(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [A] — article » pp. 164-168
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [A] — article » pp. 164-168

Angiolini Alessandro. Nato in Arezzo verso il 1780 da un professore di rettorica, passò gli anni del noviziato in Compagnie di poco o niun conto ; ma l’amore allo studio, la piacevolezza dell’aspetto, l’eleganza del vestire, congiunti a una certa attitudine pel teatro, lo fecero entrare nelle Compagnie migliori di Goldoni, Modena, Righetti, Fabbrichesi, Mascherpa, Perotti, come primo amoroso a vicenda, ora con Giuseppe Ruggeri, ora con Francesco Augusto Bon e Paolo Baldigara. Si vuole che, stando al fianco di Francesco Bon, artista insuperato nelle parti brillanti, s’invogliasse d’imitarlo ; e con tanto esemplare sotto gli occhi e con la costanza nello studio non mai attenuata, vi riuscisse così mirabilmente, che parve a tutti, se non uguagliare il maestro, a lui molto accostarsi. In Compagnia Righetti sposò la rinomata attrice Carlotta Polvaro, dalla quale presto fu separato per la incompatibilità dei caratteri. Fu a Parigi brillante colla Compagnia di Carolina Internari e Francesco Paladini. Il Costetti ne’suoi « dimenticati vivi della scena italiana » racconta come, scoppiata a Parigi la rivoluzione, ne toccasse anche la povera Compagnia italiana : e in mezzo a una specie di consiglio di famiglia, il brillante Angiolini [una macia di veneto (?)] recasse, come bomba, l’annunzio che tutta la condotta era sotto sequestro. S’alzò un grido d’ òrrore, misto all’incredulità, per tanto disastro. E l’Angiolini, tra il brusco e il faceto : « Sicuro, se ve piase i fighi ! »

Da quella dell’ Internari passò ancora in altre Compagnie, sinchè, avanzato in età, dovè darsi a’caratteristi, in cui non fece quelle prove che sperò. Inquieto, stravagante, violento, tanto si risentì dell’insuccesso, che a Milano, mentre si trovava nella Compagnia di Angelo Lipparini, colpito da mania furiosa, fu ricoverato alla Senavra, ove morì miseramente di circa settant’anni, dopo il ’40.

Aniello Soldano, napoletano, detto il Dottore Spacca Strummolo.

Trascrivo da Francesco Bartoli :

« Graziosissimo comico fu costui, il quale fioriva intorno al 1590. Dal Regno di Napoli, dove per qualche tempo esercitato aveva la sua comica professione, passò egli in Lombardia ; e quindi in Firenze, in Bologna, in Venezia, ed in altre principali città fecesi conoscere per un gran Commediante. Spiritoso ne’ lazzi, pronto nelle risposte, lepido e faceto ; e sopra ogn’ altra cosa infinitamente studioso, acquistossi una somma riputazione, e fu tenuto in concetto d’uomo veramente negli studj fondato, e pieno di moltissime cognizioni. »

Pubblicò nel 1610 a Bologna per le stampe di Vittorio Benacci due operette ; la prima intitolata : Fantastiche et ridicolose etimologie recitate in commedia da Aniello Soldano, detto Spacca Strummolo Napolitano, dedicata al Conte Ferdinando Riario, Senator bolognese ; la seconda, La Fondazione et origine, ecc. ecc., dedicata al Conte Ercole Pepoli, che consta di 13 pagine di stampa, compreso il frontespizio, la lettera dedicatoria e una breve prefazione ai lettori, riportata da Francesco Bartoli nelle sue notizie. Un curioso prologo è questo, composto, al dire di esso Bartoli, in occasione di dover recitare a Bologna nel carnevale del 1611…. e che qui io pubblico intero, assieme alla riproduzione del frontespizio, per dare una idea ben chiara di questa variazione (sudiciotta, se vogliamo) della maschera del Dottore, di cui, per quanto io mi sappia, non è traccia fuorchè nel nostro Aniello.

Quando Gio. Battista Andreini, capo dei Fedeli, scriveva di Torino il dì 14 agosto 1609 al Duca di Mantova (V. Andreini Virginia) narrando i dissapori sorti in Compagnia, per opera specialmente dei coniugi Cecchini, conchiudeva col chiedere a S. A. aiuto e protezione, in nome anche di alcuni compagni, quali erano : mes.r Hieronimo (Garavini), mes.r Federico (Ricci), mes.r Carlo (Ricci, figlio), mes.r Aniello (Soldano), e mes.r Bartolomeo (Ranieri ?).

In fatto l’ingegno, il giuditio, il sale che sta riposto in questa guardarobba di scienze, in questo scrigno di dottrina, in questa zucca, in questa chirichiocca Spacchesca, è veduto da’ ciechi, sentito da’ sordi, conosciuto da’ matti, e celebrato da’ muti. Fama volat ; la quale non sa spifferare dalla sua sonora sampogna altro che le lodi di questo Dottore, Plusquamdottore, Archimandritta di tutti i Dottori. In somma dice, e dice bene, che melius est nomen bonus, quam divitias multas ; ogn’uno Spacca di qua, Spacca di là, Spacca di sù, Spacca di giù, chi mi chiama, chi mi tira, chi mi prega, chi mi sforza a dispensargli parte della mia dotta dottoraggine ; di maniera, che spesso spesso son forzato di desiderare, ò che tutti i Dottori ne sappiano quanto Spacca, ò che Spacca non ne sappia tanto, per non hauer del continuo si gran fatiche in pacificar liti, accordar discordie, e pronuntiar sententie. E sarebbe una bagatella, una frulla haver solamente a spaccheggiar tra gli huomini : Anco gli Dei, quando vengono trà di loro in qualche disputa, se non andasse questo pezzo di Dottore à mettergli d’accordo, senz’ altro si romperebbono la testa : E questa mattina appunto (ò bel caso diavolo, alzate l’intelletto per cortesia) ero nel mio studio a spolverare i libri, quando sento con gran furia bussar’ alla porta ; apro, e veggo Mercurio co gli stivali in piedi, tutto sudato, che per hauer troppo corso, non poteua quasi rihauere il fiato ; lo fò passare, lo fò sedere, e gli domando quel che voglia dal fatto mio ; egli affannato mi dice. Gli Dei son raunati in consiglio, & è nato tra essi vn gran disparere, però hanno bisogno della presenza vostra ; Io galantamente rispondo, che per fargli seruitio sono in ordine, lui di posta mi piglia in braccio, & in vn batter d’occhio mi porta in Cielo, e non ve ne voleua di manco, perchè vn poco più ch’io fussi tardato, quei Barbassori si sarebbon date tante le maledette pugna nel naso, che sarebbe piouuto mostarda per otto giorni, e la spetiaria di maestro Apollo sarebbe stata sfornita d’vnguento di biacca, e difensiuo. Era nata la lor discordia, perche ciascuno di essi pretendeua d’essere stato il fondatore, il fabricatore della città di Bologna, e non hauendo chi desse sopra di ciò la sentenza erano quasi quasi venuti alle mani ; perciò tutti allegri del mio arriuo

Con mille reverenze e mille inchini

fattomi sedere pro tribunali, &c, volsero, ch’io gli fussi il Giudice ; e sul vero

Ci voleua un tant’huomo in tanta lite.

Non prima mi fui posto nel Soglio giudicesco, che tutti in truppa, come tanti Zingari, cominciarono a voler dirmi le lor ragioni. Piano (dico io) ; non tanta furia ; nessuno parli senz’esser chiamato ; e perchè si legge (non mi ricordo doue, à carte non sò quante, che vbi non est ordinem, ibi est confusionem) cominciando da’ più degni, chiamo il primo Saturno, che venga à espormi la sua pretensione. Vien M. Saturno Zoppiconi, e Scappellatomisi dinanzi, dice così. Quando al tempo antico io fui scacciato dal Regno da Gioue mio figliuolo, me n’andai vn gran pezzo ramingo pe ’l mondo, & il primo luogo, che mi paresse sicuro per habitarui, fù alle sponde del fiume, che hora si chiama Reno ; Quiui feci fabricare una Città, e conosciuto il paese per fertile, & abondante, la chiamai Felsina, quasi felix sinus, cioè luogo felice ; e perche gli abitatori di quella mi chiamauano Rè, io che sapevo d’essere stato scacciato dal Regno, rispondeuo Re nò, Re nò ; e di qui il fiume, che passa per la città di Felsina, fù dipoi sempre nominato Reno. O buono, ò buono, diss’io allhora ; ma perche dice odi l’altra parte, chiamo Gioue ; lui mi viene innanzi, e dice : Io sono stato il fondatore di Bologna ; e poiche M. Saturno vuol far vero il detto con l’Etimologie, ecco ch’ io vi stampo la vera Etimologia di quella Città, donde si conoscerà la mia buona ragione. Quando trasformato in Toro haueuo impregnato la bella Europa, tornando di Creta passai per doue oggi è Bologna, & alloggiato da vn mio pouero amico, che staua in una piccola casetta su la riva del Reno, a cena gli raccontai il caso seguito ; e nel partirmi feci miracolosamente nascere in quel luogo vna Città, per ricompensa, facendone Signore quel mio ospite ; & in memoria, che sotto forma di Toro, o Boue haueuo goduto la donna amata, nominai la nuova Città Bononia, dalle parole Bos, che vuol dir Bue, Non, che significa non, & Jam, che s’espone già ; cioè Bos non jam ; per mostrare, che non era già vn Bue, ma Gioue quello che portò via Europa.

Harei dato la sentenza in fauore al padre Gioue, se non hauessi veduto Mastro Apollo. che già haueua la bocca aperta per dire il fatto suo ; però fattolo accostare, gli diedi cenno, che parlasse ; Egli con la testa rossa per la collera, disse che quello, che era opera manarum suorom, quegli altri babbuassi se lo voleuano attribuire a sè stessi ; ma che la vera verità era, che egli già innamorato morto della Ninfa Dafne, non potendola con preghi, e promesse ridurre alle sue voglie, faceua quasi le pazzie per amore ; pure al fine risoluto di non star sempre come le zucche (co ’l seme in corpo) determinò di pigliarla per forza, e contrar seco legitimo adulterio ; la Ninfa, che era furba, auuedutasi della ragìa, à gambe fratello, e lui dietro ; corsero tanto, che arriuarono alle sponde del fiume Reno in Toscana, e non del fiume Peneo in Tessaglia (come dice quel minchione di ser Nasone), doue la Ninfa per opera di Gioue fù trasformata in alloro. Apollo perche restasse memoria dell’amor suo fece fabricare in quel luogo vna Città, e la chiamò Felsina, dalle parole, che seguitando Dafne diceua, fel sinas, fel sinas ; cioè, o Ninfa, sinas, lascia, dal verbo sinos, is, che stà per lasciare, e fel, che vuol dire fiele, e si piglia per l’amarezza, e crudeltà in amore.

Quand’io sentii questo, mi venne voglia di piantargli in mano vn tu hai ragione tanto lungo, se non che Marte imbizarrito senza esser chiamato si fece innanzi, e disse : Potta di Giuda, ch’io non vo bestemmiare ; è possibile, che voi siate tanto sfacciata canaglia, che mi vogliate leuar la gloria delle mie fatiche ? Io hò fabricato Bologna di mia mano, e molto prima, che impregnando Rea dessi cagione all’origine di Roma. Non vi ricorda bestiazze, quando io spasimauo per Venere, e lei in amarmi non era un’ oca, che quel becco cornuto di Vulcano voleua far del ritroso non si contentando, ch’ io dormisse con la moglie ? Vmbè allora appunto, capi da sassate, io presi la mia madonna Venere in braccio, e di peso me la portai in terra, e posatala su la riua del Reno feci le corna a quel zoppo, affumato del suo marito ; & in honore della riceuuta vittoria, fabricai subito in quel luogo vna Città, nominandola Bononia, quasi Bonum onus, cioè buono, e soave m’era stato il peso nel portar Venere di Cielo in terra.

È vero (soggiunse allor Venere) che voi ò Marte faceste quella Città, ma la faceste di mia commissione ; e però io debbo esserne detta la fondatrice ; oltre che il nome lo prese da me, e non da voi (come falsamente andate dicendo). Io, io fui quella che spalancata la mia larga bottega, chiamai quella Città Felsina, cioè tutta dolcezza, e senza alcuna sorte d’amaritudine, dal nome fel, lis, che vuol dir fiele, e dalla prepositione sine, che significa senza, quasi Felle sine, senza fiele, senza amarezza.

Alla fè, che questa mi cauò quasi diffatto della brachetta la sentenza à favor suo ; ma ricordandomi, che in questa materia giudicevole

Tanti causa mali femina insala il fuso ;

Ritenni il ritto desiderio col freno della ragione ; e chiamai Pallade, che quasi quasi s’era pisciata sotto per la paura douendo venir di nuouo in concorrenza con Venere. Pure assicurata dal mio mostaccio d’huomo da bene, fatto vn ghigno sott’occhio, fattamisi innanzi allargò il pensier suo con queste parole. Sig. Iudex, vel Domine Spacca. Costoro, questi cujum pecus, senza l’aiuto mio non si ricordano dalla bocca al naso ; Igitur adunque sappia la Dottoraggine vostra, che Illa ego qui quondam sbalzata fuor del mazzucco di Gioue mio padre, cominciai à pascere tra gl’altri Dei, me ne scesi in terra, à far anch’io edificare vna Città, doue per sempre fusse la sedia, & abitation mia ; e perchè si riconoscesse per Città di Pallade Dea delle scienze, feci tutti i suoi abitatori dotti, e sapienti ; e per dimostrar l’istesso anco co’l nome, la chiamai, non Atene, nò, ma Bononia, che vuol dire Città che non ha ignoranti, dal nome Bò, o Bue, che volgarmente si piglia per ignorante ; dalla dittione non, e dal verbo hauere, cioè Bononia Bò non ha : è però meritamente è chiamata Mater Studiorum.

Non vi restava se non quel folletto di Mercurio a farmi sentire le sue ragioni, il quale senza aspettar l’inuito, cauatosi il capelletto, e di mio ordine messo in vn canto quel baston, che suol portare in mano, fece vna bella, e lunga cicalata, mostrando come tutto quello, che haueuano ditto gli altri Dei era Alchimia, e non poteua stare a martello ; e che lui solo era il pater patriæ Bononiensis ; vedendosi che tutti i Bolognesi come figliuoli, e descendenti di Mercurio Dio dell’eloquenza, nascono con vna buona inclinatione naturale alla Rettorica, e son dotati d’vn facondo parlare. Et ideo la Città fu chiamata Bologna, quasi Bonus logos, cioè buon parlare, dalla parola Latina bonus, a, um, che significa buono, e dalla voce Greca Logos, che vuol dire il parlare. Ergo (conclue Mercurio), io sono stato il fondatore di Bologna, & io debbo riportare il vanto di questa lite, e voi altri Signori Dei resterete

come senza lucerna i bacalari.

Voleuano tutti quanti replicare, e mandar la cosa in infinito : anzi Saturno haueua già preso in mano la sua falce fenaja, Gioue vn buon tizzon di fuoco, Apollo la piua, Marte un’archibugetto a ruota, Venere s’era messa a parata, Minerua haueua scoperta la sua rotella, e Mercurio s’era armato del baculo ordinario ; quando questo petto informato in facto, e resoluto in jure, impostogli il debito silentio, così pronuntiò.

Si vede bene, che siete vn monte d’ignorantoni, & insolentazzi, pensando e volendo far credere à gl’altri, che vn solo di voi habbia potuto fabricare vna Città così magnifica, così nobile, come è Bologna, e dotare i suoi Cittadini di tante gratie, e fauori, che gli rendono onorati, & ammirati da tutto il Mondo. Non Saturno, non Gioue, non Apollo, non Marte, non Venere, non Pallade, non Mercurio, è stato da sè solo il fondator di Bologna ; ma tutti insieme d’accordo come pifferi fuste i muratori di fabrica così stupenda ; e molto ben ve ne ricordate, se non hauete perduto il cervello ; Saturno fece i fondamenti con la Giustitia delle leggi, Gioue tirò sù le belle prospettiue con la benignità de’costumi ; Apollo vi fece miniature all’arabesca con il pregio della Poesia, Marte vi pose i baluardi con la fortezza de gl’huomini, Venere l’adornò di pitture con la beltà delle donne, Pallade dotò la Città tutta co’tesori delle scienze, e Mercurio la vesti d’vn bellissimo drappo di grata, e natural facondia. Il che fatto viuo vocis oraculo, gli poneste quel bel nome Bononia in latino, per dimostrar, che Bona omnia in ea sunt, e Bologna in volgare, perchè la fama sua Boat longe, cioè rimbomba, e si fà sentire da lontano. O voletene più bestiazze ? à che far tanti romori ? che possiate essere accisi.

Rimasero tutti con vn palmo di naso, spantati, strasecolati del mio sapere ; e fatto metter in ordine la carrozza del Sole, fattomi compagnia insieme

Alla porta d’ Oriente,

me ne rimandarono nel mio studio ; e si vede, che dal gran caldo son diuentato vn pò pò nero :

Ma ’l nero il bel non toglie.

E però questa sera (nobilissimi Signori Bolognesi) pregato da’ miei compagni à farui il Prologo d’vna bella Comedia, che hanno in animo di recitare, in quel cambio hò voluto dirui, quanto per cagion vostra m’ è avvenuto, e quanto in servitio vostro hò operato ; se vi pare, che meum labor sit dignum mercedem suam, fate silentio, che io per hora altro non chieggo, e voi in tal modo confermerete esser vero, che in Bologna non ha luogo l’ignoranza, l’ingratitudine, ma la vera cognitione e ricognitione de’ buoni, e di chi merita, come si caua dalla voce Bononia diuisa in sillabe, Bo, bonorum, no, notitia, ni, nimis, a, amabilis. Ma se per lo contrario (che non credo) ci denegherete la solita attentione, anch’ io cantando la Palinodia, a Gentil’ huomini, e virtuosi dirò che si sono troppo auari de’ lor beni, e fauori, pur cauandolo dalla voce istessa Bononia, Bo, bonorum, no, nobis, ni, nimis, a, auari, & à certi plebeuzzi, ignorantelli, se ce ne sono, pregherò il meritato fine all’ opere loro, dicendo, Bo, il boja, no, non, ni, nieghi, a, appiccargli. E con questo vi lascio.

Il Fine.