(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [A] — article » pp. 54-87
/ 1560
(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [A] — article » pp. 54-87

Andreini Francesco. Piuttostochè dal Bartoli, trascrivo letteralmente parte delle notizie dell’ Andreini dall’opera magistrale di Alessandro D’Ancona, che quelle del Bartoli restrinse e tradusse in lingua umana.

« L’ Andreini pistoiese, nato circa il 1548, fu dapprima soldato : militò nelle galee toscane, e preso da’ turchi, stette ott’anni schiavo. Fuggì, e tornato in Italia, si diede alla professione di comico, probabilmente unendosi a’ Gelosi, dapprima facendo le parti d’innamorato, poi creando quella di soldato superbo e vantatore, col nome di Capitan Spavento della Val d’Inferno. Si provò anche con lode agli altri personaggi del Dottor Siciliano, del negromante Falsirone e perfino del pastore Corinto. Capo della Compagnia comica che andò in Francia nel 1600, e fu acclamatissima dal Re e sua famiglia e da tutta la Corte, restò oltr’Alpi fino alla morte della moglie ; dopo questo triste caso, che lo privava di una consorte bella e fedele e di una inarrivabile compagna nel giuoco scenico, abbandonò il teatro e si ridusse a Venezia. Pubblicò nell’anno 1607 le Bravure del Capitan Spavento, nell’ 11 le due favole boschereccie, l’Ingannata Proserpina e l’Alterezza di Narciso ; l’anno dopo, i Ragionamenti fantastici posti in forma di dialoghi rappresentativi ; nel’ 16 raccolse le Lettere e i Frammenti di scritture della moglie, e nel’ 18 mise fuori la seconda parte delle Bravure. Così il suo pensiero era quasi costantemente volto al teatro, al quale avviava il figlio Giambattista. Morì in Mantova a’ 20 agosto del 1624. » Fin qui il D’Ancona.

Enrico Bevilacqua ha testè pubblicato un accuratissimo studio su Gio. Battista Andreini e la Compagnia de’ Fedeli (Giornale storico della letteratura italiana, vol. XXIII). Venendo egli a parlare dei genitori di lui, mette in rilievo alcune parole colle quali un Don Gio. Maria Pietro Belli, dedica a Bartolomeo Dal Calice la Maddalena, poemetto in tre canti e in ottava rima di esso Gio. Battista, di cui era tenerissimo amico. La notizia, inavvertita finora, si trova nell’edizione di Venezia (Giac. Ant. Somasco, 1610), mentre i più forse, come me, hanno veduto quella illustrata del mdcxxviii, stampata a Praga da Sigismondo Leva, e dall’ Andreini dedicata all’illustrissimo, eccellentissimo et reverendissimo Principe il S. Cardinal de Harrach, Arcivescovo di Praga. Ecco le parole del Belli riportate dal Bevilacqua :

« L’uno (Francesco Andreini) è de’ Cerrachi di Pistoja, hora detti dal Gallo : nella qual casata vive il molto illustre Signor Cavaliere Gallo, e l’Eccell.° Signor Dottore suo fratello ; et l’altra (Isabella) è de’ Canali da Venetia, già figlia del Signor Paolo Canali ; sì come l’autore, in conformità del vero, un giorno a pieno farà intendere, e la cagione perchè fin ad hora si sieno chiamati degli Andreini…. »

Ma poi nessuno scritto dell’Andreini, ch’io mi sappia, è comparso a questo proposito, nè dalli archivi pistoiese e fiorentino mi fu dato rintracciar notizie di sorta sulle nominate famiglie Cerrachi e Dal Gallo. Il Bevilacqua molto saviamente suppone che la cagione di tal mutamento di nome fosse tutta nel non aver voluto palesare quello vero della famiglia, per un pregiudizio, non interamente scomparso nemmeno oggi…. Andreini sarebbe dunque semplicemente un nome di guerra, come quello famoso di Molière, assunto, per la stessa ragione, dal giovane tappezziere Poquelin (V. Soleirol, Molière et sa Troupe, Paris, 1858).

« Egli — aggiunge il Bevilacqua in una nota al citato studio, pag. 88, 4 — pubblicò ancora Alcune Rime, fra quelle di diversi altri, In morte di Camilla Rocha Nobili, comica confidente, detta Lelia (Venezia, Ambrogio Dei, 1613) ; due Sonetti ed un Madrigale, premessi fra versi d’ altri autori, al Mincio ubbidiente di suo figlio G. B. ; infine qualche altro sonetto o breve componimento inserito qua e là in iscritti altrui. Fra i nojosi prologhi di Domenico Bruni (V.) s’ attribuisce a Francesco Andreini il nojosissimo prologo di un ragazzo. »

[http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-01_1897_img015.jpg]

Veramente il Bruni (Fatiche comiche di Domenico Bruni detto Fulvio, Comico di Madama Serenissima, Principessa di Piemonte) dice che il signor Francesco Andreini marito della famosissima Isabella gli fece imparare un Prologo, ecc. ecc. ; non sappiam dunque perchè lo si debba attribuire alla penna dell’Andreini. Ad ogni modo, a me non pare, come al Bevilacqua, tenuto conto anche dell’età del recitante (il Bruni aveva quattordici anni) così noioso. Lo pubblico nella sua integrità per alcune frasi di non poco interesse nella storia intima, dirò così, dell’arte drammatica.

prologo da ragazzo

Io anderò, poi che voi tutti quanti uniti insieme me lo imponete, ma se da principio ero avvisato di questa straordinaria fatica, affè, affè che non mi ci coglievi.

Venga il canchero a questa professione e a chi ne fu lo inventore ! Quando mi accomodai con costoro, mi credevo di provare una vita felice : ma la ritrovo appunto una vita da zingari, quali non hanno mai luogo fermo, nè stabile. Oggi qua, domani là ; quando per terra, quando per mare : e quel ch’ è peggio, sempre vivendo su l’osteria, dove per lo più si paga bene, e stassi male. Poteva pur mio padre mettermi a qualche altro mestiero, nel qual credo che avrei fatto miglior profitto, e senza tanto travaglio, poichè chi ha arte ha parte in questo mondo, soleva dire Farfanicchio mio compagno. Pazienza ! Io ci sono entrato ; e basta in questa professione romperci un pajo di scarpe, per non se ne levar mai più. Ma poi che questo mi deve avvenire, io voglio aver questo avvertimento di esser sempre nelle compagnie migliori e più onorate ; perchè, oltre lo imparar da quelle, non avrò timore di essere biasimato come molti, nè per ignorante, nè persona infame. Ed ho speranza, come incomincio a far la barba, di recitar la parte dello innamorato, ornandomi di bellissimi vestiti, concetti e grazia. Faccia da Franceschina, da Pantalone, da Graziano, da Francatrippe, o da Zanni chi vuole ; io per me voglio far la parte del gentiluomo per essere sempre tenuto tale !… Ma…. infelice me, che mentre ho ragionato con voi, signori, mi sono dimenticato il Prologo che questi miei padroni m’avevano imposto che facessi ! Però, state attenti. Nobilissimi signori ; Platone nel suo Convivio…. non fu Platone…. Ah, si, me ne ricordo : Aristotile nella sua Politica…. non fu manco Aristotile !… Venga il canchero a questi autori cosi grandi e fantastici ! M’ hanno di maniera avviluppato il cervello che non mi ricordo più nè di Prologo, nè di altro. Voi, signori, per questa sera farete senza prologo, che la comedia non sarà men bella. — Addio.

Fin d’allora dunque si malediva alla vitaccia zingaresca e stentata dell’arte ; e anche allora, una volta messo il piede sulle tavole del palcoscenico, non si sapeva più come levarsene.

Di questi tempi, il signor Domenico Lanza pubblicò per le nozze Solerti-Saggini (Pinerolo, Tipografia Sociale, 1889) un capitolo inedito del nostro Francesco, tratto dalla Biblioteca nazionale di Torino, e segnato nel catalogo pasiniano col numero cxlii (Codex CXLII, chartaceus, constans foliis II, sœculi XVII).

Eccone il titolo : Il felicissimo arrivo del Serenissimo Don Vittorio Prencipe di Savoja insieme col Serenissimo Don Filiberto suo fratello nella famosa città di Torino, descritto in verso sdruciolo da Francesco Andreini, comico Geloso detto il Capitano Spavento.

Il Capitano Spavento da Valle Inferna.

Il capitolo è preceduto da una lettera dedicatoria al detto Serenissimo Prencipe, che non è davvero il migliore esempio di stile epistolare, e consta di 265 versi sdruccioli mediocrissimi per concetto, per forma, per…. tutto. Basti l’introduzione a dar l’idea del resto.

Quel giorno così lieto e si festevole, giorno sacrato al sempre biondo Apolline nel quale i figli del gran pastor Carolo tornando lieti dal gran lito Hiberico entraro dentro del lor patrio Hospitio : hoggi qui canto, in ripa al chiaro Eridano. Tu musa, ai grandi amica alma Calliope, prestami il tuo favore, acciò che i ritimi, habbiano qual che forza in questo genere. Ed ecco ch’ io mi movo, e do principio a l’alta impresa in questi bassi sdrucioli.

Già convocati havëa l’Archimàndrita Carlo pastor,………………………………..

Come l’Andreini restasse addolorato per la morte d’Isabella, sappiamo dalle varie prefazioni alle opere sue. Basterà che si trascrivan qui le parole con cui Corinto Pastore si volge alla defunta sua Fillide, nel discorso preliminare alle Bravure del Capitano Spavento (Venetia, appresso Vincenzo Somasco, m. dc. xxiiii).

O fortuna inconstante, o corso variabile, o speranze di vetro, o sorte nemica a’ miei desiderj : qual cuore di durissima selce, saldo alle più dure lagrime non verserà per gli occhi duo vivi fonti d’amarissimo pianto ? Qual duro marmo avvezzo nel rigor del più gelato verno, dal continuo percuotere delle mie cadenti lagrime non resterà cavato ? E quale ircana tigre, colma d’ira e di fellonia, non diventerà pietosa a’ miei lamenti ? Fillide, anima cara, e consorte mia carissima, mentre che tu vivevi, erano per me i giorni chiari e sereni ; mille e mille amabili pensieri m’ ingombravano la mente, la fortuna dolce e propizia a’ miei voti, e il cielo arrideva a’ miei contenti : ma ora che tu sei rinchiusa dentro a freddo sasso, avendo teco rinchiuse le virtù tutte, e le bell’opere, s’è talmente cangiato il mio destino, ch’altro non mi rimane, che la memoria d’averle vedute e amate.

Ecco i due epitaffi che egli dettò per Isabella sua : il primo scolpito in bronzo sul sepolcro di lei in Lione, il secondo stampato nella nuova edizione delle di lei rime.

D. O. M.

Isabella Andreina Patavina mulier magna virtute praedita. Honestatis ornamentum, maritalisque pudicitiae decus, ore facunda, mente fecunda, religiosa, pia, musis amica, et artis scenicae caput, hic resurrectionem espectat.

Ob abortum obiit 4 Idus Iunii 1604 annum agens 42.

Franciscus Andreinus conjux moestissimus posuit.

D. O. M.

Carissima Uxor, Isabella dulcissima, Franciscus tuus hoc tibi condere monumentum curavit, si caret gemmis, non caret lachrymis. Mecum fletu amarissimo Lugdunenses omnes ingemuerunt. Quiescat corpus in Tumulo, et anima quiescat in Deo.

Anno Sal. 1604. Die 10 Junij.

Francesco Andreini, oltre all’essere stato comico valoroso, fu anche letterato di pregi non comuni. Il Falsirone rappresentava parlando – scrive egli stesso nel XIV ragionamento delle Bravure – diverse lingue, « come la francese, la spagnuola, la schiava, la greca, e la turchesca. » La recitazione di Corinto alternava con la musica, « suonando varii e diversi stromenti da fiato, composti di molti flauti, cantandovi sopra versi boscarecci e sdruccioli ad imitatione del Sannazaro, detto Atio Sincero pastor Napolitano. » – Parlando alla sua boscareccia zampogna, nel discorso citato, dice : « rimanti per sempre appesa a questa verde et onorata pianta, e teco rimangano per sempre appesi a questi verdi e onorati tronchi tutti gli altri miei pastorali strumenti solo inuertiti a gloria e onor della mia cara Fillide. »

Quando a Vincenzo figlio del Duca di Mantova piacque di formare una sola ottima Compagnia di tre non compiutamente buone, ebbe in mente l’Andreini come direttore, il quale non accettò le proposte del Principe, perchè legato a’Gelosi, ed in particolare ad Alvise Michiele, padrone della stantia di Venetia. Il D’Ancona (op. cit.), che al proposito dell’Andreini, parlando in una nota (vol. II, pag. 468, 3) di registri di spese teatrali in Linz, prodotti da Giov. Meissner (Die englischen Komödianten zur zeit Shakespeares in Osterreich. Wien, 1884) da cui resulta che : il 16 dicembre 1568 « Franncischco Ysabella Camediannte » ricevette venti Talleri, dice : « ma qui è lecito credere che di due persone si sia fatta una, e che si tratti de’ conjugi Andreini ; » e forse perchè, essendovi altre spese pagate a Giovanni Tabarrino e a Flaminio, si volle dedurne, e a Carlo Trautmann stesso (Italienische Schauspieler am bayrischen Hofe. München, 1887), non parve improbabile, che si potesse trattare dei Gelosi. Ma mi si permetta di non accettare la deduzione. Lascio il Tabarrino, o Taborino che sia : egli era nel 1570 alla Corte di Vienna. Lascio il Flaminio (Scala), che, divenuto capo de’ Gelosi nel 1574, poteva fors’anco avere appartenuto a que’ primi Gelosi, di cui fu parte la famosa Lidia da Bagnacavallo. Ma pei coniugi Andreini ? Come avrebbe potuto Francesco recitare a Linz nel 1568, se, nato nel 1548, fu dapprima soldato, e a venti anni, cioè nel 1568, fu preso dal Turco, rimanendo schiavo per otto anni, cioè fino al 1576 ? E l’Isabella, nata il ’62, non avrebbe avuto allora sei anni ?

Il Francisco Ysabella di Linz non poteva dunque riguardare gli Andreini, per quanto strana possa parere la coincidenza di quei nomi, di cui, se disgiunti dagli Andreini, non abbiam, per quel tempo, altre notizie.

Quanto al tipo del Capitano Spavento, pel quale più specialmente Francesco Andreini è divenuto celebre, basti dare un’occhiata al primo ragionamento delle sue bravure per farsene un’idea. Quest’uomo che si fa annunziare : Capitano Spavento da Valle inferna, sopranominato il diabolico, Principedell’ordine equestre, Termigisto, cioè grandissimo bravatore, grandissimo feritore e grandissimo uccisore, domatore e dominator del l’Universo, figlio del terremoto e della saetta, parente della morte e amico strettissimo del gran diavolo dell’inferno ; quest’uomo che udito, quando era ancora nel ventre della madre, il desiderio del padre di avere un maschio, nasce femmina per pietà del mondo ch’egli avrebbe distrutto, se nato maschio ; che per intimar guerra all’esercito nemico, carica di sè stesso un cannone, e novo projettile, armato di scudo e di stocco, arriva con orribil fragore nel campo, e uccide duecento o trecento soldati ; che mangia la minestra di perle orientali dentro una scodella di finissimo corallo col cucchiajo di carbonchio ardente ; che divora in due bocconi una balena arrostita sulla graticola, che beve in un sorso, brindando agli ospiti, tutta l’acqua del fiume Giordano ; que st’uomo, che non contento di un sol nome spaventoso, si fa anche chiamare Ariararche, o principe della milizia, Diacatolicon, o capitano universale, Capitano Melampigo, o capitano cul nero, Capitan Leucopigo, o capitano cul bianco, è fratello carnale dei Spezzaferri, Matamoros, Fracassa, Terremoti, Rinoceronti, Coccodrilli, Scaramuccia, Spacca, Cardoni, parlando dei più noti ; e dei Spezzamonti, Bonbardoni, Grilli, Mala Gamba, Bellavita, Babei, Taglia Cantoni, a noi tramandati in effigie, che oserei chiamare di esattezza storica molto problematica, dal bulino incomparabile di Giacomo Callot ne’suoi Balli di Sfessania, divenuti omai pressochè introvabili, e ch’io riproduco dall’originale. Ho detto « esattezza storica problematica ; » e corroboro questo mio avviso colla osservazione non superficiale sulle creazioni infinite e, oserei dire, gaiamente indiavolate, del grande artista : si direbbe quasi che i tipi della Commedia italiana fossero la base di tutta l’opera sua. Nei Balli di Sfessania la caratteristica dei personaggi è di esser lunghi, secchi, allampanati, dinoccolati ; nella grottesca collezione de’gobbi la caratteristica è di rincontro quella di esser nani, pingui : tolta questa caratteristica, il tipo è lo stesso, avente per nota dominante la maschera dal naso aguzzo e le due enormi penne sul cappello o berretta. Date queste variazioni del tipo, noi troviam capitani pressochè dappertutto ; dalla Fiera della Madonna dell’Impruneta alle Tentazioni di S. Antonio : e oltre ai capitani, troviam Lavinie e Lucie e Pantaloni e Mattaccini d’ogni specie nelle stupende incisioni della Guerra d’Amore, Festa del Serenissimo Gran Duca di Toscana fatta l’anno 1615. Comunque sia, accettiamoli questi tipi come rappresentanti della Commedia italiana nell’intenzione del Callot, al quale dobbiamo di alcuni di essi non solamente il costume, ma fin anco la conoscenza.

II Capitano.

(Fac-simile di un disegno a penna di Iac. Callot).

Di tutti i capitani spagnuoli è primo Capitan Cardone, che Michelangiolo Buonarroti il giovine così descrive nella Fiera :

…. Vedete
quel capitan Cardon stare interato,
scagliar le gambe e quei mostacchi neri
spietato arroncigliarsi
simulando fierezza e crudeltade ;
e granciti i pendagli
colla sinistra, star pronto per porse
la destra a trar la spada
a fender monti e penetrar nel centro,
tagliar le corna a Pluto e per la coda
preso ed entrato poi quasi in savore
della palude Stige,
vivo e crudo ingojarselo. Codardo
poi più d’un birro. Ecco ch’e’passa e spira
bravura, e pauroso par che stia
sull’ali per fuggir : vera espressione
d’un poltron vantator valamedios ….

Troviamo anche il Capitan Cardoni, amante sdolcinato d’Isabella, prender parte nell’ Anfiparnaso, Comedia harmonica d’ Horatio Vecchi da Modena (1597). Quanto al maramao (parodia di Maramaldo) della vignetta, ne abbiam traccia nel Balduino del Corneille, tradotto dall’abate Gerolamo Gigli, di cui ecco un brano singolare, già riportato dallo Scherillo nella sua Commedia dell’Arte (Torino, Loescher, 1884).

Chi è la ? Metti mano. Prendi. Ah sei morto ! È una colonna ; buon per te che non eri un Colonnello. Cospettone ! Giuro per la bassetta sinistra di Marte, che questa notte invidiosa fa sempre delle sue al Capitan Maramao. M’ha fatto gettar via una stoccata, che percotendo di rimbalzo nel turbante del Gran Soffi, gli avrebbe buttata la testa nelle tempia del Gran Mogol, e le tempia del Gran Mogol nel mostaccio al Re del Giapone, con lasciare quel Monarca fino alla quarta generazione uomo di poca memoria, ecc. (Bologna, Longhi, senz’ anno, Scena VIII.

Io poi non credo che tutti questi capitani sieno, come altri vorrebbe, una continuazione, o meglio, un ammodernamento del celebre Pirgopolinice, il miles gloriosus di Plauto. Essi sono figli legittimi, o piuttosto variazioni più o meno accentate di un tipo, figlio legittimo del suo tempo e del suo ambiente, dovute alla fantasia e alla perizia de’varj attori che ne assunsero la maschera. Il più delle volte, a dir vero, la differenza non è che nel nome, o nella lingua ; tutto sta a chi le spara più grosse. C’ è la solita spacconata, la solita spavalderia, a cui fa sempre contrapposto una paura birbona. Le caratteristiche del dominante soldato spagnuolo arrogante, rapace, violento, fanfarone, ammazzasette e storpiaquattordici, s’impadronirono, per dir così, dell’ambiente napoletano, tanto da lasciarvene traccia luminosa più tardi. Così, i capitani deposero gli spadoni arrugginiti, afferrarono un nodoso bastone, e si raccolsero tutti in un tipo, chiamato Guappo. Ma se dalle scene è sparito il Capitano, è restato lo spagnuolo. La maschera chiassona, urlona, cha atterra un reggimento di soldati con un semplice guarda voi !, ha ceduto il campo al gentiluomo, inguantato, levigato, compassato, che offre a tutti e non dà ad alcuno, che spara bombe colossali colla maggior calma e serietà del mondo (vedi Fernanda, Odette, Inquilini del signor Blondeau, ecc. ecc.). Una riproduzione quasi esatta, adattata all’ambiente moderno, ce l’ha data e forse inconsciamente il Novelli nell’americano delle Vacanze matrimoniali ; un amenissimo tipo che vuole ammazzar tutti, che sbraita per cento, e alla menoma parola proferita in tuono più alto del solito, si ritrae sbigottito dietro le seggiole e i tavolini.

Nè la lista dei Capitani si fermò certo a quella nominata più sopra. Gli Zanni, cantambanchi, ciarlatani, comici volanti, direm così, se pure al nome di comici ebber diritto, avevan il loro Capitano. Ho trovato anche una canzoncina in dialetto veneziano de’ primi del ’600 (sono 8 pagine in 8° piccolo, compreso il frontespizio. L’opuscolo è il 47° della Miscellanea, Tab. I, N. III, 268, della Biblioteca dell’ Università di Bologna), intitolata : Povertà – d’un giovine – cadutoui per segui – tar la sua signora. Canzonetta nuova nella qual – s’itende come la lascia, & – l’abandona – DISPESATA DAL CAPITAN SPATEGA. – In Bologn. per gli Er. del Cocchi co. lic. de Super.). Così, la maschera del Capitano, generata a Napoli dal soldato spagnuolo, trapiantandosi con altro nome in altre regioni, ne assumeva senza dubbio anche il dialetto. Oltre a questa del Capitano Spantega, seguita da due ottave siciliane, ho trovato altre due canzoncine, riguardanti la nostra maschera, rarissime e interessantissime, che tolgo, come l’altra, dalla Miscellanea, N. III, dell’Università di Bologna, portanti la prima il N.° 21, la seconda il N.° 55, e che qui riproduco :

I

CONTRASTO – di bravvra – fra il capitano – delvvio e zan badil – con due Canzoni alla Bergamasca – opera molto dilettevole, e da ridere.

In Ferrara, & in Bologna, Per il Benacci, 1613 – con licenza de’ Superiori.

(Si omettono le due canzoni alla Bergamasca, che non concernono menomamente la maschera del Capitano).

Ottaue da Capitano

Marte quando nacque io, gridò due volte
contra di Gioue tutto furibondo,
con dir, che le sue glorie gli era tolte
se vn più brauo di lui nasceua al mondo,
e che del Cielo hauria le ruote tolte,
e gettato l’harebbe nel profondo.
Rispose Gioue con faccia sincera,
Marte tu sei nel Ciel, lui Marte in terra.

Badile

Quando nasì mi tolsi la speranza
da questà fama a do sort de zent.
A quei, che tend’ogn’ hor a empis la panza,
e quei che de dormi n’è mai content.
Tost se legren vedend cres l’usanza
de bè, mangià, e be menà ol dent,
e subit nat per hauìa ol budel
Mangiè quater Castrù con vn Vedel.

Capitano

Dè, perchè non è viuo Ettor Trojano,
Achille, e Annibal Cartaginese,
Con quel, ch’ acquistò il nome d’Africano
Alessandro, che tutto il mondo prese,
e Pompeo con Cesare Romano,
e che meco venissero a contese,
che io gli vorrìa con questo pugno solo
tutti sbalzar da l’uno e l’altro Polo.

Badile

De’ perchè non è viu’ ades Tripò,
Zan Petta, Tabari, e Zan Fritada,
e quel valent me parent menestrò
fra i mangiador ol prim dela Valada,
Panza de Pegora, panza de Castrò,
insiem con Polenta e Zan Colada,
che me dò vant, si bè ihaves bon dent
i voreù mangià in Leuant, chigà in Ponent.

Capitano

Son quel sì grand valente capitano,
che nacqui sol di rabbia e di furore,
e al mondo non fu mai huomo inhumano,
che quanto a me habbia messo terrore ;
nè tampoco l’esercito Romano
ha fatto in guerra mai tanto rumore,
quanto che questo mio tagliente brando,
che gambe teste e braccie vo tagliando.

Badile

Mi so quel si famos Badil,
Gloria e splendor de Voltolina,
che mang’, e beu’ ogn’hor di nott’ e dì,
e sol a tend a fam fort la schina,
mi vag a betolà co i nos fachì,
doue se mangia formai e poina,
e quand’ ho fam, per satià ol ventrò,
mang’un Vedel, e un Porch’in vn bocò.

Sonetto del Capitano

Se Serse e Ciro hoggi fossero al mondo,
che tanto ardir mostraro pel passato,
che ’l nome suo temuto in ogni lato
era oue il Sole gira a tondo a tondo,
Alessandro e Annibale furibondo,
con Cesare e Scipione accompagnato,
che nel suo cuor mai timor ci è albergato,
se fosser viui li trarrei al fondo.
E se insieme con lor fosse Pompeo,
fra i Greci Achille, & il suo figlio Pirro,
ancor di Troja Ettòr quel Semideo.
Non ti pensar che col veloce giro
di sta mia spada mi fesser Trofeo,
ma tutti ucciderei con un sospiro.

Risposta di Badile

Deh perchè ades non è viu’ Agramant,
Re Carol, Orland, e Rinald so Cosi,
Rugier, Feraù, e Serpenti,
Grandoni, insiem con Aquilant.
Mandricard, Re d’Alger e Sacripant,
Guido Selvaz, e Astolf Paladì,
Grifo, Brunel, Oliuer, e Zerbì,
Anzelica, Marfisa, e Bradamant.
E che tug costor fus tramudat
in lasagn, in polenta, in maccarò,
col formai, col botter, accomodag.
All’hora sì faref gros i boccò,
e al desch starif semper sentat,
fina che jaues tug in dol ventrò.

II

le – STVPENDE – forze, e bravvre – del capitano – spezza capo, – et spvta saette, – Cosa onesta, & ridicolosa – Data in luce per Antonio Par – di da Lucca.

Stam pata in Padoua, Et ristampata in – Bologna, presso gli Her. di Gio. – Rossi 1606 – Con licenza de’ Superiori.

Son quel gran Spezza Capo alto e superbo,
a la cui forza ogn’altra forza cede.
Spezzo, rompo, fracasso, frango, snerbo,
chiunque auanti di me riuolge il piede.
Vo fra le selue, e col mio viso acerbo
d’Orsi e Leoni faccio horribil prede,
e quando ho fame, per satiar i denti
trangugio Draghi, Vipere, e Serpenti.
Faccio alle nube spesso oltraggio & onte,
e con vn sguardo fo sparire il sole,
e con vn calcio getto in aria un monte :
il mondo trema al suon di mie parole ;
ben mille volte ho a Cerber rotto il fronte,
e posto in fuga le tartaree scuole.
Ovunque giro, ovunque movo il passo
faccio fuggir Plutone e Satanasso.
Tanto potere e tanta forza tengo,
ch’auanti a me non è nessun, che possa
resistere ; e ben spesso a pugna vengo
con Orsi e Draghi ; e fo la terra rossa
del sangue loro, e a mensa mi trattengo
con basilischi e Tigri, e in una scossa
getto a terra le torri, e vo sì a dentro,
che fo tremar l’abisso e tutto il centro.
Qual è di me più brauo e più famoso,
che sol di Colobrine al mondo viuo,
getto le piante a terra, e non riposo,
ma discorrendo vado in ogni riuo ;
sbrano Centauri, e faccio sanguinoso
il pian di Lotofaghi, e doue arrivo
hanno rispetto i monti a i miei furori ;
le donne, i Cauallier, l’arme, e gl’amori.
Ho pratica di tigri, e ogni serpente ;
e di pugnar con Mostri ogn’ hor son uago ;
e al calcar del mio piè gemer si sente
il terren solo, & a un’ Istropofago
spiccai dal busto il capo, e arditamente
con questa infilza-cori uccisi un Drago.
Fugga ogn’ vn dunque sua infelice sorte,
che a centinara il giorno io do la morte.
Di Spezza Capo il nome mi fu posto,
perchè di capi sono il gran flagello ;
i basilischi uccido e mangio arrosto ;
nè nuoce al petto mio tosco o napello ;
faccio crollare i monti, e a me discosto
stanno le fiere, e quando ch’io fauello
cadon gl’vccelli giù da le lor fronde,
e al fiero aspetto mio Febo s’ asconde.
Sol con un chricco trito ogni gran monte,
e resta l’huom per me più che smarrito ;
io son colui che d’un Rinoceronte
nacqui, e di Lestrigon mi fo convito ;
son cugin di Plutone e di Caronte,
e chi mi guarda si può dir spedito,
che con vn sol stranuto (o meraviglia)
spingo vna Nave più di mille miglia.
Chi udì mai più sì gran fracassamento,
e proue alte e tremende che facc’io ?
Io strangolo Elefanti, e saccio il vento
tornare indietro con il valor mio ;
bisogno mai non ho d’or nè d’argento,
con questa infilza-cori ho che desio,
basta che sol io dica, ferma loco,
che ho tutto quel che voglio e non è poco.
State discosto dal mio fiero aspetto,
che dalla bocca getto fiamma e foco,
e tengo Mongibel dentro del petto,
che ovunque vado tutto il mondo infoco ;
chi a me s’accosterà vedrà l’effetto,
che in cener manderollo col mio foco ;
nè con altro combatto che col fiato,
col quale abbruggio il mondo in ogni lato.
Trema ogn’uno per me, sospira e lagna,
e col mio nome fo tremare il centro :
ovunque io vado spazzo la campagna
de’ Mostri, e cadon le città dov’entro ;
alla mia forza valorosa e magna,
cedono i fier Ciclopi ; e tengo dentro
dal petto un arsenal pien d’Alabarde,
di Spade, Ronche, Picche, e di Bombarde.
Non vi accostate, o miseri mortali,
che da la bocca mia sputo saette,
e le parole mie son tutte strali,
con quali al mondo spavento si mette ;
fuggon da me le fiere e gli animali,
l’aria ne langue, e van le nube strette
insieme, ch’ han timor molto e non poco,
di non restar consunte al mio gran foco.
Trema, si crolla, s’ange, e si tormenta
il Mondo tutto al mover le mie piante,
da me fuggon le belve e si spaventa
il fier Leone, il Drago, e l’Elefante ;
geme la Terra e forte si sgomenta,
cadono i monti e seccansi le piante,
fa il Mar tempesta, e mena gran fortuna,
e per non mi veder fugge la Luna.
Io ho tanta forza in questo picciol dito,
che crollar fo le Torri e i campanili,
atterro alti edifizi e adeguo a lito
i più superbi tetti, e rendo humili
i più tremendi Mostri, e al mio convito
tengo fieri giganti, a me simili,
nè polli a la mia mensa, o cappon grassi,
voglio, ma pasto mio son marmi e sassi.
E più, pascomi ancor di tigri e lupi,
questo è per me quel delicato pasto.
E fra grotte tremende e gran dirupi,
a caccia vado e con tutti contrasto ;
e fuor d’atre spelonche, e statui cupi
tiro i serpenti, & il lor dosso attasto
con la mia claua, che ogni forza attera,
che d’Ercole fu già, mentre viv’era.
Udite, udite, questa è una gran possa,
pian, pian finisco il mio combattimento ;
Caucaso, Tauro, Atlante, Olimpo, & Ossa,
sentendomi parlar prendon spavento :
e al mover del mio piè si move, e scossa
il globo tutto, & al fuggir non lento
Marte si mostra, e per i miei furori
non v’è più donne, Cavalier, nè amori.
Il più bravo di me mai fu trovato
e basta sol ch’io guardi per traverso ;
e da quest’e da quel signor chiamato
son per mia fama in tutto l’Universo ;
mando io in dui pezzi un cavallier’armato,
Esso, e il cavallo è in poluere converso.
Dieci elefanti, con un pugno solo,
come la fama mia ne gira a volo.
E che terror più grande e che spavento
al Mondo, e che flagel fia de’ viventi,
che ovunque vado apporto tal tormento,
che spirar non ardiscon manco i venti ;
mangio bombarde, schioppi, e mi contento
bever di draghi il sangue e di serpenti.
Con un martel di fabbro, io son sicuro
frangere e fracassare un uovo duro.
Ma che occorre a brauar se il mio valore
da un polo all’altro si dilata e stende,
che con un grido sol pongo terrore
al Mondo tutto, e un mio sospiro accende
l’aria, e d’intorno, ove il mio gran furore
le Nubi passa, e sopra il Cielo ascende ;
E se il mio nume giunge in quella parte,
si cacan nelle braghe Ercole e Marte.

CONTRASTO ALLA NAPOLITANA

ridicoloso

Capitano

Le brauure de sto Campione,
in tutte atti & attione,
quanno piglia la spada in mano
pare un Ettore Trojano.

Zanni

Questo re de li poltroni
in tutte atti & attioni,
quando piglia la spada in mano
fa le proue di Martano.

Capitano

Se sapissi questa mano,
quanti morti per il piano
spadaccini haue mannato,
resteresti spauentato.

Zanni

Io so ben che n’hai mazzati
de’pedocchi in quantitati,
se ben fai il Mandricardo,
non è il ver, che sei un bugiardo.

Capitano

L’altro giorno con un sguardo
fei stupire uno lombardo,
che ammazzai trenta spagnoli
tutti armati de pistoli.

Zanni

Questo brauo a li spagnoli
li rubbò li ferajoli.
E in Madrili per tal segno
li fu rotto addosso un legno.

Capitano

Chi de honore è tanto degno ?
per ogni Cittade, o Regno
mi ven nanti ogni Signore
a cavallo a farmi honore.

Zanni

L’altro giorno a sto Signore
li fu fatto un grand’ honore,
per rubbare no castrato,
per la terra fu frustato.
il fine.

A queste si aggiungono le due operette : Bravre Tremende – del Capitano – Belerofonte – Scarabombardone da Roc – ca di Ferro – Tratenimento piaceuole in – Dialogo – Di Giulio Cesare Croce (Bologna, Cocchi, 1629) ; e Capitoli, – e pvblicatione del faustoso, e trionfante sposalicio dell’inuitto ca – pitano Marchione Pettola – Bravo Napolitano. Con quattor deci ottaue botta, e rispo – sta, sopra la Morte di Zerbino – Poste in luce per Antonio Merula Siciliano(Bologna, Per il Benacci s. a.). Dopo il nome dell’autore sono le iniziali G. C. C., e Olindo Guerrini (La Vita e le opere di Giulio Cesare Croce, Bologna, Zanichelli, 1879) non sa dir preciso se a un Merula davvero appartenga o al Croce (V. Saggio bibliografico). Io credo che non solo per questa, ma per altre simili operette sia difficile precisare il nome dell’autore. Accadeva per il Croce tra noi, quel che accadeva in Francia per il Bruscambillo (V. Gian Farina), sotto il cui nome, divenuto omai tipico, tante barzellette non sue furon pubblicate. All’articolo Bianchi (De), il Dottore de’ Gelosi, noi vedremo come uno scrittarello dato per cosa del Croce, appartenga realmente al Bianchi stesso. Comunque sia, le due operette in discorso (sono come le altre nella Bibl. Univ. di Bologna, segnate coi N.i 96, e 19) hanno importanza non lieve per la nostra maschera ; la prima specialmente, in cui il carattere ne è determinato dal seguente sonetto a’ Lettori :

Queste non son legende fauolose
Di Grilo, del Gonella o di Morgante,
Fatte per compiacer il volgo errante,
O tratener le genti curiose,
Ma l’imprese tremende e spauentose
D’vn nuouo Capaneo d’vn nuouo Atlante,
Qual non stima Gradasso o Sacripante,
Nè chi nel mar l’alte colonne pose.
Qui mandritti, rouersi, e stramazzoni,
Mangiar bombarde, sputar stocchi e spade,
Tagliar pilastri, e franger torrioni,
Vdrete tanta stragge, e crudeltade,
Da far impaurir Orsi e Leoni,
Non che fanciulli, o done per le strade.
Ben è la veritade,
Che costui che col guardo il mondo aterra,
Brau’a credenza, e mai non fu a la guerra.

L’operetta scritta in settenarj accoppiati ha 733 versi, di cui il primo sciolto ; ed è il solito dialogo del Capitano col servo (Frisetto), rappresentati nel frontespizio da una sgorbiatura che vorrebb’essere una incisione in legno ; dialogo di cui dà il sunto lo stesso Croce in un avviso Agli nobillissimi Lettori, in data 1° gennaio  1596.

… Non ho voluto mancare quest’anno di non entrare in campo con questa mia operetta piena di piacevolezze, facendo comparire in Scena un taglia cantone e spezza cadenazzo, il quale frappando, si vanta con un suo ragazzo scaltrito, e trincato, di hauer fatto prove fuori dell’uso humano. Ma mentre il detto taglia, spezza, urta, abbatte, e fracassa il mondo con le chiacchare, esso Ragazzo lo burla, uccella, beffa, e lo deride ; anzi fingendo farli buone le sue ragione, vien a scoprire tutte le sue vigliaccherie………………

Un terzo opuscolo del Croce che non mi fu dato vedere, è il 22° del Saggio bibliografico citato, del quale ecco la descrizione : Bravate, razzate – et arcibulate – dell’ Arcibravo Smedola vossi, sforma piatti, sbrana Le – oni, sbudella Tigre & ancidatore de gli Huomini – muorti. Chillo che frange li monti e spacca lo monno – per lo mezzo & insomma l’arci – bravura, terrore e tremore della Tier – ra e dell’ Inferno – Con la capricciosa e ben compita Livrea del detto – Smedola vosi. Opera bizzarrissima e nova – di Giulio Cesare Croce. In Bologna per gli Eredi del Cochi, 1628. Quattro carte in formato piccolo. Contengono prima – dice il Guerrini – le bravate di questo Smidolla ossa in 14 ottave, nelle quali, con qualche parola napoletana, sono narrate prodezze e vittorie inverosimili sopra draghi, chimere, ecc. ecc. « Dal che appare come fra queste dello Smidolla ossa e le ottave pubblicate (pag. 76) del Capitano Spezza capo e Sputa saette sien grandi punti di contatto. »

(Quanto agli attori che rappresentarono i varj Capitani, vedi De Fornaris, Fiorillo, Gavarini, Bianchi, Mangani, Boniti, Fiorilli, Benozzi, ecc. ecc.).

Parte importantissima ha un Capitan Basilisco spagnuolo, negli Amorosi Inganni di Vincenzo Belando detto Cataldo Siciliano (Parigi, David Gilio, m. dc. xi) il quale del Suo Capitano e del Nostro dice nel proemio al Benigno lettore :

Non macherò anco d’auertirti, che l’anno passato son state poste in luce le Brauure, o Rodomontate del Signor Francesco Andreini comico geloso, detto il Capitan Spavento da Vall’Inferna, marito della non mai abbastanza lodata Signora Isabella Comica Gelosa & Academica intenta, morta a Lione quattr’anni sono, vero honore della Comica eloquenza, mia singularissima & antica Padrona. Ho letto infine tutte le sue Brauure, e trouo, che in qualche luogo io m’ho apposto, ma con vn altra testura, come tu potrai vedere nell’opera sua ch’a mala pena gionta in Francia, gli hanno dato di becco, e tradottala in lingua francese, cioè francese e italiana ; ma non più che sei ragionamenti. (Le Capitan, par un Commedien de la Troupe Jalouse « Francesco Andreini » trad. par Jacques de Fontenes. Paris, Ant. Robinot, 1633, in 8°, fig. vel.).

Il Capitan Basilisco parla spagnuolo, come il Capitan Coccodrillo…. Eccone l’entrata, che dà subito l’intonazione del tipo.

Quando yo pienso a mi terribilissima estrema terribilidad de tal manera me espanto, que no puedo caber en mi mismo, yo creo que veyntidos mil maestros deguarismo no podrian contar en tres anos los hombres que maté con esta mi espada Durindana ó castiga Locos…. etc.

Importantissimo è il Capitano Fracasso che troviamo nel Beffa, Comedia del Signor Nicolò Secchi (Parma, Viotti, 1584). Bel tipo di ciarlatano, salvator della patria, amico dei Principi.

Ah Dio, gran cosa, che dovunque io vo, como i Principi mi danno di naso una volta, non ponno più far senza di me : il Duca di Ferrara vecchio (buona memoria !) e’mi par anco di sentirlo : Capitano Fracasso di quà ; Capitano Fracasso di là, non gli poteva nascer fastidio, che subito non lo sputasse in seno a me : dormiva, fa tuo conto, sotto l’ombra mia.

Ogni tanto gli bisogna sentirsi accarezzar l’orecchio delle sue lodi : e si volge a’ parassiti scritturati ad hoc. Oh essi sanno il lor mestiere alla perfezione ; essi conoscono l’umor del padrone, lo strisciano, l’incensano, lo magnificano, mentre bevono e mangiano a sazietà.

Dove sei tu, Scovino ?

Qui presso ad un huomo intrepido, bellicoso, e formidabile, terrore degli eserciti, spavento de nemici, folgore della guerra, che Marte fa cacar nelle braghe, e pisciar sotto Bellona.

E dopo che Scovino e Tempesta gli han noverate varie sue imprese straordinarie a lui sconosciute, egli dice :

Cap. E quell’altra fazione, ch’io voglio dire ?

Scov. Ah, ah, me ne ricordo, e fu vero, e vi fui presente. Cancaro ! La fu brava !

Cap. Che cosa ! ? Qual vuoi tu dire ?

Scov. Quello che volete voi.

Cap. Non so quello che tu vogli dire.

Scov. Manco io, mi è uscito di mente, ricordatevene voi.

Temp. Me ne ricordo io : in Sofonia ducento, cinquecento in Alemagna, sotto Dura, cento cinquanta in Ongheria ammazzaste in quindici dì.

Scov. Questa volevo dir io.

Cap. Quanta somma d’huomini è questa ?

Scov. Sette mille, e ducento, e decinove.

Cap. Bisogna a ponto che sian tanti : tu hai fatto giusto il conto : cancaro, tu hai buona memoria.

Scov. La pancia me la sveglia.

Cap. Mentre tu sarai si osservante de’ miei fatti preclari, sarai sempre de’primi alla mia tavola.

E Tempesta allora per non esser da meno del suo collega e crescer sempre più nelle grazie del Signor Suo, esclama :

Temp. Potta di me, che pazzie si fanno in quella prima gioventù ! E’ fu un tempo che il Capitano ed io non ci mettevamo le scarpe d’altro che di barbe strappate a questo, e a quell’altro bravo ; i matterazzi e cuscini non si facevano d’altro in casa nostra.

Cap. Quante volte hai tu veduto, Tempesta, maggior fasci di barbe svelte in casa mia, che di fieno il verno ?

Temp. Non vi dico ? Non si dormiva su altro…………………………………..

A questo del Secchi fa riscontro il bravo (Spavento) del Parabosco nel Pellegrino, ove sono le medesime fanfaronate e più volte le medesime parole :

…. oh io ti giuro
che il letto dove io dormo è fatto tutto
de’ peli de la barba di coloro
c’ hanno avuto tal’ hor la mia disgratia.

Nel Servo fedele, Commedia nuova per Tiberio Lunardi, bolognese (Venezia, Altobello Salicato, 1597, in 8°) il bravo si chiama Tagliavento, ed è la solita rifrittura dello spaccone che sbraita per dieci, e ne busca per venti, a cui si contrappone il solito servo, Trema, gran capitano anche lui,… in cucina.

Degno di maggior nota è il Capitan Frangimonte, nella « Regina Statista d’Inghilterra, et il Conte di Esex, Vita, successi, e morte, di Nicolò Biancolelli (V.) » annunziato nella scena sesta dell’atto primo col nome di Capitan Scarabombar done. Fuorchè nel primo discorso di detta scena, che ha il peccato d’origine, questo Frangimonte, Capitano della Guardia, diviene un semplice mortale, millantatore, fanfarone talvolta con Picariglio il servo del Conte, ma semplice e ossequioso sempre con la Regina. Su questa tragedia, per l’interesse e situazioni drammatiche a grande effetto pregevolissima, avrò da tornare al nome di Biancolelli.

Nello Spedale, comedia del signor Conte Prospero Bonarelli Della Rovere (Macerata, Grisei, m. dc. xxxxvi) il bravo si chiama Termodonte ; del quale trovo assai notevole l’entrata in compagnia di Sandron suo parassito, a cui narra l’origin sua.

ATTO II

SCENA PRIMA

Termodonte, Capitano. Sandron, Parasito

Chi credi tu, o Sandron, che fusse colui che uccise lo spaventoso serpente di Lerna, il Leon Nemeo, l’arcadico Cignale, e che strascinò fuor dell’inferno al dispetto del grandissimo Diavolo, l’arrabbiato Cerbero ? Chi scornò il superbo Acheloo, chi fra le proprie braccia fece crepar quel gigantonaccio di Anteo, e chi finalmente diè fine al resto di quelle dodici famosissime imprese, delle quali son piene l’istorie e le favole ? A dirtelo, io fui quello. Chi pensi tu che fosse quell’altro che diè la vittoria a’Greci contro i Trojani, ammazzando di sua propria mano quasi tutti i figliuoli di Priamo, & in particolare il sforzatissimo Ettorre ? Sono stato io. Chi t’imagini tu che sia stato quell’altro, che domò gl’infuocati Tori di Colco ? Io pure fui quello. E colui che liberò dalle ingorde fauci della smisurata Balena la bella Andromeda ? Quell’anco io fui. E ne’tempi meno antichi, dimmi, chi ti dài tu a credere che fusse colui, che in quel famoso duello ammazzò di sua mano il superbo Agramante e il fier Gradasso ? Sono stato io. Si come quell’altro finalmente chiamato il fatal guerriero, per cui fu tolto il giogo indegno a Gerusalemme ; e così va tu discorrendo di mano in mano, che troverai che io sono stato non solo Ercole, Achille, Giasone, Perseo, Orlando, e Rinaldo, ma qualunque altro più famoso e bravo non sol soldato, ma Capitano che sia mai stato, sia, o sarà al mondo. E tutto questo in virtù dell’ opinione di quel filosofo, che tiene che l’anime vadino passando da un corpo nell’altro, laonde l’istessa anima, che informò prima Ercole, e poi gli altri suddetti, è passata finalmente in questo mio corpo, e però coloro ed io siamo gl’istessi, anzi con la medema dottrina io ti potrei giurare di tenermi nel corpo non solo l’anima di quei bravacci, ma quella ancora del più forte Leone, della più spietata Tigre, dell’Orso più arrabbiato, e del più fiero Drago, che nodrissero giammai le selvose montagne dell’Asia, o le arenose campagne della Libia.

Per quanto concerne le prime apparizioni del Capitano in sulla scena, non è male dare uno sguardo alla Farsa satyra morale di Venturino Venturini di Pesaro (prima del 1521), della quale Lorenzo Stoppato pubblica un sunto nel Capitolo V de’suoi saggi — La Commedia popolare in Italia (Padova, 1887). Il bravo (Spampana) così entra in iscena dimostrandosi in parole e in gesti brauissimo brauo.

Credete a me che haueste gran sapere
Voi Dei, che ue ponesti tanto ad alto ;
perchè non ho la forza col uolere.
Ch’io salirei la suso al primo salto,
e ui farei con questa spada in mano
tutti qui traboccare al terren smalto.

E va continuando in questo tenore per tredici terzine.

Altro tipo di Capitano è il Giangurgolo calabrese, il quale fonda il suo carattere più specialmente sulla voracità. Ceduta la Sicilia a Vittorio Amedeo di Savoja, i gentiluomini spagnoleggianti si ridussero a Reggio di Calabria : spagnoleggianti per partito, spagnoleggianti per costume ; chè, affamati e stangati com’ erano, tutti guardavan d’alto in basso, infilando spacconate una più grossa dell’altra. Giangurgolo, Giovanni il goloso, (?) ne era la caricatura. I maccheroni ordina a carrate, il pane a barrocciate, il vino a botti. Solo, si batte contro le pareti con inaudito coraggio ; pauroso all’eccesso, schiva le donne, se bene ad esse attratto, perchè non vorrebbe sotto qualche sottana si celasse un uomo. Principe siciliano vorace, libertino, millantatore, non serba l’incognito che dinanzi agli sbirri : e si capisce. La caratteristica della maschera di Giangurgolo è il naso di cartone enorme : il vestito è, nell’insieme, di nobile spagnuolo col cappello acuminato che ricorda quello del pulcinella. La maschera riprodotta qui dietro è la stessa, incisa dal Joulain, che il Riccoboni pubblica nella sua opera (Histoire du Théâtre Italien. Parigi, 1727, in 8°).

Non sempre, come accadde di molte maschere, il Giangurgolo fu capitano. Col mutar degli attori, se ne mutò anche l’indole sulla scena. Fra gli Scenarj inediti della Commedia dell’arte pubblicati da A. Bartoli, ve n’ha alcuni (I quattro paggi, I tappeti, ovvero Colafronio geloso) ne’quali Giangurgolo è uomo di Corte e oste ; intraprendente, astuto, compiacente. Qualche volta, pur restando sempre calabrese, muta anche il nome. Nella commedia del Dottor Pietro Piperno (Disperarsi per la speranza, overo La perfida Fida. Napoli, Mollo, 1688) la maschera di Giangurgolo ha assunto il nome di Morello e il carattere di un servo sciocco e pauroso. Ho detto : la maschera di Giangurgolo, perchè, evidentemente, così dall’ incisione che è qui nel frontispizio, dove si vede Morello collo stesso naso e collo stesso cappello, caratteristiche del capitano calabrese, come dalla commedia stessa, nella quale egli è chiamato semplicemente Calabrese, e per beffa bello naso, e nella quale dopo aver detto a un certo punto a Taccone : lassa mi dunari sta littra, si sente da lui rispondere : tu puro puorte lettere ? E scusame, Culabria mia…. ; evidentemente, dico, vediamo non trattarsi d’altro che del Giangurgolo, o meglio del calabrese, di cui Giangurgolo non era che un lato.

Tutti traducono Giangurgolo : Giovanni gurgolo, o goloso. Nel Trionfo di Scappino di Zan Muzzina (V. Bartolommeo Bocchini), è fra gli Zanni un Zan Gurgola, da cui forse è venuto erroneamente il nome di Giangurgolo, come da Zan Ganassa si volle fare da alcuni Giovanni Ganassa (V.). Al proposito delle trasformazioni accennate più sopra, noi troviamo nel Perrucci (Arte rappresentativa) queste precise parole : « quando poi il Calabrese a cui dàssi nome di Gian Gurgolo passa alla parte di Padre, si servirà delle regole de’ Vecchi, osservando di quelli i costumi. »

Ecco il saluto Calabrese alla Donna con bravura, che trascrivo dal citato libretto assai raro del Perrucci, nella traduzione italiana ch’egli stesso ne dà.

Ben habbia quando ti vidi ; coteste treccie son ligami d’oro, funi, e cordelle, ch’hanno cinto d’intorno l’ Ercole della Magna Grecia. Quegli occhi, che vibrano saette hanno pertuggiato, succhiato, bucato, perforato il cuore al cuore di tutti i cuori miei ; la bocca è un Fialone, ove fanno nido le Grazie ; e Amore fatto ape vola al Ozimo, o Basilico di frondi grandi per suggere il miele dall’alma del fiore di Zumpano (Casale di Cosenza), le tue narici son pezzi d’artiglieria, che sbarando, e colpendo in questo petto fanno un dirupo della Casa matta della Bravura del Mondo. In somma cotesta bellezza è lo specchio d’Archimede, che accende un incendio nelle viscere del più gran Capitano degli Eserciti. Dunque giacchè mi prendesti come Pettirosso, Beccafico, o Monedula al trabocchetto, non mi far desiare, liquefare, e andare in succhio. Brami cinque o sei città di quelle che pose Platone nel concavo della luna ? Vuoi il grembiale di Giunone ? La Spada di lama della Lupa di Marte ? La falce di Saturno, lo Scudo di Pallade ? I cavalli saltanti del sole ? Che faccia boldoni del Sangue di Venere ? Brami il Colascione che fece d’una tartaruga Mercurio ? Apri la bocca, che se ben vorresti il Pitale di Giove fatto di Stelle, e l’orinale d’un pezzo di luce te lo porterò ; e con un passo disteso, ascendo al cielo, pongo sossopra il firmamento, e fo saltare a calci in culo gli Arieti, i Tori, i Leoni, gli Scorpioni, i Gemini, le Orse, gli Asini, e tutte le Bestialitadi delle stelle.

A complemento dello studio sulla maschera del Capitano, V. anche Adolfo Bartoli (op. cit.) che nella sua dotta introduzione a pag. liii, liv, lv riferisce i vari nomi de’ Bravi nelle varie commedie, e a pag. clxix, clxx i nomi dei Comici che più si acquistaron fama nella rappresentazione di alcuni di quei tipi.

Quanto l’ Andreini studiasse attorno al Capitano Spavento, sappiamo dal discorso preliminare alle sue Bravure.

Gentilissimi lettori, mentre ch’ io vissi nella famosa Compagnia dei comici gelosi (il cui grido non vedrà mai l’ultima notte) mi compiacqui di rappresentar nelle commedie la parte del milite superbo, ambizioso e vantatore, facendomi chiamare il Capitano Spavento da Vall’ Inferna. E talmente mi compiacqui in essa, ch’io lasciai di recitare la parte mia principale, la quale era quella dell’innamorato. E perch’ io bramava di preservarmi, e di non dicadere da quel grido che acquistato m’avea in quei tempi famosi, mi diedi con molto studio allo studio della parte del sopranominato Capitano solo per renderla, più che per me si poteva, ricca e adorna.

Per mostrare quello ch’era, o che avrebbe dovuto essere il Capitano, mi piace riportar qui le parole di Pier Maria Cecchini, altro comico valoroso di quel tempo : e così man mano andrò facendo citando a ogni suo luogo quelle altre parole concernenti altri tipi di commedia ; parole che dànno più che mai l’idea di quel che fosse a que’ tempi la scena italiana.

Capitano

Questa iperbolica parte par che suoni meglio nella Spagnuola, che nell’Italiana lingua, come quella a cui vediamo esser più proprij, & più domestici gl’ impossibili. Hora vien questo personaggio si nell’uno, come nell’altro Idioma esercitato con tante le sconcertate maniere, che il purgarlo da i superflui sarebbe al certo un ridurlo poco meno che senza lingua. Che uno di questi tali dichi, che la Regina di N. muora per lui, questo puol derivare da una pazza opinione fondata su la benignità di uno sguardo ricevuto forsi anche a caso da quella Maestà. Ch’egli si vanti di generalissimo in Fiandra, questo si è veduto in altri a’ quali per ischerzo sono state appresentate Patenti false. Ma ch’egli ha il Coliseo di Roma per Pallone, & la torre de gl’Asineli da Bologna per bracciale, & che se ne vadi trastulando per solazzo, ò questo non si può udire senza tenerlo per pazzo, & s’ è tale perchè poi darli tua figlia, ò tua sorella per moglie ?

Piace, & è di molto diletto questa nobilissima parte quando vien però leggiadramente trattata da personaggio habile di vita, gratioso di gesto, intonante di voce, vestito bizzaro, e tutto composto di strauaganze, il quale poi si eserciti in parole, benche di lor natura impossibili, tuttauia credibili da chi abbandona la mente nel vasto delle glorie come sarebbe il dire :

« Quando che il Turco seppe il mio arriuo al Campo sotto Buda, non osò mai di uscir dalle tende entro le quali non si teneua meno sicuro sin tanto, ch’egli non seppe ch’io haueua lasciato la mia spada in Vienna per farli un fodro della pelle di Suliman Sultan.

« La stragge ch’io feci dell’inimico, risserba per segnalata memoria un gran monte d’ossa, che l’Olimpo al par di quello perde il nome, & quasi pare una spatiosa pianura.

« Non è pur anche cessato il corso del sangue, ch’ io mandai per tributo al Danubio l’anno che quasi distrussi la setta maometana con quel brando, ch’io cinsi poi a Carlo quinto, quando che Trionfante entrò in Tunisi. »

Queste sono tutte cose da non credersi, ma si ben à da comportar, che le credino quelli, che sono auuezzi andar il transito per la mente a questi ridicolosi fantasmi, i quali non sono totalmente improprij a chi esercita la natura nell’ impossibilità dell’ imprese.

Io ho udito in Pariggi stando a mensa con alcuni (non so s’ io dica strauaganti, o bestiali humori) auuezzi però alle più rabbiose guerre di Europa : Io con tanti cavalli, in tanti giorni, mi darebbe l’animo di prender il Castel di Milano, & poi passarne per Italia, debellare, distruggere, fare, dire ; & perchè uno de’suoi camerata manco furioso li disse ciò non poter essere, costui saltò di tauola, & con un senso rabbioso disse : hor hora ve lo vo a far vedere ; & così veloce partì, che se non mi fosse stato detto, ch’ egli era andato a dormire io gli voleuo raccomandar certe cose, ch’io ho in Ferrara : orsù, vno di quest’ huomini si può rappresentare, su le scene, & lasciar per gli hospitali quelli, che con un salto vanno all’ Impirio a cena con Giove.

Sarebbe facil’il ridur questa parte sotto la benignità dei miei auuisi, ma mi rende alquanto di dubio la frequenza dell’uso di tanti, che l’hanno rappresentata lontana dal mio parere, onde ridotto in natura il costume parebbe loro fuori del naturale ogn’altro modo, & fuori del buon camino ogn’ altro sentiero, che calcassero, & tenessero.

Potrà servir adunque a chi volesse dar principio (caso però che il parer d’altri non li piacesse più del mio).

(Frutti delle moderne comedie et avisi a chi le recita di Piermaria Cecchini nobile ferrarese trà comici detto Fritellino etc. etc. — Padova, appresso Guaresco Guareschi al Pozzo dipinto, 1628, in 4°).

Aveva ragione davvero il Cecchini, come pare a prima vista ? Si atteggiava davvero a Riformatore ? Eran proprio queste grandi differenze fra le iperboli da lui condannate, e quelle da lui difese ? Del Matamoros (Fiorillo) per esempio, il quale « per farc il Capitano Spagnuolo – egli dice nello stesso libretto – non ha hauuto chi lo auanzi, & forse pochi che lo agguaglino ? » Chi dovrebbe andare all’ ospedale ? Colui che con un salto va all’Empireo a cena con Giove, o colui che

…. non con gli occhi sol, ma ancor co ’l fiato
il ciel spaventa, & ogni stella errante,
e se contro gli vien nemico stuolo,
lo fa col soffio gir per l’aria a volo ?
(Vedi Silvio Fiorillo).

E il capitano qui ripreso era Gerolamo Garavini, il Capitano Rinoceronte, che rappresentava il suo personaggio (dice Fr. Bartoli) con armigero impeto, imprimendo timore, e vantando bravure oltre l’umano credere troppo fantastiche, e piene d’iperboli ? O prendeva argomento dalla pubblicazione del suo libretto, per isfogare contro l’autore delle brauure, morto quattr’anni innanzi, padre e suocero innocente, l’odio contro Lelio e Florinda (Giambattista e Virginia Andreini), i quali, come vedremo, furono del Cecchini e della moglie Orsola il vero, continuato tormento ?

Quanto alla Comica Compagnia dei Gelosi, della quale Francesco era capo, ecco quel ch’egli stesso ne scrive :

…. questi tali comici uniti insieme si nominavano i Comici Gelosi, quali havevano un Giano con due faccie per impresa, con un motto che diceva Virtù, fama ed honor ne fèr gelosi. Trappola mio, di quelle compagnie non se ne trovano più, e ciò sia detto con pace di quelle, che hoggidi vivono, e se pur se ne trovano, sono compagnie, che hanno solamente tre o quattro parti buone, e l’altre sono di pochissimo valore, e non corrispondono alle principali come facevano tutte le parti di quella famosa compagnia, le quali erano tutte singolari : insomma ella fu tale che pose termine alla drammatica arte, oltre del quale non può varcare niuna moderna compagnia di comici.

Di essa Compagnia facevano parte :

UOMINI

Andreini Francesco Capitano Spavento
Lodovico da Bologna Dottor Graziano
Giulio Pasquati da Padova Pantalone
Simone da Bologna Zanne
Gabriele da Bologna Francatrippe
Orazio, Padovano Innamorato
Adriano Valerini da Verona Id.
Girolamo Salimbeni da Fiorenza Zanobio da Piombino

DONNE

Isabella Andreini, Padovana Prima donna
Prudentia, Veronese Seconda donna
Silvia Roncagli, Bergamasca Franceschina

Per dare un vero saggio dello stile poetico dell’Andreini, non essendomi stato possibile di vedere alcuna delle sue pastorali, pubblicherò anch’io il sonetto in lode di Flaminio Scala, (V.) stampato col discorso ai cortesi lettori, in fronte al Teatro delle Favole rappresentative (Venezia, Pulciani, 1611, in 4°) di quel celebre comico, e che è qualcosa meglio di quel malaugurato Capitolo al Principe di Savoja.

Giacean sepolte in un profondo oblio
le Muse, quando tu, Flavio gentile,
le richiamasti, e con leggiadro stile
principio desti al nobil tuo desìo.
Per te godon le scene il lor natio
onore ; e già sen vola a Battro a Tile
glorïoso il tuo nome, e l’empia e vile
invidia paga il doloroso fio.
Godi dunque felice un tanto onore,
che’l mondo in premio de le tue fatiche
lieto ti porge, e ne ringrazia il cielo ;
quindi avverrà che ognor le muse amiche
avrai, e colmo d’amoroso zelo
a le scene darai gloria e splendore.

Nota. – Quanto al ritratto dell’Andreini riprodotto a colori da un acquarello di F. Francini e inciso da A. Fiedler della Casa Deekelmann della Chaux de Fonds, ecco quel che ne dice F. Bartoli : Bernardino Poccetti, celebre Pittore, nel dipingere ch’egli faceva parte del Chiostro della SS. Annunsiata in Firense, volle in una di quelle lunette introdurvi il ritratto di Francesco Andreini, protestandosi di farsi più famoso per l’imagine sola di lui, che per le tante altre, che colà in si gran copia egregiamente aveva dipinte. Non era difficile rintracciarlo colla scorta del ritratto di lui, fatto dal vero dal Tumermann (pag. 55) a quello della lunetta (pag. 83) somigliantissimo. Al ritratto dell’Andreini, s’aggiunge, per l’identità di esso, lo stemma Andreiniano che è al basso della lunetta, fra i due segni II dell’iscrizione, di cui ecco i colori : gialli i monti, turchino il fondo superiore e rosso l’ inferiore ; le spade bianche. Il medesimo stemma è nella cornice del ritratto di Gio. Battista dipinto dal Procaccini. Il soggetto trattato nella lunetta è il seguente :

Il Beato Sostegno uno de’ sette fondatori al secolo chiamato Gherardino I Sostegni dal Beato Filippo lasciato suo general vicario nella Francia vien raccomandato in sieme con la religione di già sparsavisi per opera del I Beato Manetto a Filippo Re in Parigi l’anno M CC LXIX.

Per quante ricerche io abbia fatte in istorie e biografie e carteggi di artisti, in istorie d’ arte, e illustrazioni degli affreschi fiorentini, non mi fu dato rintracciar le parole del Poccetti (il suo vero nome fu Barbatelli) alle quali forse altre se ne sarebbero aggiunte a dichiarazione dell’altro ritratto, il giovane che è di fronte a Francesco, che io, per la perfetta somiglianza, benchè di età diverse, con quello del Procaccini, ritengo essere indubbiamente del figliuolo Giovan Battista.