(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo secondo — Capitolo decimoterzo »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo secondo — Capitolo decimoterzo »

Capitolo decimoterzo

Cause particolari della decadenza attuale dell’opera. Prima Causa. Mancanza di filosofia nei compositori. Difetti nella composizione. Riflessioni sull’odierno uso della musica strmentale. Esame dei recitativi, e delle arie.

[1] Gl’inconvenienti annessi al nostro sistema musicale non impedirono ai compositori il creare delle bellezze parziali, e il condurre ciascuno dei rami del melodramma al grado di perfezione ond’era capace. Se l’odierna musica non ha più per iscopo quel fine morale cui la conducevano i Greci, e se tutte le parti che concorrono a formar lo spettacolo non hanno fra noi quella relazione e congegnamento totale che fra loro avean messi la lunga usanza di molti secoli e lo scambievol rapporto aiutato dalla legislazione, può quella, nonostante, adattarsi mirabilmente all’oggetto che si propone, ch’è di lusingar il senso con vaghe e brillanti modulazioni, e possono queste ridursi ad una certa unità, la quale se non appaga del tutto la severa ragione, basta nullameno per sedurre l’immaginazione con una illusione aggradevole.

[2] Alcuni compositori italiani, e non pochi ancora fra i moderni poeti hanno fatto vedere in pratica ciò che la filosofia pronunziava da lungo tempo come certissimo, cioè che le modificazioni del bello sono assai varie, che i fonti del diletto nelle belle lettere e nelle arti non furono dagli antichi pienamente esauriti, che la barbarie dei nostri metodi era capace di dirozzarsi fino ad un certo punto e ringentilirsi, e che da un sistema diverso da quello dei Greci potevano gli sforzi del genio far iscaturire nuove sorgenti di vero, d’intimo, e di non mai sentito piacere. Così dallo stato svantaggioso in cui si trovava la musica in certi secoli, e dall’ignorar la maniera d’applicarla alla poesia nacque la tragedia recitabile, preferibile a molti riguardi alla cantata; così dalla perdita dell’antica prosodia nacque la rima, che sì maraviglioso diletto ci porge ne’ poemi dell’Ariosto, del Camoens, e del Tasso, come nei versi di Boeleau, di Pope, di Garcilaso e di Racine; così dalla strana confusion di più voci nelle musiche ecclesiastiche vennero le sublime composizioni del Palestrina, del Carissimi, del Marcello, e del Hendel; così finalmente dalle rozze rappresentazioni fatte nel Pra della Valle, ovvero in Firenze nel Calen di Maggio, sorsero in seguito gli spettacoli fino a farci sentire le maraviglie d’un Vinci, d’un Pergolesi, d’un Jumella, e d’un Metastasio.

[3] Ad altre cagioni oltre le accennate fa di mestieri non per tanto appigliarsi volendo esporre i motivi della dicadenza attuale dell’opera italiana. Se non si può legitimamente pretendere che il compositore, il musico, il poeta ed il ballerino diano alle rispettive lor facoltà la forma stessa che avevano venti secoli a dietro, si può bensì con ragione esiger da essi che non isformino quella di cui lo stato loro presente le rende capaci. Colpa è di loro la niuna rassomiglianza che ravvisa lo spettatore fra la natura che doveva imitarsi, e le belle arti che promettono d’imitarla. Colpa è di loro lo sconcerto e disunione che regna nel tutto, e gl’infiniti abusi che hanno preso piede in ciascuno di questi rami in particolare. Colpa è di loro la mancanza d’illusione e di verosimile che vi trasparisce, e che rende sconnessa, grottesca e ridicola la più bella invenzione dell’umano spirito. né giusto sarebbe incolpare le arti pei difetti degli artefici. Perlochè avendo io divisato di far conoscere ne’ seguenti capitoli quanto questi abbiano contribuito alla totale rovina del melodramma, e incominciando presentemente dalla composizione, io dico che il primo e capitale difetto dell’odierna musica teatrale è quello di essere troppo raffinata e poco filosofica proponendosi solamente per fine di grattar l’orecchio e non di muovere il cuore, né di rendere il senso delle parole, come pur dovrebbe essere il principale ed unico uffizio della musica rappresentativa. E non altrimenti avverrà finché si tralasci l’imitazione della natura il vero, il grande, il patetico, il semplice per correr dietro alle bambocciate, alle caricature e a’ falsi ornamenti. Si lodano bensì dai maestri dozzinali, ma non si studiano, non s’imitano le opere dei sommi compositori della trascorsa età, ciascuno vuol esser originale da sé ed aprirsi delle vie novelle, le quali non trovandosi se non se nella ricerca della natura ch’essi non conoscono, e nella profonda meditazione di cui sono incapaci, la loro invenzione ad altro non si riduce che ad uno stile capriccioso, ad un falso raffinamento che lusinga la loro vanità, e che rovina intieramente la musica.

[4] A fine di vedere se sia o no esagerata la mia proposizione, entriamo in un qualche esame intorno al metodo con cui si lavora in oggi la musica delle opere, cercando di farlo con quella imparzialità che si conviene ad un filosofo, il quale non iscrive mosso dall’odio o da connivenza per chicchesia, ma per solo amore del vero. E guardiamoci bene di non avanzar cosa che appoggiata non venga sulle eterne e generiche idee di quel bello ideale, innanzi a cui spariscono i pregiudizi, come le nebbie dardegigate dai raggi del sole.

[5] E incominciando dall’uso che si fa generalmente della musica strumentale, pare a me che la perfezione alla quale si è voluto condurre dai moderni da mezzo secolo in quà abbia contribuito non poco alla rovina della espressione nel melodramma. Ne’ tempi felici dei Leo, dei Pergolesi e dei Vinci l’attenzione di que’ sommi maestri era unicamente rivolta a far valere il canto e la poesia, e non gli stromenti, avvisandosi con gran giudizio che questi altro non essendo che una spezie di commento fatto sulle parole, era una stoltezza da non sopportarsi che primeggiassero essi sulla voce e sul sentimento, come non potrebbe non tacciarsi d’ignoranza un grammatico che dasse maggior pregio alle illustrazioni di Servio o de la Cerda sulla Eneide di Virgilio che non al testo istesso del divino poeta. Tutta l’energia della musica era riposta allora nella espressione delle parole, e l’orchestra non faceva che accompagnarle sobriamente e sotto voce per il comune. Siffatta semplicità non piacque lungo tempo al pubblico incostante, né ai capricciosi maestri. S’accrebbe il numero e la qualità degli strumenti, gli accompagnamenti divennero poco a poco più ricchi, l’orchestra acquistò maggior forza e vigore fra le mani principalmente del Buranello, dell’Hass, e del Jumelli, i quali seppero, nonostante, conservarla senza dar negli eccessi, stimando che la musica strumentale esser dovesse per la poesia 131 ciò che per un disegno ben ideato la vivacità del colorito o il contrasto animato de lumi e delle ombre per le figure. L’uso ne fu portato più avanti dal Lampugnani compositor milanese, che rivolse a siffatto oggetto tutta la sua attenzione. Dal Lampugnani in quà questa parte del melodramma ha ricevuto degli accrescimenti che oltrepassano ogni credenza. Si è moltiplicato all’eccesso il numero dei violini, si è dato luogo nella orchestra a gli strumenti più romorosi. I tamburi, i timbali, i fagotti, i corni di caccia, tutto è ivi raccolto a far dello strepito. Si direbbe che qualcheduna delle arie che si sentono accompagnate in simil guisa fosse un azzuffamento di due eserciti nemici in un campo di battaglia.

[6] Tra il fracasso dell’armonia, tra i tanti suoni accavallati l’uno sopra l’altro, tra i milioni di note, che richieggono il numero e la varietà delle parti, qual è il cantore la cui voce possa spiccare? Qual è la poesia che non rimanga affastellata ed ingombera? Molto più dacché un altro vizio non minore di questo è venuto di mano in mano prendendo piede, cioè la spessezza della note. Queste negli antichi spartiti erano grandi e largheggiavano assai negli spazi onde aperti riuscivano i suoni vigorosi e distinti. Al presente sono esse così minute che non hanno luogo a fare una impressione durevole, né servono ad altro che a snervare, a così dire, la forza del suono spezzandolo in parti troppo deboli perché troppo leccate, nella stessa guisa che l’eccedente uso dei diminutivi nello stile rende molle di soperchio e stemperata la poesia132. Inoltre, succedendosi così affollate e con tanta rapidità, affogano la voce del cantore in maniera che poco o nulla si sente dagli uditori. Ed ecco che invece di andar insieme la musica vocale e la strumentale, invece che la strumentale serva di appoggio alla vocale, come richiederebbon l’ordine e la natura, quella al contrario confonde questa, potendosi dire a ragione che sono gli strumenti che cantano, non già il cantore. Ognun vede da sé quanto nuoca cotal difetto alla illusione dello spettatore; imperocché altro egli non sentendo che il romore degli stromenti, né sapendo a quali parole, a quai sentimenti si riferisca tutta quella armonia, la serie di sensazioni che si svegliano in lui diviene inutile, perché priva d’oggetto. Allora non trova più verosimiglianza o interesse nell’opera di quello che troverebbe in un semplice concerto. E allora ci va egregiamente il «suonata, che vuoi tu?» del Fontenelle.

[7] Non è difficile il rintracciarne i motivi di codesto progressivo accrescimento della musica strumentale. L’arte del suono è stata coltivata dipersè in Italia e in Germania da uomini eccellenti, che hanno saputo ritrovar in essa bellezze inusitate e novelle modificazioni di gusto. Alla soavità e dilicatezza che spiccano nelle composizioni italiane, si è saputo innestare la novità de’ passaggi e lo stile agiato e torrente che proprio sembra di alcune scuole tedesche, fra le quali campeggia quella del celebre Giovanni Stamitz, boemo di nazione, scrittore fecondo e rapido di fantasia inventrice, di prontissimo ingegno, e che tra i suonatori ottiene il medesimo luogo che Rubens tra i pittori. Queste bellezze parziali, alloppiando in particolar modo gli orecchi dell’uditore, hanno fatto sì ch’ei cerca di gustarle separatamente dalle altre, e che non ritrova nella melodia vocale un compiuto diletto se non gli perviene ai sensi accompagnata dal colorito forte degli strumenti. Il quale riflesso fa più d’ogni altra cosa vedere quanto l’uso e il postume possano modificare le facoltà interne dell’uomo fino a creare in lui dei gusti fattizi opposti o diversi da quelli che sono più conformi alla natura. Imperocché egli è certo che fra l’imitazione che si propone la musica vocale, e quella ch’è propria della strumentale, la prima è più fedele, più circostanziata e più immediata che non è la seconda, dove la distanza tra la maniera d’imitare e l’oggetto imitato è assai grande a motivo di non imitatisi le cose se non se in maniera troppo vaga e generica. Di modo che non si discernerebbe punto l’individuale argomento che gli strumenti prendono a dipignere, se le parole non venissero in aiuto del suonatore facendone la dovuta applicazione dei suoni a qualche caso particolare, indicandone le circostanze e i principali lineamenti additandone. Se si dovesse rappresentare sulla scena lirica quello squarcio mirabile della Eneide, allorché Didone si vuol uccidere di propria mano col ferro lasciatole in dono dal traditore Enea 133, il compositore non potrebbe significare l’attuale situazione di quell’anima lacerata, se non se con un mormorio cupo ed agitato delle corde più basse, col suono piagnente degli stromenti da fiato, con modulazioni rapide, veloci e precipitate, le quali, imitando i fenomeni che accompagnano la terribile maestà della natura nelle tempeste, o negli sconvolgimenti dell’oceano, facciano per comparazione comprendere il morale scompiglio, in cui si trova la disperata Didone

«… magnoque irarum fluctuat aestu».

[8] Ma siffatti colori non convengono a quel quadro soltanto. Qualunque eroe, qualunque eroina si trovi nello stesso caso verrà dagli stromenti dipinta nella guisa medesima. Que’ tratti principali, que’ contorni decisivi che caratterizzano le figure, rimangono affatto indistinti. E le circostanze particolari che danno sì gran mossa e vivacità alla eloquenza di Virgilio, come sarebbe a dire, le strane vicende per le quali è pervenuto quel ferro da i campi di Troia fino ai lidi di Cartago, il diverso fine cui serbavalo Enea, lo sfortunato e miserabil uso che ne fa Didone, l’eccesso di passione che la guida a troncare sì lagrimevolmente i suoi giorni, l’avvenenza, le grazie e le altre ragguardevoli doti che degna rendevano la bella regina d’assai più lieto destino, i benefizi renduti da essa al principe troiano, e l’ingratitudine imperdonabile di costui verso una principessa cotanto amabile, mille altri aggiunti insomma che feriscono, a così dire, il cuore a colpi raddoppiati, e dall’aggregato de’ quali risulta poi nello spirito quella sensazione complessa che ci intenerisce e ci attacca agli oggetti imitati; tutto ciò, io dico, è intieramente perduto per gli strumenti. E questa è la cagione altresì per cui le suonate, le sinfonie, i concerti e gli altri rami di musica strumentale, di rado o non mai svegliano in noi quel vivo interesse che sogliono destare il canto e la poesia, le quali esprimendo una qualche passione determinata che si contempla dall’anima in tutti i suoi aspetti, eccita in noi altrettanti motivi di attaccamento verso l’oggetto di essa quante sono le individuali circostanze, che vi si scorgono.

[9] Metastasio (chi lo crederebbe?), il gran Metastasio ha colle sue liriche bellezze contribuito a propagare il medesimo difetto. Le molte comparazioni che arricchiscono le sue arie, e che tante e sì leggiadre pitture contengono degli oggetti fisici della natura, hanno per necessità dovuto aprire un vastissimo campo all’uso, varietà e forza degli strumenti. Il suo spirito dotato, a così dire, di un tatto squisitissimo per presentire i diversi effetti della musica, ha saputo a maraviglia distinguere ciò che poteva esprimersi colla voce da ciò che dovea rappresentarsi principalmente dalla orchestra. Egli ha conosciuto che siccome non ogni inflessione, non ogni accento della umana favella era da imitarsi dagli strumenti, così non era proprio del cantore l’esprimere ogni o qualunque imagine. Gli oggetti dell’universo agiscono sopra di noi in mille maniere che la melodia vocale non può, per quanto si faccia, perfettamente imitare. E il movimento progressivo, e la quantità, e l’odore, e il calore, e il sonno, e la quiete, e le tenebre, e cent’altre qualità or positive or negative dei corpi non si esprimono in veruna guisa col canto, di cui solo è proprio l’afferrar la voce della passione, e i tuoni elementari dell’umano discorso. Dirà il poeta con molta leggiadria:

«L’aura, che tremala
        Tra fronda e fronda;
        L’onda, che mormora
        Tra sponda e sponda,
        È meno istabile
        Del vostro cor.»

[10] Ma come verranno rappresentate dal cantore il dolce sibilo, il susurro blando e lo scherzevole tremolio di quel venticello che soavemente romoreggia tra le frondi? Quai trilli, quai gorgheggi potranno rendere il placidissimo scorrere, il fuggire, il ripiegarsi, il vivace gorgogliar di quell’onda fra le rive? Certo è ch’egli farebbe schiamazzar dalle risa tutta l’udienza se accingersi volesse all’impegno di esprimer colla sua voce tai cose. Lo stesso dico s’egli prendesse a rappresentare i mugiti d’un mare agitato, gli urli dei mostri vaganti per le foreste, il romore del tuono, il cupo chiarore dei lampi, l’albeggiare della rosata aurora e l’armonioso canticchiare degli augelli. Siffatta incombenza appartiene piuttosto agli strumenti, i quali pella varietà e configurazione loro diversa onde capaci riescono di combinazioni più numerose di suono, possono più acconciamente imitare le diverse proprietà sonore dei corpi.

[11] Ad essi appartiene altresì il servire di supplemento alla voce umana nella espressione degli affetti. Il canto non basta più volte per far capire agli uditori tutta l’agitazione onde vien lacerata l’anima del personaggio. Havvi degli accessori nelle passioni, dei contrasti fra le idee, delle alternative fra i sentimenti, dei silenzi che nulla dicono perché si vorrebbe dir troppo, delle circostanze dove si bramerebbe d’avere cento lingue per palesare con esse la folla e il tumulto delle sensazioni interne onde siamo la vittima. In tali occasioni la strumentale è una spezie di nuova lingua inventata dall’arte affine di supplire all’insufficienza di quella che ci fu data dalla natura. Zenobia scaccierà via dalla sua presenza l’amato Tiridate perché la sua virtù la costrigne a levarsi dagli occhi un sì caro e sì pericoloso oggetto, ma nell’atto di profferire colla bocca il fatale decreto gli strumenti coi loro suoni non altro spiranti che tenerezza ci faranno intendere quanto costi al cuor di Zenobia quel rigore apparente. Dirà lo sdegnato Giasone a Issipile:

«Muori, se vuoi morir, ma muori altrove.»

ma l’orchestra dirà all’afflitta principessa in altro linguaggio che quella barbara sentenza

«Sulle labbra gli sta, ma non sul cuore».

[12] Mandane vorrà farla da eroina con Arbace, e rimproverandolo del suo tradimento gli dirà:

        «No, non ti credo, indegno.
Dimmi che un empio sei,
        E allor ti crederò.»

ma gli strumenti toglieranno, a così dire, il velo a quella finta alterezza, e faranno capire agli uditori che v’ha un’altra voce dentro di Mandane, la quale risponde

«Odiarlo, oh Dio! vorrei,
        Ma odiarlo, oh Dio! non so.»

così nelle interrogazioni che l’uomo appassionato fa sovente a se medesimo, nelle apostrofi oggetti inanimati dell’universo, e in cent’altre occasioni la musica strumentale si rende necessaria o per aumentar l’espressione, o per maggiormente sviluppare la sensibilità, o per supplire alla scarsezza della vocale o per imitar molte cose che cadono direttamente o in direttamente sotto il governo della musica, l’uso dunque delle similitudini assai frequente in Metastasio, e la varietà di situazioni che somministrano i suoi drammi, hanno contribuito al medesimo fine134.

[13] Da cotal lusso nell’applicazione della musica strumentale si deducono alcune conseguenze di pratica oltre le indicate di sopra, le quali non sia inutile osservar brevemente. La prima si è la difficoltà che apparisce nel combinar fra loro tante parti diverse subordinandole in maniera che ne risulti un unico suono principale senza che i suoni parziali confondano il dominante, o si facciano sentire separatamente da esso, o producano un effetto differente da quello che si pretende. Diffatti pochi sono que’ maestri che sappiano diriggere il movimento di tutta l’orchestra al gran fine della espressione, e cavare da esso solo l’utilità che si potrebbe per rimettere, eccitare, trasfondere e variar le passioni. Pochissimi poi che sappiano dare a ciascuna delle parti principali che compongono l’armonia, quel particolare andamento che le si converrebbe a preferenza d’ogni altro. Eppure dalla opportuna distribuzione di esso movimento ne risulterebbe il massimo effetto possibile. La cagione si è perché essendosi osservato che quando il tuono fondamentale vibra una volta, l’ottava di esso tuono ne vibra due volte, la duodecima tre e così via discorrendo, egli è chiaro che se il compositore saprà donare alle parti che suonano cotali intervalli, un muovimento che s’accordi col numero e colla natura delle vibrazioni loro, il risultato del suono sarà più vigoroso, perché composto dall’unione di tutti gli elementi che lo compongono, e l’effetto indi prodotto sarà più confaccente alle leggi dell’armonia, e per conseguenza più musicale.

[14] La seconda è quella ridondanza eccessiva di accordi, quel pleonasmo, a così dire, di sensazioni con cui si vorrebbe accompagnar le parole, onde invece di rinvigorir l’espressione, altro non sì fa che indebolire l’effetto, poiché, siccome s’accennò nell’antecedente capitolo, la simplicità che richiede la musica vocale ad ottener il suo intento, viene distrutta dall’apparato armonico che esige la strumentale, la quale, essendo imperfetta nella sua imitazione, debbe ricompensare cotal mancanza coll’artifizio dando all’orecchio tutto ciò che non può concedere al cuore. Come fanno appunto quelle donne, le quali, veggendo dalle ingiurie del tempo sfrondarsi a poco a poco sulle loro guancie le fresche rose e vivaci che rallumavano i desideri dell’amante, cercano pure nelle studiate maniere e nella licenza de’ voluttuosi atteggiamenti un riparo al successivo mancare delle loro attrattive.

[15] La terza è quella smania d’introdurre dappertutto l’uso degli stromenti separati dal canto, e principalmente nei ritornelli. Per cosa del mondo non si leverebbe dal capo ai maestri l’usanza di premettere a qualunque aria la sua piccola sinfonia o concertino. Facendo altrimenti crederebbonsi banditi dal consorzio degli uomini, e scaduti per sempre dalla protezione del nume, che presiede ai musicali piaceri. Ma, s’avessero eglino ricavati i principi dell’arte loro non da una sciocca e ridicola usanza, ma dagl’intimi fonti della filosofia, si sariano agevolmente avveduti che se bene convenga talvolta far precedere il ritornello, non perciò sempre e in ogni occasione diventa opportuno. Quel proemio musicale maneggiato a capriccio introduce fra l’aria e il recitativo un divario troppo marcato e conseguentemente troppo contrario alla illusione. Lo spettatore non può a meno di non riconoscere l’inganno, sentendo il cantante che rallenta all’improviso il corso della passione, che sospende e tronca il pendio naturale del periodo per dar luogo agli strumenti; dovechè il sano giudizio vorrebbe che il passaggio dal recitativo all’aria fosse naturalissimo e pressoché insensibile. La famosa legge di continuità cui il famoso Boscovich applicò sì felicemente alla fisica, è non meno riferibile alle produzioni dell’arte che a quelle della natura. Che si direbbe d’un cotale che, camminando lentamente per via, si mettesse ad un tratto a spiccar salti e cavriuole? Ognun crederebbe che il povero galantuomo uscito fosse di senno. Ora tali sembrano a me que’ maestri, che senza consultar prima il buon senso, senza la debita graduazione e preparamento fanno all’improviso passaggio da un recitativo andante e negletto ad una sinfonia in forma. Cotal usanza non può rendersi opportuna se non quando serva a mantenere o spiegare i muovimenti che lascia nell’anima la passione o sentimento compreso nel recitativo. Attalchè la sinfonia non sempre dovrebbe essere un preambolo dell’aria, ma deve e può essere talvolta una continuazione o conseguenza del senso anteriore. E quando pur si riferisca alle parole che vengono doppo, non dovrebbe premettersi fuorché nel caso che l’aria o per esser lirica, o per non trovarsi intimamente innestata col senso del recitativo, o per comprendere un movimento inaspettato, o perché esprime la via tenuta dall’intelletto, o dalla passione da una riflessione in un’altra differente, ha bisogno di esposizione preliminare. Ma perché premetterlo a tante arie piene d’affetto, le quali hanno stretta relazione col senso anteriore? Perché frapporlo quando il differire sarebbe inopportuno attesa la natura della passione? Perché non entrar subito in materia senza far pompa d’armonia inutile?

[16] La quarta osservazione, che può in qualche modo riferirsi all’antecedente, riguarda l’apertura onde si dà incominciamento al dramma. Non già ch’io non lodi l’usanza di suonar gli strumenti avanti che sortano i personaggi, la quale mi sembra necessaria non che opportuna a sedar il confuso mormorio degli uditori, a svegliar la loro attenzione, e a preparar gli animi al silenzio ed alla compostezza. Condanno bensì che i maestri non abbiano cavato da siffatto principio tutti i vantaggi che ne potevano e che riflettuto non abbiano qualmente la sinfonia preliminare, oltre l’eccitar la curiosità dell’udienza, ha per iscopo eziandio l’esporre come in breve argomento l’indole dell’affetto che regnerà nella prima scena. Dico nella prima scena, giacché non saprei convenire col conte Algarrotti, il quale è d’avviso che l’apertura esser debba una espressione o compendio di tutto il dramma. Bisogna aver filosofato assai poco sulla natura della musica per non avvedersene che cotal sinopsi od epitome musicale diviene in pratica pressoché impossibile ad eseguirsi, attesa l’indole vaga e indeterminata del linguaggio strumentale, che non può e non sa individuare alcun oggetto, e la difficoltà parimenti di accozzar insieme senza distruggerli altrettanti movimenti diversi e forse contrari quanti sono i sentimenti che risultano dal totale d’un dramma. E ciò nel breve spazio d’un quarto d’ora che a fatica s’impiega nell’apertura. Se difficilmente si fanno intendere i musici ne’ ritornelli, i quali sono l’esposizione d’un’aria sola, ci sarà da sperare che riescano più chiari ed intelligibili nella esposizione di trenta e forse più scene? E se fa di mestieri che l’uditore dopo aver sentita la sinfonia aspetti pur anco le parole per sapere che quella che giace colà svenuta sul sasso, è la fedele Aristea che il giovane che le sta al fianco tutto smarrito e piangente, è il generoso Megacle, che il personaggio che sopragiunge inopportuno è Licida, che le ridenti e deliziose campagne che appariscono in lontananza sono quelle di Elide, e che i flutti, che vede luccicare tremoli e cristallini, sono le acque del fiume Alfeo, come potrà egli lusingarsi giammai di capire distintamente in un’apertura i diversi generi d’affetto, che debbono spiccare ne’ tanti avvenimenti, che s’affollano, s’incalzano, e con tanta rapidità si succedono nell’Olimpiade? Di più, questo metodo condurrebbe ben tosto la musica teatrale ad una sgradevole monotonia, poiché, avendosi a rendere la passione che domina per tutto il dramma, l’uditore sarebbe costretto a sentire fin da principio quel gener medesimo d’armonia, che gli toccherà poi in sorte d’ascoltare sì lungo tempo, e che dee per conseguenza essere dal compositore sobriamente dispensato affine di non cadere nel vizio distruggitore d’ogni più squisito piacere qual è la sazietà. Ma o comprenda la sinfonia l’intiera azione, o si ristringa ad una sola scena, certo è che nell’uno e nell’altro caso dovrebbe variarsi secondo che varia l’argomento, essendo diverso il suono che mi dispone a vedere i trionfi d’Achille, da quello, che mi prepara a sentire le amorose smanie d’Issipile, quello che mi dee strappare le lagrime per l’abbandono di Costanza nell’isola disabitata da quello, che m’indicherà le frodi del figliuolo di Venere nell’asilo d’Amore. Ma non così addiviene in pratica, poiché a riserba di alcune lavorate da maestri bravi la maggior parte delle aperture, che si sentono tutte ad una foggia e d’un carattere, sono appunto come quelle lettere che dagl’imperiti segretari si riducono ad una sola formola ricavata da qualche libro, o come gli autori del Cinquecento, i quali tutti sospiravano alla platonica perché talmente avea sospirato due secoli prima il Petrarca.

[17] La quinta conseguenza è relativa al non osservarsi dai maestri colla dovuta accuratezza lo scambievole rapporto degli strumenti fra loro, e colla natura dell’oggetto cui devono rappresentare. Anfossi, nelle parole

«E fa co’ suoi ruggiti
Le selve risuonar»,

ha fatto ruggire il suo leone al suono di flauti obbligati. Un altro maestro napolitano espresse il fracasso d’una tempesta con una sinfonia di bicchieri. Niente in oggi di più comune che il mischiare degli strumenti, l’azione dei quali si distrugge a vicenda. I flauti, per esempio, il cui suono dolce e grazioso non dovrebbe servire che ad esprimere il soliloqio d’Amarilli, la dichiarazione d’amore di Mirtillo, l’addio di Cleonice, e in generale le affezioni amorose e soavi, s’accoppia nell’aria stessa col suono pieno e guerresco delle trombe con cui si dovrebbono rendere le battaglie e i trionfi. La dolcezza dei primi non può far a meno che non nuoca (come avviene sovente) alla fierezza delle seconde, e non vi si avrebbono ad accoppiare insieme se non quando le parole presentano una situazione dove il marziale ardore vien temperato da qualche circostanza affettuosa ed allegra. Tale sarebbe il ritorno di Ezio fra gli applausi e l’allegrezza d’un popolo che si vede per mezzo di lui liberato dal timore di Attila. Tale la sinfonia militare che precede la venuta d’Alessandro non men superbo per la conquista dell’India che pel supposto amore di Cleofile.

[18] Si pecca altresì frequentemente nel voler vestire di copiosi accompagnamenti le arie, che da se stesse abbondano d’espressione; laddove il buon gusto insegnerebbe che quando le parole sono talmente esprimenti che bastano esse sole a generare l’effetto, gli accompagnamenti divengono non solo inopportuni, ma nemici della verità musicale. Altro non si richiederebbe in tal caso che metterli all’unisono, e far giuocare utilmente il basso.

[19] Un altro svantaggio ancora mi sembra proprio dell’odierna musica strumentale, ed è l’aver ristretto di soverchio il numero delle modificazioni sonore escludendo dalle orchestre più sorta di strumenti, che sarebbero acconci a produrre a rinvigorir l’espressione. Rousseau ha sensatamente avvertito135 che da niuno strumento si possono cavare tanti vantaggi quanti dal violino, perché niun altro è così acconcio a render dei suoni analoghi a quelli degli altri strumenti. Suonato con forza imita il pieno delle trombe, suonato rimessamente e con qualche delicatezza esprime le sordine e i flauti, col suo pizzicato rende in qualche maniera, benché imperfettamente, il suono dell’arpa.

[20] Tutti gli strumenti che si percuotono coll’arco hanno più o meno la stessa proprietà derivante dalla diversa giacitura e tensione che ricevono le corde dai tasti fino al ponticello, e da questo fino alla cordiera. Ed ecco il perché gli strumenti da corda e da arco s’impiegano nella orchestra a preferenza degli altri, e servono come di fondamento all’armonia. Tuttavia siccome né cotesti strumenti, né quelli da fiato, che s’usano comunemente, bastano a soddisfare alla immensa varietà di suoni che può somministrare l’arte drammatica, così mi sembra che la nostra musica abbia con grave scapito rinunziato all’uso di non pochi strumenti, che a tempo e luogo adoperati farebbero un grandissimo effetto. Perché, per esempio, non ammettere un organo nella orchestra, che suonato in qualche occasione a solo, o fra gl’intervalli degli strumenti, o anche con un leggiero accompagnamento preparasse gli animi a sentir l’inno d’un ierarca ispirato, a vedere la tremenda apparizione d’un nume, o a qualche sentimento di religione sublime e profondo? Se così felicemente riesce nella musica sacra qual dubbio vi può essere che non riesca talvolta nella musica drammatica136? Perché non dar luogo più frequente alle violette, le quali non avendo il suono così acuto come i violini, né così grave come il basso, ma essendo intermedie tra quelli e questo, servirebbero ad unir fra loro con una certa continuità i suoni diversi, e sarebbero acconcie ad esprimere la tranquillità e la placidezza? Soprattutto non posso a meno di non isdegnarmi colle moderne orchestre qualora vi veggo sbandita l’arpa, quello strumento delizioso le cui lunghe corde dolcemente vibrate, il cui suono tenero, armonioso e flebile m’ha cento volte strappate dagli occhi le lagrime e gettato il mio spirito in una maniconia più soave di qualunque allegrezza. Io porto ferma opinione che un’aria patetica cantata sul teatro da una bella voce col solo accompagnamento d’un’arpa e d’un flauto farebbe sull’udienza una impressione vieppiù profonda che non è quella delle arie più rinomate che si sentono in oggi eseguite con tutto il brillante sfoggio dell’armonia. Così almeno sono costretto a pensare dietro alla propria esperienza, qualora l’inconcepibile magia dei suoni da me in altri tempi sentiti non debba ripetersi dall’amabile persona che percuoteva lo strumento, la quale rientrata troppo immaturamente ne’ regni della morte mi lasciò per ogni retaggio il dolore d’averla conosciuta così tardi, e la disperazione d’averla così tosto perduta.

[21] Se non che non sono questi i soli difetti che si commettono nelle moderne composizioni musicali. Ve ne ha di più sorta nella maniera d’eseguire i recitativi, intorno alla natura dei quali essendosi parlato in più luoghi di quest’opera, e dovendosi parlare in altri capitoli, non mi tratterrò per ora se non quanto basta per far vedere la poca cura che hanno i maestri di seguitar in essi la natura e il significato delle parole.

[22] Un massimo inconveniente del recitativo semplice italiano è quello d’essere troppo trascurato dai maestri, i quali contenti d’accompagnare di quando a quando la voce con un’arcata o circolazione del basso, lasciano poi il restante in balia del cantore. Da ciò ne deriva che or si rallenti or s’affretti sconciamente la pronunzia, che le parole perdano il loro effetto, e che non vi si scorga punto quella perenne e non mai interrotta continuità di declamazione, quel tuono musicale che dee modellarsi prima sulla spezie di canto suboscuro (come il chiama Cicerone) proprio del discorso familiare, e poi sull’arte della declamazione drammatica. Nasce questo vizio dal non volersi applicare i maestri al necessarissimo studio della declamazion teatrale, o, per dir meglio, nasce dal mancare in Italia quest’arte della declamazione, che non può germogliar né fiorire dove manca un teatro tragico ed un comico che valgano la pena d’essere frequentati. Lulli in Francia si faceva recitare i drammi di Quinaut avanti di metterli in musica da un’eccellente attrice, e dalla voce di lei ne raccoglieva i tratti più decisivi. Il Calsabigi mai non mandava a Gluck le proprie composizioni senz’averle prima declamate privatamente, e segnati colla penna nel manoscritto i tuoni che meritavano d’essere rilevati. Tali esempi sono degni d’imitazione, come lo è ancora l’esempio dei prelodato Gluck, il quale per ovviare agl’inconvenienti testé accennati del recitativo semplice, ha usato nel Paride, nell’Orfeo, e nell’Alceste d’un piccolo accompagnamento di violini, con cui si vestono, a così dire, tutte le parole. Questo metodo praticato da maestri ignoranti può avere i suoi svantaggi, come sarebbe a dire di render troppo uniforme e monotono il linguaggio musicale nel dramma, d’avvicinar troppo il recitativo semplice all’obbligato, e di togliere il chiaroscuro e le mezze tinte necessarie nell’armonia dal paro che nella pittura; difetti dei quali forse non è andato esente in ogni sua parte lo stesso Gluck. Ma siccome l’utilità d’un ritrovato non dee misurarsi dall’abuso che se ne può fare da chi non sa acconciamente metterlo in opera, così vuolsi rendere la dovuta giustizia a quel gran maestro per aver saputo guidare con un tal mezzo la voce del cantore senza imprigionarla, e aggiugnere a quella parte così disprezzata del melodramma un interesse neppur sospettato dagli altri compositori.

[23] Rispetto ai recitativi obbligati se prendono a disaminarsi imparzialmente le carte musicali si troverà che rare volte si conserva in essi il vero loro carattere, ch’è quello d’essere una cosa di mezzo tra il tuono della declamazione ordinaria e quello della melodia. Rare volte s’imita dai maestri il naturale andamento della voce, e la lentezza o velocità ch’esigerebbe l’indole del discorso. Ora scorrono dove si dovrebbono fermare, ora si fermano dove dovrebbero scorrere. Istrumentano di troppo in alcuni sentimenti comuni, e lasciano inoperosa l’orchestra in più luoghi dove la musica strumentale dovrebbe supplire ai silenzi energici del cantore. Molti e singolari esempi degli indicati difetti si trovano nelle composizioni dei moderni maestri, ma basterà per confermazione del mio assunto rilevare alcuni tratti dalle opere d’un compositore in oggi rinomatissimo cioè di Giambattista Borghi. Nel famoso recitativo d’Ermelinda nell’opera intitolata il Ricimero doppo le seguenti parole

«Mora: ma chi? Tolgan gli Dei, che imprima,
Al genitor fatali
Portentosi caratteri la figlia,»

il compositore ha posta una lunga mossa di violini e di viole accompagnati dall’oboè e dai corni, la quale separa con un frapposto intervallo di più battute l’accennate parole da queste altre:

«Mora dunque; ma chi? l’idolo mio».

[24] Ma cotesto intervallo non è egli fuori di luogo in quella occasione? Non è egli vero ch’Ermelinda costretta da Ricimero alla fatale alternativa di segnar sovra un foglio la condanna di morte o del padre o dell’amante, non deve essere indecisa quando pronunzia quelle parole «Tolgan gli dei ec.», le quali esprimono un sentimento risoluto, cioè quello di non condannare il padre? E che dopo tale risoluzione dee subito passare senza fermarsi alla conseguenza “Mora dunque”? Il giuoco degli strumenti prima del “mora” è non per tanto un contrasenso dell’armonia, per ischivarne il quale bisognerebbe posporre le note due parole dopo, cioè inanzi al “Ma chi?” perché facendosi ivi manifestamente il passaggio da un movimento in un altro, cioè dall’orrore che ispira ad Ermelinda l’idea di dover condannare un padre, a quello di dover sagrificare l’amante, l’orchestra dee rappresentare altresì l’irresolutezza nata dal contrasto di siffatte idee. Havvi un altro esempio dell’accennato difetto nello stesso recitativo allorché in quelle parole:

«Se vè clemenza in Cielo
perché non cade un fulmine, e risolve
La Reggia in fumo, e Ricimero in polve?»

il compositore frammette tra il “fulmine” e il “risolve” un silenzio nella voce per sedici semicrome, che non viene indicato in alcun modo dal senso delle parole.

[25] Facciamo ora passaggio all’economia ed esecuzione dell’aria. Questa spezie di componimento considerata dal poeta altro non è che un particolar sentimento compreso in una piccola canzonetta divisa in più strofi e fregiata di tutte le vaghezze della poesia. Considerata dal compositore essa è l’espressione d’una idea o pensier musicale, che si chiama comunemente motivo, nel quale, come su una gran tela, la musica si propone di pennelleggiare un qualche oggetto propostole dal poeta, prendendo dalla melodia il disegno, e il colorito dagli strumenti. Conseguentemente a siffatto carattere il motivo dee con tutta l’esattezza possibile corrispondere al senso delle parole acciocché il musico non mi dica una cosa allorché il poeta m’inculca un’altra; dee contenere un unico e solo pensiero, il quale venga poi di mano in mano sviluppandosi ne’ diversi toni che lo costituiscono, non altrimenti che soglia far l’oratore analizzando nel corpo della orazion sua la proposizione che n’è l’argomento; debbono i motivi subalterni riferirsi al primario, come le linee d’un circolo si riferiscono ad un centro comune, o come le idee semplici scomposte prima e divise si riuniscono poscia per formar una idea complessa; debbonsi in tal guisa subordinare fra loro i suoni, che l’unione dell’uno non nuoca punto anzi maggiormente rilevi l’effetto dell’altro, cercando di combinare per quanto sia possibile l’unità, che convince ed appaga lo spirito colla varietà che lo ricrea. Ha inoltre da cercare il compositore che il motivo d’un’aria abbia un carattere decisivo che lo distingua da ogni altro del medesimo genere; che le modulazioni, per esempio, ch’entrano nella composizione d’un soggetto patetico, non servano ai caprici ed alle irregolarità d’un argomento giocoso, l’espressione dell’allegrezza d’un coro di contadini a quella del tripudio delle baccanti, la gravità d’un ecclesiastico miserere ai cupi e dolorosi omei d’Alceste, o d’Admeto; che la misura che dà tanta mossa e vigore alla melodia, e gli accompagnamenti che ne aumentan l’effetto servano a far ispiccar il canto senz’alterarlo, e che né questi né quella si prendano la libertà di rappresentar cose staccate dal senso generale dell’aria, e che non abbiano immediata relazione colle parole, essendo certissimo che gli episodi fuori di luogo non sono meno ridicoli nella musica di quello che lo siano nella oratoria e nella poesia.

[26] Supposti gli accennati principi tanto più sicuri quanto che sono ricavati non da’ capricci dell’usanza né dalla particolare opinione di un qualche scrittore di musica, ma dai fonti inesauribili di quel vero comune a tutte le arti d’imitazione, qual’è la maniera osservata dagli odierni compositori nel lavorare le arie? Pensieri rancidi e vieti che si replicano mille volte e mille volte si sentono con fastidio delle orecchie, e con iscapito dell’interesse; motivi, a così dire, abbozzati senza finitura e senza carattere; idee buttate all’improvviso come vengono giù dalla penna, senza la lima che vien dallo studio, e senza la sensatezza che acquistano dalla riflessione; tratti raccolti qua e là nelle carte de’ viventi o de’ trapassati maestri combinati poi bizzarramente, onde ne risulta un ritratto che non ha fisonomia determinata; mosaici composti d’altrettante pietre di vario colore quanti sono i diversi stili, che sovente concorrono alla composizione dell’aria stessa; periodi musicali raccozzati insieme senza disegno a formar un soggetto che per lo più è in contraddizione con se medesimo e col tutto insieme del dramma; una fluidità insignificante di melodia che s’oppone alla robustezza e maestà dello stile, che restringe la musica a non trattare fuorché i rondò e le barcaruole, e che esprime la nobile tristezza d’Ezio o d’Achille col tuono proprio delle canzonette per ballo; i vezzi e le frascherie sostituite all’antica, e non mai pregiata abbastanza simplicità; il desiderio di grattar l’orecchio o di sorprender la fantasia con passaggi capricciosi, con arpeggi fuori di luogo, e con ambiziosi ornamenti; per dir tutto in poche parole il secolo del Marini e del Preti, che va succedendo nella musica dietro a quello dell’Ariosto e del Bembo, ecco il vero, il genuino, il per niun verso alterato quadro della presente musica teatrale in Italia.

[27] Questa verità dura ma incontrastabile, questo grido universale del buon senso e della filosofia, questo pubblico lamento della ragione replicato da quanti non hanno interesse in negarlo riceverà una maggiore conferma volendo discendere all’esame d’un’aria, qualunque ella sia, che serva d’esempio se non di tutte almeno della maggior parte di quelle che si cantano in oggi sui teatri.

[28] Aprasi per un poco una carta o spartito musicale, e vi s’osservi il metodo che comunemente si tiene nel lavorarle. Appena l’interlocutore ha finito il recitativo, gli strumenti cominciano una suonata o preludio chiamato ritornello. L’oggetto di questa piccola sinfonia è di ragguagliar gli uditori, agguisa di proemio, o preambolo, del sentimento generale che dee regnare nell’aria. Cessano gli stromenti, e la voce del cantore prende a cantar solo, e senza l’accompagnamento la prima parte dell’aria. Sia l’aria, per esempio, questa:

«Nel lasciarti, o Prence ingrato,
        Mi si spezza in seno il cor:
        Di morirti almeno al lato
        Perché a me tu nieghi ancor?
Giusto Ciel, che acerbi affanni!
        Perché, oh Dio! tanto rigor?
        Deh! m’uccida, astri tiranni,
        Il mio barbaro dolor.»

vediamo come il compositore la spezza dappertutto e la smembra. S’incomincia dopo il primo verso a ripeter due vole “mi si spezza in seno il cor, si spezza in seno il cor”. Indi viene il terzo “Di mo….rirti al-me-no al” e doppo un lungo intervallo “lato perché a me tu nieghi an-cor?” Indi collo stesso tritume di note si ripiglian di nuovo i due primi versi “Nel lasciarti, o Prence ingrato mi si spezza in seno il cor”, impiegando qualche minuto in gorgheggiar su quel povero core. Crederemo che sia finita? Non per certo. Fa pausa il cantore, e gli stromenti riempiono l’intervallo replicando col suono i medesimi sentimenti del canto. E come se l’uditore non gli avesse intesi abbastanza, o si parlasse il linguaggio degli ottentoti, di cui la musica ne fosse il dizionario, bisogna che l’attore gliel’inculchi di nuovo ripigliando coll’ordin medesimo le parole. Però si tornano a replicare per molte volte quel “cor”, quel “seno”, e quel “lato” scorrendo or sù or giù per le note con gorgheggi velocissimi, e con mille semicrome. Cessa il canto, ma per questo siamo fuori d’impaccio? Oibò. La musica strumentale ricomincia a fine di dare alle parole tutta la varietà d’espressione ond’è suscettibile il sentimento finché termina la prima parte. E la seconda? Oh questa poi ha la medesima disgrazia che i cadetti delle famiglie illustri, ai quali tocca languire in ristrettezza di fortune mentre che il fratello maggiore vive fra il lusso e l’opulenza. Il suo destino è di essere rapidamente sbrigata con quattro note senza l’analisi, divisione, o repetizione dei periodi che si fa nella prima, se non in quanto fra le pause della voce l’orchestra porge di quando in quando aiuto al cantante. Se il lettore mi domanda la ragione di cotal diversità, io confesso di non saperla. Checché ne sia di ciò siamo pervenuti alla fine del nostro viaggio? Chi così credesse viverebbe in inganno. Questo non è che il primo ostello dove si rinfrancano i cavalli per ripigliare valorosamente la corsa. Il ritornello, il cantore, e la prima parte dell’aria cominciano di nuovo, e si replica due volte lo stesso andirivieni collo stesso apparato di note e di gorgheggi.

[29] Mi dica ora di grazia un compositore di buon gusto non prevenuto dai pregiudizi dell’usanza, o da quelli dell’arte, che gliene paia della esposta economia di quest’aria? A qual fine quelle fastidiosissime ripetizioni? A che giova quel tanto stritolarne i periodi sempre aggirandosi dintorno alle stesse parole? A che il ripigliar più volte i due primi versetti sospendendo, anzi troncando senza ragion sufficiente il senso delle parole? Si fa, diranno i maestri imperiti, per dar luogo all’armonia. Diasi pure. Ma hassi a dare in tutte le occasioni senza distinzione? Ad onta del verosimile? Contro a ciò che richiede l’indole della passione? Hassi a spezzar un periodo, il quale sovente non finisce fuorché nella seconda parte dell’aria, per ripeter la prima fino alla noia? Hassi a ritardare l’impeto dell’affetto ch’esigerebbe un isfogo ulteriore per fermarsi a bell’agio su un “a”, su un “i” o su un “o”? Hassi a star gorgheggiando un quarto d’ora su una cadenza per far capire all’udienza che lo smascolinato Arione è capace di eseguir venti battute di gorga in luogo di dieci? Ciò è a un dipresso lo stesso che dire che la natura è fatta per ubbidire alla musica, non la musica per imitar la natura.

[30] Io son ben lontano dal volere che l’ordin metodico delle parole serva esattamente di regola al compositore, voglio anzi ch’ei raggiri il suo pensiero, e a così dir, l’analizzi per entro alle differenti modulazioni che le somministra il suo tono dominante senza la quale licenza non è facile, che l’espressione musicale ottenga il suo intento siccome quella, la quale non apportando in ciascun suono individuale se non se una sensazione troppo rapida e fugace, non può avere il suo effetto in un solo istante; perlochè volendo imprimer nella memoria traccie distinte e durevoli della sua possanza, ha bisogno d’esser condotta per più modulazioni differenti. né m’è ignoto altresì che il costume di replicar talvolta una parola o una frase può avere il suo fondamento nella ragione, e che ciò ha luogo principalmente allora quando l’uomo stimolato da una viva passione, e ripieno di quella idea che serve ad eccitargliela, altro non rivolge in mente fuorché l’oggetto de’ suoi trasporti o de’ suoi tormenti. La quale proprietà, volendo per poco inoltrarsi nell’abisso della sensibilità umana, sembra forse che debba ritrarsi da una persuasione intima che l’amor proprio fa nascere in noi, che se gli uomini, i numi, od il destino non rendono giustizia alla nostra causa, e non ascoltano con benignità e conmiserazione le nostre richieste, il motivo ne sia perché non hanno inteso abbastanza le nostre ragioni, e perché a lor non è noto quanto sarebbe di mestieri il nostro cordoglio. Così una tenera madre disperata per la morte del figliuolo, ch’era l’unico oggetto delle sue tenerezze, si sente fra i singhiozzi che le offuscan la voce fra le lagrime che le inondano il sembiante, fra gli amplessi onde si stringe al seno il freddo cadavere, ripiegarsi frequentemente sul suo dolore ritornando ad ogni momento alle medesime imagini, alla medesima espressione e alle doglianze stesse. Così nell’Avaro di Moliere allorché arriva a notizia d’Arpagone che gli è stata rubbata dal proprio figlio la cassettina dove nascosto avea egli i suoi preziosi danari, s’ode gridare da forsennato per la scena: «Helas! Mon pauvre argent, mon pauvre argent,… ah mon cher argent». Così nel secondo libro dell’Eneide, Anchise, che fuggendo da Troia incendiata in compagnia d’Enea, di Creusa, e d’Ascanio, vede lampeggiar in lontananza le armature dei nemici che l’inseguiscono, esclama mosso dalla paura:

«… nate, fuge, nate; propinquant».

[31] In queste e simili occasioni dove la natura dell’affetto lo richiede e la poesia lo comporta va bene il replicar coll’armonia alcuni tratti dell’aria, come ha fatto da gran maestro il celebre Gluck nel «che farò senza Euridice?» dell’Orfeo, dove il protagonista, essendo stato per un improvviso e crudele accidente privato della compagnia d’una sposa cui tanto amava, è assai verosimile che vada egli sfogando da sé solo il proprio cordoglio, e ripetendo ai boschi più volte il nome d’Euridice; ma il farlo senza discernimento in ogni circostanza è secondo il mio avviso non meno contrario al buon senso che all’ottimo gusto, poiché siffatte repliche non si debbono considerare se non come altrettante battologie della sintassi musicale.

[32] Ma ciò che non è conforme alla natura né alla ragione si è la ridicola usanza di quel da capo solito a mettersi nel fine delle arie. Senza l’abitudine che fa loro chiuder gli occhi su tante improprietà, gl’Italiani avrebber dovuto riflettere che niuna cosa fa tanto chiaramente vedere la poca filosofia colla quale vengono regolati di qua dai monti gli spettacoli quanta questa: che il carattere della passione non è mai quello di riandar se medesima metodicamente, né d’interrompere la sua impetuosità naturale per fermarsi a ripigliar con ordine la stessa serie di movimenti; che il distaccare dal tutto insieme d’un’azione uno squarcio per recitarlo di nuovo è dissonanza non minore di quella che sarebbe in un ambasciatore il ripeter due volte in presenza del sovrano l’esordio d’un’allocuzione; che il carattere della musica non può legitimare cotesto abuso, giacché si può variare benissimo e rinvigorir l’espressione senza ricantar di nuovo il motivo; e che uno spartito dove si vegga appiccato al margine un da capo è ugualmente difforme agli occhi della sana ragione che sarebbe agli occhi d’un naturalista un braccio con due mani, oppure un animale che avesse un paio di nasi sulla faccia. Mi si risponderà (e a che non rispondono i maestri?) che la colpa non è di loro, ma degli ascoltanti che chiedono con furore la replica. Ma gli ascoltanti non la chiederebbero con tanta smania, se il compositore avesse l’arte d’interessarli nel soggetto principale, e se l’andamento dell’azion musicale fosse così unito e concatenato che la curiosità dell’udienza venisse ognor più sollecitata a risaperne lo scioglimento, come si vede da ciò che giammai si domanda in una commedia di carattere, o in una tragedia la replica d’una scena per quanto sia ella sublime, forte, o patetica, e per quanto venga dagli attori maestrevolmente rappresentata. Gli antichi maestri avevano pure anch’essi un’udienza da contentare, ma cotale assurdità non si trova ne’ loro grammi, la quale era riserbata alla svogliatezza, al fastidio e alla corruzione del moderno gusto. Nelle carte musicali non apparisce vestigio del da capo se non verso la fine del secolo scorso. Il primo ad introdurlo sembra essere stato il cantore Baldassarre Ferri perugino, come si può argomentare dalla prefazione d’una raccolta di poesie a lui dedicata, ove nello stile ampolloso di quei secolo si dice, parlando di non so quale cantilena: «Che il popolo sopraffatto da vostri sovrumani concenti, guardandovi qual novello portentoso Orfeo della età nostra, vi sentì replicar più volte sulle nostre scene rimbombanti coi vostri applausi ed inaffiata coi torrenti dell’armonia vostra dolcissima.»

[33] Bisognerebbe render grazie al Piccini per essere stato (a quello che sento da alcuni) il primo a sbandirne i noiosi da capo sostituendovi le arie lavorate a rondò, del che ne diede egli per la prima volta un plausibile esempio nel «Dov’è? s’affretti per me la morte», se da cotai usanza non fossero venuti altri danni egualmente grandi alla musica drammatica quello cioè di repetere mille volte le stesse parole invece di replicar l’intiero motivo, e quello altresì di ridurre la musica ad una sgradevole uniformità, altro per lo più non sentendosi in oggi che arie intrecciate e ridotte a rondò. Così si passa da un vizio all’altro, e la pretesa perfezione che, secondo i moderni, acquista di mano in mano la musica, consiste nel distruggere un difetto per impiantarvi un maggiore. Il peggio si è che un tal costume è passato ancora dal teatro in chiesa degradando con siffatta puerilità l’augusto e maestoso contegno della religione. Una volta il padre eterno si contentava di dire al suo unigenito figliuolo «sede a dexteris meis», in tuono grave e posato i ora glielo canta a rondò, e gli ardenti cherubini si cuoprono rispettosamente il viso colle ali mentre il creatore dell’universo va ripetendo cento volte alla francese «sede, sede, sede, sede, a dextris, a dextris, sede a dextris, sede a dextris».

[34] Alcuni giudicano che potrebbe ovviarsi al difetto del soverchio ripeter le stesse parole lavorando le arie in maniera che contenessero quattro o cinque strofi invece di due; così, dicono essi, l’uditore, che si diletta di sentir cantare, resterebbe appagato senza scapito del buon senso, e il cantore che altro non cerca se non di far brillare la sua voce, otterrebbe il suo intento senza recar oltraggio alla poesia. Ma oltrachè non si reciderebbe in questa guisa la radice del male, la quale non consiste nella scarsezza delle parole, ma nella smania che ha il cantore di condurre la sua voce per tutti i tuoni possibili, mi sembra che si caderebbe in difetti non minori di quello cui si cerca di schivare. Il motivo si è perché essendo troppo difficile il comprendere in tante strofi un unico pensier musicale, ne verrebbe in conseguenza che non vi si potrebbe nemmeno accomodar un solo motivo; ciascun periodo formando classe a parte nel sentimento ne richiederebbe una particolar cantilena, onde non sussisterebbe più la legge fondamentale stabilita di sopra, cioè l’unità di soggetto e di melodia. Questa usanza inoltre non potrebbe aver luogo fuorché nelle arie giocose, le quali, rappresentando caratteri poco profondi, e che rimangono, a così dire, nella superficie dell’anima, non abbisognano se non se di musica brillante e leggiera che scorra senza fermarsi a lungo sugl’individuali sentimenti; dovechè nelle arie tragiche e di forza, le quali aprono larga sorgente di espressione alla melodia, convien che il poeta divenga economo di parole, acciocché la musica, percorrendo i moltiplici tuoni che il suo argomento le somministra, faccia meglio valere la sua possanza.

[35] Che diremo del poco riguardo che si ha da maestri dozzinali per le convenienze della poesia? Alle volte la scena costerà di venticinque versi perché altrettanti vi vogliono per bene esprimere il sentimento, e di questi venticinque il compositore ne mutila dieci. Se il senso rimane imperfetto poco gli cale; basta che non si generi fastidio al cantante, e che si facciano sui quindici versi le stesse sfoggiature che si farebbero sui venticinque. Alle volte cangian l’ordine delle strofi mettendo in primo luogo quella ch’era seconda, e nel secondo la prima, ovvero levano via del tutto l’altra parte dell’aria senza punto badare alla proposizione che resta smozzata all’esempio di quei quadri che rappresentano le figure soltanto a mezzo busto. Alle volte un comando decisivo del principe, un affare di congiura, o qualche altra urgenza di sommo rilievo, richiamerà altrove l’attore, ma egli non partirà a motivo che il compositore lo trattiene mezz’ora in sulla scena dicendo “parto parto” e non partendo giammai. Alle volte due campioni incolleriti saranno sul punto di battersi, ma la musica gli tratterà un quarto d’ora colla mano sull’elsa minacciandosi colla più bella melodia del mondo. La sconcezza in questo genere è arrivata a segno che in un’opera veduta da me dovendo salir sopra un naviglio il primo uomo e cantar prima una cavatina, la nave, che veniva spinta dalle onde, ha dovuto fermarsi, come s’avesse udito e cognizione, attendendo che finissero que’ noiosi arzigogoli. Peggio poi quando fanno dei solecismi in armonia esprimendo colla musica un senso intieramente contrario a quello che dicono le parole. Diranno queste “Raggio del cielo è la bellezza”, e il compositore vi metterà “La bellezza del cielo è un raggio”. Galuppi, rinomatissimo fra i maestri, ha nel dramma intitolato I tre amanti ridicoli posto sotto i due versi seguenti

«Oh che rabbia, o che furore!
Io mi sento lacerar.»

un tempo di minuetto ballabile. Poffare Iddio! Il furore e la rabbia in un tempo di minuetto da ballo! Altro non gli restava che riserbar il tuono del Miserere per una contradanza.

[36] Alle volte si scontrerà il compositore in nomi propri o appellativi in avverbi, o in parole che non hanno espression musicale per se medesime, come sono per esempio “arena”, “regno”, “padre”, “senza”, “fronde” ed altre simili, e su queste lavorerà un lungo passaggio facendo dir al musico “areeee”, “reeee”, “paaaaa”, “seeee”, “froooo”, ec. laddove la filosofia della musica insegnerebbe che i passaggi non si debbono comporre fuorché su parole significanti alcun movimento progressivo, o ch’esprimono un determinato genere di passione. Difatti cosa è un passaggio? Non altro che una breve dimora della voce su una qualche vocale, dove il canto aggrumola insieme un numero di picciole note succedentisi con grazia e leggierezza. Ora cotal ornamento non può rendersi verosimile fuorché nel caso che il replicar le note serva ad imitar la natura dell’oggetto rappresentato, come si farebbe nelle parole “scorrere”, “tremolare”, “volare”, che suppongono un’azione successiva, ovvero in queste altre “affanno”, “smania”, “cordoglio” e simili, nelle quali esprimendosi la natura con un accento più vivo e più calcato, anche la melodia ritrova maggior novero d’inflessioni decisive da poter connettere insieme nella sua imitazione.

[37] Che si dovrà pensare eziandio dello strapazzar che fanno miseramente l’espressione fermandosi soltanto nelle parole individuali che si trovano per accidente nella composizione, e tralasciando, anzi sfigurando con questo mezzo il sentimento generale dell’aria? Esprimerà questa, per esempio, un affetto concitato e veemente, ma scontrandosi talvolta nelle parole “calma”, o “riposo”, il maestro si ferma a collocar posatamente una tenue benché sia di movimento contrario e ripugnante a tutto il resto. Nella stessa guisa si veggono essi sommamente affaccendati nel rappresentare con suoni alti la parola “cielo”, con bassi la “terra” o l’“inferno”, con suoni cupi la parola “buio”, le precipitano “sul fulmine”, l’incalzano sul “tuono”, e fanno quindici o venti slanci di voce qualora il leone che errando vada per la natia contrada, o l’orsa nel sen piagata, o la serpe ch’è al suol calcata, o la tigre delle foreste ircane, ovvero qualche spaventevole mostro di simil razza si scaglia in un’arietta contro allo smarrito personaggio. Se gli ornamenti ch’essi appiccano a quelle parole rallentano ad un tratto l’energia della musica, o ne cancellano l’effetto generale del motivo, se l’orditura dell’aria esigerebbe che si scorresse di lungo sui movimenti particolari e subalterni per meglio esprimere la passion dominante, se quei ridicoli deviamenti dall’oggetto principale invece di fissar, come si dovrebbe, l’attenzione dell’uditore ad un punto solo, altro non fanno che miseramente distrarnela; ciò nulla importa al compositore. Per essi il fior del bello è riposto nel far capire che sanno l’armonia; alla qual notizia arrivandosi più presto con siffatto metodo che con quello di esaminare l’intiera orditura musicale d’un dramma, o di sviluppar lentamente la relazione e convenienza de’ suoni individui col tutto insieme d’un’aria, non è maraviglia che prendano in ciascun vocabolo occasione di fermarsi a dar mostra dell’abilità loro con cose affatto disparate, o almeno estranee al soggetto. Quindi è che il volgo de’ compositori allora si delizia sopra ogni modo quando trova nei versi del poeta replicate le parole “caro anima mia” dove possano fare una qualche smanceria, oppure quelle piccole immagini del fiume che mormora, dello zeffiro che tremola, del gorgeggiante augellino, dell’eco che ripete, del fragore del tuono, del turbo nereggiante con siffatte anticaglie, che sono (quasi direi) venute a nausea per la loro frequenza. Anfossi, che pur non è fra cotesto volgo, non ha avuto difficoltà d’impiegare nove battute e mezza (le quali a sedici note per battuta rendono il numero di cento cinquantadue note effettive) sulla seconda vocale della parola “amato” nell’aria “Contro il destin che freme” dell’Antigono. E ciò per due volte consecutive. Gran Dio! Cento e cinquantadue, anzi trecento e quattro inflessioni per una sola vocale! E questa si chiama musica drammatica!

[38] Un altro sommo difetto degli odierni maestri quello è di poco o nulla studiare l’accento patetico della lingua, che serve di fondamento alla musica imitativa, cioè i tuoni individuali di ciascuna passione. Avvegnaché tutte l’affezioni dell’uomo non siano che altrettante modificazioni della fisica sensibilità, e che a siffatto riguardo esse non parlino che un solo linguaggio cioè quello del piacere o del dolore; tuttavia nella maniera d’esprimer l’uno e l’altro ciascuna si crea un particolare idioma composto d’inflessioni e d’accenti diversi da quello d’ogni altra. Si tratta, per esempio, d’una disgrazia accaduta all’improvviso ad una persona amabile, come sarebbe a dire di consolare un tenero padre per la morte del suo unico figliuolo? Molti ne avranno rincrescimento, ma nell’atto di condolersi con esso lui ciascuno prenderà un tuono di voce ed un gesto proporzionato al proprio carattere e al grado d’interesse che si piglia nell’infausto avvenimento. L’uomo prudente ma freddo gli metterà posatamente avanti agli occhi le avversità cui va soggetta l’umana vita, e la necessità di rassegnarvisi. L’uomo austero ma sensibile mischierà alle significazioni del suo dispiacere pel male accaduto i rimproveri sulla imprudenza di chi non seppe sfuggirlo. La malignità farà vedere un non so qual tuono d’ironia che indicherà la segreta compiacenza che ha del danno altrui. La politezza si contenterà d’espressioni generali che dinotino un qualche rammarico. L’amicizia farà sentire il linguaggio della tenerezza, s’asterrà d’ogni motto che possa inacerbire la sua doglia, accompagnerà talvolta con una lagrima fuggitiva le lagrime dello sventurato amico. L’amore… ah! per l’amore non v’ha che il velo di Timante, o l’impietrimento d’Othello.

[39] Dalla fedele rappresentazione di questi diversi idiomi che non può eseguirsi se non da chi si è molto avanti inoltrato nella cognizione degli uomini, nasce ciò che s’appella in musica “espressione”, la quale non è altro che l’imitazione abbellita d’un sentimento determinato. Ora siccome questo sentimento non viene somministrato alla musica se non dalla poesia, così la vera espressione musicale nella drammatica non è né può essere che l’esatta imitazione della imagine, passione o sentimento compreso nelle parole. Queste due cose hanno una così stretta relazione fra loro che la musica fatta sulle parole d’un’aria non potrebbe senza guastarsi essere trasferita alle parole d’un’aria diversa; come il ritratto che rappresenta con esattezza una fisonomia, non può servire a rappresentare una fisonomia differente da quella.

[40] Rivolgendo le composizioni del Pergolesi, del Leo, e del Vinci, e disaminando il Se cerca, se dice del primo, il Misero pargoletto del secondo, il monologo di Didone moribonda del terzo, io trovo ch’eglino hanno talmente meditato sovra i principi pur ora esposti, hanno saputo afferrare in maniera lo spirito delle parole che chiunque volesse o cambiar le arie loro o accomodar il motivo, gli accompagnamenti e l’espressione totale ad un’altra poesia non farebbe che distrugger affatto la loro verità musicale. E questo è appunto il segno più decisivo della loro eccellenza.

[41] Ma i moderni compositori hanno nemmen rivolto il pensiero a siffatta massima ch’è il cardine dell’unione fra la musica e la poesia? Hanno neppur sognato a modulare le arie secondo il vero e preciso accento delle individuali passioni? Intendono essi nemmeno in che consista l’espressione poetica? Basta gettar uno sguardo sulle carte loro per chiarirsene ad evidenza di tutto il contrario. Tanto sono lontani dal comprendere il linguaggio individuale di ciascun affetto che non conoscon neppure i gradi specifici che gli distinguono. Lo stesso motivo che serve di fondamento ad un’aria d’amore viene da loro impiegato per significare la benivolenza, la divozione, la pietà e l’amicizia, passioni fra loro cotanto differenti. Il sospetto crudele, l’agitazione, la gelosia, il rimorso sono rappresentati ad una foggia medesima. Lo sdegno non si distingue dalla disperazione, né questa dal terrore, e così via discorrendo. Quindi è che qualora si cavino le parole dallo spartito, la composizione da sé sola non offre per lo più veruna rassomiglianza, verun linguaggio intelligibile per chi che sia. E quindi viene altresì la facilità che trovano i moderni compositori di cambiar le loro composizioni adattandole a cento sentimenti diversi.

[42] Ma che parlo io di sentimenti diversi? Poche sono le arie musicali moderne, alle quali (restando la composizione qual era) non possono adattarsi parole di sentimento perfettamente contrario. Si scuotono i fautori della moderna musica a così ardita asserzione? Agrottano forse le ciglia i compositori? Ebbene: vengasi alla esperienza ch’è il divino scudo di Pallade inanzi a cui impietriscono il fanatismo, la prevenzione e la pedanteria.

[43] Astaritta, compositore stimabile ed accreditato, ha lavorata un’aria137 su quelle parole dell’Adriano in Siria

«Già presso al termine
        De’ suoi martiri,
        Fugge quest’anima
        Sciolta in sospiri
        Sul volto amabile
        Del caro ben.»

nelle quali avendo voluto il poeta esprimere il giubbilo d’un appassionato sposo sul punto di rivedere dopo lungo tempo e dopo una travagliata fortuna la sua amatissima sposa, egli è chiaro che il compositore avrebbe dovuto seguitar l’espressione delle parole rappresentando in maniera siffatto giubbilo che, volendo ancora cambiar la composizione questa non potesse applicarsi giammai fuorché all’espressione dell’allegrezza. Piacemi per ora di fare una supposizione contraria e di figurarmi Farnaspe che inebbriato da quel nettare inconcepibile cui l’amore fa gustare alla presenza, e in compagnia dell’oggetto che s’ama, fosse pur costretto a distaccarsi improvisamente dal fianco d’Emirena per abbandonarsi alla incertezza del proprio destino, lasciando la sua sposa in balia d’un rivale odiato e potente che si prenderebbe il barbaro piacere di tormentarla. Voglio supporre altresì che le parole con cui Farnaspe esporrebbe la crucciosa sua situazione fossero per esempio le seguenti:

«Vicina al termine
        De’ suoi contenti
        Piange quest’anima
        Fra pene e stenti
        L’inesorabile
        Suo fier destin.»

ora io dico che la musica dell’Astaritta applicata a quest’ultima strofe, la quale, come ognun vede, comprende un sentimento diametralmente opposto al sentimento delle prime parole, farebbe appuntino il medesimo effetto. La cagione si è perché i tratti musicali apposti all’aria di Metastasio sono così indeterminati, così generici, così malamente connessi colla declamazion naturale di quelle parole, che facilmente ponno rivoltarsi a qualunque altro significato. Per rendere più chiara e più palpabile la demostrazione, io voglio aggiugnere alla poetica parodia testé arreccata una strofetta in lingua francese, che nulla ha di comune né coi senso dell’aria di Metastasio, né con quello della mia. Eccola:

«Mes tourments sont finis,
        je vais revoir Ismene:
        Sans doute un dieu puissant
        En ces lieux l’amène:
        Mon cœur libre de soucis
        Vole sur ses pas.»

poste tutte tre sotto le stesse note la musica va egualmente bene, come il lettore può chiarirsene da sé dando una occhiata alla carta musicale che si trova infine di questo volume, dove osserverà la sinfonia preliminare che non ha verun carattere decisivo, il motivo che rende la malinconia dal paro che il giubbilo, il

«Vicina al termine
        De suoi contenti»

espresso nella stessa guisa che il “già presso al termine de’ suoi martiri”, il “piange” come il “fugge”, il sentimento francese “un dieu puissant en ces lieux l’amene” non altrimenti che il “quest’anima sciolta in sospiri”, l’epiteto “inesorabile” colla melodia medesima che l’“amabile”, e il “caro bene” convertito in un “fiero destino”. E ciò conservando fedelmente il suo bel tempo in largo, il movimento, e gli accompagnamenti.

[44] Non si ritrova pertanto nell’odierna musica teatrale quello scopo, quel fine ultimato, quell’unità di espressione e di soggetto cui dovrebbe riferirsi nella musica ogni cosa, come tutto si riferisce all’unità di azione nella tragedia. Sembra che i compositori vogliano metter dal paro le composizioni con quelle pitture cinesi prive d’imitazioni e di disegno e stimabili solo per la vivacità del colorito, e che dimenticandosi affatto della meta principale, corrano dietro a infrascare la musica e a lusingar inettamente l’orecchio. Hanno essi delle cose eccellenti in dettaglio, i loro diversi stili abbondano di tratti vivi, animati e piccanti, superiori a quanto in quel genere ci offrono gli oltramontani, ma sono tratti staccati cui manca la primaria bellezza che consiste nella esatta relazione colle parole e col tutto. E questo perché? Per mancanza di studio e di riflessione, per mantenere i pregiudizi che hanno ormai acquistato forza di legge, perché vogliono ridurre a due o tre dozzine di esempi tutte l’arie d’indole e di carattere affatto diverso, facendo come il celebre frate Gerundio 138, il quale trovava nella storia di Taltoc, idolo ridicolo degli antichi Messicani, tutta l’applicazione per la predica dei Corpus Domini, pe’ i suoi parenti ed amici, e per la processione de’ flagellanti che si faceva in Campazas, sua patria. Insomma perché imparano la musica da pedanti e non da filosofi.

[45] E non è maraviglia che così avvenga, se si pone mente al cattivo metodo con cui s’insegna in Italia ai maestri cotal genere di studi. Fra tutti i rami della educazion letteraria non avvi il più trascurato di questo. Si crede aver addottrinato abbastanza un giovine quando egli ha imparata sul cembalo l’arte di concertare le parti, di ritrovare gli accordi, di preparare, di risolvere, di combinare in varie guise le note.

[46] Ma da siffatte cose fino a quelle che dee sapere un compositore corre una distanza infinita. Questi ammaestramenti non contengono se non la sintassi, a così dire, o la grammatica della musica, e servono piuttosto a non commettere degli errori che a produrne delle vere bellezze. Si può chiamare la scuola del diesis e del bemolle, delle massime e delle lunghe, delle crome e delle biscrome anzi che quella della vera eloquenza musicale. Non s’insegna loro la rettorica dell’arte, quella cioè che sollevando l’ingegno sopra la meccanica disposizion delle note analizza, comprende ed abbraccia tutto l’argomento d’un’azion musicale, dando le regole opportune per lavorare l’apertura, dirigendo la fantasia nella invenzione del motivo principale, il quale dee corrispondere al tuono che domina nella poesia, additando i mezzi per ben disporne i motivi subalterni che si scelgono secondo l’indole di ciascuna scena in particolare, indicando i diversi stili che sono nella musica corrispondenti a quelli della prosa e del verso, mostrando quali figure o tropi servano a lumeggiar l’idioma dell’armonia, quando si debbono tralasciare e in quali occasioni debbano adoperarsi. Non s’insegna loro la fisica propria del mestiere che consisterebbe nello studio dell’acustica, ossia nello esame di quei rapporti che la risonanza dei corpi sonori ha colla macchina umana, e in particolare col nostro orecchio, quantunque sia fuor d’ogni dubbio che tali notizie gioverebber moltissimo alla perfezione e maggior finezza dell’arte. Non s’insegnan loro quei rami di filosofia applicabili all’uffizio del compositore, cioè la scienza dell’uomo sensibile, la cognizione delle umane passioni e dei loro sintomi, l’indole e varietà dei loro movimenti secondo i rispettivi caratteri e le situazioni diverse, quali accenti, quali inflessioni, quai toni di voce convengono a ciascun affetto, onde esprimer poscia col mezzo de’ suoni ora quei tratti caratteristici che manifestano al primo colpo d’occhio la natura in tumulto, ora quelle sfumature più delicate e leggiere che richieggono a bene osservarsi uno sguardo più esperimentato. Non s’istillano loro i principi di quella erudizione che tanto è necessaria per chi s’accinge a comporre, come sarebbe a dire intender bene la propria lingua, ravvisar la più acconcia collocazione degli accenti, la prosodia più esatta e la connessione dell’una e dell’altra colla declamazion teatrale, internarsi nell’arte poetica e nel meccanismo della versificazione a fine di conoscer la diversità degli stili, e la maniera di eseguirli nella musica, non trovarsi digiuno nella storia e nei costumi de’ popoli per non dare all’asiatico Enea la stessa melodia che al mauritano Jarba, e non far cantare sul medesimo tuono un effemminato Sibarita e un generoso compagno di Leonida allevato sulle rive dell’Eurota. Di queste ed altre cose appartenenti più da vicino alla scienza loro sono così all’oscuro la maggior parte dei moderni maestri che niuno si trova meno in istato di soddisfare alla difficoltà che ponno muoversi contro da chiunque non sia della professione. Io medesimo benché alieno dal mestiero e poco iniziato in siffatte materie mi sono maravigliato spessissimo della profonda e totale ignoranza in cui vive la maggior parte di essi di quei principi dell’arte propria, per comprenderne i quali basta una mente avvezza a ragionare che abbia avuto qualche consorzio colla filosofia. Algarotti, Planelli, Borsa, Rameau, Burette, le Saveur, Dodart, Alambert, Eximeno, Burney, Grimm, Blainville e tali altri uomini di merito, che hanno con tanta lode avanzata la teoria, la pratica, o la metafisica della musica nel nostro secolo, sono nomi egualmente sconosciuti a loro che al gran Lama del Tibet, o ai Telapoini del Siam. Pochi vi sanno dire il perché d’una legge musicale o rendervi la ragion filosofica di una usanza; pochissimi hanno i lumi sufficienti a conoscere i pregiudizi e gli abusi del loro mestiere, o conoscendoli, la buona fede di confessarli. Pare che l’anima loro non esista fuorché nei tasti del cembalo, che la loro esistenza tutta si raduni sulle punte dei diti, e che gli spartiti siano la carta geografica dove si comprende tutto il loro universo scientifico. Se si dovesse cercare un emblema che rappresentasse al vivo il maggior numero degli odierni maestri di cappella, io crederei di averlo ritrovato in quell’artificiale automate fabbricato dal celebre Vaucanson, che suonava il flauto meccanicamente, oppure in quella macchina inventata pochi anni fa da un Boemo, e veduta nell’imperial corte di Vienna, la quale a forza di segreti ordigni giuocava perfettamente agli scacchi senza senso alcuno né cognizion delle mosse.

[47] Ora se non si può far dei progressi nelle scienze e nelle arti senza la speditezza dei metodi, i quali per la maggior parte degli uomini sono ciò ch’è la bussola per le caravane che traversano i deserti immensi di Saara e di Biledulgerid; se quelli che s’adoperano comunemente nelle scuole di musica non meno che nelle altre scuole che formano la nostra educazion letteraria, servono tanto a sviluppar il genio musicale quanto lo studio delle Pandette gioverebbe a crear in una nazione dei legislatori simili a Minosse, a Confuzio, a Pen, o a Licurgo; se tutte le idee o modificazioni intellettuali dell’umano spirito hanno così stretta relazione fra loro che non può farsi gran via in una scienza o facoltà senz’essere più che mediocremente versato nella cognizione delle altre facoltà o scienze che le tengono mano; se il talento s’avvilisce qualora divien mercenario, e se le arti liberali somiglianti a quelle piante generose che marciscono ne’ luoghi paludosi o ristretti, né s’avverdiscono o frondeggiano fuorchè all’aria aperta e sotto libero cielo, non ponno fiorire colà dove i coltivatori loro le prendono per un mestiero che debbe unicamente servire di stromento al loro guadagno; egli fa d’uopo confessare, che la musica soggetta a tutti gli accennati inconvenienti non può, e non ha potuto conservar lungo tempo la sua perfezione in Italia.

[48] Sarebbe nondimeno una ingiustizia l’incolpar soltanto i maestri. Se questi hanno contribuito a viziar il gusto del pubblico, anche il pubblico ha loro non poche volte fatto uscir di sentiero. L’amore del piacere, che ricompensa gl’Italiani della perdita della loro antica libertà e che va dal paro in una nazione coll’annientamento di pressoché tutte le virtù politiche, ha fatto nascere la frequenza degli spettacoli. Da questa è poi venuta la sazietà del bello, e il desiderio di variare, che hanno generato in seguita la mediocrità, la stravaganza, e il capriccio. In ogni piccola città, in ogni villaggio si trova inalzata un teatro. Il solo Stato Pontificio ne conta più di quaranta. Mancherà la sussistenza agli indigenti, i ponti ai fiumi, gli scoli alle campagne, gli spedali agli infermi, e i provvedimenti alle calamità pubbliche, ma è fuor di dubbio che non mancherà la sua spezie di Coliseo per gli scioperati. La dimanda che oggidì fa il popolo italiano a chi timoneggia nel governo, è la stessa che ne faceva sedici secoli addietro a’ tempi di Giovenale, vitto e spettacoli Panem et Circenses. Ogni anno s’eseguiscono di quà dai monti più d’un mezzo centinaio di rappresentazioni musicali diverse. Quella ch’è piaciuta all’estremo nel carnovale scorso s’ascolta con isvogliatezza e fastidio nel carnovale presente. I capi d’opera del Jumella e del Sassone giacciono polverosi e negletti, perché il popolo avido di novità gli pospone, dopo averli più volte sentiti, alle bambocciate e alle caricature de’ compositori moderni. Ognuno degli spettatori si trova attaccato dalla stessa malattia di Nerone, il quale annoiato delle bellezze di Ottavia e delle attrattive di Popea giunse fino a mutilar un garzone per isposarlo, e concepì la strana fantasia di vestirsi delle spoglie di un vitello per intraprender ciò che non oserei raccontare senz’allarmar la dilicatezza dei lettori.

[49] Questo morbo letterario proviene da due principi irremediabili ascosì nell’umano spirito, cioè dalla inquietudine e dalla vanità. Per un effetto della prima avviene che l’uomo, non sapendo stabilire dei limiti alle proprie facoltà e restando sempre con ciò che desidera al di sopra di quello che ottiene, ama sul principio nell’armonia gli accordi più naturali e più semplici, tali cioè che nascano espontaneamente dall’argomento, e possano con facilità ritrovarsi dal compositore. Ben presto, non trovando in quella naturalezza la novità e la sorpresa che cagionavano il suo piacere, cerca degli altri tuoni più piccanti, che risveglino, a così dire, la sua infastidita sensibilità. Ma cotai tuoni divenuti anch’essi per la stessa cagione insipidi e freddi dopo qualche tempo, necessario è che cadano nella stessa dimenticanza che i primi per dar luogo ad altre modulazioni più vive, l’effetto delle quali è di guastare e corromper l’orecchio avvezzandolo al caricato invece del semplice.

[50] La vanità, di cui è proprio il rinunziar ad una folla di piaceri per meglio assaporare il maggiore di tutti ch’è quello di farci credere superiori agli altri, è il motivo altresì per cui molti si compiacciono d’uno stile ricercato e difficile. La maniera naturale e facile appunto perché è tale, sembra riserbata alla debole comprensione del volgo. Il sentirla non costa niente, non è effetto del sapere né dell’ingegno, ma da una non so quale disposizione che sebbene dal cielo sia stata data a pochissimi, per tutto il mondo crede di possederla. L’ambizione per tanto non trova i suoi conti in codeste bellezze semplici. Ella preferisce lo straordinario e il bizzarro, ciò che suppone un qualche sforzo di mente per ben comprendersi, perché ciò fa onore alla penetrazione e alla dottrina dell’uomo vano, mostrandolo coll’una e l’altra superiore di molto alla intelligenza comune. E tal è la bassezza dell’amor proprio, che quantunque la natura gli si appresemi con tutti i suoi vezzi, cerca nonostante di chiuder gli occhi alle vaghezze di lei, temendo che il mostrarsi sensibile ad esse noi faccia cadere dalla riputazione di uom dotto, ch’ei tanto pregia, fino alla debolezza d’averne dei piaceri comuni col volgo.

[51] Da ciò è derivato un’altro inconveniente. Quanto maggiore è il trasporto di un popolo per gli spettacoli tanto più grande è la libertà che concede ai coltivatori di essi. Simili agli amanti presso a’ quali le donne amate sono sicure di ottener il perdono di qualunque loro arditezza, gli uditori sono indulgentissimi con chi è lo stromento de’ loro piaceri. Cotal licenza può giovare di molto all’avanzamento delle arti allorché queste essendo nella loro fanciullezza, e confidate alle mani di saggi regolatori hanno bisogno di pigliar incremento, di spiar tutte le uscite e veicoli che guidano al bello non per anco ben conosciuto, e di rintracciar nel vasto campo della sensibilità e della immaginazione il maggior numero possibile di quelle sorgenti onde scaturisce il diletto. In tal caso i metodi che le circoscrivono, riducendole prima di tempo in sistema, sono paragonabili a quelle fisonomie formate troppo presto nei fanciulli, le quali annunziano per lo più la debolezza dell’individuo e la scarsezza del principio vitale. Ma quando le arti hanno presa la lor consistenza, quando le idee della bellezza nei rispettivi generi è bastevolmente fissata, quando la moltiplicità de’ confronti ha messo al crogiuolo del tempo e del giudizio pubblico le opinioni, gli errori, le verità, e le produzioni degli artefici, allora una licenza illimitata produce l’effetto contrario. Ognuno che coltiva una professione vuol distinguersi dai compagni. Desideroso di esser grande piuttosto colla lode propria che coll’altrui, cerca d’avanzarsi nella sua carriera per sentieri non battuti dai concorrenti. Quindi l’amore della singolarità, il disprezzo per gli antichi metodi, il discostarsi dai maestri e il creder che hanno fatto meglio di loro quando hanno fatto diversamente. Tale è il destino di tutte le arti, e tale è presentemente quello della musica.

[52] Ciò non vuol dire che in così sfavorevol sentenza siano compresi tutti quanti i compositori d’Italia. Chi scrive sa benissimo che ogni regola patisce la sua eccezione e che in ciascuno dei rami della facoltà musicale può questa nazione vantare più d’un professore di sommo merito. Infatti bisognerebbe aver aprodato or ora da qualche isola boreale scoperta dal celebre viaggiatore Cook per ignorar i talenti e la scienza del sempre bello e qualche volta sublime Traetta; d’un Ciccio di Majo scrittore pieno di melodia e di naturalezza, il quale in pochi anni che visse ebbe la stessa sorte del Pergolesi, cui non restò inferiore nell’invenzione e nella novità; d’un Anfossi ritrovatore facile e fecondo massimamente nel buffo, e che forse ottiene fra i compositori lo stesso luogo che Goldoni fra i poeticomici; d’un Paisello tornato poco tempo fa in Italia dopo essere stato ai servigi della imperatrice delle Russie, dotato d’estro singolare e d’una maravigliosa ricchezza nelle idee musicali, e che risplende per ornatissimo stile e per nuovo genere di vaghezza; d’un Piccini maestoso insieme e venusto, di gran fuoco, di vivo ingegno, di stile brillante e florido; d’un Sacchini celebre per la sua maniera di scrivere dolce, affettuosa, e sommamente cantabile; d’un Sarti degno di essere annoverato fra i più gran compositori del suo tempo pel colorito forte e robusto, per la ragione che spicca nelle sue composizioni, e per la verità della espressione; d’un Bertoni scrittor naturale, pieno di gusto, e di scelta felice negli accompagnamenti; d’un Caffaro, d’un Millico, e per tacere molti altri, d’un Cristoforo Gluck, il quale benché tedesco di nazione ha forse più d’ogni altro contribuito a ricondurre nel buon sentiero la musica teatrale italiana spogliandola delle palpabili inverosimiglianze che la sfiguravano, studiando con accuratezza somma il rapporto delle parole colla modulazione, e dando alle sue composizioni un carattere tragico e profondo dove l’espressione che anima i sentimenti va del paro colla filosofia che regola la disposizione dei tuoni139.

[53] Parimenti tra i moltissimi maestri di musica strumentale, o morti da poco tempo o viventi ancora, l’Europa tutta si riunisce per rendere la dovuta giustizia ai due famosi eredi dello spirito di Tartini cioè Pagin e Nardini, il primo dei quali si creò un suo particolare stile mirabile per la bella e forte cavata dello stromento, mentre il secondo felicissimo nell’imitare il suo maestro divenne eccellente nella esecuzione non meno che nella patetica e dolce gravità de’ suoi adagi. Singolare per la forza, vigore, e chiarezza del suono, per l’opportuna scelta degli ornamenti, per la nobiltà del suo stile e per diversi altri pregi è l’egregio Pugnani, direttore della Reale Orchestra di Torino. Degni discepoli d’un tanto maestro tuttora si mostrano il Borghi, che rammorbidisce a meraviglia con una certa dolcezza e soavità la robustezza dello stile propria della sua scuola, e l’incomparabile Viotti, la cui maniera di suonare veloce, viva, di gran nettezza, e di ottimo gusto ha meritamente riscossi gli applausi dei più rinomati teatri. Né meno celebri sono presso agli amatori della scienza armonica divenuti il Ferrari suonatore originale per lo suo stile ameno, vago e grazioso, il Buccarini compositore bravissimo di elevati spiriti, di frase limpida e chiara, e di profonda dottrina musicale, il Jarnovich di sangue italiano quantunque nato e allevato in Parigi, il quale altrettanto si è distinto nel genere brillante e piacevole quanto il famoso Lolli nell’agevolezza dell’arco, nella maestria dei passaggi e nell’arte di eseguire le più difficili squisitezze dell’armonia. Né la scuola del Somis ha tralignato dall’antico valore, ma durevoli saggi ci porge ancora in due pregevolissimi torinesi il Chiabrano cioè, violonista eccellente, e il Giardini, imitatore felice dello stile del suo maestro, al quale si dice che aggiunga del suo una bellissima cavata di suono limpido, netto e preciso. E chi non sa per quanta fama vadano chiari i nomi del Brioschi, del Lancetta, napoletano, e della Sirmian Scolara celebre di Nardini, la quale non inferiore nel merito ai professori di primo grido seppe trasferire all’arte del suono la dilicatezza e le grazie proprie del suo sesso. Sarebbe più facile

«Ad una ad una annoverar le stelle»

che il fare patitamente menzione di tanti altri compositori o esecutori più giovani, che sotto la scorta degli accennati maestri coltivano quest’arte deliziosa in Italia. Ma l’andare più oltre né piace né giova, non essendo il mio scopo tessere una nomenclatura od un catalogo, ma presentare soltanto agli occhi de’ lettori una rapida prospettiva. Quello che in generale può dirsi è che nelle loro mani la musica acquista a certi riguardi una maggiore bellezza mentre la va perdendo a certi altri. Se la leggerezza, la varietà, la leggiadria, il brio, l’abbondanza, l’analisi più minuta dei tuoni, un maggiore raffinamento in tutte le sue parti, ed alcuni antichi pregiudizi tolti di mezzo per sostituirvi degli altri bastano a caratterizzar il buon gusto d’un’arte imitatrice, la nostra età dovrebbe a ragione chiamarsi il secolo d’Augusto per la facoltà musicale. Ma se, come abbiamo provato in altri luoghi e proveremo di nuovo dove si parlerà del canto, il vero filosofico gusto e la perfezione d’ogni arte imitativa consiste nella rappresentazione più o meno abbellita della natura, e nell’esprimere l’oggetto che prende a dipingere senza sfigurarlo né caricarlo più di quello che comporta l’indole della imitazione, se questo fine non s’ottien nella musica se non per mezzo della semplicità, della verità e della naturalezza accoppiata all’espressione, e se ogni e qualunque ornamento, ogni e qualunque bellezza che le si aggiunga senza riguardo a cotale scopo, non è altro che una imperfezione, un difetto di più, in tal caso bisogna pur confessare, e confessarlo con coraggio, che la maggior parte delle pretese finezze armoniche, onde vanno tanto superbi i moderni maestri, invece di provare il miglioramento del gusto altro non provano che la sua visibile decadenza. Come il lusso, che manifesta una ricchezza apparente nello stato politico, annunzia da lontano agli osservatori sagaci il languore e la povertà della maggior parte degli individui.