurazione di Edipo penalizza, secondo Calepio, l’intero dramma, in quanto impedisce di creare quel meccanismo purgativo a cui il soggetto sofocleo era convenientemente predisposto. Tale errore nascerebbe dal fraintendimento dei presupposti dell’Edipo Re classico, il cui protagonista veniva ritenuto innocente dal de La Motte — così come già aveva creduto Corneille, parimenti censurato da Calepio (cfr. Paragone I, 2, [5]). Nel Quatrième discours à l’occasion de la tragédie d’Œdipe il de La Motte esordiva infatti così: «Je voulais d’abord qu’Œdipe fût coupable; et le sujet, tel que Sophocle nous l’a laissé, m’a toujours paru vicieux par cette fatalité tyrannique qui entraîne un homme dans des malheurs qu’il ne s’est point attirés par sa faute» (Houdar de La Motte, «Quatrième discours à l’occasion de la tragédie d’Œdipe», in Id., Textes critiques: les raisons du sentiment, édition critique avec introduction et notes dirigée par Françoise Gevrey et Béatrice Guion, Paris, H. Champion, 2002, p. 669). Un altro problema della favola del de La Motte starebbe, secondo Calepio, nello scorporamento dell’agnizione — tipica dei drammi francesi su questo soggetto — in due scene diverse. Il de La Motte, nello specifico, fa sì che Giocasta scopra tutto in anticipo e si uccida, lasciando al marito un biglietto in cui rivela la verità (V, 5). Negativa è reputata anche la resa dei caratteri di Eteocle e Polinice, raffigurati dal Francese, contra historiam, come troppo benigni nei confronti della memoria del padre.