(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [A] — Ferrara, li 4 marzo 1618.Ferrara, li 3 marzo 1618. » pp. 170-184
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [A] — Ferrara, li 4 marzo 1618.Ferrara, li 3 marzo 1618. » pp. 170-184

Antonazzoni Marina Dorotea. Moglie del precedente, nota più specialmente col nome di Lavinia, nacque in Venezia il 5 febbraio 1593. Secondo l’oroscopo che togliamo dalla stessa collezione della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, sposò a diciott’anni in seconde nozze l’Antonazzoni, da cui ebbe un figliuolo. Poche parole ci ha lasciate nelle sue notizie Francesco Bartoli di questa comica ; ma di essa abbiamo un largo studio in due articoli di Achille Neri (Gazzetta letteraria dell’ 11 e 18 maggio 1889) dei quali ci varremo non solo restringendo, ma qua e là trascrivendo. L’Antonazzoni « di cui — egli scrive — non conosciamo il nome di famiglia, innanzi di salire agli onori di prima donna, come si dice, e farsi chiamare Lavinia, nome portato allora dalla Ponti (V.) sembra abbia sostenuto le parti di servetta sotto la denominazione di Ricciolina, a vicenda con la Silvia Roncagli (V.) detta Franceschina, nella Compagnia dei Gelosi, condotta in quel tempo da Flaminio Scala. Probabilmente, morta o ritiratasi dalle scene la Ponti, entrò essa in suo luogo nella nuova Compagnia de’ Confidenti, pur diretta dallo Scala, e le notizie sicure di lei muovono appunto dal 1615, quando quell’ accolta di commedianti, ridottasi sotto il patronato di Don Giovanni De’ Medici, ebbe per oltre un ventennio vita prospera e celebrata. » Recitata in Bologna La pazzia di Lavinia, noto scenario dello Scala (La pazzia d’Isabella, scritto per l’Andreini), il conte Ridolfo Campeggi dettò il seguente sonetto :

Fot. di Cesare Spighi.

Dai Balli di Sfessania di Iac. Callot.

Donna, che oggi il Teatro adorni e fregi,
con quanto hanno di bel le scene accolto,
non già l’oro del crin, l’ostro del volto,
o i fior del seno in te son pompe e fregi
.
Tu, tu con la bell’alma odi e dispregi
il vezzo lusinghier del tempo stolto,
e fai, che gusti sol lo spirto sciolto
dolce il licor de’ tuoi sudori egregi.
Ma la voce gentil che or trista, or lieta,
allettando l’udito, il core impiaga,
della facondia è inaccessibil meta :
e fra i portenti è meraviglia vaga
il tuo furor, ch’ ogni pensiero accheta ;
la tua follia, ch’ ogni desire appaga.

Ripetutasi la commedia a Firenze l’anno successivo, lo Scala ne annunziava con una lettera il grande successo a Don Giovanni. Ahimè !… Come scriveva il Piazza nel suo Teatro che è più facile trovare il moto perpetuo, che la concordia nelle comiche compagnie, così i successi entusiastici ottenuti dall’Antonazzoni misero l’inferno nella Compagnia, per opera specialmente di Battista e Valeria Austoni (V.), invidiosi degli applausi di lei ; tanto che D. Giovanni, il quale da quel povero Impresario che era, doveva sorbirsi le uggiose rimostranze di tutti, alla fine seccato, risolse mandarli con Dio : onde i pianti, le ire, le suppliche, le intercessioni, i pentimenti, le scuse di ogni parte. Scrissero lettere il Bruni (V.), uno dei più acerbi nemici dell’Antonazzoni (perchè pare fosse l’amante dell’Austoni) in nome anche del Romagnesi e di Mezzettino, e dell’Antonazzoni stesso. La risoluzione del Duca parve davvero cruda e irrevocabile, se dee giudicarsi dagli strisciamenti e dalle lacrime in ispecial modo della Antonazzoni. Ma all’arte dell’Antonazzoni s’aggiungeva, e forse come ragion dominante, la gelosia. Si voleva scacciar la Valeria, ma l’amante Bruni vi si ribellava ; si voleva scacciare una certa Nespola, comica di cui non abbiam notizia, ma che sappiamo essere stata la moglie di uno della Compagnia, Marcello di Secchi…, ma vi si ribellava l’Antonazzoni, il quale se l’intendeva molto bene con lei. Di qui le ire della Lavinia ; ire di donna per l’una, di artista per l’altra : insomma, un vero inferno. Io metto qui in fondo le due lettere dei coniugi Antonazzoni, le quali, con quelle degli Andreini e dei Cecchini (V.), dànno un’idea abbastanza chiara della vita dell’arte d’allora. Don Giovanni cercò di metter pace agli esacerbati spiriti, e finì, per meglio riuscirvi, col mandare un suo prologo allo Scala, perchè fosse recitato dalla Lavinia.

Dai Balli di Sfessania di Iac. Callot.

« Nell’anno successivo (1619) si fecero — dice il Neridei segreti maneggi da parte del Duca di Mantova per togliere Lavinia, il marito, Mezzettino (Ottavio Onorati), Scappino (Francesco Gabbrielli), dalla Compagnia dei Confidenti, forse con l’intendimento di radunare un buon manipolo di commedianti da mandare in Francia, in seguito alla richiesta fattane da quella Corte ; ma la cosa non ebbe effetto. »

Marina Antonazzoni morì nel 1639. Pietro Michiele inviava in tale circostanza al padre Angelico Aprosio il seguente sonetto :

IN MORTE DI LAVINIA COMICA

Chi la pompa m’ invola, onde le scene
mutano il riso in tragico lamento ?
Il lume de’ Theatri e l’ornamento
chi sott’ombra funesta oppresso tiene ?
Di Sirena di ciel, d’Hadria l’ arene
vantàr superbe il glorïoso accento
mentre rese Lavinia in tutto spento
di Roma il pregio e lo splendor d’Athene.
Già col vanto di saggia e in un di bella
d’ogni alma ottenne e d’ogni core il vanto,
Pallade insieme e Citerea novella.
Ed ha estinta al suo sepolcro a canto
l’alma a i sospiri, e per pietade appella
il cor per gli occhi a consumarsi in pianto.

A istanza dello stesso Michiele scrisse l’Aprosio una elegia non sino a noi pervenuta, e sollecitò poesie da amici per raccoglierle forse in un volume, pietoso omaggio verso la celebre morta. Uno di essi, il dottore Niccolò Schiattini di Genova, rispose bizzarramente : « morì Lavinia e duolmene ; tormento già di questo cuore grandissimo, e della borsa. Non poetar più per lei voglio. Siasi pur ella in Paradiso, e goda l’eternità, e per me prieghi. » Intorno alla bellezza, vantata nel sonetto di Michiele, ecco quel che ne dice Gio. Francesco Maja Materdonna in altro sonetto scritto per la rappresentazione d’una tragedia :

Pon giù quel ferro ; invan vittoria attendi
da rozzo e vile acciar ; se vincer vuoi,
con un guardo gentil vincer tu puoi
l’oste infedele, a cui dar morte intendi,
anzi fingi, qualor su i palchi prendi
il ferro per ferir : ma qualor poi
rivolgi agli altrui lumi i lumi tuoi,
sempre fai vere piaghe, e sempre offendi.
Anzi se dèssi mai morte verace
per vera ira, e furor col ferro ancora,
quella vendetta a te sarìa fallace.
Perchè vanto al nemico e gloria fòra
morir per bella man che alletta e piace,
ed a par di begli occhi anco innamora.

Ed ecco, senza più, le lettere di Lavinia e di Ortensio a D. Giovanni.

Ill.mo et Ecc.mo Signore,

Poichè la benignità di V. E. permette che ogniuno possa spiegarle così le pretensioni come i disgusti particolari, non mancherò anch’ io, sì come gli altri àn fatto, scriverli ciò che l’animo mio sente, sì per discolparmi di quanto mi viene aposto, come per godere di quel privilegio che agli altri miei compagni V. E. con tanta humanità concede. Hauendo io dunque conosciuto a più d’un segno manifestamente che il sig.r Fulvio per qual si fosse sua ragion di stato, m’era contrario, ch’io non so, nè posso imaginarmene la cagione, se non è per interesse di mia moglie, e mia sorella ; e vedendo essere impossibile di poter per qualsivoglia strada rimovere questa sua mala volontà, mi disposi ricorrere dal sig. Flavio, hauendomelo V. E. in Venetia comandato, e sapendo quanto da lei sia amato, pregando lui che da mio cognato volesse separarmi, stimando nel rimovere questa cagione, rimovere i cattivi effetti di detto sig.r Flavio. Così ritrovando pronto esso sig.r Flavio a compiacere le mie honeste dimande, ha fatto in mio servitio ciò che V. E. sa molto meglio di me, là dove maggiormente iritato il sig.r Fulvio tutto quest’anno mai ha fatto altro che dire non voler che io sia dove lui, e che non vol recitare dove mia moglie faccia da prima donna. Io, Sigre, intendendo con mio estremo disgusto questo, e sapendo che per essere io il minimo di compagnia, et egli il principale, a me haverebbe toccato l’uscio, perciò pensavo a’ casi miei havendo moglie in casa, debiti in quantità, e sorella in Monistero, anzi sopra le spalle, e tanto più ero necessitato a pensarci, quanto che mi riducevo a mente il periglio che passai di rimaner in asso quattr’anni sono, quando finimmo il carnevale a Lucca, che V. E. era a Firenze. Pensavo dunque andarmene a Napoli dove ero chiamato, e perciò prevenivo il tempo dell’aspettata, e non bramata licenza, scrivendo al Sig.r Flavio parte de’miei disgusti, il quale per sua bontà mi amonì ad hauer pacienza per quest’anno, promettendomi l’ajuto suo. Giunti a Bologna con la Compagnia, e ritrovati li SS.ri Comici di Mantova, s’ebbero seco diversi ragionamenti, tra quali si concluse parlar con il Sig.r Flavio, acciò che spiegatone l’intento di V. E. si potesse far cosa di suo gusto, e parlato finalmente con il Sig.r Flavio, dalle prime sue parole s’intese che V. E. metteva ogn’uno in libertà : ma chi che fosse, che hauesse alla sua protezione ricorso, sarebbe benignamente della sua gratia fauorito ; là dove rincorati e rinvigoriti, si propose quella Compagnia che da detto Sig.r Flavio le sarà stato detto, con fermo animo di gettarsi a’ piedi suoi humilmente, per suplicarla della sua gratia.

Quando il Sig.r Fulvio senti questo disse e fece ciò che da altri haurà inteso, nè giovò humiltà di alcuna sorte, e protesti dal Sig.r Flavio fatti, spendendo il nome di V. E., e con tanto mio pregiudizio, promettendoli Valeria mia sorella in Compagnia, con suo gusto particolare. Signore, che pensieri si devono fare nell’intendere di simil cose ? Con tutto ciò mi sono achetato, sperando in Dio e in V. E. diffensori del giusto e protettori de’ più infelici. Il Sig.r Flavio dunque, veduta questa perfidia, scrisse e fece che noi scrivessimo a Leandro ch’era a Napoli, dandoli parola di compagnia : là dove il povero giovane, credendo alle nostre parole, ma più alle promesse del Sig.r Flavio, lasciò ogni interesse, ricusò ogni profferta, et a noi diede parola gloriandosi d’hauer acquistato il titolo di servo humilissimo di V. E. assicurandoci di precipitarsi, non che correre dove il cenno di lei lo chiami. Cosi sono state e sono le cose, Ecc.mo Sig.re, e quando trovi altrimente mi privi della sua gratia che sopra ogni cosa stimo, ed aprezzo. Della Nespola poi non dico altro, perchè dal Sig.r Flavio haurà inteso, che ogni cosa si faceva con patto che ella non ci fosse, stimandola mente di V. E. per riconoscere Scapino tanto suo partiale e devoto servo, che tanto tempo si è stato, con tanto danno di mia moglie, senza ch’ella recitasse fuori che nel far della luna. Ma ridducendo tutte le mie prettensioni, e tutti i miei disgusti a un punto, dico, che con tutta quella dovuta humiltà e riverenza ch’a me s’aspetta, et a V. E. si conviene, vengo a suplicarla che mia moglie riceva dall’ E. V. gratia d’essere posta nelle prime parti, o almeno alternatamente, ma non con mia sorella ; direi anco senza il Sig.r Fulvio, ma volendo ella che ci sia, mi acheterò, racordandole solo che il povero Leandro non ci ha colpa, nè dovrebbe rimanere schernito, e tanto più che il detto Sig.r Fulvio ha detto mille volte, che quando sarà astretto da V. E. a stare in Compagnia, darà disgusti segnalati, e farà alla peggio. Sì che veda ciò che da un animo preparato al male si può sperare. Mia moglie poi mi fa mille protesti di non voler essere dove la Nespola, s’io l’ammazzassi, si che V. E. faccia che il Sig.r Flavio le scriva a nome suo e che venghi da lei a contentarsene, perchè non vorrei vivere in un continuo inferno. Mi escusi della prolissità nello scriverle, e del disgusto ch’avrà riceuto della maniera del mio scrivere, detato dalla purità d’un riverente affetto, e dalla necessità de’ miei interessi, con che, humilmente inchinandomele, la riverisco colle ginocchia e col core, baciandole la cappa.

Di V. E. Ill.ma
humiliss.mo e devot.mo servo
Franc.co Antonazzoni detto Ortensio.
Ill.mo et Ecc.mo Signore.

Avendo inteso che V. E. vole che questa Compagnia stia insieme, e che se vi è qualcheduno che prettendi qualche cosa o abi disgusto di che che si voglia lo si faccia sapere a V. E. ond’io avendo da questo preso ardire, e confidatomi nella benignità sua dico che mai ho auto bon stomaco con la Nespola per l’interesse passato tra lei e mio marito, e sempre ho cercato di passarmela alla meglio che per me sia stato possibbille, sperando pure che il tempo trovase rimedio per liberarmi. Hora son forsata a suplicare V. E. a concedermi questa prima gracia che io sua humile e divota serva li adimando, et è che la Nespola non sia dove io sono, nè io dove la detta Nespola, perchè per nissuna maniera non ci voglio essere, e questo nasce da giustissima causa, poichè quest’anno è nato tal disordine per lei, che è stato quasi la mia rovina, e della perdita dell’anima e del corpo, e se non fosse stata la riverenza che ò portato, porto e porterò a V. E. mentre che viva, mi sarei partita subitto per non star dove lei ; ma per non disgustar chi n’ è padrone e sig.re ho auto pacienza sino a quest’ hora, con speranza di essere consolata dalla gracia sua. E tanto più che questa è cossa che non a porta disonore, anzi onore e riputacione, e infino si sa chi ella è, e di qual vallore ; ma perchè vedo che mio marito fa (come si suol dire) orecchie di mercante in detta materia, torno a dire che quest’anno che viene io non uscirò fora a recitare se questa donna è in compagnia, e più tosto mangerò radice di erbe e mi contentarò di adimandar la elemosina tanto che viva, quando fosse morto per me il soccorso a altra maniera. Bisognerebbe che io dicessi ancora molte cosse del Sig.r Fulvio, ma per non infastidilla dico questa solla, che per la sua partialità, ostinacione, non ha voluto ingegnarsi, o lasciar che altri s’ingegnino per potter guadagnare. Ma mi dispiace che non ò colpa e pure ò tutto di meno, avendo ogni cossa impegnatta ; nè manco dinari da far quadragesima e da far viaggio per Loretto, dal qual loco non uscirò sintanto che non sappi se mi vol far degna della gracia adimandatali. V. E. consideri che abbiamo bisogno di gente che s’affaticha per far guadagnare, ma non di gente che goda della nostra rovina ; ad ogni modo come serrà quadragesima e che non si vedranno dinari, averano gracia di noi e bisognerà che facino a nostro modo ; ma s’inganano di gran lunga poichè non abiamo più che impegnare, e dinari noi non abbiamo, non n’aspetto da nessuna parte e pure sono risolutissima di non essere con loro. Ma perchè mio marito dice che farrà quello che V. E. li comanderà, da questo m’acorgo che à gusto e che desidera di essere con lei, cioè con Nespola : ma che il Sig.r Flavio non tenga concerto di questo con mio marito, perchè ne succederà qualche gran rovina ; però torno a suplicare V. E. che voglia proveder lei a quettar questi tumulti, e io con ogni humiltà me le inchino facendolle humilissima riverenza.

Di V. E. Ill.ma
humiliss.ma e devot.ma serva
Marina Antonazzoni detta Lavinia.

Dalle quali lettere, congiunte a tutte le altre di comici, e non son poche, si vede chiaro come essi non abbiano pensato a importunare l’Altezza Impresaria, o chi per essa, se non che per battere cassa, o narrar pettegolezzi di retroscena, o invocar la protezione a figliuoli, od altro di simil genere : e mai una lettera che accenni all’arte loro, mai la notizia di un successo o di un fiasco, mai un giudizio, sia pure per gelosia, sul modo di recitare del tale attore o della tale attrice ; nulla in somma di ciò che avrebbe potuto gettare e con tanto interesse un po’di luce in questo buio della nostra scena d’una volta. Come parte integrante dell’articolo che concerne l’Antonazzoni, metto qui sotto gli occhi del lettore alcuni brani di una pastorale di lei tuttavia inedita, che verremo al proposito della recitazione esaminando, e la riproduzione fedele della lettera dedicatoria a Giambattista Ferrari.

Si tratta di un codice della braidense di Milano, portante il n.° I della raccolta Morbio.

Eccone la descrizione :

Ms. cartaceo in 4° piccolo di 70 carte, non numerate, delle quali 17 bianche ; quattro in principio, e dieci alla fine del volume : tre sono fra il primo e il secondo atto. Il codice è tutto della stessa mano ; e credo non ci sia da sollevar dubbi sull’autenticità dell’autografo. Il volume è in rilegatura originale, tutta pergamena, con taglio a fregi dorati sul dorso e sui piatti, i quali portan ripetuto un occhietto con entro le iniziali in due righe a tre a tre : M. D. A. G. B. F.

La favola, come valore intrinseco letterario e drammatico, è una vera e propria paccìa. Un ammasso di monologhi melodrammatici, iperbolici, un’accozzaglia di frasi reboanti e di stupidaggini della più bassa specie. È uno dei soliti lavori a protagonista, immaginato e creato per dar campo all’attrice di sfogare in iscena tutto il suo valore artistico.

Della favola sono interlocutori :

Astrea
Cupido che fanno il prologo.
Il Fato
Eolo
Sacerdote maggiore del Tempio di Venere.
Timante, ministro maggiore.
Ministri minori.
Dorindo, forastiero, amante di Alvida.
Teseo.
Arianna.
Alvida, sua ancella, amante di Dorindo.
Cavalieri di Teseo.
Aurillo
Glaucho pescatori.
Alceo
Aurilla, pescatrice, innamorata di Dorindo.
Bacco.
Coro di pescatori.

Per dare un’idea dello stile e del sistema, dirò così, drammatico, tutto a bisticci, a contrasti, a pensieruzzi stemperati puerilmente in varie forme, di questa pastorale, sistema comune, a dir vero, se non in queste proporzioni, alla maggior parte di quegli scrittori teatrali buoni e cattivi, metto un brano del monologo di Arianna, dopo l’abbandono di Teseo ; correggendo l’ortografia, per non affaticar troppo il lettore.

O mio dolce Teseo, o non più mio
se tu da me ten fuggi, e vuoi ch’io pera.
Ah, che troppo credei, troppo t’amai.
Discortese Teseo, Teseo crudele,
mostro di feritade,
esempio di fierezza,
fierezza senza esempio,
nemico di pietade,
traditor inumano,
uccisor dispietato,
fabbricator d’inganni,
fallace mentitore,
protervo, lusinghiero,
anima senza core,
anzi cor senza senso,
cor di duro macigno,
anzi d’un aspro scoglio,
cor più freddo che ghiaccio,
crudel vie più che tigre,
più che l’orsa rabbioso,
sordo vie più che l’aspe,
cieco vie più che talpa,
più del lupo rapace,
basilisco mortale,
vipera velenosa,
angue pien d’ira e tosco,
più fugace del cervo,
più veloce del vento,
più che l’onda volubile, incostante,
ingrato, crudo, e simulato amante.

E questo monologhino tira avanti di questo passo per 19 pagine ; e chiude l’atto terzo coi versi seguenti che sono l’espressione più chiara di questa strana pazzia :

L’ardir mi porge aita,
l’arroganza mi scorta,
l’astuzia fa gli agguati,
l’audacia move i passi ;

Dai Costumi di varie Nazioni di Pietro Bertelli.

ecco il biasmo che scopre
le bruttezze dell’alma ;
la confusione è meco,
il contrasto m’irrita,
il cordoglio m’affligge,
la vendetta mi sprona ;
nobil desìo m’accende,
la discordia mi chiama,
il disprezzo mi spinge,
il dolor m’avvalora,
il proprio error mi sforza,
la rotta fe’ m’irrita,
la fierezza m’abbraccia,
la fortuna m’aggira,
la forza mi sospinge,
le furie mi dàn l’armi,
il mio furor m’accieca,
la gelosia m’aggela,
la guerra m’accompagna,

Dai Costumi di varie Nasioni di Pietro Bertelli.

l’onor m’addita il premio,
l’incostanza m’innaspra,
l’empietà m’è presente,
l’inganno ha vario aspetto,
l’innocenza ho nel core,
l’insidia nella mente,
l’ira sta in mezzo al petto,
la lealtà sen fugge,
il martor non mi lascia,
la memoria non manca,
le minacce son pronte,
la miseria m’abbraccia,
necessità mi stringe,
l’odio sta sempre meco,
l’ostinazione è fissa,
la pena mi tormenta,
il pensier mi tradisce,
il pentimento è certo,
la perfidia è d’altrui,
la pertinacia è mia
il pianto è mia bevanda,
la preghiera non giova,
la purità non basta,
le querele son sparse,
la rabbia m’avvelena,
il vigor mi percote,
il rumor già m’assorda,
lo sdegno in me s’accresce,
il soccorso s’invola,
la speranza vien meno,
il timor mi travaglia,
il tradimento ha l’armi,
il valor lo respinge,
la vendetta l’uccide,
la vittoria m’innalza e mi corona !…
Queste son le mie palme,
ed è questa l’insegna !
Or sonate le trombe,
percotete i tamburi,
date il segno a Teseo….
A la guerra, a la guerra !… A l’armi, a l’armi !!

Pazza cosa non c’è che dire ; la qual, nondimeno, per quel che concerne la recitazione, fa pur sempre pensare al valore artistico di quei comici. Che le commedie d’allora fossero, in genere (scritte o improvvise), una poverissima cosa, portato naturale del tempo, bruttino anzichè no, sappiamo : che quelle commedie si reggessero e piacessero per la eccellenza dei comici, molti contemporanei, e di non sospetta autorità, lo affermano. Ma qual ne doveva essere il metodo di recitazione ? Recitavano, cantavano, ballavano, e il pubblico e le Corti andavano in visibilio. E i comici a modo non eran molti : v’erano al solito compagniette innumerevoli di minor conto, buffoni, cantambanchi, zanni, ciarlatani (pag. 177). E che roba !… Non morta compiutamente a’giorni nostri, ma, grazie a Dio, messa compiutamente fuori dal campo artistico. Sentitene la descrizione del Garzoni, e poi dite se non vi par di assistere alle rappresentazioni di certe Passioni di Cristo in certi paeselli di campagna in giorno di fiera, precedute dalla passeggiata de’ recitatori in costume con gran cassa e tromba, e relativi strilloni invitanti il pubblico idiota alla grande solennità.

Dai Costumi di varie Nasioni di Pietro Bertelli.

Come entrano questi dentro a una città, subito col tamburo si fa sapere che i Signori Comici tali sono arrivati, andando la Signora vestita da uomo con la spada in mano a fare la rassegna, e s’invita il popolo a una comedia, o tragedia, o pastorale in palazzo, o all’osteria del Pellegrino, ove la plebe desiosa di cose nuove, e curiosa per sua natura subito s’affretta occupare la stanza, e si passa per mezzo di gazzette dentro alla sala preparata ; e qui si trova un palco posticcio : una Scena dipinta col carbone senza un giudizio al mondo ; s’ode un concerto antecedente d’Asini, e Galauroni (garavloni) ; si sente un prologo da Cerretano, un tono goffo, come quello di fra Stoppino ; atti rincrescevoli come il mal’anno ; intermedij da mille forche ; un Magnifico (pag. 180) che non vale un bezzo ; un zanni, che pare un’oca ; un Gratiano, che caca le parole, una ruffiana insulsa e scioccherella ; un innamorato che stroppia le braccia a tutti quando favella ; uno spagnolo, che non sa proferire se non mi vida, e mi corazon ; un Pedante che scarta nelle parole toscane a ogni tratto ; un Burattino (pagg. 181, 183), che non sa far altro gesto, che quello del berettino, che si mette in capo ; una Signora sopra tutto orca nel dire, morta nel favellare, addormentata nel gestire, ch’ha perpetua inimicizia con le grazie, e tiene con la bellezza diferenza capitale. Si che il popolo tutto parte scandalizzato, e mal soddisfatto di costoro, portando oltre di ciò nella memoria i bruttissimi ragionamenti recitati, nella seguente sera, non spenderebbe un bagattino per sentir di nuovo cotali sciocchezze, già per tutta la terra, con beffe d’ognuno divulgate e sparse. Di modo tale, che per l’abuso di costoro, anco i galantuomini vengono disprezzati, e patiscono degli affronti che non sono convenienti a’meriti loro.

Con tutto ciò, potendo le vere e proprie compagnie a modo contarsi sulla punta delle dita, s’è visto e si vedrà più volte, come il Duca di Mantova sudasse per mettere assieme un complesso d’artisti di non discutibili meriti, e come le Corti se li disputassero, o li chiedessero e cedessero a vicenda. Lo Stoppato nella sua Commedia popolare italiana propende a credere si trattasse nella recitazione di quei comici, di accenti e gesti di convenzione ; e questa opinione seguì il Bevilacqua nel suo elaborato studio su G. B. Andreini. Ma, a dir vero, questo monologo di Arianna mi mette un gran dubbio nel cervello. Questo incalzarsi di più che sessanta frasi, compiute in un sol settenario, sarebbero oggi uno scoglio inevitabile, e oserei dire, insormontabile, per l’artista di qualunque merito si fosse. Ogni frase sta da sè ! Le respirazioni sono frequenti e rapide ! Ogni frase ha un’idea diversa da quella che precede e che segue ! Come avrà recitato l’Antonazzoni ? E se si fosse trattato di semplice convenzionalismo, di una dizione, direm così, meccanica, come poteva il pubblico dividersi così accanitamente in due partiti, di fronte a due prime attrici sulla stessa Piazza, come s’è visto a Bologna per la Beatrice e la Eularia, a Torino per l’Andreini e la Cecchini, come si vedrà a Mantova per la Vincenza e la Flaminia ? (V. Armani).