(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo primo — Capitolo quinto »
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(1785) Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente « Tomo primo — Capitolo quinto »

Capitolo quinto

Difetti della musica italiana verso il fine del Cinquecento, e mezzi presi per migliorarla. Stato della poesia volgare. Firenze inventrice del melodramma. Prima opera seria, e suo giudizio. Comparse. Arie. Cori. Prima opera buffa, e suo carattere.

[1] Il metodo progressivo dell’umano ingegno nelle sue investigazioni, gli avanzamenti fatti nell’armonia e nella poesia, il favore largamente concesso da Leon X alla musica, della quale fu intendentissimo, e lo studio dell’antichità da tre secoli pertinacemente coltivato doveano in un secolo d’attività e d’imitazione sollicitar la fantasia pronta e vivace degl’Italiani a rinovare tutto ciò che aveano fatto gli antichi. E siccome credevasi comunemente ch’eglino avessero le azioni drammatiche intieramente cantato, così s’avvisarono d’imitarli.

[2] Emilio del Cavalieri romano musico celebre di quel tempo fu il primo a tentar l’impresa nel genere più semplice della pastorale, e due componimenti di questa spezie intitolati la Disperazione di Sileno, e il Satiro lavorati da Laura Guidiccioni dama lucchese mise sotto le note fin dall’anno 1590. Ma non essendo fornito abbastanza di quel talento, né di quella cognizione della musica antica, che abbisognavasi per così gran novità, e ignorando l’arte d’accomodar la musicabile parole nel recitativo, altro non fece che trasferir alle sue composizioni gli echi, i rovesci, le ripetizioni, i passaggi lunghissimi, e mille altri pesanti artifizi che allora nella musica madrigalesca italiana fiorivano. E però mal a proposito è stato annoverato fra gl’inventori del melodramma da quegli eruditi che non avendo mai vedute le opere sue, hanno creduto che bastasse a dargli questo titolo l’aver in qualunque maniera messo sotto le note alcune poesie teatrali.

[3] Ma nella carriera delle arti e delle scienze gli errori stessi conducono talvolta alla verità. Il grido che questo musico avea levato fece parlar molto di lui, e del suo tentativo massimamente in Firenze in casa di Giovanni Bardi de’ Conti di Vernio, cavaliere virtuoso e liberale, di gran cuore, d’ottimo gusto, di gentilezza somma, di molta cognizione in ogni genere di lettere e conseguentemente stimatore giusto, e amante de’ letterati, a’ quali ogni aiuto e favore somministrava: qualità tutte che per la difficoltà di trovarsi riunite in una sola persona rendono egualmente stimabili ma forse più rari i veri mecenati che i veri geni. Da lui perciò concorrevano i primi uomini della città tra quali si distinguevano Girolamo Mei, Vicenzo Galilei padre del Colombo della filosofia, e Giulio Caccini gentiluomo romano per passar le ore non, come è il costume de’ nostri tempi, in oziose ciccalate, in giuoco rovinoso o in occupazioni più vergognose frutto della trascurata educazione e della pubblica scostumatezza, ma in dilettevoli e virtuose adunanze, ove la coltura dell’ingegno, il non frivolo spirito e l’attica urbanità vedeansi rifiorire insiem col sincero amor delle lettere e delle utili cognizioni. I loro ragionamenti cadevano per lo più sugli abusi introdotti nella musica moderna, e sulla maniera di restituire l’antica sepolta da tanto tempo sotto le rovine dell’Impero Romano. A riuscir bene in così nobile divisamento due furono i mezzi stimati opportuni.

[4] Il primo di rischiarare le tenebre ond’era avvolta la musica antica, la quale da Boezio e da Sant’Agostino fino a que’ tempi non ebbe alcuno scrittore che presa l’avesse ad illustrare; e di toccar principalmente que’ punti ne’ quali consistendo a giudizio degli uomini saggi la sua maravigliosa possanza, potevano trasferiti alla musica moderna contribuir a migliorarla, cioè la dottrina dei generi e dei modi. A cotal impegno s’accinse prima il Mei componendo un libro che diè poscia alla luce intitolato Della musica antica, e moderna con un altro De Modis Musica inedito finora, i quali quantunque abbondino di errori rispetto alla musica antica a motivo che gli autori greci appartenenti a siffatte materie non erano tanto illustrati in allora quanto lo sono al presente dopo le interpretazioni eccellenti del Meibomio e del Wallis, dopo le diligenti ricerche del Kirkero, d’Isaacco Wossio, e soprattutto dell’Abbate Roussier nella sua per ogni riguardo maravigliosa dissertazione intorno alla musica degli Antichi; pure sono molto pregievoli per quella età. Indi corse il medesimo arringo Vincenzo Galilei pubblicando il Fronimo cogli altri dialoghi sopra la musica, opere piene di erudite notizie, di riflessioni interessanti, e nonostante gli abbagli a cui dava luogo l’imperfetta idea che allora s’avea del vero sistema musicale, delle migliori che ci rimangono di quel secolo fortunato. Avanti a loro Arrigo Glareano, scrittore svizzero, e Don Niccolò Vicentino de’ Vicentini, tentarono d’accomodar alla pratica moderna essi generi e modi, ma con evento poco felice, imperocché non compresero che la nostra musica appoggiata su fondamenti troppo diversi non ammettea il severo andamento di quella dei Greci. Ma di ciò a me non s’appartiene il parlare; basterà dire soltanto che la disputa su tali oggetti fra il Vicentini e Vincenzo Lusitanio scrittore di musica anch’egli, che fioriva verso la metà del secolo decimosesto, divenne così interessante che divise la maggior parte dei letterati italiani, e si sostenne dai due campioni una spezie di pubblica tesi nella cappella del papa alla presenza del Cardinale di Ferrara, e di tutti gli intelligenti nelle scienze armoniche che allora si trovavano in Roma. Il Vicentini, che difendeva altro non essere stata la musica greca se non se una confusione de’ nostri tre generi cromatico, diatonico ed enarmonico fu riputato aver il torto in paragone del Lusitanio, che sosteneva non comprendere l’antica musica fuorché il solo e schietto diatonico55.

[5] Il secondo mezzo più utile, e che bisognava di maggior talento era quello di simplificar l’armonia, e di promuover l’espressione troppo ingombrata da arzigogoli ed arabeschi ridicoli. A far conoscer meglio lo stato in cui si trovava allora la musica, e per conseguenza le fatiche e i meriti di que’ valentuomini italiani che intrapresero di correggerla, fa di mestieri ripigliar da più alto la trattazione.

[6] La consonanza, cioè quell’intervallo armonico, nel quale i due toni grave ed acuto s’uniscono senza confondersi in maniera che l’orecchio percepisce facilmente la differenza e la conformità, l’unione e la distinzione, fu, al mio avviso, trovata per mero accidente, e introdotta in seguito nella musica a cagion di piacere. La natura donando agli oggetti de’ nostri sensi corporei le qualità necessarie per dilettarli, ha voluto che ogni suono principale venga accompagnato da altri suoni gradevoli all’udito, come ogni raggio sensibile di luce porta seco parecchi altri raggi colorati acconci ad invaghir l’occhio degli esseri animati. L’osservazione replicata di tal fenomeno fece considerar essi suoni come parti costitutive dell’armonia. Questo è quanto può dirsi rispetto al piacere che arreca l’accordo perfetto nelle consonanze, e il voler sapere più oltre è lo stesso che perdersi in un labirinto di metafisica più oscuro che non è il caos dipinto dal Milton nel Paradiso perduto. Ma avendo la natura limitate le consonanze ad un numero scarso, s’avvidero i musici che il ritorno frequente de’ medesimi tuoni quantunque gradevoli potrebbe alla fine degenerar in noia e fastidio per troppa monotonia. Bisognava per tanto o moltiplicar le consonanze, o trovar il modo di renderle con qualche novità più piccanti e più vive. La prima cosa non poteva farsi, perché cangiarsi non potevano gl’inalterabili rapporti messi dalla natura fra i suoni e l’orecchio, e però convenne appigliarsi alla seconda. Questo fu d’introdurre le dissonanze, cioè quell’intervallo ove l’accordo di due suoni si trova così differente e sproporzionato che l’orecchio non può determinare se non difficilmente il rapporto loro, lo che essendo cagione all’anima di qualche pena, a motivo che essa appetisce l’ordine fin nella varietà stessa56, rende cotal rapporto de’ suoni spiacevole. Se v’ha cosa mirabile nelle belle arti questa è il vedere in qual guisa la spiacevolezza medesima delle dissonanze contribuisca all’armonia. Il musico, servendosi di esse come di passaggio d’un accordo all’altro, preparandole prima che arrivino con suoni dilettevoli che cuoprano l’asprezza loro, facendo dopo succedere modulazioni vive e brillanti, che cancellino l’impressione sgradevole, giugne per fino a rendersele, a così dire, amiche, impiegandole in favore delle consonanze, le quali mescolate con quel poco d’amaro arrivano più gradite all’orecchio: nella maniera appunto che i nostri Apici sogliono pizzicar più vivamente il palato coll’uso degli aromati nelle vivande, o per valermi d’un’altra comparazione, come i pittori fanno servire le ombre a dar maggior risalto ai lumi nelle figure.

[7] Finché i musici si fermarono in queste prime nozioni l’uso delle consonanze e delle dissonanze fu di gran giovamento alla musica, quelle per la varietà e vaghezza degli accordi che introdussero, queste pel campo che aprirono al talento dei musici onde ritrovar nuove bellezze, e ravvivar in certe occasioni l’espressione con tratti irregolari ed arditi. Ma ben tosto, come porta il pendio naturale dell’umano ingegno e per l’ignoranza dei tempi, la cosa degenerò in abusi grandissimi. La dolcezza delle consonanze, che dovea riferirsi alia espressione de’ concetti dell’animo, fu presaper se sola senz’alcun riguardo a quel fine. L’orecchio s’avvezzò a poco a poco a compiacersi del puro diletto meccanico de’ suoni senza cercar oggetto più nobile. Le dissonanze, che doveano soltanto usarsi con sobrietà a tempo e luogo, furono prodigalizzate fuor di proposito; si moltiplicarono all’infinito le preparazioni, le risoluzioni, e i passaggi; s’inventarono mille sorta di fioretti e d’ornamenti posticci senz’altra legge che il desiderio strabocchevole di novità, e il capriccio dei musici. Quindi s’introdusse nell’armonia un bello puramente di convenzione, un gusto arbitrario, il quale consisteva nel rivolgere verso ciò ch’era stravagante e artifizioso l’attenzione, che dovea unicamente prestarsi a ciò che è semplice e naturale.

[8] Da che crebbe e si perfezionò il contrappunto formando un’arte di per se, i contrappuntisti presero ferma opinione che le parole e la grazia nel profferirle non entrassero per niente nella natura della musica, la quale secondo loro consisteva nell’armonia complicatissima. Così era indifferente per essi qualunque cosa si mettesse sotto le note: prosa o verso, rozzo o gentile tutto era buono, e si giunse per fino a modular a più voci, e cantare il primo capitolo di San Matteo pieno, come sa ognuno, di nomi ebraici. Un altro argomento, onde si vede ch’essi non curavano punto le parole, si è l’usanza che aveano di lavorar un canto, e sopra esso accomodar poscia l’argomento prosaico o poetico che ne sceglievano, facendo in guisa di quei meschini poeti, i quali dopo aversi formato in testa il piano d’una tragedia vanno attorno cercando nella storia il soggetto cui poterlo applicare. Ciò si vede eziandio dal costume introdotto in que’ tempi assai frequente nelle carte musicali che ne rimangono, di nominar solamente il musico senza far menzion del poeta, come s’egli neppur fosse stato al mondo. Così si legge nei titoli “le Vergini di Palestrina”, “il Trionfo dell’Amore dell’Asola” invece di dire “le Vergini del Petrarca poste in musica dal Palestrina”, “il Trionfo d’amore del medesimo modulato dall’Asola”. Dal che ne veniva in conseguenza che i cantori, nel pronunziar le parole, le storpiassero in così fatto modo che né il significato loro si capiva dagli ascoltanti, né quelli si curavano di esprimere la differenza delle vocali in lunghe, e brevi.

[9] Nulla meno crudele era il governo che si faceva con quel sistema armonico della espressione, ovvero sia dell’arte di muovere gli affetti, che scopo è della musica fondamentale e primario. Il soverchio uso delle dissonanze e delle consonanze esigeva necessariamente varietà di voci, e varietà di suoni. Il concento che indi ne risultava era bensì atto a rappresentar le cose romorose, come sarebbe il fracasso d’una battaglia o d’una tempesta, o qualche altro oggetto composto di parti diverse, di che si vedono tuttora esempi bellissimi ne’ contrappuntisti, ma nulla affatto giovava a esprimere i movimenti della passione. Imperocché confondendosi spesso per cotal mezzo i suoni d’indole opposta, come sono il grave e l’acuto, non solo in due parti che cantassero ad una, ma anche in quattro, in sei, e in più insieme; sovente accadeva che la commozione che potea destarsi nell’animo da una serie di suoni, veniva incontanente distrutta da un’altra di contraria natura. Da ciò anche nasceva l’irregolarità ed ineguaglianza di movimento nelle parti e nel tutto; poiché molte volte mentre la parte del basso a mala pena si muoveva per la pigrizia delle sue note, quella del soprano volava colle sue, il tenore e il contralto sen givano passeggiando con lento passo, e mentre alcun di questi volava, sen giva l’altro passeggiando senza farne quasi alcun movimento; la quale contrarietà e disordine quanto nuoca alla espression musicale non occorre altramente ragionare. Aggiungasi ancora il frequente uso delle pause introdotte da loro, per cui molte volte avveniva che mentre l’una di esse parti cantava la metà o il fine d’un versetto scritturale o d’un ritmo poetico, l’altra le prendeva la mano, o restava indietro cantando il principio del medesimo verso, e talvolta anche il fine d’un altro. Per non dir nulla delle tante difficili inezie onde la musica era allor caricata, da paragonarsi agli anagrammi, logogrifi, acrostici, paranomasie, equivoci, e simili sciocchezze ch’erano in voga presso a’ poeti nel secolo scorso: come sarebbe a dire di far cantare una o più parti delle composizioni musicali attorno alle imprese o armi di qualche personaggio, ovvero su per le dita delle mani, o sopra uno specchio: o facendo tacer le note, e cantar le pause, o cantando qualche volta senza linee sulle parole, e indicando il valor delle note con alcune ziffere stravaganti, o inventate a capriccio, o tolte dalle figure simboliche degli egizi, con più altre fantasie chiamate da essi “enimmi del canto” con vocabolo assai bene appropriato, delle quali ho veduto non pochi esempi. Chi volesse sapere più alla distesa a quali strani ghiribizzi si conducessero in que’ tempi i musici vegga il libro XXII della dottissima benché prolissa opera di Pietro Cerone intitolata Maestro y Melopeo scritta in linguaggio spagnuolo quantunque l’autore fosse bergamasco.

[10] A tale stato avea il gotico contrappunto ridotta la musica, allorché i soppralodati Italiani intrapresero la riforma. Si credette da loro che ad ottener questo fine bisognava lasciar da banda la moltiplicità delle parti, coltivar la monodia, simplificar le modulazioni e studiar con ogni accuratezza le relazioni poste dalla natura fra le parole e il canto, Vincenzo Galilei entrò coraggiosamente nell’arringo col suo dialogo sulla musica antica e moderna, ove in persona del citato Giovanni Bardi venne alle prese coi contrappuntisti, esponendo in modo luminoso gli errori loro, e combattendoli. L’invidia, quell’arma velenosa della bassezza e della ignoranza insiem combinate, non tralasciò di metter in opera le solite cabale contro il merito di codesto illustre ristauratore dell’arte, giugnendo fino a tentar di sopprimere l’incominciata edizione, trafugando il manoscritto originale. E ciò che fa la vergogna delle Lettere, e l’indignazione d’un filosofo, ella prese per istrumento il celebre Zarlino di Chioggia, uomo per altro che godendo d’altissima riputazione e fornito di somma dottrina non avea bisogno di scendere a così vili maneggi. Ma sovente le passioni più basse rodono con acuto morso gl’ingegni più elevati, come i vermi al dire di Sofocle, consumavano le membra di Filottete uno de’ più forti guerrieri dell’esercito greco.

[11] Nè contento di questo il Galilei tanto vi si affaticò coll’ingegno, che trovò nuova maniera di cantar melodìe ad una voce sola, poiché sebbene avanti a lui scusasse di farle coll’accompagnamento degli strumenti, esse altro non erano che volgari cantilene intuonate da gente idiota senz’arte o grazia: nel qual modo pose sotto le note quello squarcio sublime e patetico di Dante, ove parla del Conte Ugolino, che incomincia «La bocca sollevò dal fiero pasto», e in seguito le lamentazioni di Geremia, che grande applauso trovarono allora presso agl’intendenti.

[12] La musica madrigralesca, ch’era a un dipresso carica de’ medesimi raffinamenti, ricevette allo stesso tempo nuovo lustro in Italia da Luca Marenzio, che la spogliò dell’antica ruvidezza e la fece camminar in maniera più ariosa e leggiadra, da Paolo Quagliati romano, da Scipione della Palla maestro di Giulio Caccini, da Alessandro Strigio musico celebre nella corte di Ferrara, dall’Ingegneri, da Claudio Monteverde, da Marco da Gagliano, da Alessandro Padovano, da Ipolito Fiorini musico d’Alfonso II di Ferrara, dal Luzzasco, dal Dentice, da Tommaso Pecci sanese, e da altri valenti compositori, ma sopra tutti dal principe di Venosa uno de’ maggiori musici, che avresse avuti l’Italia, se all’ingegno mirabile concessogli dalla natura eguale studio accoppiato né tvesse. Gli scrittori di quel tempo ci fanno sapere, che i madrigali suoi erano ammirati dai maestri e cantati da tutte le belle: circostanza che dovea assicurar loro una rapida e universale celebrità. La musica strumentale venne anch’essa perfezionandosi di mano in mano se non in quanto alla fabbrica più esatta di essi almeno nella maggior destrezza nel suonarli. La storia ci ha consevati con lode i nomi di Francesco Nigetti inventore del cembalo onnicordo, di D. Nicolò Vicentino ritrovatore d’un altro strumento chiamato “archicembalo”, del Bardella inventore della tiorba, di Pietro Vinci, del Trombicini, del Regnone, del Monzino, del Sinibaldi, di parecchi altri suonatori.

[13] Da tali e tanti stimoli incitato Giulio Caccini uno de’ mentovati nella letteraria adunanza, prese, siccome era di vivo e pronto ingegno fornito, a perfezionare la maniera inventata dal Galilei, e molte belle cose introdusse del suo nella musica, che contribuirono non poco a migliorarla. Uno de’ principali mezzi fu quello d’applicar l’armonia a parole cantabili, cioè a poesie appassionate ed affettuose.

[14] Avvegnaché l’Italia sortisse allora del secolo più glorioso della sua letteratura, e che tanti scrittori bravissimi avessero di già arricchita, e fissatta la più dolce e la più bella delle lingue europee, nullameno per le differenze che corrono fra l’armonia musicale e la poetica, delle quali parlai nel capitolo secondo, la poesia non avea per anco aperti alla musica fonti copiosi d’espressione. I poeti, scrivendo unicamente per esser letti non pensarono al canto già mai. Il Dante, genio rozzo e sublime, atteggiator robusto ma irregolare, nelle bellezze e nei diffetti egualmente intrattabile, offriva ai musici uno stile somigliante alle miniere del Brasile, ove fra la terra e la scoria veggonsi a tratto a tratto strisciare alcune vette d’oro finissimo. Petrarca, il Platone de’ poeti, fu nel parnaso italiano inventore d’un nuovo genere, ch’egli stesso esaurì. La sua lira di tempra affatto originale avea bisogno delle dita del proprio artefice per vibrar que’ suoni celesti. Però i musici, quantunque gareggiassero insieme per illustrarlo, non poterono mai, affastellati com’erano sotto l’imbarazzo d’un sistema complicatissimo, afferrar la dilicatezza di que’ sentimenti semplici insieme e sublimi. Nell’osservar sulle carte musicali i sospiri dolcissimi del Petrarca rivestiti di note dal Villaers o dal Giusquino ti par proprio di vedere il satiro introdotto dal Tasso nell’Aminta, il quale violar vorrebbe con ispida mano le ignude bellezze di Silvia. Maggiormente si scostarono da quel sentiero i freddi rimatori del Cinquecento. Pietro Bembo, che prendendo a imitar il cantore di Laura altro non ritrasse da lui che la spoglia; Angelo di Costanzo celebre per robustezza de’ concetti, e per unità di pensiero benché sovente privo di colorito, e qualche volta prosaico; Giovanni della Casa ricco nella frase, lavorato nello stile, abbindolato ne’ periodi, autore più di parole che di cose; Sanazzaro più vicino ai Latini nel suo poema che scrittor felice nella propria lingua; Rinieri, Varchi, Guidiccione, Molza e mille altri versificatori stitici e insipidi benché puri e regolari non poteano somministrar gran materia alla musica. L’Ariosto e il Tasso, ancorché avessero in qualche luogo fatto maestrevolmente parlare la passione, erano, ciò nonostante, nel medesimo caso per l’indole de’ poemi loro nella maggior parte narrativi, per la lunghezza dei canti, e pel ritorno troppo frequente e simmetrico delle rime nelle ottave. I cori che nelle tragedie italiane erano i soli destinati al canto, non giovavano molto ai progressi dell’arte, e perché comprendevano per lo più lunghe riflessioni morali incapaci di bella modulazione, e perché cantandosi a molte voci, erano più idonei a far risaltare la pienezza e varietà degli accordi che la soavità della melodia. Restavano i soli madrigali, che servivano allora di materia alle musiche di camera, e molti e bellissimi furono a questo fine composti dal Tasso, dal Guarini, dal Gassola, e dallo Strozzi principalmente. Ma la brevità ch’esigevano cotai componimenti, e la chiusa spiritosa che incominciò a introdursi circa que’ tempi, onde simili divennero agli epigrammi di Marziale, non permisero ai poeti trattar argomenti fecondi di passione.

[15] Perciò il Caccini sollecitò per ogni dove gli autori a lavorar a bella posta poesie pel canto, tra i quali D. Angelo Grillo scrisse a sua richiesta i Pietosi affetti, e il Conte di Vernio compose l’intermezzo mentovato di sopra. né tralasciò di concorrer anch’egli poetando al medesimo fine, di che può far testimonianza la seguente canzonetta, ch’io qui ho voluto trascrivere dalle carte musicali dove si trova, a fine di render più noto a’ suoi nazionali codesto valentuomo ignorato in oggi dai poeti e dai musici, ma che merita un luogo distinto fra gli uni e fra gli altri:

«Udite, udite, amanti,
        Udite, o fere erranti,
        O Cielo! O Stelle!
        O Luna! O Sole!
        Donne e Donzelle!
        Le mie parole:
        E se a ragion mi doglio
        Piangete al mio cordoglio.
La bella Donna mia
        Già sì cortese e pia,
        Non so perché,
        So ben che mai
        Non volge a me
        Quei dolci reti:
        Ed io pur vivo e spiro!
        Sentite che martiro.
Care, amorose Stelle,
        Voi pur cortesi e belle
        Con dolci sguardi
        Tenesti in vita
        Da mille dardi
        L’alma ferita.
        Ed or più non vi miro!
        Sentite che martiro.
Ohimè! Che tristo e solo
        Sol’io piango il mio duolo,
        L’alma lo sente
        Sentilo il cuore,
        E lo consente
        L’ingiusto amore:
        Amor sel vede e tace,
        Ed ha pur arco e face.»

[16] Soprattutto egli attesta nella prefazione alle sue Nuove musiche che più vantaggio ne trasse dal commercio e suggerimenti degli uomini letterati che da trentanni spesi nelle scuole musicali, e nell’arte del contrappunto, il quale secondo lui poco o nulla giova a perfezionare la musica57.

[18] Dopo la dipartenza per Roma del Conte di Vernio, ove poi divenne maestro di Camera a’ servigi del papa Clemente Ottavo, la letteraria adunanza si trasferì alla casa di Jacopo Corsi altro gentiluomo fiorentino, non meno fautore delle belle arti, né meno intelligente nella musica massimamente teorica. Ha l’Italia da lui, oltre qualche canzonetta messa sotto le note, un discorso della musica degli antichi e del cantar bene indirizzato al Caccini. Di esso Corsi erano amicissimi Ottavio Rinuccini gentiluomo fiorentino e bravo poeta, avvegnacchè poco egli sia noto in Italia a motivo di aver la maggior parte della sua vita menato in Francia, e Jacopo Peri musico valentissimo, i quali d’accordo col Caccini e col Corsi tanto studiarono sulla maniera d’accomodar bene la musica alle parole che finalmente trovarono, o credettero d’aver trovato, il vero antico recitativo de’ Greci, ch’era stato da lungo tempo il principale scopo delle loro ricerche. Per veder come riusciva in pratica il nuovo ritrovato fu dagli altri spinto Ottavio Rinuccini a comporre una qualche poesia drammatica, lo che egli fece colla Dafne, favola boscherecchia che si rappresentò in casa del Corsi l’anno 1594, e fu messa sotto le note dal Caccini e dal Peri sotto la direzione di esso Rinuccini, il quale comecché non avesse studiata la musica, era nondimeno dotato d’orecchio finissimo,e d’acuto discernimento, che gli aveano conciliato la stima e il rispetto de’ musici.

[19] Molto maggior fortuna sortì in appresso un altra sua pastorale intitolata L’Euridice Tragedia per musica, la quale fu con più accuratezza modulata nella maggior parte dal Peri fuori d’alcune arie bellissime che furono composte da Jacopo Corsi, e quelle del personaggio d’Euridice e dei cori, nelle quali ebbe mano il Caccini. Tutte le circostanze concorsero a render quello spettacolo uno de’ più compiti che d’allora in poi siano stati fatti in Italia. La novità dell’invenzione, che gli animi de’ fiorentini di forte maraviglia comprese; la fama dei compositori, dell’adunanza tenuta a ragione il fiore della toscana letteratura; l’occasione in cui fu rappresentata, cioè nello sposalizio di Maria Medici col re di Francia Arrigo Quarto; la scelta udienza, di cui fu decorata non meno di tanti principi e signori nazionali e francesi oltre la presenza del Gran Duca e del Legato del papa, che de’ più virtuosi uomini d’Italia chiamati a bella posta dal Sovrano in Firenze, tra quali assistettero Giambattista Jaccomelli, Luca Dati, Pietro Strozzi, Francesco Cini, Orazio Vecchi, e il Marchese Fontanella tutti o pratici eccellenti, o peritissimi nell’arte; l’esattezza nella esecuzione, essendo da bravissimi e coltissimi personaggi rappresentata sotto la dipendenza del poeta, ch’era l’anima e il regolatore dello spettacolo; finalmente il merito poetico del dramma il quale benché non vada esente d’ogni difetto è tuttavia e per naturalezza musicale, e per istile patetico il migliore scritto in Italia fino a’ tempi del Metastasio. Alcuni squarci di esso posti sotto gli occhi dei lettere giustificheranno la mia asserzione. Sentasi la narrazione, che fa Dafne della morte d’Euridice.

«Orf. Ninfa, deh! Sii contenta
         Ridir perché t’affanni,
         Che tacciuto martir troppo tormenta.
Daf. Com’esser può giammai
         Ch’io narri e ch’io riveli
         Sì miserabil caso? O fato! O Cielo!
         Deh! Lasciami tacer, troppo il saprai.
Coro. Dì pur: sovente del timor l’affanno
         È dell’istesso mal più grave assai.
Daf. Troppo più del timor fia grave il danno.
Orf. Ah! Non sospender più l’alma dubbiosa.
Daf. Per quel vago boschetto,
         Ove rigando i fiori
         Lento trascorre il fonte degli allori,
         Prendea dolce diletto
         Con le compagne sue la bella Sposa.
         Chi violetta, o rosa
         Per far ghirlanda al crine
         Togliea dal prato, e dall’acute spine,
         E qual, posando il fianco
         Sulla fiorita sponda,
         Dolce cantava al mormorar dell’onda.
         Ma la bella Euridice
         Movea, danzando, il piè sul verde prato
         Quando (ria sorte acerba!)
         Angue crudo e spietato,
         Che celato giacea tra fiori, e l’erba,
         Punsele il piè con sì maligno dente,
         Ch’impallidì repente,
         Come raggio di Sol, che nube adombri.
         E dal profondo cuore
         Con un sospir mortale,
         Sì spaventoso ohimè! Sospinse fuore,
         Che quasi avesse l’ale
         Giunse ogni Nifa al doloroso suono;
         Ed ella in abbandono
         Tutta lasciossi allor nelle altrui braccia.
         Un sudor via più freddo assai che giaccio
         Spargea il bel volto, e le dorate chiome.
         Indi s’udio il tuo nome
         Fra le labbra suonar fredde e tremanti:
         E volti gli occhi al Cielo
         Scolorito il bel viso, e i bei sembianti
         Restò tanta bellezza immobil gelo.»

[20] Non è men bella la scena dove Orfeo prega Plutone che gli restituisca la perduta sposa, della quale per esser troppo lunga non riferirò se non le stanze che canta Orfeo prima d’arrivar innanzi al re dell’Inferno:

«Funeste piaggie, ombrosi, orridi campi,
         Che di stelle o di Sole
         Non vedeste già mai scintille o lampi,
         Rimbombate dolenti
         Al suon delle angosciose mie parole,
         Mentre con mesti accenti
         Il perduto mio ben con voi sospir:
         E voi, deh per pietà del mio martiro,
         Che nel misero cor dimora eterno,
         Rimbombate al mio pianto, ombre d’Inferno.
Ohimè! Che sull’Aurora
         Giunse all’occaso il Sol degli occhi miei,
         Misero! E sù quell’ora,
         Che scaldarmi a bei raggi mi credei,
         Morte spense il bel lume, e freddo e solo
         Restai fra pianto e duolo,
         Com’angue suole in fredda piaggia il verno.
         Rimbombate al mio pianto, ombre d’Inferno.
E tu mentre al Ciel piacque
         Luce di questi lumi
         Fatti al tuo dipartir fontan’e fiumi,
         Che fai per entro a’ tenebrosi orrori?
         Forse t’affliggi e piagni
         L’acerbo fato, e gl’infelici amori?
         Deh! Se scintilla ancora
         Ti scalda il sen di que’ sì cari ardori
         Senti, mia vita, senti
         Quai pianti e quai lamenti
         Versa il tuo caro Orfeo dal cor interno.
         Rimbombate al mio pianto, ombre d’Inferno.»

[21] Nonostante, il Rinuccini non lasciò d’urtare nello scoglio incontro al quale urtano sovente gli inventori in cotai generi, la mescolanza, cioè, dell’antica imitazione colle moderne usanze. La voga in cui erano allora le pastorali per la celebrità, che aveano acquistata il Pastor fido, e l’Aminta indusse il Binuccini a sceglier per suggetto della sua invenzione una favola boscherecchia, onde ne trasse talvolta lo stile lezioso e soverchiamente fiorito col quale i poeti di quel tempo erano soliti di far parlare i pastori. Così non è maraviglia se s’ode Tirsi pregar l’Amore «che di dolcezza un nembo trabocchi in grembo», e che «svegli un riso di Paradiso», se si sente Arcetro «cercar il loco, ove ghiaccio divenne il suo bel foco», e se veggonsi «arder la terra, arder gli eterei giri a’ gioiosi sospiri dell’uno e l’altro innamorato core», con altri modi di dire propri d’un manierato italiano del 1600, ma in nulla conformi all’antica semplicità de’ Traci pastori a’ tempi d’Orfeo. Dall’uso ancora che allor si faceva della musica madrigalesca, e dal non aver per anco la lingua italiana preso l’andamento rapido e breve ch’esige il recitativo, avviene che l’Euridice debba piuttosto chiamarsi una filza di madrigali drammatici che una tragedia, come è piaciuto al suo autore d’intitolarla, e nella stessa guisa dalla troppo religiosa e mal intesa imitazion degli antichi è venuto che dovendosi dividere il dramma in cinque atti, né somministrando materia per essi il troppo semplice argomento, l’autore non ha potuto schivar il languore di molte scene e dell’ultimo atto, che riesce del tutto inutile. Il cangiar ch’ei fa la scena; quantunque alla natura del dramma non si disdica per le ragioni da me addotte nel capitolo primo di questo libro, è tuttavia troppo violente nell’Euridice, poiché ad un tratto si passa dai campi amenissimi nell’Inferno senza che venga preparato, qualmente si dovrebbe, il passaggio. La qual licenza scusabile nel Rinuccini per esser il primo, e perché forse il suo argomento noi comportava altrimenti, pervenne in seguito fino all’eccesso negli altri, come dall’esito lieto che diè alla sua favola non per altro motivo se non perché «ciò gli parvi convenire in tempo di tanta allegrezza» 58 trassero innavvedutamente i suoi successori una legge che lieto esser dovesse il fine di tutti i drammi.

[22] Negli anni seguenti si rappresentò in Firenze parimenti un altro dramma del medesimo Rinuccini intitolato l’Arianna modulato da Claudio Monteverde maestro in seguito della Repubblica di Venezia; anzi il soliloquio ove Arianna si lamenta dell’abbandono di Giasone, passò lungo tempo fra i musici per capo d’opera dell’arte in quel genere, e si rammentava da loro non altrimenti che si rammenti in oggi la Serva Padrona posta in musica dal Pergolesi, o il monologo della Didone del Metastasio modulato dal Vinci. Ciò si ha da Giambattista Doni nel suo trattato sulla musica scenica59, e dalla dissertazione che segue agli scherzi musicali di esso Claudio Monteverde raccolti da Giulio Cesare suo fratello, e stampati in Venezia da Ricciardo Amadino. né inferiore rimase il poeta in quella scena bellissima, la quale incomincia:

«O Teseo, o Teseo mio,
Se tu sapessi, oh Dio!
Se tu sapessi ohimè! Come s’affanna
La povera Arianna;
Forse, forse pentito
Rivolgeresti ancor la prora al lito.»

ma ch’io non trascrivo intieramente per esser troppo lunga, e perché dagli squarci di sopra recati può il merito del Rinuccini abbastanza conoscersi.

[23] L’apparato poi di sceniche mutazioni con cui si rappresentarono cotali drammi fu sorprendente. Campagne verdeggianti, amenissimi giardini, vaste vedute in lontananza di mari gonfi di flutti, procelle, tuoni e folgori che precipitavano dal cielo di nereggianti nubi artifiziosamente ingombrato, i soggiorni dilettosi de’ campi Elisi, gli orrori del Tartaro accresciuti dagli spaventevoli lamenti degl’infelici tormentati, boschi ed alberi nati all’improvviso, i tronchi de’ quali aprendosi i saltellanti Satiri partorivano, e Fauni, e Napee, e Sileni in nuove e disusate foggie vestiti, fiumi che con limpidissime acque scorrendo, lasciavano vedere le Ninfe che per entro guizzavano, insomma quanto v’ha di più bello nel mondo fisico, quante vaghezze somministra la favola tutto fu per ornarle leggiadramente inventato60.

[24] Per soddisfar appieno la curiosità del lettore aggiungiamo qualche cosa intorno alla musica, i progressi della quale debbono osservarsi unitamente a quelli della poesia, ove si ragiona del melodramma. La variazione dei tempi, la diversità de’ gusti, che tanto influisce sulle cose musicali, e forse ancora l’eccessivo lusso della musica presente farebbero in oggi comparir quella assai povera e rozza. Infatti scarseggia di note, il senso non vi si comprende abbastanza, abbonda poco di varietà, e il tempo non è a sufficienza distinto a motivo, che i compositori erano soliti a non udir altra musica che la ecclesiastica e la madrigalesca, nelle quali spiccavano simili difetti. In contraccambio regna in quelle composizioni una certa semplicità preferibile a molti riguardi alla sfoggiata pompa della nostra. La poesia e la lingua vi conservano i loro diritti; a differenza dell’odierna, ove le parole vengono così miseramente sformate. Soprattutto la strada battuta da que’ maestri per esprimer bene il recitativo è la sola che dovrebbero battere i compositori d’ogni secolo. Erano filosofi, e da filosofi ragionavano. Lo studio delle cose antiche fece loro conoscere che quella sorte di voce, che da’ Greci e Latini al cantar fu assegnata, da essi appellata “diastematica” quasi trattenuta e sospesa, potesse in parte affrettarsi, e prender temperato corsa tra i movimenti del canto sospesi e lenti, e quelli della favella ordinaria più spediti e veloci, avvicinandosi il più che si potesse all’altra sorte di voce propria del ragionar famigliare, che gli antichi “continuata” appellavano. Le riflessioni sulla propria lingua fecer loro avvertire, che nel parlar comune alcune voci s’intuonano in guisa che vi si può far armonia, o ciò che è lo stesso, distinguerle per intervalli armonici, alcune non s’intuonano punto, per le quali leggiermente si scorre finché si giugne ad altre capaci d’intonazione o d’armonico movimento. Osservarono infine que’ modi e quegli accenti particolari che gli uomini nel rallegrarsi, nel dolersi, nell’adirarsi, e nelle altre passioni adoprano comunemente, a misura de’ quali conobbero che dovea farsi movere il basso or più or meno secondo che richiedeva la lor lentezza o velocità, e tenersi fermo fra le false e buone proporzioni, finché passando per varie note la voce di chi ragiona, arrivasse a quel punto dove il parlar ordinario intuonandosi apre la via a nuovo concento. Così si spiega il Peri nella prefazione, e così almeno in gran parte (giacché non è possibile che nel principio della scoperta alla perfezion dell’arte giugnessero) fecero quei valenti compositori.

[25] Maestri e musici del nostro tempo, che col fasto proprio della ignoranza vilipendete le gloriose fatiche degli altri secoli, ditemi se alcun si trova fra voi che sappia tanto avanti nei principi filosofici dell’arte propria quanto sapevano quegli uomini del secolo decimosettimo, che voi onorate coll’urbano titolo di seguaci del rancidume.

[26] Parte principalissima della musica drammatica è l’aria, che non si dee sotto silenzio trapassare. Il cavalier Planelli pretende che verso la metà del secolo scorso cominciassero «a inserirsi le arie nei melodrammi poiché fin allora tutto fu in essa recitativo, e la musica fu tutta in istile recitativo composta. L’introduzione delle arie è attribuita al Ciccognini, il quale nel suo Giasone, melodramma pubblicato nel 1640, cominciò a interrompere il grave recitativo con quelle anacreontiche stanze» 61. La qual notizia comunicò poscia al cavalier Tiraboschi 62 e al Signorelli 63. scrittori così valenti si sono tutti ingannati per non aver voluto prendersi la briga di esaminare i fonti. Non è vero che tutto fosse recitativo nel melodramma italiano avanti al Ciccognini. Non è vero ch’ei fosse il primo a inserirvi le anacreontiche stanze. L’uno e l’altro si trova fatto fin dall’origine dell’opera. Alla pagina II della musica del Peri alla citata Euridice si vede che Tirsi canta a solo i seguenti versi:

«Nel puro ardor della più bella stella
Aurea facella di bel fuoco accendi,
E qui discendi sull’aurate piume
Giocondo nume, e di celeste fiamma
                  L’anime infiamma.
Lieto Imeneo d’alta dolcezza un nembo
Trabocchi in grembo ai fortunati amanti,
E tra i bei canti di soavi ardori
Sveglia nei cori una dolc’aura, un riso
                  Di Paradiso.»

i quali sono un’aria perfetta non meno in musica che in poesia. Le ragioni sono perché vi precede la sinfonia, perché il basso seguita tutte quante le note del cantore, perché si accompagna con altri stromenti, perché si fa il ritornello alla seconda parte, perché il metro è diverso da quello del recitativo, perché manifestamente è un canto, per tutte le condizioni insomma che le arie a dì nostri distinguono. né si veggono soltanto ne’ drammi del Rinuccini. Potrei citare molte degli altri autori, ma basti per ultima pruova una assai leggiadra tratta dalla Flora d’Andrea Salvadori, stampata nel 1628 cioè anni vent’uno prima del Giasone.

«I’era pargoletta
        Quand’altri mi narrò,
        Che Amor è viperetta,
        Che morde quanto può.
        Quel dir sì m’ingannò,
        Che Amor gran tempo odiai,
        Temendo affanni e guai.
Ma poiché un giorno io vidi
        Lirindo ed egli me,
        Ben chiaro allor m’avvidi,
        Che serpe Amor non é.»

[27] Più grossolano e meno scusabile è lo sbaglio del Crescimbeni, il quale scrivendo nel principio del nostro secolo si spiega in questi termini: «Intanto dobbiamo avvertire che nei drammi per lo passato non hanno mai avuto luogo i cori, invece de’ quali sono stati inventati intermedi d’ogni maniera»64. Non avea egli letto i cinque cori che chiudono i cinque atti dell’Euridice? Non avea vedute la Dafne, l’Arianna, il Rapimento di Cefalo, la Medusa, la Flora, la Sant’Ursola, e mille altre? Ignorava egli, che niuno de’ celebri melodrammi italiani fu senza cori fin quasi alla metà del 1600 e che molti gli ebbero ancora nel rimanente del secolo? Cotanta ignoranza si rende pressoché incredibile in uno de’ primi storici della italiana poesia.

[28] Facendo adunque la distribuzione di laude che a ciascun s’appartiene nell’invenzione dell’opera seria, si vede che dee la città di Firenze il vanto riportarne principalmente, che Giovanni Bardi e Jacopo Corsi furono i mecenati, Girolamo Mei e Vincenzo Galilei i precursori nella parte teorica, e nell’arte d’intavolar le melodie Emilio del Cavalieri il primo, che da lontano adittò agli altri la strada, Giulio Caccini e Jacopo Peri nella esecuzione, ma che deesi principalmente l’elogio al Rinuccini, il quale coll’armonia e bellezza de’ suoi versi mirabilmente adattati alle mire dei compagni, e più colla sua autorità, collo studio degli antichi e colla dipendenza in cui teneva gli altri, si fece il ritrovatore d’un nuovo genere che tanto lustro ha recato alla poesia, alla musica e alla sua nazione.

[29] L’opera buffa incominciò parimenti circa il fine del Cinquecento. La prima di cui ci sia pervenuta la notizia sortì alla luce in Vinegia l’anno 1597 col titolo: Anfiparnaso Commedia dedicata a Don Alessandro d’Este. S’ignora dove e in qual anno si recitasse. L’autore fu un modenese che fece la musica e la poesia, chiamato Orazio Vecchi, il quale non si dee confondere con Orfeo Vecchi, musico e maestro di Cappella nel medesimo secolo. Egli nella dedica si vanta d’essere stato il primo a metter in musica le poesie drammatiche, e questo vanto vien replicato dall’autore d’una iscrizione latina fatta pel suo sepolcro, che si conserva in Modena, e che vien rapportata dal Muratori nella sua Perfetta poesia, ma il lettore dopo il narrato fin qui può giudicare se ciò si dica a ragione. L’Anfiparnaso venne poi in tal dimenticanza presso agl’Italiani che Appostolo Zeno, comecché in tal genere d’erudizione fosse versatissimo, confessa in una sua lettera al Muratori d’ignorarne persin l’esistenza. né il Muratori ebbe altra notizia che quella che ricavò dalla mentovata iscrizione. Il Maffei nel Discorso sul teatro italiano, e il Quadrio mostrano bensì d’averla veduta. A me pure è venuto fatto d’averla alle mani fra le carte musicali, ove sempre rimase. né la musica né la poesia meriterebbono che se ne facesse menzione, se la circostanza d’esser la prima nel suo genere non m’obbligasse a darle qualche luogo in questa storia. Pantalone, Arlecchino, Brighella, e il capitano Cardone spagnuolo sono fra gli altri i leggiadri personaggi. Si parla in castigliano, in bolognese, in italiano, e persino in ebraico: lascio pensare qual armonico guazzabuglio risultar ne debba da tutto ciò. Sentasi nell’atto secondo il gentil dialogo fra Isabella e il capitano spagnuolo, il quale per antica benivolenza della nazione italiana verso di noi debbe esser sempre posto in ridicolo sul teatro:

Cap. No me hagais mas de estas burlas,
        Porque poco ha faltado,
        Que no soy de dolor muerto.
Isab. S’a gli arcabugi, et alle collubrine
        Set’uso a far gran core,
        Perché temete poi schermi d’amore?
Cap. Perché todo vince amor.
Isab. Amor non sò, ma voi ben mi vincesti,
        Quando vi fei Signore
        Di questa vita, di questo core.
Cap. Decidme; mi Segnora,
        De quien son estas tetiglias?
Isab. Del capitan Cardon.
Cap. Y los oscios, y las orescias?
Isab. Del capitan Cardon.
Cap. Y el rostro, y las narices?
Isab. Del capitan Cardon.
Cap. La fruente, y la cabezza?
Isab. Del capitan Cardon.
Cap. Y la capegliadura?
Isab. Del capitan Cardon.
Cap. Los dientes, y los labios?
Isab. Del capitan Cardon.
Cap. La vida, y el corazon?
Isab. Del capitan Cardon.
Cap. O muy contiento!
        O muy tambien amado,
        Y de mi dama muy avventurado!»

Benché Isabella si mostri innamorata del capitano, nondimeno il beffeggia dopo che egli è partito, nel che le fanciulle del Cinquecento non differiscono punto da quelle de’ nostri tempi. Se un poeta è rimasto invaghito della bellezza di codesta scena, non resterà meno meravigliato un musico della singolar armonia che si sente in quest’altra.

[30] Francatrippa, servo, vuol porre un pegno in mano degli Ebrei. Egli picchia alla porta del ghetto, mentre quegli recitano le loro orazioni.

«Fran. Tich, tach, toch,
           Tich, tach, toch.
           O Hebreorum gentibus!
           Sù prest: avrì sù: prest:
           Da hom da ben, che tragh zo l’us.
Ebrei. Ahi Baruchai,
           Badanai, Merdochai,
           An biluchan, chet milotran:
           La Barucabà,
Fran. A no farò vergot, maide negot.
           Ch’i fa la sinagoga?
           O! Che il diavolo v’affoga.
           Tich, tach, tich, toc, tic, tac, tic, toc.
Ebrei. Oth zorochot, Astach mustach,
           Iochut, zorochot,
           Calamala Balachot.
Fran. U uhi! O, ohi:
           Omessir Aron.
Ebrei. Chi ha pulset a sto porton?
Fran. Son mi, son mi, messir Aron.
Ebrei. Che cheusa volit? Che cheusa volit?
Franc. A voraff’impegnà sto Brandamant.
Ebrei. O Samuel, Samuel!
           Venit a bess, venit a bess;
           Adonai; che le è lo Goi,
           Che è venut con lo parachem.
Altri Ebrei. L’è Sabbà, che non podem.»

[31] Dicendo che la musica non si disconviene a così fatta poesia, ho renduto la dovuta giustizia all’una e all’altra.