(1772) Dell’opera in musica 1772
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(1772) Dell’opera in musica 1772

Prefazione

Libro d’eco immediata ma presto dimenticato, Dell’opera in musica di Antonio Planelli (1772: è stato Francesco Degrada a riproporlo due secoli dopo all’attenzione dei lettori)1 scontò la fama periferica dell’autore, un intelligente funzionario dell’amministrazione del Regno di Napoli che conosceva e amava il teatro da appassionato dilettante2. Il trattatello che ora si ripubblica annotato — per un terzo è storia, per due terzi precettistica militante — si raccomanda soprattutto come manifesto di quei riformatori che volevano veder rinnovata l’opera al momento del declino del magistero di Metastasio: meraviglioso, irritante, incoerente meccanismo artistico-sociale, il melodramma era diventato il bersaglio prediletto sia dei bigotti, sia dei filosofi. L’ex gesuita spagnolo Esteban Arteaga nelle sue Rivoluzioni del teatro musicale italiano (1783) aveva salutato il solido buon senso di Planelli, anteponendolo alla filosofica dottrina del vecchio Algarotti, anche lui competente giudice del melodramma: «Egli abbraccia in tutta la sua estensione il suo oggetto. Le sue osservazioni circa le belle arti in genere, e circa la musica, e la direzione del teatro in particolare sono assai giudiziose, e proficue, e da pertutto respirano l’onestà, la decenza, e il buon gusto»; Arteaga aveva tuttavia aggiunto qualche riserva sulla cultura letteraria di Planelli: «mi sembra che abbia poco felicemente indagati i distintivi fra l’Opera e la tragedia, e che non venga dato gran luogo alla critica e molto meno alla storia, ond’è ch’ei ci lascia a desiderare sì nell’una che nell’altra» 3. Di letteratura Planelli s’era in realtà già occupato, traducendo e annotando i Principes élémentaires des belles-lettres del wolffiano franco-tedesco Jean-Henri-Samuel Formey4: libro non memorabile — pensum giovanile eseguito, c’è da credere, per dovere sociale —, cui il nostro autore aveva cercato di aggiungere, in una serie di note e appendici, un po’ di consistenza storica, oltreché di sali critici (per esempio, qualche bello spunto sull’entusiasmo, o furore, poetico che anticipa idee espresse in Italia da Bettinelli e da altri)5. Ma Arteaga (che per altro aveva idee sul teatro molto diverse da quelle di Planelli) non sbagliava a indicare una certa timidezza se non sommarietà del libro nel tracciare i confini culturali del melodramma, il suo rapporto con l’esperienza teatrale del passato prossimo o remoto. Ciò che a Planelli non difettava era la chiarezza analitica, l’ambizione di definire ogni aspetto, ogni ‘attore’ del teatro musicale: il poeta, il musicista, il cantante, il ballerino, l’architetto, lo scenografo, il macchinista, il direttore, l’impresario meritano tutti l’attenzione del cronista e del critico. Non usava la brillante maniera satirica che era stata, a inizio Settecento, di Benedetto Marcello (riecheggiata alla lontana dal libretto di Calzabigi L’opera seria, per Gassmann, 1769): mostrava al contrario l’intenzione di mettere ordine, di proporre razionali correttivi a una forma d’arte che come nessun’altra obbligava — e obbliga — alla concordia discors (proprio Orazio è, non a caso, l’autorità letteraria più citata da Planelli); di qui il tono talvolta un po’ pedantesco del libro, il tratto didascalico del maestro che argomenta e ripete i propri argomenti, quasi nel timore di non essere stato ben inteso. C’è del resto un intento civile in Planelli, che pochi anni dopo, da buon massone (per altro ascritto all’Ordine Gerosolimitano), avrebbe redatto un Saggio sull’educazione de’ principi (un antimachiavellico speculum principis) in cui l’amore per l’arte e la «vaghezza di distinguersi nelle lettere» 6 erano vivamente raccomandati a chi assumeva le redini del governo: secondo gli ideali di quell’assolutismo illuminato che proprio a Napoli avrebbe poi clamorosamente tradito ogni promessa. I termini istruzione, esempio, educazione ricorrono spesso sotto la penna di Planelli, fermamente convinto che «il poeta, non meno che l’oratore e ‘l cristiano filosofo, debbono essere come publici educatori destinati all’istituzione de’ loro concittadini» (VII.III.18).

Se c’è un eroe della storia — eroe musicale non politico — questi è, occorre dirlo subito, il tedesco Christoph Willibald Gluck, insieme al suo solerte collaboratore toscano, Ranieri Calzabigi. Quasi con grato stupore Planelli registra la consonanza tra le proprie idee e quanto, a sua insaputa, pochi anni prima (nel 1767) era stato realizzato sulle scene, lontano, ma non troppo, dall’Italia:

La giustezza e il mirabile effetto di tai precetti è stato pur ora vantaggiosamente provato in mezzo a una delle più brillanti corti d’Europa. Parlo della corte di Vienna, nell’aulico teatro della quale fu menata la mentovata Alceste del dotto Calsabigi, messa in musica dal cavaliere Cristoforo Gluck. Questa musica è sì conforme all’idea qui espressa della musica teatrale, ch’io, osservata così ben intesa composizione, mi sentii inondar l’animo da un maraviglioso piacere, in considerando che mentre in questa estrema parte d’Europa io stendea un teorico saggio, ma debolissimo e breve, di quella musica, in altra parte un degno professore ne mostrava sì sensatamente la pratica. Siami dunque lecito d’autorizzare colle proprie parole di questo dotto maestro quanto abbiamo fin qui esposto della musica teatrale, e di accattare a me credito con una sì valevole testimonianza (III.III.25).

Quali sono i «precetti» cui il critico allude (segue la citazione integrale della celebre Dedicatoria al Granduca Leopoldo per l’Alceste, firmata da Gluck ma scritta dal Calzabigi)? Il melodramma, per Planelli, ha perso naturalità perché ha sposato la convenzionalità, accettando il prevalere del mestiere sul buon gusto. Il cahier de doléances è fitto e riguarda innanzi tutto la musica. La sinfonia d’apertura? « Per quanto diversi tra loro sieno i drammi, che voi prendete a mettere sotto le note, tutte le sinfonie, che a quelli servono d’apertura, sono sempre battute al conio medesimo: non falla mai ch’esse non sieno un solennissimo strombettio, composto d’un allegro, d’un largo e d’un balletto» (III.III.3); al contrario, «vuol […] l’apertura avere intima connessione colla prima scena del dramma» e, talvolta, anche con l’esito del dramma stesso, per quanto sia difficile suggerire una complessa peripezia in poche note musicali (già Algarotti aveva scritto qualcosa del genere). I recitativi? «Il maestro di cappella non si dà gran pena attorno a’ recitativi, persuaso ch’essi non possono a verun patto dilettar gli uditori. Ma egli va errato. Se gli uditori si annoiano d’uno stile recitativo, cotal noia non procede dalla natura di questo stile, ma dal poco studio, che fanno sopra di esso i moderni maestri di cappella» (III.III.7). Se il modello era l’antico, addirittura la tragedia greca (del cui vero rapporto con la musica in realtà s’ignorava quasi tutto), è logico che Planelli guardasse al recitar-cantando di Jacopo Peri e in generale alle favole per musica primo-secentesche, raccomandando al compositore d’osservare che «nel ragionare non solamente ad ogni parola noi assegniamo particolar tuono, ma a tutte le sillabe ancora di ciascuna parola» (III.III.8); la tirannia della musica sulle parole, del suono sul senso finiva col far violenza alla grammatica, in definitiva alla naturalezza del linguaggio: «la poca attenzione che i compositori danno al metro delle sillabe, non solo fa che la lor musica distrugga ogni poetica armonia, ma ancora che trasformi i termini; obbligando talvolta a dire aníma, barbáro, invece di ánima, bárbaro, e per contrario dólore, ámico, in luogo di dolóre, amíco» (ivi); e allora «il povero cantante è obbligato suo malgrado a pronunziare sì fattamente le parole, ch’egli ha più bisogno d’interprete, che se cantasse un’ aria tartara o moresca» (III.III.13). Le stesse arie con ‘da capo’ erano da tempo diventate oggetto degli strali dei critici razionalistici: «le arie teatrali — ripete Planelli — non soffrono le tante repliche d’alcune loro parole e d’alcuni loro versi, come vezzo suol essere de’ nostri compositori, i quali con una disordinata ripetizione delle medesime parole fanno d’una brevissima aria una lunghissima filastrocca. Quel tanto ripetere vocem prodigaliter unam oltre al raffreddare il sentimento colla svenevolaggine sua, talvolta non ha significato alcuno, e tal altra prende un significato tutto opposto a quello che hanno le medesime parole nell’ordine, che ad esse assegnò il poeta» (III.III.18); di nuovo, veniva sottolineato il primato o almeno la corresponsabilità del poeta, di cui troppo spesso musicisti e cantanti parevano voler ignorare le intenzioni: «si guardi il compositore d’aggiugnere di suo capo la menoma paroluzza. Lo spettatore sdegna in sentire il maestro di cappella far del poeta. Senza che, tali aggiunzioni distruggono la misura de’ versi» (III.III.21). Ma anche la poesia aveva avuto qualche torto in quella sorta di degenerazione edonistica che era diventato, a giudizio di Planelli, lo spettacolo teatrale. Lo stesso antibarocco Metastasio, citato, s’intende, sempre con grande rispetto, aveva peccato nell’assecondare l’inverosimile e il meraviglioso nelle allegorie contenute nelle arie: forte di un giudizio di D’Alembert (nello scritto Liberté de la musique), cita come esempio vitando le arie di Arbace all’inizo del terzo atto dell’Artaserse metastasiano: «già prima di noi un famoso letterato di Francia avea avvertita l’inverisimiglianza di quell’allegoria messa in bocca del medesimo Arbace nell’aria Vò solcando un mar crudele» (II.VII.13). Troppo innaturale pareva a D’Alembert, e a Planelli con lui, che l’appassionato Arbace, accusato ingiustamente e che si crede vicino a morte, si mettesse a notomizzare con elegante arguzia i motivi della volubilità umana: «Se una persona arsa di sdegno pretendesse di sfogar la sua bile a forza d’antitesi e d’ampollose circollocuzioni, chi potrebbe contener le risa, e non direbbe che quel linguaggio tradisce chi l’adopera, dimostrando ch’egli non ha il cuore occupato da quella passione che vuol fingere con noi?» (II.VII.22). L’inverosimiglianza rimaneva più che mai il peccato originale da combattere a teatro: la passione, l’entusiasmo, l’arguzia stessa, legittimamente seminate a piene mani dall’artista, non dovevano mai smarrire la guida della Ragione e della Natura, queste due inseparabili dèe che vegliano sul buon gusto settecentesco.

Si capisce allora come il classicista e antibarocco Gluck venisse additato a modello da proporre agli italiani, ai napoletani in particolare. A chi obiettava la scarsa teatralità del progetto musicale gluckiano Planelli aveva pronta un’obiezione in cui entrava anche un impegnativo paragone pittorico: «Non pretenda però alcuno di chiamare ad esame sì fatto genere di musica avanti a un domestico cimbalo. In quel luogo una imparaticcia cantilena piacerà più assai che un capolavoro di musica teatrale: siccome a chi ne’ colori non cerca che l’armonia, darà più diletto una ben colorita bussola che un quadro di Raffaello. I colori di Raffaello e la musica di Gluck, quelli e questa destinati a servire all’espressione, vanno esaminati nell’azione. Solo allora si può giudicare se più diletti una bussola ben tinta che una tela animata dal pennello d’Urbino» (III.III.29). La successiva piccola voga gluckiana a Napoli, tra l’Ifigenia del Traetta (1779) e il Pirro del Paisiello (1787), si può forse interpretare come una sorta di assenso alle idee di Planelli7: o meglio, il critico s’era fatto portavoce di un clima culturale, di un diffuso mutamento di gusto che non era soltanto napoletano (Calzabigi visse del resto a Napoli a partire dal 1780: e si dimostrò grato, nella verbosa Risposta all’Arteaga, a Planelli). Si sa che il nuovo secolo, l’Ottocento del belcanto, avrebbe amato non la severità di Gluck ma la prodigiosamente melodica affabilità di Rossini e dei suoi seguaci: ciò che appartiene evidentemente a un’altra storia.

Il libro, s’intende, non è tutto qui, nell’arringa in favore della riforma Calzabigi-Gluck. Le intenzioni dell’autore sono, sociologicamente e filosoficamente parlando, più generali: «Lo scopo di questo trattato — scrive — è quello ch’io posi fin da prima in veduta: il dimostrare quanta dipendenza abbiano dagli spettacoli, e massimamente da quello dell’opera in musica, il gusto delle arti e ‘l costume delle nazioni; e quanto agevolmente l’inosservanza delle leggi di questa pomposa scenica rappresentazione possa corrompere il gusto e favorire la scostumatezza, ch’è la più deplorabile sventura che possa avvenire a uno stato» (Prefazione, 6). A sostegno della tesi, cui il critico cerca riscontri dappertutto (Euripide aveva scritto Le supplici «per disporre quella nazione a far la pace co’ lacedemoni, come l’Addisson compose il suo Catone per occasione de’ torbidi che allora agitavano l’Inghilterra», VII.III.15), traccia preliminarmente una piccola storia dell’opera: dalle presunte origini medievali (le sacre rappresentazioni forse accompagnate da rudimentali musiche) alle feste rinascimentali (l’esempio, tra l’altro, degli spettacoli nella Roma di Sisto IV), dal controverso Amfiparnaso di Orazio Vecchi (in realtà, con buona pace di Muratori, solo un madrigale drammatizzato) alle favole pastorali cinquecentesche munite di intermezzi musicali; per arrivare finalmente alla Camerata dei Bardi, alla Dafne e all’Euridice di Peri e Rinuccini (singolarmente si tace invece dell’Orfeo di Monteverdi e Striggio, che è il primo riconosciuto capolavoro del genere). Tipico che Planelli ritenga che il melodramma appena inventato rischiasse subito di andare incontro a un’inopinata decadenza (I.I.20):

Non potea però l’opera in musica conservar lungo tempo quella bellezza che sortita avea nelle mani del Rinuccini e del Peri: essa andava incontro al secolo diciassettesimo, epoca quanto fortunata per le scienze, altrettanto infelice per ogni maniera d’italica poesia. Nondimeno alla decadenza di questo spettacolo non contribuì solo l’infelicità di quel secolo, ma in oltre (che è più sorprendente) il progresso fatto, come dicemmo, nel secolo antecedente delle belle arti. Perciocché, giugnendo queste ad incantare colle macchine e colle decorazioni, sedussero per modo colla loro vaghezza il gusto dagl’incauti nostri maggiori, che si cominciò a poco a poco a non esigere dall’opera in musica che comparse, decorazioni e macchine; poca attenzione facendosi più alla poesia, la quale si prese a riguardare come veicolo, dirò così, di quelle.

Il correttivo, secondo una tradizionale linea storiografica seguita anche da Planelli, sarà trovato nel primo Settecento, almeno nella poesia, grazie al rigore di Apostolo Zeno e alla cartesiana clarté del suo continuatore Metastasio8. Ma la seduzione estrinseca delle ‘macchine’, tipica del Barocco, è indicata, non da sola, come distruttrice dell’unità stilistica, fine supremo dello spettacolo melodrammatico (I.II.5): «il nostro spettacolo sarà perfetto, quando tutte le discipline che lo compongono concorreranno al fine del melodramma»; e lo scopo eminentemente morale è ancora una volta guidato dagli aristotelici «compassione» e «terrore», «posto che quella poesia al genere tragico appartenga» (il che non sempre a Planelli pare vero)9. Come per le altre belle arti (qui il nostro autore segue Batteux e Diderot), il principio regolatore del senso estetico è un’implicita simmetria, ma il motore è il piacere patetico, cioè trarre diletto dal libero movimento delle passioni: «Se noi, per modo d’esemplo, fossimo stati presenti alla dissavventura di Priamo, questi sarebbe stato per noi un oggetto di passione, poiché egli ci avrebbe presentata l’opportunità di provare quel dilicato sentimento che ha l’uomo nel prender parte alla disavventura d’un infelice, nel dimostrare a lui la sua compassione, nel consolarlo, nell’alleggerirgli la pena, nel soccorrerlo» (I.III.16). Il critico, da buon sensista, non rinuncia a un tentativo di disamina fisiologica intorno agli effetti della musica sulle fibre umane: la fonte è autorevole, anche se abbastanza remota, cioè i trattati (risalenti a cent’anni prima) del grande clinico e anatomopatologo inglese di scuola cartesiana Thomas Willis. Supposto che esista una specifica sede nervosa delle passioni, Planelli specula, non senza qualche filosofico dubbio, su quanto le nostre fibre siano destinate a risuonare come altrettante corde di uno strumento (quel che ai bruti, in ragione della differente ‘macchina’, non accadrebbe): «noi sperimentiamo tai scotimenti anche su nostri nervi; talmenteché nell’ascoltare un suono soffriamo talora un tremore in alcun luogo della nostra macchina. Dunque i nostri nervi hanno anch’essi un tuono determinato, o, che vale il medesimo, sono disposti a un determinato suono» (III.I.9).

In ogni modo, Planelli è convinto che la musica moderna abbia portato l’espressione artistica ad altezze ignote agli antichi (i greci, scrive seguendo padre Martini, ignoravano il contrappunto e disponevano di strumenti incapaci di superare le tre ottave): «È chiaro — glossa — che una musica, la quale di tali invenzioni faccia buon uso, arricchirà il suo estetico ben più agevolmente che un’altra, la quale non abbia potuto trarne profitto» (III.I.5). In realtà, non tutto gioca a favore dei moderni e della loro grande sapienza formale. Planelli è infatti convinto che gli antichi sapessero interpretare il patetico musicale in maniera molto più sottile di quanto non facessero i moderni: «Se si dimandava a un greco — prova a immaginare il nostro autore — qual modo si richiedesse per insinuare in noi una data disposizione, egli sapea bene a qual s’appigliare. Ma questa dimanda medesima farebbe oggi contorcere il più valente maestro di musica che s’abbia l’Italia: vedendo noi spesse volte un’aria, per esempio composta nel modo minore d’effaut [fa minore] che prima ci era stata cantata nel maggiore d’ellamì [mi maggiore], e una, che fu parlante, divenire aria di gorgheggio, e quella, che altra volta tardamente procedea guidata dalla flemmatica misura binaria, tornarci poi innanzi, quasi di galoppo, sotto il frettoloso tempo a cappella» (III.1.13). La lussureggiante inventiva musicale dei moderni finisce insomma, paradossalmente, per essere un motivo di povertà, o almeno d’ineleganza formale: torna, sulla scorta di note pagine di Platone e di Plutarco, il mito di una coerente funzione educativa e parenetica, anche in termini militari, della musica nel mondo classico. Si tratta di idee molto diffuse nel Settecento: le ritroviamo per esempio, per restare in Italia, negli scritti musicali di Antonio Conti e nel suo stesso prestare versi alla musica di Benedetto Marcello (per le cantate Timoteo e Cassandra, 1727). Risuscitare la musica greca evidentemente non era possibile, ma sembrava consigliabile vagheggiarne la funzionale sobrietà: non era stato del resto questo il principio ispiratore dei colti classicisti della Camerata dei Bardi? Ecco allora l’elogio della medietas espressiva, con l’invito, nel canto, a evitare le note troppo acute o troppo basse e nel privilegiare i recitativi:

Lo stil teatrale ama il canto parlante, non quello di gorgheggio. Volete voi un potentissimo specifico per togliere ogni forza a qual canto che sperimentate più energico? Disseminatevi una competente dose del più bel gorgheggio del mondo. Questa maniera di canto ripugna assolutamente alla musica vocale. Poiché uffizio di questa è di dare tal forza alla parola, che l’idea a questa unita sia vivamente riprodotta nello spirito. Or un’A, un’E, un O, gorgheggiato durante la valuta di più note, e talora di più battute, nulla dicono allo spirito; e questo mentre più ansiosamente cerca di penetrare lo stato dell’animo di personaggi che l’interessano, sente cominciare quel lungo sbadiglio, il quale coll’offerta d’uno straniero piacere estingue, in vece d’accrescere il piacer patetico. E poi non è forse un’intollerabile inverisimiglianza l’arrestare il ragionamento nel bel mezzo d’un senso, anzi alla metà d’una parola, per dar luogo a una folla di suoni inarticolati? Non è cosa da ridere il vedere un serio personaggio fermarsi di proposito a bocca aperta a gargarizzare un lungo passaggio? (III.II.7).

Forte di queste convinzioni, Planelli propone una sorta di nuovo galateo teatral-musicale. Pensa innanzi tutto ai cantanti, i veri protagonisti, anche in senso economico, del teatro musicale, venerati e insieme ferocemente criticati per le loro qualità e per i loro capricci. A un fatto apparentemente solo tecnico, cioè alla «pronunziazione», Planelli dedica un’ampia sezione (la quarta) del libro: «per pronunziazione — spiega — io intendo l’arte d’esprimere co’ moti del corpo e colla modificazione della voce, i diversi sentimenti che si vogliono comunicare ad altrui» (il termine equivale all’actio o pronuntiatio dei buoni manuali di retorica antica). Si tratta evidentemente di precetti rivolti al cantante in quanto attore; ciò che può sorprenderci oggi è l’additata prossimità alla fitta precettistica per l’avvocato e per l’oratore: al cantante è insomma affidata la persuasione, proprio come al Cicerone amico del mimus Roscio o al Demostene che chiedeva consigli all’istrione Satiro. Ma cosa ha in comune un’arringa con un’aria o con un recitativo? Forse che l’arte deve convincere, prima di illudere e commuovere? Possiamo restar freddi di fronte alle argomentazioni di Planelli, eppure anch’esse fanno parte del suo programma classicistico di ‘rieducazione teatrale’: «Ciascuno, entrando nel teatro, in udirlo muggire come un mare burrascoso, in vederlo convertito in osteria e in bisca, condanna a gran ragione sì notabili abusi. Ora io ardisco di pronunziar francamente, che per qualunque forza sovrana tali abusi non cesseranno, finché i cantanti non sieno obbligati a una perfetta pronunziazione» (IV.I.7). Il gesto (per partire dall’attentamente osservata eloquentia corporis), aveva da essere sobrio e coerente, soprattutto nel caso del gesto «affettivo», «ch’è il più nobile, il più eloquente e che fa il trionfo d’un discorso, imprimendolo con forza nel più sensibile dell’anima. Ogni altra spezie di gesto può talvolta occupare una sola parte del nostro corpo, ma l’affettivo l’occupa tutto; attesoché ciascuna passione dà un’aria, un contegno particolare all’intera macchina dell’appassionato» (IV.II.7); né era da trascurare la pregnanza retorica del «gesto muto», cioè senza parole: «il saper ben tacere è più difficile assai che il parlar bene; e però non è maraviglia, che meno persone il sappiano fare» (IV.II.10). Da qui anche l’invito a badare di più alla recitazione delle seconde e delle terze parti; e invece: «i direttori de’ teatri e gl’impresari poco pensiero si danno delle ultime parti. Onde poi avviene, che quando la scena non è occupata da’ primi attori, lo spettatore sbuffa di tedio, perché gli altri attori non possono essergli a grado, né pel canto, né per la pronunziazione» (IV.II.8). Sugli usi e gli abusi della vocalità Planelli si sofferma a lungo: «deve in prima il cantante apprendere a parlar bene la lingua in cui canta, sotto pena d’essere cuculiato [sbeffeggiato] a doppio» (IV.II.13); quello stesso canto deve essere in ogni parola intellegibile e «far sentire il numero della poesia, e non dar nel farnetico d’alcuni, che si affannano a credenza, per estinguere ogni sentore di verso ne’ drammi» (IV.II.15: a sfida un cantante aveva detto d’aver intonato «un pezzo della gazzetta corrente, senza che persona se ne avvedesse»…). Qui il critico cita a lungo un’opera precettistica in versi latini del gesuita francese secentesco Jean Lucas, il quale aveva spiegato per filo e per segno, riferendosi alle prediche in chiesa e alle orazioni in tribunale (non mica al canto!), quali momenti volessero «movimento», quali «gravità», quali «posatezza». Si capisce come questi consigli retorici andassero contro il trionfo del fasto vocale, irrelato dall’azione, che era ancora proprio dell’età metastasiana; e naturalmente fossero inapplicabili all’uso, dominante in Italia, dei castrati:

gli eunuchi non possono eseguire sì fatti precetti. Essi mentre vogliono comandare, adirarsi o ripigliare, mandano fuori una voce femminile, che in quell’incontro muove non a timore, ma a riso. Una tal voce ben conviene al sesso delle donne, il quale, perché inerme, ottenne una voce molle e delicata, comoda alle lusinghe, a’ vezzi, alle preghiere, le sole armi di chi non ha in mano il dominio e la forza. Ma il sesso destinato a comandare sortì una voce piena, autorevole, maestosa, propria a sottomettere gli animi, propria a ordinare, riprendere, rampognare. Ora il teatro sovverte questo bell’ordine; e gli alessandri, gli scipioni, i cesari delle nostre scene dispongono del destin della terra con una voce che muove invidia nelle italiane fanciulle (IV.II.17).

Critica non nuova, perché tutti hanno in mente i versi di Parini (ne La musica, 1769): «Aborro in su la scena / un canoro elefante / che si strascina a pena / su le adipose piante, / e manda per gran foce / di bocca un fil di voce». Ma è una censura che troverà ancora a lungo nel pubblico un’ostinata resistenza: l’edonismo dell’ascoltatore aveva bisogno dello smisurato, dell’ambiguo, dell’inusuale, con buona pace delle cosiddette leggi di natura. Persino una «celebre odierna cantatrice» allora molto acclamata, la romana Caterina Gabrielli detta cochetta, merita per il «suo inudito, distintissimo, inimitabil gorgheggio» un giudizio duro: «il popolo ammaliato da quel nuovo incanto credé di sentire allora per la prima volta il solo stile degno dell’opera in musica; e ‘l maestro di cappella, tocco anch’egli da quella malia, s’immaginò d’entrare in un nuovo mondo musicale» (III.II.9). Il mondo del teatro, secondo i canoni di Planelli, non doveva invece contraddire la realtà che il pubblico avrebbe ritrovato, una volta uscito dalla sala e risvegliatosi dal richiamo delle incantatrici e degli incantatori.

Le leggi inesorabili della verosimiglianza valgono anche per la scenografia. Planelli traccia con mano sicura una piccola storia dell’illusionismo scenografico, gloria quasi tutta italiana, di Ferdinando Galli Bibiena, dei suoi discendenti e della sua scuola; e dispensa le solite raccomandazioni: «una galleria va caratterizzata in modo che non sia presa per un tempio, né una carcere senta di cantina. Quindi ancora se la scena è in Egitto, l’architettura non sia gotica, gli arredi non paiano quelli che ci vengono d’Inghilterra, i ritratti e le statue non appartengano ad eroi, o a deità fenicie o caldee» (V.II.7). Consiglio perfettamente ragionevole; forse un po’ meno ragionevole chiedere al pittore di fondali di rispettare la statica come se fosse un architetto: qui, sulle orme di Algarotti, a Planelli vien bene citare l’aneddoto sul pittore secentesco Andrea Pozzo che «nel dipingere una cupola avea […] sostenute con mensole le colonne che figuravano di reggere questa cupola. Alcuni architetti alla vista di tale inverisimiglianza cominciarono a torcere il muso, e a protestare ch’essi in fabbricando non avrebbero dato alle colonne un sì fragile appoggio» (V.II.8). Un po’ meno stretto Planelli si mostra in fatto di decorazioni, che considera anzi necessarie nel dettagliare l’ambientazione esotica: «il Cinese industre, il molle Persiano, il maomettano fastoso, e lo stesso rozzo Americano, nell’architettura de’ loro edifìzi, nella simmetria de’ loro giardini, negli adobbi delle loro abitazioni, hanno di che adornare con novità le nostre scene» (V.II.10). Anche nel capitoletto sull’illuminotecnica distilla suggestioni felici10.

Le pagine sulla danza sono tra le più vive del libro. Planelli sposa in pieno la riforma naturalistica promossa in Francia da Jean-Georges Noverre col suo ballo pantomimo o ballet en action (non nomina mai, ed è curioso, il concorrente italiano a Vienna di Noverre, Gasparo Angiolini, sodale di Gluck): «il patetico della danza consiste nell’imitazione di que’ movimenti che noi facciamo, qualora da alcuna passione siam posseduti: la qual imitazione è propriamente detta pantomimo» (VI.I.6: il ballo «alto», o acrobatico, viene relegato a un cimento atletico, in sostanza non artistico). Il ballo non deve essere estrinseco ma avere intima unione con la favola, perché in questo modo «alimenta ed accresce l’affetto acceso da questa e ci rende curiosi del proseguimento» (VI.II.3). Ancora una volta al poeta spettava la funzione di guida: Planelli chiedeva «che la composizione del ballo teatrale fosse addossata, non al ballerino, ma al poeta, assistito bensì dal primo» (VI.II.5). A chi sospettava che una troppo stretta connessione tra ballo e azione drammatica generasse un effetto di monotonia (in fondo, i balletti da molti erano considerati semplici intermezzi, quasi svaghi dell’attenzione) Planelli rispondeva a sua volta con una domanda: «chi è preso da sì fatto dubbio, che mai direbbe, se vedesse in un medesimo quadro da una parte dipinto Alessandro inteso a militari imprese, e dall’altra un Arlecchino che sia tutto in sul trastullare, senza che il pittore abbia messa veruna connessione tra questi due personaggi?» (VI.II.7: si ricordi che Planelli condanna senza esitazione l’uso delle maschere)11. Il nome di Noverre, «le di cui danze hanno riscosso recentemente i più lusinghieri applausi de’ teatri di Parigi, di Londra e d’altre insigni città d’Europa» (VI.II.11), torna più volte in queste pagine, insieme a quello del poeta e storico Louis de Cahusac, che aveva tra l’altro riscoperto e fatto tradurre il De saltatione di Luciano. Per Luciano la danza era la più filosofica tra le arti, investendo l’uomo intero; e allora gli stessi figli di Tersicore dovevano valere poco meno dei filosofi, essendo invitati a conoscere (anche qui Noverre guidava) quasi ogni cosa, dalla poesia alla geometria, dalla musica alla pittura e alla scultura, «È forse un pretender troppo?» (VI.III.1) si chiedeva fintamente stupito Planelli. Iperbole che sconfina nell’utopia, non però mai scompagnata dal buon senso; perché filosofo sì, ma il ballerino doveva comunque avere il physique du rôle, pena l’essere sbeffeggiato dall’impietoso pubblico: «fattosi su quel teatro un ballerino cazzatello — così suona uno degli aneddoti cari a Planelli — a voler rappresentare Ettore, il popolo dimandò ad alta voce quando Ettore fosse per uscire, giacché colui non era che Astianatte» (VI.III.5).

Potrà stupire che questa fitta messe di osservazioni teoriche e pratiche sull’effettivo funzionamento della macchina musical-teatrale si concluda con un plaidoyer in difesa della moralità del teatro. Planelli veste i panni di un censore, naturalmente benevolo e accorto, che in primo luogo raccomanda una lettura preventiva del «libricciuolo» (il libretto): «procurerà in esso che i personaggi non parlino troppo della divinità, né (ove sieno pagani) secondo la grossolana religione del volgo de’ gentili» (VII.III.2); invita poi a vigilare sul comportamento di cantatrici e ballerine; in generale, chiede al direttore e all’impresario di allontanare dal teatro ogni persona che possa pregiudicare la moralità degli spettacoli. È tipico che a questo punto del libro Planelli stenda lunghe note di facile erudizione per richiamare passi di padri della Chiesa e di moderni prelati e vescovi che avevano assolto, o almeno non condannato, il teatro (è reclutato tra gli altri Carlo Borromeo). Mossa calcolata, perché a metà Settecento il partito dei rigoristi, ispirato a un giansenismo che s’era rafforzato anche grazie alla crisi dei gesuiti, aveva rialzato la testa: Planelli menziona, per criticarlo, il più autorevole esponente di tale partito, il domenicano Daniele Concina, che per il suo De spectaculis theatralibus (1752) s’era attirato i sarcasmi del grande Scipione Maffei e di altri (Planelli non cita Maffei ma il frate minore Giovanni Antonio Bianchi, altro avversario di Concina). Erano ormai passati vent’anni, eppure Planelli credeva che a Napoli quei discorsi in difesa degli attori e dei cantanti andassero ripetuti. Troppo evidentemente gli stava a cuore l’opera in musica o forse aspirava (ha ipotizzato Degrada)12 a una carica di sovrintendente teatrale, che non gli fu invece mai assegnata. Sia come sia, l’idea che la letteratura e la musica dovessero riformare i costumi torna nelle pagine finali del trattatello, per esempio quando si cita il Maometto di Voltaire che «rilevò tutte le funeste conseguenze» dell’ipocrisia e del fanatismo (VII.III.16). Esempio perfetto per un illuminista, forse un po’ scivoloso per un devoto, anche se Voltaire aveva prudentemente dedicato quella politicissima pièce a papa Benedetto XIV. Il Planelli appassionato delle scene cede il passo al politico. Al suo principe immaginario in cerca d’un precettore raccomanda la lettura dei poeti, «massime i comici, e i satirici» (tra i moderni, Molière e La Bruyère) e persino, con più prudenza, dei romanzi che «contengono delicatissime analisi del cuore umano e vivaci pitture del carattere delle Nazioni» 13; al suo spettatore ideale in cerca d’un teatro si rivolge ancor più paternalisticamente: occorre, osserva, che «il popolo non si accorga che si cerchi anzi d’istruirlo che di dargli solazzo» (VII.III.19). Medicina antica, strategia accorta di controllo sociale che piacque e piacerà a molti, prima, durante e dopo rivolte e rivoluzioni.

Franco Arato

Dell’opera in musica

Prefazione

[Pref.1] Sono gli spettacoli oggetti tenuissimi agli occhi del volgo, che non discerne in essi che il divertimento e ‘l solazzo: sono agli occhi d’un filosofo vasti e importantissimi oggetti; perché gli guarda come una delle più possenti cagioni della perfezione o della decadenza delle belle arti, della formazione o del corrompimento del publico costume.

[Pref.2] Se l’Italia, attraverso alla barbarie in cui era involta l’Europa, fece risplendere il suo gusto per l’architettura, per la pittura, per la scultura, per la poesia, per la musica, e se portò queste arti alla loro perfezione, mentre il genio degli altri popoli, dirò così, bamboleggiava, ciò avvenne in gran parte perché gli spettacoli sostennero in essa il gusto di queste arti, e perché i suoi teatri gareggiavano con quelli dell’antichità, mentre le altre nazioni né pur pensavano ancora ad avere un teatro. È lo stato delle belle arti un articolo della maggiore importanza per la felicità e ’l lustro delle nazioni. Conciosiaché queste piacevoli facultà occupano il mezzo di quell’aurea catena, che connette le arti meccaniche colle più sublimi scienze; dalla qual connessione procede che dove ben s’intenda la pittura, la scultura, l’architettura etc., dove fiorisca un Palladio, un Michelangelo, un Raffaello, là s’intenda ancora l’agricoltura, là si trovino eccellenti fabbri e tessitori, e là fiorisca pure un Viviani che ardisca indovinare i massimi e minimi d’Apollonio, e un Galilei che ci riveli i secreti degli astri.

[Pref.3] Molto più importante ancora è l’influenza degli spettacoli sul costume delle nazioni. Le rappresentazioni tragiche, in cui i poeti della Grecia poneano nel più terribile aspetto la tirannia, sostennero in Atene lo spirito republicano; siccome in Roma l’arena, tinta dal sangue degli uomini e delle fiere, alimentò la ferocia d’un popolo conquistatore. Quindi bassa opinione danno di se medesimi quegli uomini di stato, i quali trascurano la direzione de’ publici piaceri: essi mostrano di non intendere l’uso di questa gran molla per volgere a lor talento gli animi de’ loro popoli. Degno perciò della comun riconoscenza è quel savissimo magistrato, in cui risiede la suprema ispezione de’ teatri di questa mia patria, come quegli che veglia diligentemente sulla direzion del costume, direzione in cui consiste il più sacro e il più augusto dritto della sovranità, e allontana da’ teatri qualunque rappresentazione che contaminar possa l’animo de’ cittadini, siccome recentissimi esempi lo han dimostrato.

[Pref.4] Poiché dunque tanto influiscono gli spettacoli sulle cognizioni e sul costume delle nazioni, egli sarebbe desiderabile che quegli scrittori, i quali prendono a dichiarar le leggi di quelle rappresentazioni che più hanno voga ne’ lor paesi, avessero in mira questi due grandi oggetti. E da che oggi in Europa, e particolarmente in Italia, l’opera in musica è lo spettacolo dominante, perciò io spesse volte ho meco medesimo desiderato che gl’Italiani scrittori, rifinando oggimai di ripeterci quello che tante volte e da tanti secoli ci è stato insegnato della tragedia antica, della commedia, del dramma rusticale, e d’altrettali drammi che oggi l’Italia così non gusta come altra volta facea, si dessero piuttosto a dichiararci nel modo indicato le leggi di questo dominante spettacolo che quasi solo occupa da lungo tempo i nostri teatri ; il quale perché più pomposamente d’ogni altro si vale del soccorso delle belle arti, perciò riesce più malagevole ad eseguire che qualunque de’ mentovati, e più di qualunque altro è capace d’influire nel progresso delle belle arti e della publica costumatezza. Pure una sì nobil materia, e così atta per la varietà sua ad esercitare i più grandi ingegni, non fu, ch’io sappia, trattata finora sufficientemente da alcuno. Solo il chiarissimo Algarotti ne schizzò un brevissimo saggio (degno per altro del nome dell’autor suo) del quale avendo io fatto tutto quell’uso che mi è convenuto, qui anticipatamente lo attesto.

[Pref.5] Tal non curanza de’ nostri scrittori ha data dunque occasione al presente trattato. In esso io le più volte ho per brevità dirette le mie riflessioni all’opera in musica propriamente detta cioè alla tragedia musicale, essendo tali, che si possono di leggieri adattare alla commedia in musica. Ma quando tale applicazione mi è sembrata malagevole, non ho trascurato di farla io medesimo e di ragionare particolarmente dell’opera comica musicale.

[Pref.6] Lo scopo di questo trattato è quello ch’io posi fin da prima in veduta: il dimostrare quanta dipendenza abbiano dagli spettacoli, e massimamente da quello dell’opera in musica, il gusto delle arti e ‘l costume delle nazioni; e quanto agevolmente l’inosservanza delle leggi di questa pomposa scenica rappresentazione possa corrompere il gusto e favorire la scostumatezza, ch’è la più deplorabile sventura che possa avvenire a uno stato.

[Pref.7] So nondimeno per pruova che a dirigere a un tale scopo le leggi dell’opera in musica, egli fa di mestieri una varietà tale e una tal profondità di cognizioni, che invano si cercherebbero in uno che, come io, abbia sperimentate nel suo nascere avverse, come suol dirsi, le muse. Laonde, ben lontano dal lusingarmi d’aver dato nel segno propostomi, io non destino il presente trattato che a risvegliare i sovrani ingegni d’Italia e a indicar loro quanto degno di loro attenzione sarebbe questo suggetto da essi finor trascurato:

… Fungar vice cotis, acutum
Reddere quæ ferrum valet, exsors ipsa secandi.
Hor. Epist. ad Pison.

[Imprimatur]

[Imprim.1] Adm. Reverendus D. Jacobus Martorelli in hac Regia Studiorum Universitate professor revideat et in scriptis referat: Datum Neapoli die IX mensis Julii 1770.

Nic. Episcopus put. Cap. Maj.
S. R. M.

[Imprim.2] Non so se universalmente sia noto che i Greci voleano che coloro i quali amavano scrivere non fossero ἀγεωμέτρητοι, ἄμουσοι, ἀθεώρητοι; queste tre sì sublimi doti (che in ispiegarsi in altra lingua languiscono), io con indicibile piacere le ho ammirate nell’autore savissimo di quest’opera, la quale di più si può dire γεωμετρητάτη, μουσικωτάτη, θεωρητοτάτη ed in una voce originale. E piace che in tutto l’egregio trattato de per maestri i Greci. Si desiderava che in nostra stagione una n’uscisse di sì gran pregio, dolendosi ognuno che colle stampe vedeansi libri da altri autori infelicemente trascritti e ridotti in compendi. Questo alla fine uscito in luce a me sembra composto θεωρητικωτατῶς e con nuovo pensamento. Ogni sua parte meriterebbe un lungo elogio: lo stile elegante, la divisione chiara e propria, l’erudizione tutta scelta e la scolpita onestà. Il pubblico, son certo, che a tutte queste sì belle doti farà plauso. V. M. con pronto compiacimento può dare all’illustre autore il permesso della stampa, perché in tutta l’opera si scorge quest’ultima virtù; e basta leggere soltanto l’estrema sezione. E, se i precetti di lui si eseguiranno, i teatri diverrebbono onestissime scuole.

Napoli 24 ottobre 1771

Della M. V.

Umiliss. divotiss. servitore

Giacomo Martorelli

 

Die 24. Mensis Januarii 1771. Neapoli.

 

[Imprim.3] Viso rescripto suæ Regalis Majestatis sub die 19. currentis mensis et anni, ac relatione Rev. D. Jacobi Martorelli de commissione Rev. Regii Cappellani Majoris ordine præfatæ Regalis Majestatis.

[Imprim.4] Regalis Camera Sanctæ Claræ providet, decernit, atcque mandat, quod imprimatur cum inserta forma præsentis supplicis libelli, ac approbatione dicti Reg. Revisoris: verum in publicatione servetur Regia Pragmatica: Hoc suum.

GAETA PAOLETTI. Vidit Fiscus R. Cam.

Reg. fol.

Carulli.                                                                                  Athanasius.

Ill. Marchio Citus Præf. S.R.C. et ceteri Ill. Aul. Præfecti tempore subscriptionis impediti.

Adm. Rev. Dominiti P. Girardus de Angelis Ord. Minimorum S. Th. Professor revideat et in scriptis referat. Datum die 3. Decembris 1770.

F. X. Episc. Venafranæ Ill.
J. Sparanus Can. Dep.
EMIN. E REV. SIGNORE.

[Imprim.5] Poiché si permettono i teatri, degnar può V. E. di permettere la pubblicazione del presente trattato, nel quale il dotto e pio cavalier Planelli, con ottima ragione e prudenza, e con riposta erudizione, ed eleganza finissima di stile, corregge i falli e gli abusi, e l’ignoranze correnti ne’ modi, ed esercizi di quelle arti, che, a fornir con magnificenza e decoro, e con qualche utile e diletto, le sceniche rappresentazioni s’appartengono. Avendo egli il primo, non senza un piacevole e filosofico aspetto di novità, formato come una instituzione universale che sola bastar potrebbe ad informar con diritto lume i poeti, i maestri di musica, gli architetti, gli attori, onde in unità di bellezza la parte loro esponessero a’ risguardanti. Del resto l’intero purgamento da ogni disordine in tali pericolosi uffizi e’ pare che si convenga aspettarlo dal solo Iddio. Io sono

Il più umile Servo, e suddito
Fr. Gherardo degli Angeli Minimo.

Sezione I.
Che sia opera in musica. Suoi progressi e perfezione

Cap. I.
Che s’intenda per opera in musica. Storia di questo spettacolo

[Sez.I.1.0.1] L’opera in musica è un dramma rappresentato cantando. Quando questo spettacolo nascesse in Italia è malagevole a diffinire: egli nasconde la sua origine nelle tenebre d’una rimota antichità, la quale non tramandò a noi monumenti bastevoli a determinare sì fatta epoca. Quel solo che con maggior franchezza possa asserirsi, è che il suo uso è antichissimo.

[Sez.I.1.0.2] In effetti Albertino Mussato, storico padovano, il quale, secondo il Muratori, nacque verso il 1260, parla del pronunziar su’ teatri col canto e in volgar lingua le gesta de’ duci e de’ monarchi, come d’un costume non recente. Dalla maniera dunque, onde il lodato storico fa menzione di queste volgari e cantate tragedie14, par verisimile, ch’esse ben prima del secolo nel quale nacque il Mussato avessero avuta origine.

[Sez.I.1.0.3] Anche l’anonimo autore d’una cronica manoscritta di Milano (scrittore anch’esso di molta antichità) descrivendo l’antico teatro de’ milanesi, attesta che in quello erano da istrioni cantate avventure di principi e di grandi; e che terminato il canto, si dava principio alla danza, come si costuma anche in oggi15.

[Sez.I.1.0.4] Un’altra pruova dell’antichità delle opere in musica ne somministrano gli statuti della Compagnia del Gonfalone16. Fu questa congregazione istituita in Roma nel 1264 per principal fine di rappresentare i misteri della passion del Signore, la qual rappresentazione fu in essa lungo tempo eseguita ciascun anno nella settimana santa con canto e con sontuose decorazioni17. E poiché il principale intendimento dell’istituzione della prefata compagnia fu, come dicemmo, di decentemente rappresentare questa sacra tragedia, pare che tali rappresentazioni fossero nate anche prima di sua fondazione. Il che tanto è più probabile, quanto che tra coloro, che dell’istituto di tal confraternita fecero menzione, niuno ascrisse alla medesima l’invenzione di quelle sacre rappresentazioni che in breve si diffusero per tutto il mondo cristiano, e furono per più secoli celebratissime.

[Sez.I.1.0.5] Giovanni Villani18 e l’Ammirato19 conservarono ancora la memoria d’una rappresentazione data nel 1304 dagli abitanti di Borgo San Priano, nella quale si ammirarono principalmente le superbe decorazioni, inventate da Buonamico Buffalmacco20. E il Villani espressamente attesta, che per antico aveano in costume quelli di Borgo San Priano di dare al publico sì fatti solazzi. Qual dramma fosse stato cantato in quello del 1304 nol lasciarono scritto i mentovati storici. Il Cionacci21 crede che fosse stato il Teofilo, o piuttosto il Lazzero ricco e povero sacri drammi l’uno e l’altro.

[Sez.I.1.0.6] Il Crescimbeni22 al contrario stima che, quale che fosse stato quel dramma, dovette essere di profano argomento.

[Sez.I.1.0.7] È dunque chiaro che fino da’ più rimoti tempi furono usate in Italia le opere in musica. Forse anzi esse non sono che una continuazione dell’antica tragedia; continuazione per altro in que’ secoli d’ignoranza divenuta imperfettissima, particolarmente nella parte della poesia, ciò è del dramma.

[Sez.I.1.0.8] Erano questi spettacoli variamente allora intitolati; talora feste, rappresentazioni, misteri23, tal altra storia, vite, vangeli; e denominazioni anche più strane, colpa della barbarie de’ tempi, qualche volta ancora sortirono. Furono essi generalmente cantati, siccome il Cionacci apertamente dimostra24. Ciò nondimeno che principalmente vi si distinguea, erano le suntuose decorazioni: macchine, comparse, festini, giostre, tornei, battaglie, balli, conviti, tutto eravi con magnificenza introdotto, e i più abili artefici venivano a tal effetto impiegati25: per modo che a questi spettacoli dobbiamo soprattutto ascrivere i mirabili progressi che la musica, la pittura, l’architettura, la meccanica, la prospettiva, così per tempo fecero tra noi, come osserva il prenominato Cionacci.

[Sez.I.1.0.9] Quindi è che a misura che queste facultà andavano racquistando in Italia l’antico splendore, l’opera in musica s’innoltrava verso la sua perfezione; talmentechè nel secolo XV parve già molto prossima a questa meta. In tal secolo e probabilmente verso il 148026, cominciarono in Roma le opere in musica di profano argomento (giacché le sacre eranvi communi da più di due secoli, come di sopra si è osservato) e Giovanni Sulpizio nella Dedicatoria delle sue note sopra Vitruvio fatta al Cardinale Raffaele Riario, nipote di Sisto IV, attribuisce a sé la gloria d’avere il primo insegnato a rappresentare e a cantare que’ melodrammi27.

[Sez.I.1.0.10] La prova maggiore della bellezza verso cui procedeva in quel secolo l’opera in musica, vien somministrata dalla festa, che nel 1489 fu celebrata da Bergonzo Botta, gentiluomo tortonese, nelle nozze d’Isabella d’Aragona, figlia d’Alfonso duca di Calabria, con Giovan-Galeazzo, duca di Milano. Questo Bergonzo, ricevendo in casa gl’illustri sposi, diede in quel genere uno spettacolo sì magnifico, che la descrizione, che ne fu publicata, sorprese l’Europa28. La poesia, la musica, la meccanica, la danza, fecero di sé tanta mostra in quella occasione, che gli autori dell’Encyclopédie 29 in questo spettacolo del Botta crederono di trovar l’epoca dell’origine dell’opera in musica. Che quelli, per altro rispettabilissimi letterati, non ben si apponessero, chiaro apparisce da ciò che sulla storia di questo spettacolo si è da noi fino a qui ragionato. La sola proprietà onde esso fu allora presentato dal Botta, potea fargli accorti non esser quello il primo che l’Italia vedesse. Niuna opera dell’arte comparisce per la prima volta con tal grado di perfezione, massime quando tante facultà concorrono alla sua formazione.

[Sez.I.1.0.11] L’aver mentovato Alfonso duca di Calabria mi richiama in mente una simil festa celebrata da questo principe in Napoli l’anno 1492, nella sala di castel Capoano. Consisté questa in una breve farsa, come la chiama il famoso Jacopo Sannazzaro, del quale fu opera, rappresentata con canto e con regio apparato di macchine e di decorazioni30.

 

[Sez.I.1.0.12] Passando al XVI secolo, troviamo il nome di parecchi maestri di cappella, che si segnalarono nella musica de’ melodrammi. Tra’ primi che in quel secolo si distinguessero, fu Alfonso dalla Viola Ferrarese, che verso il 1555 fece la musica al Sacrifizio, dramma pastorale d’Agostino Beccari, poeta ferrarese. Nel 1563 lo stesso Viola messe in musica L’Aretusa d’Alberto Lollio, altro celebre letterato ferrarese e poeta, il qual dramma fu nel medesimo anno rappresentato in presenza d’Alfonso II d’Este, duca di Ferrara. In presenza dello stesso Alfonso fu nel 1567 rappresentato lo Sfortunato, dramma d’Agostino Argenti, posto sotto le note dal mentovato Viola.

[Sez.I.1.0.13] Mantova ebbe nell’età medesima Alessandro Strigio, gentiluomo nella musica esercitatissimo. Ma io non ho saputo chiarirmi se egli ponesse mai sotto le note altro che intermedi, de’ quali parecchi ne compose. Tra questi, uno più all’opera in musica che a qualunque altro genere di drammatica azione fu somigliante, tra per la divisione in cinque parti, o vogliam dire atti, e per gli personaggi, che tutti erano o deità o semidei, e finalmente per l’accompagnamento di splendidissime decorazioni31. A questo intermedio però (che fu frapposto nell’Amico Fido, commedia di Giovanni de’ Bardi, comico sfuggito al Quadrio) non fu impiegato il solo Strigio, ma ancora Cristofano Malvezzi, maestro di cappella del granduca di Toscana, il qual Malvezzi la terza e la quarta parte dell’intermedio compose.

[Sez.I.1.0.14] Un altro maestro di cappella, che in quel secolo fiorisse nella musica teatrale, fu Emilio del Cavalier, romano. Egli fece la musica alla Disperazione di Sileno e al Satiro, drammi di Laura Guidiccioni, virtuosa dama lucchese, i quali furono nel 1590 rappresentati avanti al granduca. Nel 1595 pose in musica Il Giuoco della Cieca, altro dramma della Guidiccioni, e nel 1600 la Rappresentazione d’anima e di corpo, cantata in Roma.

[Sez.I.1.0.15] Anche Modena ebbe in quel secolo Orazio Vecchi, poeta insieme e maestro di cappella, che si distinse nella musica teatrale. Nel 1597 uscì in Venezia appresso Angelo Gardano, in quarto, L’Amfiparnaso, dramma d’esso Vecchi, corredato da lui medesimo di note musicali. Nella sepolcrale iscrizione fatta a questo valentuomo e riportata dal Muratori32, si legge essere il Vecchi stato il primo ad unir la musica a’ drammi33. Ognun vede, che quel primo è uno di quegli esagerati elogi onde i viventi sogliono esser prodighi co’ morti.

[Sez.I.1.0.16] Ma colui che sopra ciascun altro si rendé celebre in quel secolo nella musica teatrale, fu Jacopo Peri del quale or ora più particolarmente diremo.

[Sez.I.1.0.17] Tali furono i progressi dell’opera in musica nel XVI secolo, ed in essa non era osservabile la sola musica, ma la pittura ancora, la meccanica, la prospettiva, il disegno, l’architettura, per opera del Neroni, del Peruzzi, dell’Aristotile, del Leoni, di Timante Bonaccorsi, del Lancia, del Monaldo, del Vannocci, del Tribolo e d’altri valenti artefici di que’ dì, a’ quali quelle belle arti sono tenute dell’eccellenza a cui pervennero in quel secolo fortunato. Bisogna però confessarlo: se tutte queste facultà contribuivano alla vaghezza del nostro spettacolo, non si potea dir lo stesso della poesia. E quantunque fin da’ principi del secolo onde favelliamo, sì l’antica tragedia come la commedia avessero ottenuti i loro restauratori quella nella persona del Trissino, questa nel cardinal Divizio da Bibbiena, ciò nulla ostante, duravano tuttavia pel melodramma i secoli d’Andronico e di Tespi.

[Sez.I.1.0.18] Dovea dalla città di Firenze (dalla quale l’Italia e l’Europa tutta riconosce una gran parte di sua coltura) attendere quest’ultimo dramma quella regolarità che tuttor gli mancava. Sul cadere adunque del sedicesimo secolo alcuni gentiluomini fiorentini, tra’ quali il prenominato Giovanni de’ Bardi, Pietro Strozzi e Jacopo Corsi, conoscendo che i melodrammi allora usati molto si allontanavano dalle leggi della drammatica, confortarono Ottavio Rinuccini a tesserne uno secondo le leggi di questa poesia. Rendutosi il Rinuccini alle istanze de’ suoi amici, compose il primo melodramma regolare che l’Italia vedesse, intitolato la Dafne. Ciò fatto, i medesimi gentiluomini elessero Jacopo Peri, celebre maestro di cappella fiorentino, a mettere quel dramma sotto le note; il che questi fece nel 1597 nel qual anno medesimo fu la Dafne rappresentata in musica con sommo applauso in casa del prenominato Corsi, grande amico del Chiabrera. Alla Dafne fece il Rinuccini succedere L’Euridice e L’Arianna, quella nel 1600, questa nel 1608, messi anche in musica dal Peri. Furono questi melodrammi accolti con tanto applauso dagl’Italiani, competenti giudici delle opere di gusto, che di somigliante conio molti altri se ne videro in breve.

[Sez.I.1.0.19] Non pochi uomini di lettere celebrano il Rinuccini come inventore, non che perfezionatore de’ melodrammi: chiamandosi anche inventore chi a una invenzione altrui aggiunga nuovo lume, e bellezza. In tal senso è chiamato Esopo inventor degli apologhi ben più antichi di lui: e nel senso medesimo è Copernico avuto per inventore del sistema copernicano; perciocché, nonostante che un tal sistema fosse venuto in mente a’ più antichi filosofi, quell’astronomo fu il primo a provarlo in modo che soddisfacesse. In questo senso ancora l’Harvey è riguardato come inventore della circolazione del sangue.

[Sez.I.1.0.20] Non potea però l’opera in musica conservar lungo tempo quella bellezza che sortita avea nelle mani del Rinuccini e del Peri: essa andava incontro al secolo diciassettesimo, epoca quanto fortunata per le scienze, altrettanto infelice per ogni maniera d’italica poesia. Nondimeno alla decadenza di questo spettacolo non contribuì solo l’infelicità di quel secolo, ma in oltre (che è più sorprendente) il progresso fatto, come dicemmo, nel secolo antecedente delle belle arti. Perciocché, giugnendo queste ad incantare colle macchine e colle decorazioni, sedussero per modo colla loro vaghezza il gusto dagl’incauti nostri maggiori, che si cominciò a poco a poco a non esigere dall’opera in musica che comparse, decorazioni e macchine; poca attenzione facendosi più alla poesia, la quale si prese a riguardare come veicolo, dirò così, di quelle.

[Sez.I.1.0.21] Dimorò l’opera in musica in questo stato di decadenza per tutto il corso del secolo decimosettimo, durante il quale ella non fu più che uno spettacolo de’ sensi. In tale stato brillò precisamente su’ teatri di Venezia, i melodrammi de’ quali, colla suntuosità delle loro decorazioni, attirarono l’ammirazione di tutta Europa. Vive ancora tra noi la memoria del dramma intitolato La Divisione del mondo, e d’altre opere musicali per lo vastissimo accompagnamento di macchine e per la magnificenza onde furono colà decorate. In questo secolo si cominciarono a inserir le arie ne’ melodrammi: poiché fin allora tutto fu in essi recitativo e la musica fu tutta in istile recitativo composta. L’introduzione delle arie è attribuita al Cicognini, il quale nel suo Giasone, melodramma publicato nel 1649, cominciò a interrompere il grave recitativo con quelle anacreontiche stanze.

[Sez.I.1.0.22] Ma dell’aurora del corrente secolo, che secondo un valentuomo può chiamarsi quello del buon gusto, cominciarono a distinguersi i grandi ingegni che doveano restituire quella poesia alla sua antica bellezza. Tra’ primi suoi restauratori va particolarmente annoverato Apostolo Zeno, i primi melodrammi del quale videro la publica luce fin dagli ultimi anni del secolo prossimamente caduto. Pier Jacopo Martelli, l’abate Frugoni, il marchese Maffei, Paolo Rolli, ed altri nostri valenti poeti, seguirono le vestigia medesime. Ma quegli, a cui più che a qualunque altro è debitrice l’opera in musica, è il signor abate Metastasio, il quale colla delicatezza de’ suoi melodrammi, onde arricchisce tuttavia il nostro teatro, e col destro ma moderato uso delle decorazioni, ha ristorata la poesia di ciò che nello scorso secolo perduto avea ed ha recata l’opera in musica a quel punto al quale niuno condotte aveala prima di lui.

[Sez.I.1.0.23] L’opera in musica passò d’Italia in Francia per opera del Cardinal Mazzarino, dove fu per la prima volta nel 1646 da Italiani attori eseguita: indi non tardò molto a passare nella vicina Inghilterra. E poiché nel secolo in cui in Francia fu menata, era divenuta, come si osservò poc’anzi, uno spettacolo de’ sensi, essa ritenne oltremonti que’ difetti che contratti avea nel suo paese natio.

Cap. II.
Dove consista la perfezione dell’opera in musica

[Sez.I.2.0.1] Dalla storia esposta nel capo antecedente si è potuto agevolmente ritrarre che il secolo presente è uno de’ più felici per l’opera in musica. Nondimeno perché si conosca se con tutto ciò ella sia oggimai pervenuta alla sua perfezione, convien prima esaminare dove questa perfezione consista.

[Sez.I.2.0.2] In qualunque opera, sia della natura o dell’arte, perfezione appelliamo l’uniformità della tendenza delle parti a un fine medesimo. Così perfetta diciamo una macchina, se ciascuno de’ pezzi che la compongono tenda a quella funzione a cui la macchina è destinata; e al contrario imperfetta, se alcun di quelli, o perché mal formato o perché male cogli altri connesso, non tenda a quel fine.

[Sez.I.2.0.3] Ora alla formazione dell’opera in musica concorrono la poesia, la musica, la pronunziazione e la decorazione; alle quali facultà un’altra aggiugner si suole, non essenziale a quello spettacolo com’è ciascuna delle annoverate, ma dichiarata quasi tale dall’uso, e questa è la danza. Perché dunque l’opera in musica possa dirsi perfetta e bella (da che bellezza non è dove non è perfezione) conviene che tutte queste facultà talmente concorrano a un fine medesimo, ch’esse compongano un solo tutto: atteso che, siccome il Casa con eleganza e da filosofo scrisse: «vuol essere la bellezza uno quanto si può il più, e la bruttezza per lo contrario è molti» 34.

[Sez.I.2.0.4] Ma quale sarà l’unico fine a cui tutte le parti del nostro spettacolo, come altrettanti raggi d’un cerchio, tender dovranno? Per soddisfare adeguatamente a così fatta dimanda, si vuol riflettere che la parte predominante di questo spettacolo è quella della poesia. Il che è sì vero, che tra tutte le altre facultà da noi annoverate non ce ne ha una che non sia stata ammessa, a solo oggetto di dar mano alla poesia: tutte, quale più verisimiglianza e quale più forza a questa aggiugnendo, sono destinate a soccorrerla e sostenerla. Il che essendo assai aperto si vede che tutte le altre debbono seguire il cammino di quella, e che il fine a tutte comune è quello stesso a cui tende la poesia, la quale nell’opera in musica è chiamata melodramma o dramma per musica.

[Sez.I.2.0.5] Allora dunque il nostro spettacolo sarà perfetto, quando tutte le discipline che lo compongono concorreranno al fine del melodramma. Né io parlo solamente del fine principale, che sarebbe il muovere a compassione e a terrore, posto che quella poesia al genere tragico appartenga; ma ben anche de’ fini intermedi e al principale subordinati. Conciosiaché non ogni scena d’una tragedia è animata dalla compassione e dal terrore, tendendo alcune alla mozione di tale o tal altro affetto, che dal poeta sia stato subordinato al principale. E però tutte le discipline appartenenti al nostro spettacolo debbono tendere non solo all’affetto principale del melodramma, ma a ciascuno altresì di quegli affetti al quale allora aspira la scena quando esse vengono in questa impiegate.

[Sez.I.2.0.6] Da questo general principio partono tutte le leggi concernenti il nostro spettacolo, e a questo paragone vanno esaminate tutte le discipline che concorrono a formarlo. Ora appartenendo esse tutte alla classe delle belle arti, per bene esaminarle e per adoperarle in modo ch’esse facciano in questo spettacolo il più bell’effetto che attenderne si possa, è necessario il dar prima un’occhiata alle belle arti in generale, e discender poi a considerare partitamente ciascuna di quelle che nell’opera in musica vengono impiegate.

Cap. III.
Delle belle arti in generale
§ I. Che sieno belle arti: loro origine ed importanza

[Sez.I.3.1.1] Belle arti sono le arti destinate al movimento delle passioni. Di questo numero è la poesia, l’eloquenza, la musica, l’architettura, la pittura, la scultura e la danza, colle loro spezie. Si faccia attenzione a qualunque opera che a queste facultà s’appartenga; né si durerà fatica a penetrare che esse tutte sono intese a svegliare alcuna delle nostre passioni; e quelle che ad altro mirano impropriamente il nome di queste facultà si attribuiscono. Impropriamente per esempio alla poesia didascalica si da il nome di poesia: poiché non contenendo che la storia o i dommi di qualche scienza o mestiere, non al cuore, ma all’intendimento ragiona, e di poesia non ha che la bellezza esteriore che ne usurpa: come un ritratto, a cui si attribuisce il nome della persona, onde imita l’esteriori fattezze. Così ancora quella parte d’un’orazione che comprende le pruove, non è propriamente un pezzo d’eloquenza, ma di dialettica; né da’ precetti dell’arte di ben dire, ma da quelli di ben ragionare è regolata; e d’eloquenza non ha che le materiali sembianze. Il nome d’eloquente è propriamente riserbato a quella parte che tende a muovere i nostri affetti: e quando noi ce ne sentiamo effettivamente mossi, diciamo esser quello un bel pezzo d’eloquenza.

[Sez.I.3.1.2] Furono queste arti chiamate belle per eccellenza, per ragione ch’esse procurano d’insinuarsi col mezzo del piacere sensibile che a noi viene da quelle bellezze, di cui è giudice l’occhio o l’udito, e di cui esse adornansi diligentemente. Né sono, come le scienze, figlie d’una mente tranquilla; furono anzi concepite dallo spirito umano nel tumulto delle passioni. Un uomo, che la perdita d’una persona cara rende infelice, mentre ha la fantasia occupata da questo oggetto, per arrestarlo come può e resistere a suo potere al destino che da lui lo divide, si pone a ritrarne i lineamenti sulle mura di sua abitazione o ad incidergli in legno, in sasso, e dà la nascita alla pittura e alla scultura. Spaventato un altro dall’inclemenza del cielo, che in mezzo allo strepito de’ tuoni rovescia una furiosa tempesta, corre sotto un albero a ricovrarsi, ne dispone ed intreccia alla meglio le foglie e i rami, ne aggiugne degli altri svelti da alberi vicini, e dà principio all’architettura. Un felice avvenimento facendo prorompere altri in voci d’allegrezza, alcuni della lieta adunanza, per dare maggior risalto a queste voci, vi aggiungono il suono di certi corpi, che l’accidente ha fatto conoscere per sonori. Altri spiega la sua gioia con parole che il suo trasporto rende enfatiche e sublimi, e che la cadenza di que’ suoni induce a suggettare alla stessa misura: ed ecco tra gli uomini la musica e la poesia sua compagna. Intanto quell’agitazione, ch’è propria dell’allegrezza, mette tutta la loro macchina in movimento. Le membra non possono aver riposo: ciascuno pruova un segreto impulso di lanciarle e di muoverle a quella cadenza medesima colla quale il canto e ‘l suono lusinga il suo orecchio. Essi non resistono a quell’impulso; si muovono al suono di que’ primitivi strumenti e al canto di quella nascente poesia; e que’ loro movimenti dan nascita alla danza. Altrove, finalmente desideroso alcuno d’implorare la benevolenza di chi può renderlo felice, medita sul modo di dare efficacia alle sue parole; e forma, altro volendo, le regole dell’eloquenza. Né solamente esse nacquero in mezzo alle passioni, ma né pure possono essere esercitate se non da uno spirito che da questa attualmente sia posseduto. Infatti il furore, l’estro, l’entusiasmo, di cui ciascuna opera di tali arti ha bisogno, non consiste che in un movimento di passione35.

[Sez.I.3.1.3] Le passioni adunque diedero origine alle belle arti, e queste riuscirono poi il più efficace istrumento, onde si possa avvaler l’uomo quando voglia propagare in altrui la propria passione. Dal che si può comprendere quanto importante sia la cognizione di queste facultà, e che essa costituisce una delle più utili e insieme più dilettevoli parti dell’umano sapere, mercecché tutti i vantaggi e i piaceri (e sono pure grandissimi) che reca egli uomini la società dipendono dall’arte di propagare in altrui i propri sentimenti.

§ II. Differenza che passa tra esse

[Sez.I.3.2.1] Uno adunque è il fine a tutte comune: la lor differenza consiste nella scelta de’ mezzi. Perciocché alcune, e segnatamente la pittura, la scultura, l’architettura, la musica e la danza, si vagliono di mezzi naturali, come del colore, della figura, del suono, i quali la natura medesima adopera, quando voglia avvertirne della presenza di qualche obbietto, o l’un dall’altro voglia distinguere. Altre, e ciò sono la poesia e l’eloquenza, si appigliano a’ mezzi artificiali, voglio dire alle parole, mezzi inventati dagli uomini, per comunicar l’un l’altro i propri pensieri. E queste due facultà, che sotto il nome comune di belle lettere van d’ordinario, in ciò differiscono tra esse, che la poesia parla uno straordinario linguaggio e lo lega in armoniosa misura; ma l’eloquenza, apparentemente più modesta, non adopera verun patente artifizio nella scelta e nella combinazione de’ suoi parlari.

§ III. Dell’estetico e del patetico a tutte comune

[Sez.I.3.3.1] Così per vie diverse si affrettano tutte di giugnere al cuore. Ma perché a facilitarsene il cammino giova moltissimo il guadagnarli prima i sensi, esse a questi diriggono i loro primi attacchi. Quindi è, che qualora io ascolto una poetica composizione, il primo sentimento ch’io pruovo è il diletto col quale l’armonia de’ versi e della rima cattivasi il mio udito: ma a questo ne succede immantinente un altro di genere diverso, ed è un movimento di compassione, di riso, o d’altro affetto che sento sollevarmi nell’animo. Parimente un’opera d’architettura cogli ornati e colle misure, che osserva nelle parti e nell’insieme, desta nell’occhio mio una grata sensazione. Ma oltre a ciò io sento coprirmi il cuore d’un sacro orrore, se ella mi presenta un augusto tempio, o d’allegrezza, se una villa deliziosa. Così pur la pittura (per addurre ancora quest’altro esempio) coll’armonia de’ colori appaga la mia vista; ma in oltre mi muove a tenerezza, a riverenza o ad altra passione corrispondente alla figura che imita. Ciò nondimeno che in ciascuna di queste discipline è destinato al piacere de’ sensi, e che da noi sarà per brevità chiamato l’estetico di tali discipline, è tutt’altro da ciò che si adopera al movimento degli affetti, e che noi il patetico diremo di quelle. Non era la sonorità del verso quella che facea piangere S. Agostino nella lettura del quarto libro dell’Eneide; né il terribile del Giudizio Universale del Buonarroti è prodotto dall’armonia de’ colori. Estetico adunque delle belle arti io chiamo quello artifizio ch’esse adoperano per piacere a’ nostri sensi. Patetico delle belle arti, quell’artifizio ch’esse adoperano per muovere i nostri affetti. Entriam ora ad esaminare in che l’uno e l’altro consista.

§ IV. In che consista l’estetico delle belle arti

[Sez.I.3.4.1] Abbiamo già definito l’estetico delle belle arti per quello artifizio che adoperano a fine di piacere a’ nostri sensi. Or consiste questo artifizio nella simmetria ch’esse mettono nelle opere loro: il che esser vero, chiaro apparirà quando della simmetria si sia formata una distinta nozione. Simmetria dunque è la ragione evidente che le parti hanno alle altre parti o al tutto. E ragione evidente è il paragone di due grandezze, col quale noi conosciamo senza fatica se sieno tra loro eguali, o di quanto l’una sia maggiore dell’altra. Se per esemplo, fissando l’occhio sopra due linee, noi prestamente ci accorgiamo esser l’una il doppio dell’altra, queste due linee avranno un’evidente ragione tra loro, e però si diranno essere in simmetria.

[Sez.I.3.4.2] Quanto adunque più evidente farà a’ nostri sensi la ragione d’una a un’altra grandezza, tanto più grata riuscirà la lor simmetria: perché tanto minor fatica durerà lo spirito a discernerla. Ora, a rendere evidente una ragione, due regole si debbono osservare. La prima si è di metterla tra grandezze mediocri: avvegnaché i sensi non mandano fedelmente allo spirito l’idea di grandezze troppo vaste o troppo minute. Chi ha infatti un occhio acuto abbastanza, per discernere che un piccolo grano di sabbia sia il doppio d’un altro? E discernerlo sì agevolmente, come fa se paragoni la statura d’un uomo con quella d’un fanciullo che sia alla metà del primo? O chi ha sì fino orecchio, ch’egli si accorga dell’uguaglianza di due lunghi sermoni, come fa di quella de’ due primi versi della Gerusalemme Liberata? La seconda regola è di adoperar grandezze non troppo tra loro ineguali: perché è difficile a’ sensi il paragone di tali grandezze. Non distinguerà un giardiniere di quanto il suo pino sia più alto d’un basto arbusto, come distingue che un giovane pino è già al terzo del pino antico. E un cieco, il quale coll’aiuto del solo tatto giudica dell’uguaglianza di due dadi da giuoco, con quel solo aiuto, e senza adoperare altro artifizio, non potrà decidere di quanto un di que’ dadi sia più breve del suo bastone. Il perché come più le grandezze si allontanano dall’uguaglianza, più la loro ragione si rende oscura a’ sensi, e più scema per conseguenza la bellezza della loro simmetria. Onde avviene che la simmetria più aggradevole allo spirito è quella che si trova tra grandezze eguali, o vogliam dire tra grandezze che in ragione d’uguaglianza sieno tra loro. Dopo di questa la più aggradevole è quella che hanno due grandezze, l’una delle quali sia una o alquante volte maggiore dell’altra, come il doppio, il triplo, il quadruplo ecc., ragione che i matematici chiamano multiplice, e in ispezie ragione doppia, tripla, quadrupla ecc. Quella simmetria nondimeno che nascerà dalla ragione doppia, sarà più piacevole di quella che dalla tripla, e questa più della seguente, e così in avanti, per vigore della seconda regola. Perciocché quando più questa ragione multiplice aumenta, tanto più le sue grandezze s’allontanano dall’uguaglianza: e però tanto più anch’essa s’allontana dalla seconda regola, la qual vuole che si adoperino grandezze non troppo ineguali. Vien poi quella simmetria che si trova fra due grandezze, l’una delle quali superi l’altra d’una determinata parte, o si voglia dire d’una parte aliquota, come qualora sia una volta e mezzo, una e un terzo, una e un quarto da più dell’altra; e per la medesima seconda regola la simmetria riuscirà più dolce tra 1 ½, e 1 che tra 1 ⅓ e 1, e più tra queste, che tra 1 ¼ e 1, e così via via. La qual ragione è chiamata superparticolare, e in ispezie sesquialtra, sesquiterza ecc. come i matematici amano di dire. Non m’inoltro a dichiarare altre spezie di ragioni, tra perché le già esposte bastano al mio intendimento, e perché da esse derivano le più piacevoli simmetrie. Tuttavolta, siccome non tutti i sensi sogliono essere della medesima acutezza in un uomo, perciò spesso avviene che una ragione, la quale è discernevole a un senso, può essere indiscernevole a un altro senso d’un uomo medesimo, e che, esempigrazia, una persona esercitata nell’architettura, alla prima occhiata si accorga della ragione di due architettonici membri, ma non se ne accorga sì di leggieri coll’uso del solo tatto. D’altra parte un senso medesimo può avere in diversi uomini diversi gradi d’acume, o per ragione d’esercizio, o di natural disposizione; e però avvien non di rado che il senso d’un uomo discerne una ragione, che il medesimo senso in altro uomo non discerne, e che da un concerto, per esempio, di musica, l’uno sia rapito, l’altro annoiato.

[Sez.I.3.4.3] Ora l’estetico delle belle arti consiste appunto, come dicemmo, nella simmetria, che danno queste evidenti ragioni. Infatti allora piace un’opera d’architettura, quando tra le parti, e tra queste e l’edifìzio intero venga osservata la simmetria; né questa facultà insegna altro artifizio egli architetti che vogliono render belle le opere loro, se non il dominio di quelle ragioni sopra ogni parte dell’edifizio. Un simile artificio prescrive la poesia per la sonorità del verso e della rima, e da questo artificio stesso dipende la melodia e l’armonia della musica, siccome altrove si mostrerà. Né solamente l’estetico di tali facultà, ma quello ancora della natura prende origine dalla simmetria. Bello in effetti è un volto, se l’altezza della fronte, quella del naso, quella dello spazio compreso tra ‘l confine del naso e l’estremità del mento, e quella degli orecchi, tutte sieno eguali tra loro. Se eguali tra loro sieno ancora lo spazio che un occhio divide dall’altro, la larghezza del naso, quella della bocca (non compresavi la ripiegatura dell’estremità delle labbra) e quella del mento, talmenteché tutti questi spazi sieno tra le medesime parallele compresi; se l’altezza della fronte sia il doppio della sua ampiezza e quella del volto intero il triplo dell’altezza della fronte; se la lunghezza d’un ciglio sia una volta e mezzo quella dell’occhio, e così discorrendo per gli altri membri, siccome insegnano coloro che scrissero della simmetria del corpo umano. Da’ quali si può apprendere che la ragion dominante in questo è quella d’uguaglianza; più rara è la multiplice, e più di questa la superparticolare. Che poi dalla sola simmetria derivi tutta la bellezza sensibile dell’uomo, la scultura e la pittura, ne somministrano una invincibil pruova, poiché quelle misure osservando, esse giungono ad imitare l’umana bellezza. Perciò non senza ragione insegnò Vitruvio che un edificio deve offerire all’occhio quella medesima simmetria che si osserva nel corpo d’una bella persona: da che in effetti le più dolci simmetrie sono quelle che si osservano nelle membra d’un bel corpo.

§ V. E in che il piacere estetico

[Sez.I.3.5.1] Veduto che la simmetria è l’origine dell’estetico, sì naturale come artifiziale, è ora da dichiarare quanto è in noi l’essenza del piacere che da esso ne viene, sembrando, a dir vero, alquanto strano, che dall’accorgimento delle ragioni che passano tra varie grandezze, n’abbia l’uomo a rilevare sì fatto contento, ch’egli n’esca talvolta come fuori di sé. Procuriamo d’investigar l’origine di questo oscurissimo, e in uno importantissimo fenomeno dello spirito umano.

[Sez.I.3.5.2] Se talento mi venisse di definire il piacere in generale, io direi ch’egli altro non è che l’appercezione d’un’ idea feconda, cioè d’un’ idea dalla quale può lo spirito dedurne molte altre; e sì direi, che non i soli piaceri intellettuali, ma i sensibili altresì e i più dipendenti dal corpo, in questa appercezione d’un’ idea feconda consistano, siccome il dolore (non eccettuati i dolori de’ sensi) è l’appercezione d’un’ idea sterile, cioè d’un’ idea dalla quale non può lo spirito dedurne delle altre. Chi ha meditato sulla natura dello spirito, non dubiterà di paradosso nelle nostre parole. Infatti, se la natura dell’anima umana consiste nello sforzo di produrre una non interrotta serie d’idee, come i più profondi filosofi hanno insegnato, a un tal essere qual altro piacere può convenire che l’appercezione, l’accorgimento d’un’ idea che gliene prometta una serie d’altre, e così l’aiuti a secondare la propria natura? E qual altro dolore dar gli si può, che quello d’occuparlo d’un’idea sterile, la quale, non mostrandogli veruna successione d’altre idee, tenda a distruggere la natura di lui? Ma io non posso arrestarmi a mettere in chiaro questa teoria del piacere in generale, come quella che troppo mi distrarrebbe dal mio suggetto. Messala dunque dall’un de’ lati, prendiamo ad esaminare particolarmente l’essenza del piacere estetico.

[Sez.I.3.5.3] Questo piacere consiste nella deduzione che fa lo spirito d’una grandezza da quella d’un’ altra. Nell’ascoltare per esempio un poetico verso il mio spirito s’accorge che della totalità di quello egli può, se vuole, venire in cognizione della grandezza di ciascuno de’ piedi che lo compone: perciocché in questo il verso differisce dalla prosa, ch’egli per mezzo della cadenza fa sentire la grandezza e ‘l numero delle sue parti: altro non essendo la cadenza d’un verso se non un intervallo, una pausa interposta fra le parti di esso verso. Per esempio in questo:

Due rosa fresche, e colte in paradiso

è tale la combinazione delle parole, ch’io mi sento obbligato ad arrestarmi sopra tutte le sillabe pari e passar velocemente sulle dispari. La qual pausa, o cadenza, divide quel verso in cinque sensibilissime parti. Nell’ascoltar poi un seconde verso, questo gli riproduce l’idea della misura del primo e di tutti i suoi piedi. Al contrario un verso che mal suoni gli dispiace, poiché quel mal suono viene da ciò, che in quel verso non si sente il numero delle parti, come fa la sonorità, che però ne’ versi fu detta anche numero. Quindi lo spirito non vedendo in quel verso il germe, diciam così, d’altre idee, si disgusta d’una sterilità che lo condanna all’inazione. Così ancora in un ordine d’architettura egli gode in avvedersi che ciascuna della parti contiene come in compendio la misura di tutte l’altre: ché dall’altezza del piedestallo egli può facilmente dedurre quella di ciascuna sua parte, quella della colonna e di ciascuna ancora delle sue parti, e dell’architrave, del fregio, della cornice, e sì pure quella di tutti i piccioli membri componenti queste parti. E per contrario da qual s’è l’una di queste grandezze egli si accorge di poterne dedurre quella di tutte l’altre e dell’ordine intero. E se non se gli offre un ordine solo, ma un edificio contenente più ordini simili, e oltre a ciò e balconi e porte e nicchie e loggiati collocati tutti in simmetria: questa seconda idea come più feconda, più diletterà della prima. Non mi si opponga che niuno nel mirare la bellezza sensibile d’un oggetto si avvede mai di tali interne operazioni. Molte cose fa la nostra mente senza avvedersene, anzi senza saper mai d’esser capace di farle.

[Sez.I.3.5.4] Quanto adunque un’ idea è più feconda di ragioni, tanto il piacere estetico sarà maggiore, o pure, come un matematico direbbe, i piaceri estetici sono tra loro come la fecondità delle idee. Non vorrei però che quindi deducesse taluno, che un’opera tanto più piacerà, quanto più in essa si moltiplicherà la simmetria; e che però, per non dipartirne dall’arrecato esempio, infinitamente bello riuscir potrebbe quell’edifizio, se la varietà e ‘l numero delle sue parti moltiplicar si potesse in infinito. Sarebbe questa una falsa deduzione; poiché noi già dicemmo sin da prima che un’ idea piace ove contenga ragioni evidenti. Or quando essa presenta troppe e troppo variate ragioni, lo spirito non può di leggieri svilupparle, onde esse divengono allora difficili, e lasciano d’essere evidenti: perciocché le ragioni evidenti son quelle che si discernono agevolmente. Senza che sì fatte idee troppo cariche di simmetrie cagionerebbero allo spirito della fatica, o, che vale il medesimo, del dolore; onde non possono piacergli. La fecondità dunque d’un’ idea vuole avere un termine, oltre al quale essa non sarebbe più grata.

[Sez.I.3.5.5] Da sì fatta connessione d’idee che l’anima trova nella simmetria avviene che gli oggetti, in cui la simmetria è osservata, s’imprimano più facilmente in lei che gli altri che ne son senza. Si faccia a un cantante sentire una, o poche volte un bel canto: egli lo imiterà francamente. Facciaglisi poi sentire un canto eguale nel numero e nella durata delle note, ma che queste note niuna affinità abbiano tra loro, onde non producano melodia alcuna. Ripeteteglielo non una, ma mille volte: egli non s’imbatterà mai ad imitar quel frastuono. Perciò un pittore copierà facilmente sulla sua tela la facciata d’un bell’edifizio, ma non giugnerà mai a ritrarne coll’esattezza e colla facilità medesima un’ altra in cui ogni cosa sia disordinata e confusa. Perciò ancora i versi più agevolmente che la prosa nella memoria si arrestano.

[Sez.I.3.5.6] Dalla medesima connessione d’idee che si trova in qualunque de’ nostri piaceri, si può intendere il senso di ciò che comunemente si dice, che il piacere moltiplica la nostra esistenza. Avvegnaché quelle idee feconde dan campo all’anima nostra di sviluppar senza noia tutta l’attività sua, che le idee indifferenti o dolorose tengono ristretta, e come inceppata. Ma già dell’estetico delle belle arti, e del piacere proprio di quello, lungamente ci siamo trattenuti. Dal lor patetico, e dal piacere che gli è proprio, più speditamente usciremo.

§ VI. In che consista il patetico delle belle arti e ‘l piacer patetico

[Sez.I.3.6.1] Fu da noi definito il patetico delle belle arti per quello artifizio ch’esse adoperano per muovere le nostre passioni. Un tale artifizio consiste nello scegliere per suggetti delle opere loro i più perfetti oggetti di nostre passioni, e nelle regole di ben imitargli, presentandogli al nostro spirito in quello aspetto, nei quale più che in altro lo moverebbero se realmente gli fossero presenti. E il piacer patetico altro non è che la speranza, che quella vivace imitazione produce nel nostro animo, di godere di quell’oggetto. Se noi, per modo d’esemplo, fossimo stati presenti alla dissavventura di Priamo, questi sarebbe stato per noi un oggetto di passione, poiché egli ci avrebbe presentata l’opportunità di provare quel dilicato sentimento che ha l’uomo nel prender parte alla disavventura d’un infelice, nel dimostrare a lui la sua compassione, nel consolarlo, nell’alleggerirgli la pena, nel soccorrerlo. Se dunque un oratore, un pittore, un poeta elegga questo suggetto e lo presenti con energia, egli non può mancare di produrre in noi il piacer patetico. È nondimeno di tal natura sì fatto piacere, ch’esso non può nell’animo nostro esser prodotto che da un oggetto reale. E però i suggetti delle belle arti, come quelli che presentano oggetti non reali, ma finti, sono incapaci di svegliare quella specie di piacere di cui ragioniamo, finattantoché per finti sien conosciuti: e solo allora cominciano ad esser patetici, quando la loro impressione giugne a tal grado nell’animo nostro, ch’egli occupato da questa non pensi più che quell’oggetto sia ideale, ma creda, come in sogno gli avviene, d’aver presenti veri e reali oggetti. In pruova di che, consideriamo qualunque opera che più ci ha commossi altra volta; ma procurando di tener sempre l’animo ricordato, che quegli oggetti sien tutti finti, tutti privi di realtà. Questa opera, che senza così fatta attenzione sarebbe riuscita patetica, considerata con tal ricordo non sarà più capace di muoverci. Adunque il piacer patetico, che viene dalle belle arti, è necessariamente congiunto coll’illusione, cioè colla credenza che gli oggetti presentati sieno veri e non già finti da quelle. Tanto più perfetto sarà il loro patetico, quanto più colla sua forza sarà capace d’ingerir questa credenza nell’animo: il che si ottiene coll’osservare attentamente il verisimile. E i difetti di questa parte delle belle arti nascono da queste improprietà, le quali non convenendo al suggetto che si vuol presentare, fanno che lo spirito si avvegga della finzione. Insomma il piacere patetico cagionato da quelle facultà ha sempre coll’illusione un medesimo grado.

[Sez.I.3.6.2] Da quanto intorno alle belle arti abbiamo osservato, si fa manifesto che la loro perfezione e bellezza dipende dal ben regolare l’estetico e ‘l patetico proprio di ciascheduna. Veggiam ora come vadano questi regolati nelle facultà che concorrono nel nostro spettacolo.

Sezione II.
Del Melodramma

[Sez.II.0.0.1] Dopo aver data un’occhiata alle belle arti in generale, entrando ora a considerare particolarmente ciascuna di quelle che concorrono nell’opera in musica, ci facciamo dalla poesia: perciocché, dovendo tutte le altre seguire le vestigia di questa, sarà più agevole a diriggere il cammino ch’esse debbono tenere, dappoi che si sarà veduto quello della poesia.

Cap. I.
Dell’estetico del melodramma
§ I. Quali sieno i fonti dell’estetico della poesia

[Sez.II.1.1.1] Sono gli uomini dalla natura medesima portati a dividere colle loro azioni il tempo in parti eguali. Se respirano, se camminano, se lavorano, se cantano, se danzano, le loro respirazioni, i loro passi, il lor lavoro, la cadenza del lor canto e del lor ballo, dividono il tempo in parti eguali. In cadenze equidistanti si muove il remigante, l’agricoltore, il tessitore, il fabbro; e non ordinaria pena essi pruovano quando alcun accidente gli costringa a muoversi fuor di cadenza. Dopo le premesse riflessioni sulle belle arti non si durerà stento ad indagare la segreta sorgente di questo umano istinto. La natura del nostro spirito ne porta a cercar da per tutto la simmetria ed a metterla dovunque possiamo, e tra tutte le simmetria quella che nasce dalla ragione d’uguaglianza è sovra ogni altra, siccome ivi fu dimostrato, la favorita del nostro spirito; talmenteché anche una goccia d’acqua, che cada in tempi eguali, è piacevole a sentire, come ben notò Cicerone parlando del numero oratorio. Perciò ne’ nostri movimenti questa simmetria d’uguaglianza per naturale istinto a tutt’altra preferiamo, questa sopra ogni altra vogliam che campeggi nelle opere nostre.

[Sez.II.1.1.2] Di qui è che i padri della poesia, nel dispone le loro locuzioni, altro prima non fecero che frammettervi a quando a quando delle cadenze, o vogliam dire delle pause, de’ riposi, che dividessero il tempo in parti eguali, onde nacque l’uguaglianza de’ versi e quella de’ piedi, o sieno parti di ciascun verso. Tra questa simmetria d’uguaglianza cominciaron poi, per variarla, ad allogarvi quelle d’ineguaglianza, interponendo versi più lunghi a’ più corti. Perciocché egli è ben verisimile che i primi versi nati in bocca d’uomini fossero corti, come quelli che sono più facili e più giocondi, e che i lunghi fossero stati inventati per un cotal raffinamento, qualora il compor versi era già divenuta un’ arte. Infatti noi tutto dì osserviamo che i versi, che i fanciulli senz’arte compongono nelle loro allegrezze, o nel proverbiarsi l’un l’altro, son tutti corti. La medesima varietà misero tra le sillabe, e tra’ piedi di ciascun verso, i brevi co’ lunghi alternando.

[Sez.II.1.1.3] Tal fu l’artifizio de’ padri della poesia, massime della metrica, cioè di quella onde l’estetico consiste nella combinazione delle sillabe brevi e delle lunghe, come fu la greca e la romana. La poesia, in quanto è metrica, è spezie della musica metrica, che considera le durate de’ suoni (qual è quella de’ cembali, delle nacchere, de’ tamburi), la quale altra bellezza non ha che quella che nasce della ragione, che passa fra i tempi delle percosse di così fatti strumenti.

[Sez.II.1.1.4] Ma perché la lingua d’alcune nazioni non distingueva tanto la brevità e la lunghezza della sillabe, quanto i tuoni di esse, cioè l’acutezza e la gravità loro, perciò i primi poeti di queste nazioni presero a non badar tanto alla lunghezza o alla brevità delle sillabe, quanto alla loro gravità ed acutezza; onde nacque la poesia armonica, cioè quella onde l’estetico consiste nella distribuzione delle sillabe acute e gravi. Tal è l’italiana e quella delle altre colte lingue viventi. Siccome la poesia metrica è spezie della musica metrica, così la poesia armonica è spezie della musica armonica, la quale considera l’acutezza e la gravità de’ tuoni; e però qual simmetria nasca da questa differenza di tuoni allora appieno s’intenderà quando della musica armonica si sarà ragionato.

[Sez.II.1.1.5] Qualora però io chiamo metrica la poesia greca e la latina ed armonica quella delle moderne nazioni, per questo non niego che in quella non siesi avuto alcun riguardo all’acutezza e alla gravità delle sillabe, ed in quella aver non se ne debba alla loro brevità e lunghezza. Intendo solo che la bellezza della prima più dipendea dal tempo che dal tuono delle sillabe, e di questa più dal tuono che dal tempo.

[Sez.II.1.1.6] Or di quanto la musica d’un gravicembalo, d’un violino è più pregevole della musica d’un timpano, d’una nacchera, di tanto la poesia armonica è più pregevole della metrica. Tanto più che gl’inventori della poesia armonica introdussero in questa una nuova simmetria (ed è quella delle rime), procurando che l’ultimo tuono acuto de’ loro versi o fosse solo, o seguito da uno, o da due altri gravi, avesse le modificazioni medesime, vale a dire fosse composto delle medesime lettere in più versi.

[Sez.II.1.1.7] Non più dunque che cinque possono essere i fonti dell’estetico di qualunque poesia: la misura de’ versi, la mescolanza de’ versi di varie misure e il tempo, il tuono e la rima delle loro sillabe.

§ II. Come da essi convenga derivar la bellezza de’ versi del melodramma

[Sez.II.1.2.1] Come da questi cinque fonti derivi l’estetico della poesia italiana, i nostri maestri di poetica il dimostrano, sebbene quella parte che riguarda la lunghezza e la brevità delle sillabe sia stata da questi sempre trascurata con sommo discapito dell’italiana poesia. Non già ch’io sia caduto nel farnetico di Lione Alberti, di Claudio Tolomei e di quegli altri autori de’ versi, e regole della Poesia nuova (uomini per altro letteratissimi), i quali si affaticarono d’introdurre nelle poesia nostra i metri della latina, non accorgendosi che la diversa indole dell’italiano e del latino idioma non possa permettere una medesima combinazione di lunghe e di brevi, e che la nostra poesia d’armonica, qual è per natura, non possa metrica divenire. Qualora dunque io desidero che i maestri dell’italiana poetica più attenzione avessero accordata alle regole della distribuzion delle lunghe e delle brevi, è solo perché da una ragionata distribuzione di sillabe, di diverso metro maggior bellezza si accrescerebbe a’ nostri versi, e questi più sofficienti si renderebbero or colla tardanza, or colla rapidità loro, ad esprimere la mestizia, l’allegrezza, o qualunque altro affetto che dominasse nel componimento, come cogli esempi di leggieri provar si potrebbe. Ma non essendo questo luogo da ciò, noi non altro qui esamineremo che quanto singolarmente riguarda il melodramma, esponendo qual misura abbiano i suoi versi, qual mescolanza di versi ineguali esso adoperi, e qual uso far vi si debba del tuono, del tempo e della rima nelle sillabe che quei versi compongono. E poiché l’estetico delle arie in questo dramma ha più bisogno d’attenzione che non quello de’ recitativi, dalle arie cominceremo.

[Sez.II.1.2.2] I versi propri delle arie sono il decasillabo, l’ottonario, il settenario, il senario, il quinario e ‘l quadrisillabo. Io non so per qual destino ne vengano escludi l’endecasillabo e ‘l novenario, non men degni degli altri, sì perché non mancano d’armonia e perché meglio ancora che la maggior parte degli annoverati possono servire a’ particolari affetti. Del novenario non mancheranno esempi in questo paragrafo. In ordine all’endecasillabo, con quanta grazia possa essere adoperato nelle arie, si vegga in questo esempio del Conte Magalotti

In quel bacile, che chiamasi l’aia,
Cómene un moggio, dolcissima Aglaia
Cómene un moggio, e recalo a me.

[Sez.II.1.2.3] Nel qual esempio non sola è dà osservare quanto ben convenga alle arie la sonorità di questa spezie di verso, ma ancora quanto la sua celerità sia propria ad esprimere l’ansia, il desiderio e in generale gli affetti tumultuanti e gagliardi.

[Sez.II.1.2.4] Veggiamo ora qual mescolanza ammettano que’ versi che più spesso nelle arie vengono adoperati. Ma prima alcune riflessioni convien premettere, appartenenti al tuono delle sillabe (tanto però quanto basta al nostro istituto), poiché senza questa previa cognizione non si possono pienamente intendere le regole di questa mescolanza.

[Sez.II.1.2.5] In qualunque verso italiano più sillabe acute, o, che è il medesimo, più accenti acuti si possono incontrare. Tuttavolta i più notabili sono l’accento acuto della penultima sillaba de’ versi piani, e un altro che ogni verso aver dee presso alla metà sua, il quale ha tal forza che il verso par che ne venga diviso in due. Nel recitare per esempio il verso seguente:

Era il giorno che al sol si scoloraro

noi spicchiamo sì sensibilmente la sesta sillaba, che il verso par diviso in due parti così:

Era il giorno che al sol
Si scoloraro

[Sez.II.1.2.6] Delle quali due parti la prima è un settenario tronco, la seconda un quinario. Si vegga più chiaro il medesimo effetto dell’acuto in questo quartetto:

Pace non trovo, e non ò da far guerra;
E temo, e spero, ed ardo, e sono un ghiaccio;
E volo sopra il cielo, e giaccio in terra;
E nulla stringo, e tutto il mondo abbraccio;

ciascun verso del quale dall’acuto, che ha, qual sulla quarta sillaba e qual sulla sesta, è diviso in un settenario e un quinario a questo modo:

Pace non trovo,
E non ho da far guerra;
E temo, e spero, ed ardo,
E sono un ghiaccio;
E volo sopra il cielo,
E giaccio in terra;
E nulla stringo,
E tutto il monde abbraccio.

[Sez.II.1.2.7] O piuttosto così:

Pace non tro-
v’, e non ho da far guerra;
E temo, e spero, ed ar-
d’, e sono un ghiaccio;
E volo sopra il cie-
l’, e giaccio in terra;
E nulla strin-
gh’, e tutto il mondo abbraccio.

[Sez.II.1.2.8] Dove tutte le prime parti son versi tronchi e versi piani tutte le seconde.

[Sez.II.1.2.9] Da queste osservazioni sopra l’acuto necessario de’ versi italiani, passiamo al mescolamento de’ versi propri delle arie. Su questo capo alcuni poeti soverchia libertà s’attribuirono, unendo insieme versi così tra loro ripugnanti, che la gonna d’Arlotto men disparate toppe accoppiava. Altri più timidi raro, o non mai nelle arie loro unirono versi ineguali, privando queste della bellezza che quella ineguaglianza, ove sia ben collocata, reca alla nostra poesia: e così cercando d’evitare un difetto incorsero in un altro. Il poeta che voglia tenere un giusto mezzo in questo cammino ancora incerto, due princìpi, se noi ben ci avvisiamo, sceglier potrà per sua guida. Il primo si è che un verso qualunque ben si accoppia a quello ch’è uguale alla prima sua parte. Veggiamone l’applicazione sopra tutte le spezie di versi italiani. Primieramente adunque l’endecasillabo ben si unisce al settenario e al quinario; perciocché, siccome si è osservato poc’anzi, non meno il quinario che il settenario possono costituire la prima parte di quel verso. Sentasi la sua unione col settenario nel seguente esempio del Rolli:

Vezzose ninfe belle,
Lieto il bel Nume appar;
Gitelo ad incontrar;
Per voi ritorna.
Pane pur seco viene
Coll’ incerate avene:
E i grappoli gli pendon dalle corna.

[Sez.II.1.2.10] E col quinario in questo di Giovan Pietro Zanotti:

Per lor sicuri
Fiano i tuguri
Nostri, e a sua possa potrà il gufo stridere.
Io certo, ch’io
Voglio sul mio
Questa, qual siasi, canzonetta incidere.

[Sez.II.1.2.11] Il decasillabo, per l’acuto che ha di necessità sulla terza sillaba, potendo venir considerato come composto da un quadrisillabo e da un settenario, perciò ben si accoppia col primo, come in questi del Gigli:

Per giurar sopra l’onde d’inferno
Giurerei
Sopra il pianto, che versa il mio cor.
Ma vedrei,
Questo ancor da prendersi a scherno,
Perché sprezzi le leggi d’amor.

[Sez.II.1.2.12] E poiché il novenario ancora ha quello accento necessario sopra la terza, sarà anch’esso bene unito al quadrisillabo, quando i nostri poeti si risolvano a dargli luogo nelle arie.

[Sez.II.1.2.13] L’ottonario altresì, avendo l’accento necessario sul sito medesimo, si accomoda assai bene al quadrisillabo. Così il Metastasio:

Se vedrai co’ primi albori
D’occidente uscir l’aurora,
Dimmi allora:
Galatea non sei fedel.

[Sez.II.1.2.14] Il settenario per la sua quarta necessariamente acuta, essendo come formato d’un quinario e d’un ternario, ben lega col primo, come nell’appresso esempio d’anonimo poeta:

Giungano a te, Signor,
Questi d’un puro cor
Voti innocenti.

[Sez.II.1.2.15] Il secondo principio si è che un verso ben si unisce a un altro che lo stesso numero d’accenti acuti abbia con questo, o colla prima sua parte, niuna attenzione facendo al total numero delle sillabe.

[Sez.II.1.2.16] Per questa ragione ben s’accoppiano insieme il decasillabo e ‘l novenario ne’ seguenti versi del Redi:

Son le nevi il quinto elemento,
Che compongono il vero bevere,
Ben è folle chi spera ricevere
Senza nevi nel bere un contento.

[Sez.II.1.2.17] Perciò ancora il medesimo decasillabo ben si affà all’ottonario in questi del Rolli:

Lungo appesa in ozio altero,
Sprezzatrice d’ogni umile oggetto,
Cetra d’or mi torna al petto.

[Sez.II.1.2.18] E l’ottonario al novenario in questi del Conte Pegolotti:

Su trinchiamo quel Falerno
Quel di Lesbo, e quel di Nasso,
Ch’abbondevole sempre ammasso.

[Sez.II.1.2.19] E il decasillabo al senario in questo esempio del Guidi:

Quella vite, che in alto s’estolle
Là sovra quel colle,
Lieta e vaga i suoi pampini spiega,
Perché in moglie al bell’olmo si lega.

[Sez.II.1.2.20] Giacché tanto «Quella vite», quanto «Lieta, e vaga» e «Perché in moglie», che costituiscono le prime parti di quei tre decasillabi, hanno due soli acuti, vale a dire quanti appunto ne ha il senario «Là sovra quel colle». E da questo egual numero d’accenti deriva l’armonia che produce l’unione di quelle due spezie di versi. Infatti, se in luogo d’un senario si metta qualunque altro verso che abbia due acuti, come un quinario e un quadrisillabo, essi produrranno col decasillabo lo stesso genere d’armonia. Se ne faccia un saggio leggendo così:

Quella vite, che in alto s’estolle
Sovra quel colle,
Lieta e vaga i suoi pampini spiega,
Perché in moglie al bell’olmo si lega.

[Sez.II.1.2.21] Ovvero così :

Quella vite, che in alto s’estolle
Su quel colle ecc.

[Sez.II.1.2.22] Per simigliante ragione ben consuona l’ottonario col quinario, come son questi del Zeno:

In sì gravi angosce e pene
Quella che viene
Più lenta e tarda,
È la più barbara.
La peggior morte.

[Sez.II.1.2.23] E fin quì della mescolanza de’ versi ineguali. Avvertiremo però, non aver noi recati in mezzo se non quegli esempi che la memoria ne ha suggeriti. Altri se ne potranno rinvenire ne’ nostri poeti; ed altri pure da’ due stabiliti princìpi i moderni melodrammatici discretamente potran derivare. Discretamente dissi; poiché usare tal mescolanza è bene, ma bisogna guardarsi di soprusarla a dispetto dell’orecchio, essendo certissimo che tal verso ineguale sarà armoniosissimo in un sito, che in un altro dispiacerà fieramente. Di che, senza assegnar precetti, basta rimettersene al giudizio dell’udito. Non si è fatta particolar parola de’ versi tronchi, perché sieguono le medesime regole de’ piani a cui appartengono. Solo dirò, che il verso tronco ha particolar forza nel fine di ciascuna parte delle arie: poiché l’accento che ha sull’ultima sillaba sostiene quella parte, che terminata con verso piano languidissimamente cadrebbe. Si vuol nondimeno eccettuare il quinario piano, il quale termina bene le arie, qualora gli preceda un settenario, come si vede ne’ soprarrecati versi:

Vezzose ninfe belle ecc.

in quegli altri:

Giungano a te, Signor ecc.

[Sez.II.1.2.24] Passando ora al tempo delle sillabe, nella poesia italiana le sillabe lunghe e le brevi possono essere variamente combinate, e solo da questa varia combinazione nasce la rapidità e la tardanza de’ versi. Esempigrazia tra questi due:

Di fior deh a me raccogli, Aglaia, un moggio,
Cómene un moggio, dolcissima Aglaja,

tuttoché abbiano egual numero di sillabe, l’uno è pesantissimo e scorrevolissimo l’altro, perché nel primo la disposizione delle sillabe lunghe e delle brevi è tutt’altra che nel secondo. Or la velocità d’un verso nasce, secondo a me pare, dalla contiguità di due sillabe brevi, e tal contiguità si trova quando un verso unisca insieme due sillabe, niuna delle quali sia segnata d’accento acuto: giacché, almeno in nostra lingua, niuna sillaba è acuta che non sia lunga al tempo stesso. Se ne vegga la pratica ne’ seguenti versi del Metastasio:

Va tra le selve ircane.
Barbaro Genitore,
Fiera di te peggiore,
Mostro peggior non v’è.

[Sez.II.1.2.25] La rapidità che ognun sente in questi versi, nasce da ciò che essi non hanno acuto né sulla seconda, né sulla terza sillaba, ma solamente sulla quarta: il che fa che quelle due precedenti sillabe contigue sieno brevi e che il verso riesca veloce. Laonde se più volte quella contiguità sarà replicata nel medesimo verso, questo sarà più scorrevole. Talmenteché se rapido è questo:

Va tra le selve ircane

più rapido sarà, quest’altro:

Va tra l’ircane foreste,

e più di tutti il seguente:

Va fra l’orror dell’ircane foreste,

per la contiguità di due brevi, che nel primo una sola volta s’incontra, due volte nel secondo e tre nel terzo. Conciosiaché nel secondo verso l’accento, che preme la quarta sillaba e la settima, fa, che tanto la seconda e la terza, quanto la quinta e la sesta sieno brevi; e però quella contiguità è due volte iterata. Ma nel terzo verso l’accento acuto posandosi sulla quarta, sulla settima e sulla decima sillaba, rende brevi non solo la seconda, la terza, la quinta e la sesta, come nel secondo verso, ma ancora l’ottava e la nona; onde quella contiguità è tre volte replicata.

[Sez.II.1.2.26] Per altra parte i versi tardi son quelli ne’ quali le brevi van sempre sole come nell’addotto verso:

Di fior deh a me raccogli, Aglaia, un moggio

nel quale l’acuto, che sovrasta a tutte le sillabe pari, fa che le brevi, cioè quelle che van senza di detto accento, sieno l’una dall’altra divise. Questa distinzione di versi celeri e di tardi, è importantissima a ben esprimere colla varietà de’ metri la varietà de’ sentimenti. Perciocché all’espressione dagli affetti impetuosi e tumultuanti, qual è lo sdegno, l’allegrezza, la disperazione, attissimi sono i versi celeri, come quella sorta di settenari, d’ottonari e d’endecasillabi, di cui esempi sono gli esposti versi:

Va tra le selve ircane.
Va tra l’ircane foreste.
Va fra l’orror dell’ircane foreste.

[Sez.II.1.2.27] E questa ragion di quinari:

Manca sollecita
Più del usato,
Face, che palpita
Presso a morir36.

[Sez.II.1.2.28] E come sono ancora i decasillabi e i novenari soprallegati, e que’ senari a cui appartiene il verso:

Là sovra quel colle

[Sez.II.1.2.29] Per altra parte all’espressione di quegli affetti che deprimono ed abbassano l’animo, qual è la mestizia, la tenerezza e simili, accomodatissimi sono i versi tardi. E a questo genere spettano quegli endecasillabi e quegli ottonari:

Di fior deh a me raccogli, Aglaia, un moggio.
Lungo appesa in ozio altero.

[Sez.II.1.2.30] E questa spezie di senari del Metastasio:

È falso il dir che uccida.
Se dura un gran dolore,
E che, so non si muore
Sia facile a soffrir.

[Sez.II.1.2.31] Quanto poi a’ versi più brevi, questi sono da adoperare con circospezione, perché quando pure non ammettano veruna contiguità di brevi, colla cortezza loro (la quale fa spesso sentire il ritorno della simmetria) sogliono riuscire ameni, e però poco acconci ad esprimere la mestizia e gli altri affetti molesti. Alla tenerezza però possono essere più atti, appartenendo questa alla classe degli affetti piacevoli.

[Sez.II.1.2.32] Mi rimarrebbe a parlar della rima. Ma di questa non si possono assegnar regole generali, poiché secondoché l’arie sono di più o di meno versi composte, così è varia la loro combinazione. E però questo saggio basti sulle arie.

[Sez.II.1.2.33] Ciò che abbiamo insino a qui osservato, vale in qualche modo anche pe’ recitativi: onde da questi brevemente ci spediremo. Il recitativo adunque ammette soltanto l’endecasillabo e ‘l settenario, talora sciolti e tal altra rimati. Nell’unione di questi due versi, e nell’uso della rima, il poeta non è noiato da alcun precetto; e purché abbia riguardo alla naturalezza, tutto il rimanente è in arbitrio del suo gusto.

Cap. II.
Del patetico del melodramma. Sua differenza da quello dell’antica tragedia.

[Sez.II.2.0.1] Già altrove si disse che per patetico delle belle arti voleasi intendere l’artifizio da esse adoperato per isvegliare le nostre passioni, e che un tale artifizio consiste nello scegliere per suggetti delle opere di quelle arti i più perfetti oggetti di nostre passioni e nelle regole di ben imitargli. Tai regole differiscono secondochè le mentovate discipline differiscono l’una dall’altra. Ora il melodramma è un dramma tragico, siccome ben s’avvisarono il Muratori37, il Calsabigi38, il Voltaire39, l’Algarotti40 ed altri valentuomini; talmenteché la tragedia in generale va divisa in due spezie cioè in melodramma e in tragedia antica, alla quale si riferiscono quelle ancora che oggi sull’antico modello si formano. Di qui è che le regole che riguardano il patetico del melodramma sono quelle medesime della tragedia; né di proprio esso ne ha che pochissime, le quali formano la sua differenza dalla tragedia antica. Il che essendo, niuno in questo luogo da me si aspetti un’esposizione di quelle regole che appartengono alla tragedia in generale, tanto più che a me altro presso a poco non toccherebbe che ripetere ciò che su questa materia è stato scritto del tempo d’Aristotile insino a noi, per gli tanti scienziati uomini che le leggi della tragedia insegnarono. La qual ripetizione, comeché scusabil fosse in chi della tragedia in generale impreso avesse trattato, non così certamente sarebbe in chi alla sola opera in musica destinò le sue osservazioni.

[Sez.II.2.0.2] A noi dunque non altro appartiene che il divisare in che il melodramma differisca dall’antica tragedia. Ora una tal differenza tutta sta in poche mutazioni fatte alle leggi di questa, per ragione della diversità che passa tra’ nostri costumi e quelli che regnavano nella nazione e nel tempo che furono dettate le leggi dell’antica tragedia, e per ragione altresì del progresso da noi fatto in alcune arti. Questa mutazione riguarda particolarmente le leggi appartenenti all’unità del luogo, all’esito tristo o lieto della favola, al carattere del protagonista, al numero degli atti e al verso tragico. La qual mutazione da taluni vien riprovata, o perché ingiustamente prevenuti contro tutto ciò ch’è moderno, o per pizzicore di passare per eruditi nell’arte drammatica, non riflettendo che ciò che in un luogo e in un tempo è un difetto, sotto altro tempo e cielo possa essere un pregio. Perciò entrando noi ne’ seguenti capitoli a ragionare di questi cinque punti, in cui sta tutta la differenza del melodramma dall’antica tragedia, faremo primieramente osservare che le mutazioni in essi ragionevolmente, e non per ignoranza o per capriccio, furono introdotte, e di poi, dove uopo il richieda, le avvertenze che intorno a’ medesimi punti usar debbono i melodrammatici poeti, additeremo succintamente. Per soddisfare al quale impegno saremo obbligati ad entrare in brevi discussioni forse non men curiose che interessanti; giacché ci converrà investigar la ragione, lo spirito (diciamolo alla moda) delle leggi dell’antica tragedia attenenti a que’ particolari capi, e le contrarie ragioni che indussero i nostri poeti a modificarle. Le quali discussioni, nel tempo stesso che saranno per avventura non inutili a’ nostri poeti per condurre il melodramma alla sua perfezione, serviranno a questo dramma d’una breve difesa.

Cap. III.
Dell’unità del luogo

[Sez.II.3.0.1] Furono gli antichi tragici severissimi osservatori dell’unità del luogo, e questo era sovente una publica piazza, sulla quale riduceano tutta l’azione. I melodrammatici per opposto soglion mutare, e talora più volte, la scena.

[Sez.II.3.0.2] Ma la rigidezza de’ primi spesso, anzi che rendere verisimile la favola, adoperava il contrario, costringendo gli attori a fare o dire in publico ciò che un uom di senno appena fa o dice ne’ più segreti penetrali di sua casa. Rendeva in oltre povera ed uniforme l’antica tragedia, obbligandola ad aggirarsi sempre sopra i medesimi o simili suggetti, perché poche erano le favole che quella rigida unità potessero tollerare. La quale povertà ed uniformità dell’antica tragedia non sole apparisce da ciò che di essa ne rimane, ma ancora (perché altri non dica che da pochi avanzi di quella mal si argomenta ciò ch’essa fu) lo conferma Aristotile, il quale nel Capo XIII della Poetica confessa che le migliori tragedie si aggiravano intorno a poche famiglie, come a quella d’Oreste, d’Edipo ed a qualche altra.

[Sez.II.3.0.3] Né poteano essi dar compenso a tali inconvenienti coll’introdurre mutazioni di scene nella tragedia: perciocché loro mancava l’arte che oggi si ammira su’ teatri d’Europa, di cambiare sì prontamente e con tal garbo la scena, che lo spettatore non se ne accorga. Si mutavano le loro scena con tanta lentezza, che i poeti drammatici non osarono mai di valersi di tal mutazione in mezzo al dramma, sicuri, che una tanta lentezza avrebbe annoiato sommamente gli spettatori ed estinta la drammatica illusione41. Ma se avessero avuta cognizione di quelle macchine che fanno con tal prontezza variare le nostre scene, io son certo ch’eglino sarebbero stati men tenacemente attaccati a questa loro unità. Non avrebbe Sofocle menati Oreste, Pilade ed Elettra sul frequentato atrio del palazzo d’Egisto a ordinare una congiura contro questo tiranno, come dottamente notò il Calsabigi42. Uomini di senno, quali sono appo Sofocle que’ personaggì, non si governano sì negligentemente e con tanta imprudenza in affari di quella importanza. Molti altri simili esempi, ove uopo fosse, recar si potrebbero di falli contro al verisimile e al decoro, a cui obbligò i più eccellenti poeti la troppo rigorosa unità di luogo.

[Sez.II.3.0.4] Vero si è che la mutazione della scena tende ad estinguere l’illusione nell’animo del popolo: giacché quell’improvvisa mutazione lo richiama in sé stesso, e gli ricorda essere egli al teatro, non già sul luogo finto dalla scena, dove l’immaginazione lo avea trasportato. Nondimeno la novità, la maraviglia, la bellezza della sostituita scena ripara incontanente al disordine, fissando di bel nuovo l’attenzione del popolo e inebriando la sua fantasia. Insomma la mutazione della scena è un male; male però prudentemente adoperato per ovviare a un altro anche maggiore, poiché l’interrompimento della drammatica illusione non dura che un momento. Ma la rigorosa unità offende, talora irreparabilmente, il costume e la condotta della favola, vale a dire le più essenziali qualità che si richieggono in un dramma, e restringe le tragiche favole a un picciolo ed uniforme numero, privando l’antica tragedia di molti nobili suggetti, incapaci d’unità, i quali e più varia, e più ricca, e più bella la renderebbero.

[Sez.II.3.0.5] Ma qualora noi approviamo quella licenza che il melodramma si attribuisce sull’unità del luogo, non perciò stimiamo ch’egli possa avvalersene senza regola alcuna. Passò finalmente il gusto de’ melodrammatici dell’infelice secolo XVII, che stillavansi il cervello per introdurre ne’ melodrammi quante bizzarre scene potessero. Oggi, se il poeta aspira a’ suffragi delle persone di buon senso, due regole debbe osservare sulla mutazione delle scene: l’una di non mutar la scena se non allora che il verisimile più non la soffre, sicché egli manterrà questa sul teatro tanto che può, anzi non la cangerà mai, se la favola il consenta. La seconda di non fingere la scena, che sparisce, sì lontana da quella che le succede, che il popolo dia il buon pro a’ personaggi che in poco d’ora fecero quel lungo trotto.

Cap. IV.
Del finimento tristo e lieto

[Sez.II.4.0.1] L’antica tragedia sì amava il finimento tristo, che quelle poche che di lieto finimento si videro composte, furono dagli antichi maestri giudicate di catastrofe non tragica, ma comica. Per opposito la moderna tragedia, o sia il melodramma, ama il finimento lieto e pochissime se ne incontrano di tristo.

[Sez.II.4.0.2] Questo passaggio fatto per la tragedia dal tristo al lieto fine è una pruova ben certa del progresso fatto dal genere umano nella placidezza, nella urbanità, nella demenza, che che si dicano i nostri misantropi. Nella nascita dell’antica tragedia era la Grecia abitata da nazioni bellicose e feroci, che conservavano ancora in mezzo alle più colte città un resto di loro antica selvatichezza. Le tragedie, che di essa rimangono, spirano da per tutto questo carattere della nazione: essendo i personaggi di quelle magnanimi e grandi, ma a un tempo stesso impetuosi e inumani. La svantaggiosa opinione che i Greci aveano del commercio, come d’un mestiere infame e indegno d’un cittadino, e le frequenti discordie che la gelosia e ‘l desiderio di primeggiare accendeva tra le loro città, contribuivano a rendergli crudeli. Che più? La loro stessa religione, la medesima teologia aumentavano la loro ferocia, avendo quella de’ barbari riti e che disonorano l’umanità, e presentando questa nella divinità i più abbominevoli esempi d’ire, di vendette, d’ingiustizie, d’omicidi, di tradimenti. Per muovere adunque un popolo di tal carattere ebbe mestieri l’antica tragedia d’adoperar favole di somma atrocità, che terminassero con esili, miserie, morti di personaggi del più alto affare: altrimenti pochissimo effetto avrebbe potuto promettersi nell’animo degli spettatori.

[Sez.II.4.0.3] Ma la moderna tragedia, nata in mezzo a un popolo da molti secoli incivilito, amico del commercio e degli stranieri, e professante una religione che ispira la carità, la mansuetudine, la pace, la compassione, la beneficenza, dovette scemare d’atrocità, se anzi che muovere non volesse disgustare, come fa in oggi la sola lettura delle tragedie greche. Il che è sì vero, che quelle medesime tragedie che sul modello delle antiche e di tristo fine si compongono oggi tra noi, sono astrette a mitigare quel terribile delle greche. Ed a ragione l’ingegnosissimo autore del Rutzvanscad il giovine, deride que’ moderni che, non badando alla diversità de’ tempi, posero nelle loro tragedie tutta l’atrocità delle antiche; difetto in cui incorse a’ dì nostri il Crebillon e ‘l Lazzarini.

[Sez.II.4.0.4] Ad ottener dunque il suo fine basta alla moderna tragedia d’esporre non la rovina, lo sbandeggiamento, lo scempio d’illustri personaggi, ma solamente il lor pericolo d’incorrere in quelle sventure (tanto bastando a destare la compassione e ‘l terrore negli animi nostri) e quindi fu dispensata dal terminare con queste funeste catastrofi. Non fu dunque senza ragione che essa cambiò il tragico finimento di tristo in lieto.

Cap. V.
Del carattere del protagonista

[Sez.II.5.0.1] Il protagonista dell’antica tragedia era né sovranamente virtuoso, né malvagio. Egli dovea tenere un certo mezzo tra questi caratteri, perciocché dovendo ordinariamente la tragedia terminare colla rovina di lui, s’egli fosse stato assolutamente vizioso, questa rovina non avrebbe fatta tentazione alcuna; da che noi non sentiamo troppa compassione e terrore della sciagura d’un tristo meritevolmente punito, e molto meno sentivala il feroce animo greco; e se virtuoso, avrebbe dato da mormorare contro la provvidenza, che in vece di proteggere l’innocenza, la sacrificava all’altrui scelleratezza.

[Sez.II.5.0.2] Ma la moderna tragedia, siccome quella che non è a finimento tristo obbligata, può (può, dico, non dee) avere un protagonista sovranamente virtuoso. Ciò rende questa ben più istruttiva dell’antica e più atta a formare i nostri costumi, potendo nella persona del protagonista esporre l’esempio delle virtù più eminenti; il che, per la soprallegata ragione non era permesso all’antica. Rendela in oltre ben più interessante di questa: mercecché lo spettatore tanto più ama il protagonista, quanto questi è più virtuoso. Perciò il protagonista dell’antica tragedia ci attacca assai meno di quello del melodramma. Il nostro cuore non siegue con tanta agitazione le varie vicende del primo, vedendo in lui delle qualità poco amabili, ed accorgendosi aver egli con qualche suo fallo meritati que’ rovesci di fortuna. Ma il protagonista del melodramma, avendo colle sue qualità guadagnato il nostro affetto, c’interessa mirabilmente nelle sue disgrazie. Noi ci sentiamo per lui ondeggiare il cuore fra li timore, la compassione, la speranza: e giunti finalmente allo scioglimento proviamo un sentimento totalmente straniero all’antica tragedia, qual è il passaggio da quell’agitazione al contento di vedere il personaggio, che noi amiamo, passar di misero in prospero stato.

[Sez.II.5.0.3] Si dirà, forse, che la mancanza di questo dolce sentimento è abbastanza compensata nelle tragedie greche dall’istruzione che dà al popolo la rovina del protagonista, mostrando i falli severamente dal cielo puniti anche ne’ gran personaggi, ed esortando a sostenere in pace i sopportabili incomodi della sua condizione, col mostrar la grandezza sottoposta a’ mali di gran lunga più dolorosi. Ma vale almeno altrettanto l’istruzione che noi caviamo dalle vicende del protagonista del melodramma, le quali efficacemente ci persuadono ad entrare nel cammino della virtù, che veggiamo dalla provvidenza sì dichiaratamente difesa e ricompensata.

[Sez.II.5.0.4] Un’altra opposizione far mi si potrebbe, e si è che gli uomini non s’interessano tanto per le persone di virtù eminenti, quanto per chi in mezzo alle sue virtù faccia comparire quelle debolezze, alle quali essi medesimi sono soggetti. Perché il carattere del primo è quasi d’una spezie d’esseri distinta dalla loro, e colla sua perfezione, anzi che interessare, gl’indispettisce, ricevendo eglino da quella un segreto rimprovero de’ loro vizi; ma un uomo soggetto alle nostre debolezze è quasi un altro noi stessi, e noi desideriamo ardentemente che tali debolezze non attraggano sopra di lui le disgrazie ond’è minacciato, facendo così il nostro cuore occultamente la propria causa. Dal che pare che il protagonista d’un carattere mediocre possa interessar più assai che un altro di carattere sublime. Ma basterebbe l’esperienza a confutare sì speziosa obbiezione. Si leggano due tragedie, l’una delle quali abbia il protagonista di carattere sublime, l’altra di mezzano, e se ne vedrà tosto la falsità. Un carattere virtuoso non può mancar mai d’interessarci, e questo interesse, piuttosto che diminuire, tanto più cresce, quanto più quello è sublime; massimamente quando in esso si veggano lumeggiate sopra le altre quelle virtù che appartengono a’ doveri verso altrui; il che avviene quando il personaggio virtuoso comparisca negli atti e nelle parole amico dell’umanità, protettore dell’innocenza, compassionevole verso gl’infelici, umano, benefico, indulgente. Un tal carattere interesserà sommamente, e in esso qualunque vizio, anzi che piacere, rincrescerebbe oltremodo, come quello che o direttamente o indirettamente impedirebbe l’effetto di quelle virtù. Né a questo carattere è paragonabile un carattere mezzano, particolarmente se in esso poco spirino quelle virtù, come il più è quello de’ protagonisti Greci. In oltre un carattere sovranamente virtuoso non esclude le umane debolezze, ma solo i vizi, non importando egli una perfezione assoluta, ch’è di Dio solo, ma una relativa, e quale può agli uomini convenire. E gli uomini non lasciano d’essere perfetti, ancorché a qualche difetto sien sottoposti, non venendo questi da abito vizioso, ma dalla limitazione dell’umana perfezione, ed appartenendo alla classe de’ mali metafisici, non de’ morali. Quindi non nuoce al carattere di Temistocle43 ch’egli alcuna volta si senta quasi oppresso dalla sua propria virtù: ed egli può comparire soggetto alle umane debolezze, senza deporre per questo il suo sublime carattere.

Cap. VI.
Del numero degli atti

[Sez.II.6.0.1] È noto su questo proposito il precetto d’Orazio, osservato dall’antica tragedia:

 Neve minor, neu sit quinto productior actu
Fabula, quæ posci vult, et spectata reponi.

[Sez.II.6.0.2] Ma non è questo precetto tratto dalla natura del dramma, o dalle regole del verisimile. Egli fu solo dell’uso: e una favola, che più o meno avesse di cinque atti, può essere egualmente bella che una che seguisse quell’antica divisione.

[Sez.II.6.0.3] Dirò anzi di più: il soverchio attacco a quell’arbitraria distribuzione ha nociuto a moltissime tragedie, le quali in sé non avendo estensione bastante per cinque atti, hanno coperto il vano con episodiche frange. L’Edipo di Sofocle finisce propriamente al quarto atto: il quinto è tutto borra. Il che è sì manifesto, che il Dacier si è creduto in dovere d’avvertire in quel luogo il lettore che vi rimaneva ancora un altro atto. Se l’antica tragedia avesse ammesso un minor numero d’atti, non avrebbe rotto sì spesso in quello scoglio.

[Sez.II.6.0.4] Di qui si vede aver legittimamente potuto la moderna tragedia ridurre a tre il numero degli atti, e che questa nuova distribuzione val forse meglio dell’antica. «Io non so (dice uno de’ maggiori letterati, che oggi s’abbia l’Italia44) perché la tragedia dovesse esser men bella se fosse divisa in tre atti soli, o anche in due; parendo che la favola possa essere egualmente verisimile e maravigliosa e piena d’affetto, e ‘l costume e lo stile egualmente convenirsi, qualunque il numero dagli atti sia».

Cap. VII.
Del verso tragico
§ I. Se sia biasimevole nella tragedia la mescolanza de’ versi

[Sez.II.7.1.1] L’antica tragedia non ama mescolanza di versi, e biasimati vennero que’ tragici che in essa varie ragioni di versi insieme accoppiarono. Per questo medesimo fu da taluni biasimato il melodramma, che nel recitativo frammette il settenario all’endecasillabo, essendo tal mescolanza, secondo essi, poco accomodata alla tragica gravità. La più corta e più convincente difesa del melodramma è la lettura d’alcuno de’ suoi recitativi, i quali ad ogni persona che sappia gustare anche ciò che non sa d’antico, parrà nobile e grave, quanto qual altro pezzo che si scelga di tragedia fatta al conio greco, ma più naturale e più vario di questo, il quale coll’uniformità de’ versi riesce spesso rincrescevole e poco verisimile.

[Sez.II.7.1.2] Più si riscaldano contro le arie, gridando all’inverisimiglianza di cantare anacreontiche stanze andando alla morte, o alla guerra, e di trattare melodiosamente i più grandi affari. Io non vo’ negare che più dignitoso riuscirebbe il melodramma, se tutto in essi fosse recitativo, come furono tutti i melodrammi fino a’ primi anni del diciassettesimo secolo. Certo è tuttavolta, che quando alle arie si dia una musica propria e confacente, la loro inverisimiglianza cessa quali in tutto; e qual musica sia propria delle arie teatrali, si vedrà nella seguente sezione. Per ciò poi che riguarda appunto il canto adoperato nella rappresentazione, quest’uso è al melodramma comune colla greca tragedia, la quale era intieramente cantata anch’essa, siccome è stato vittoriosamente provato da molti eruditi contro a coloro che stimarono i soli cori essere stati cantati nella tragedia antica. Laonde io, che ho preso a trattar solo di ciò che rende il melodramma diverso dall’antica tragedia, col miglior grado del mondo lascio, a chi di questa ultima imprenda a ragionare, il carico d’acquetare que’ malcontenti, allegando le buone ragioni ch’ebbero gli antichi di rappresentare le loro tragedie cantando.

[Sez.II.7.1.3] Ma i fautori dell’antica tragedia, per trar questa d’imbarazzo, fondano la loro difficoltà non sul canto in generale, ma sulla differenza tra l’antica e la moderna musica teatrale, avendo gli antichi adoperato ne’ loro drammi una musica semplice, robusta, espressiva, e solendo i moderni unire a’ drammi loro una musica cianciosa troppo e snervata. Nondimeno questi lodatori della sola antichità poteano pur riflettere non esser quello un diletto del melodramma, ma sì di que’ compositori che non sanno dargli quella musica che gli conviene. Che se eglino degneranno d’un’ occhiata ciò che nella citata sezione diremo della musica teatrale, io spero che in avvenire non odieranno più il melodramma, comecché non sia nato sotto il cielo d’Atene.

[Sez.II.7.1.4] Ma prima di passare a ciò che il nostro spettacolo esige dal maestro di cappella, proseguiamo a vedere ciò ch’esige dal poeta, esponendo qual luogo si convenga a’ recitativi e quale alle arie, o, ch’è tutt’uno, quali sieno le materia proprie degli uni e quali delle altre. Poi qualche riflessione aggiugneremo sul loro stile.

§ II. Della materia propria de’ recitativi e delle arie

[Sez.II.7.2.1] Tutta l’orditura del dramma, tutto ciò, che ne forma il nodo e lo scioglimento, appartiene al recitativo. Laonde le narrazioni, le conferenze, i rapporti, le deliberazioni vanno espresse ne’ recitativi e disconvengono alle arie.

[Sez.II.7.2.2] Queste per l’altra parte debbono contenere i sentimenti che nascono da quelle narrazioni, conferenze, deliberazioni, da ciò insomma che fu trattato nell’antecedente recitativo, o che dal poeta si suppone d’essere stato trattato dietro alla scena. E però le arie debbono essere il più puro, il più semplice linguaggio degli affetti, e null’altro contenere che le formole, diciam così, del dolore, dello sdegno, della tenerezza, della disperazione, del timore o di tal altra passione.

[Sez.II.7.2.3] Quindi si vede le massime, le sentenze, le crie, mal convenire alle arie. La drammatica in generale è poco amica di queste dommatiche merci, come quella che intende a mettere la morale in azione, non in precetti. Ma nelle arie particolarmente esse non debbono entrar mai, se il poeta non voglia estinguere nell’animo nostro tutta l’emozione che aveavi eccitata: perciocché il linguaggio dommatico è proprio dell’uom tranquillo. Un uomo agitato da passione quando parla non perde il suo tempo a dommatizzare, ma cerca solo di dare sfogo all’animo suo, o’ di muovere chi l’ascolta ad accordargli compassione e soccorso: e per la medesima ragione né pure si vuol dommatizzare nelle arie, che debbono contenere il linguaggio degli appassionati.

[Sez.II.7.2.4] Il celebre Metastasio in quelle arie che chiamansi duetti, terzetti, quartetti ecc. ha religiosamente osservato un tal precetto: essi sono il più naturale, il più puro, il più semplice linguaggio del cuore. Per esempio in questo duetto tra Megacle ed Aristea45 :

MEGACLE: Ne’ giorni tuoi felici
Ricordati di me.
ARISTEA: Perché così mi dici,
Anima mia perché? ecc.

le parole sono quelle medesime che vengono in bocca delle più semplici persone, quando si amino scambievolmente e si trovino sul procinto di separarsi. Il poeta si è talmente investito di quello stato, ch’egli ha cavato dal suo cuore quel medesimo parlare che questo gli suggerirebbe in tali circostanze. Perciò i duetti, i terzetti, i quartetti ecc. di questo grand’uomo fanno sì maraviglioso effetto sul teatro. Ma, mi si permetta il vero, nelle arie propriamente dette egli non sempre è stato attento al linguaggio del cuore, e ‘l buon Omero alcuna volta sonneggia. Vaglia d’esempio l’aria che chiude la terza scena nel terzo atto del suo Demofoonte. Quella maravigliosa scena esprime il passaggio che fa il protagonista da un estremo contento a una tristezza estrema, cagionata in lui da una novella recatagli da Matusio. L’aria che termina queste scena avrebbe dovuta essere il linguaggio della costernazione del medesimo protagonista, come in simili casi ha con eterna sua lode praticato il valorose poeta. Ma in questo egli ha voluto che Matusio, non già il protagonista terminasse la scena, e sì la terminasse colla massima:

Ah che né mal verace,
Nè vero ben si dà:
Prendono qualità
Da’ nostri affetti.

[Sez.II.7.2.5] E così quell’agitazione, che nata nell’attimo dello spettatore dalla novella di Matusio, e cresciuta nel progresso del recitativo dalle angustie del furioso protagonista, avrebbe dovuto giugnere al suo colmo nell’aria, viene dispettosamente arrestata da una massima, la quale, per giunta, le vera folle, ridurrebbe gli uomini all’infelice stato d’inazione. Il poeta drammatico non dee spacciar troppe massime. Il suo dovere è di comporre in modo l’azione, che lo spettatore ne deduca da sé medesimo quella istruzione. Un dramma intarsiato di massime scopre l’inespertezza del poeta, il quale non sapendo dare all’azione quel colore, quella forza che basta per far nascere una data massima in mente allo spettatore, usurpa l’uffizio di questo, esprimendo da sé medesimo quella sentenza. Infatti i drammatici più sentenziosi sono appunto quelli che meno intesero la loro arte.

[Sez.II.7.2.6] Le massime adunque, o le sentenza che si useranno nel melodramma, sieno rare e brevissime, ed abbian luogo solo ne’ recitativi. Tai materie non convengono a verun patto alle arie, le quali debbono contenere i particolari sentimenti delle persone drammatiche, non principi generali, non tesi. E il poeta non si lasci sorprendere al Quadrio il quale asserisce46, che «nelle ariette quanto più le proposizioni sono generali, tanto più piacciono al popolo, perché trovandole verisimili o vere, se ne fa un capitale per cantarsele a casa». La fievolezza della ragione mostra abbastanza di qual valore sia quel precetto. Né il popolo (dicasi con pace di quell’erudito scrittore) è menato al teatro dal desiderio di farsi quel capitale, né un poeta degno di premere le vestigia di Sofocle, vuol derogare in menoma parte alla bellezza del dramma per sì miserabile intento.

[Sez.II.7.2.7] Per somiglianti ragioni le similitudini non debbono entrar mai nelle arie. Fu censurato il Maffei d’avere adoperato nella Merope una similitudine tratta da Virgilio: quanto più degni di tal censura son que’ poeti che questa figura adoperano nelle arie? Anche in questo punto il Metastasio si è lasciato sorprendere alla fecondità del suo ingegno. Arbace sprigionato da Artaserse47 e confortato del medesimo a uscir di Susa, dove la sua vita non sarebbe sicura, co’ seguenti nobili sensi risponde a quel principe generoso:

Ubbidisco al mio Re. Possa una volta
Esserti grato Arbace. Ascolti intanto
Il Cielo i voti miei:
Regni Artaserse, e gli anni
Del suo regno felice
Distinguano i trionfi. Allori e palme
Tutto il mondo vassallo a lui raccolga.
Lentamente ravvolga
I suoi giorni la Parca e resti a lui
Quella pace ch’io perdo,
Che non spero trovar fino a quel giorno,
Che alla patria, all’amico io non ritorno.

[Sez.II.7.2.8] Dopo un sì bello e sì tenero recitativo, io mi aspettava un’ aria che racchiudesse gli ultimi, i più vivaci, i più affettuosi sforzi d’un cuore pieno di fedeltà, d’amicizia, di riconoscenza. Ma mentre già commosso da quel nobile recitativo io mi preparava a un’impressione anche più forte, mi sento improvvisamente gelare il cuore da un’ aria, colla quale terminando Arbace quella sì passionata scena, si diverte in assomigliar sé medesimo all’«Onda dal mar divisa» che «Bagna la valle, e ‘l monte. | Va passaggiera in fiume, | Va prigioniera in fonte» ecc. E sarà mai verisimile, che un uomo agitato da un tumulto di tanti e sì diversi affetti, nel procinto d’abbandonar la patria e quanto ha di più caro al mondo, si perda in quegli ultimi momenti a simmetrizzare spensieratamente una lunga similitudine? Si dirà forse che essendosi detto quanto si potea di più patetico nel recitativo, nulla restasse ad aggiugnere nelle arie? Ma il poeta non dee consumare nel recitativo gli estremi sforzi della passione. Questa vuol nascere e sollevarsi nel recitativo, ma non altrove che nell’aria vuol pervenire alla sua maggiore altezza. Ciò che si è detto delle similitudini s’intenda ancora delle allegorie; e già prima di noi un famoso letterato di Francia48 avea avvertita l’inverisimiglianza di quell’allegoria messa in bocca del medesimo Arbace nell’aria Vò solcando un mar crudele.

[Sez.II.7.2.9] Io non intendo con ciò di derogare in menoma parte al gran nome che l’immortal Metastasio si è sì degnamente acquistato. La critica, quando sia rispettosa e imparziale, va fatta su’ gran modelli. Le produzioni mediocri non meritano d’arrestare l’altrui attenzione; perciocché non essendo esse ricevute con quella favorevole prevenzione, che i gran nomi trovano in noi, i loro falli non possono abbagliarci o sorprendere. Ma i piccioli difetti de’ grandi uomini sono contagiosi. E se niuno si trovi che a publico vantaggio modestamente gli rilevi, essi vengono ciecamente imitati come tante bellezze: da che l’imitazione de’ difetti è ben più agevole che non è quella delle virtù.

[Sez.II.7.2.10] Per meglio sperimentare qual danno quelle arie di sentenze, di similitudini, d’allegorie cagionino al dramma, facciamo che Megacle, anzi che terminare colla bell’aria Se cerca, se dice il suo trattenimento con Aristea, lo terminasse con una massima, o pure che gli stessi personaggi, invece di quell’espressivo duetto Ne giorni tuoi felici, spiegassero ciascuno con una similitudine il loro stato: che perdita per lo teatro! Quante volte que’ capolavori della drammatica hanno svegliata la compassione nel più intimo degli animi nostri! Come sperare che una lambiccata sentenza, una ricercata similitudine facciano altrettanto?

[Sez.II.7.2.11] Non mancherà per avventura chi stimi con troppa rigidezza condannate le arie contenenti le nominate figure; tanto più che alcune arie di questo genere sono così belle, che esse furono sempre universalmente applaudite. Questo applauso però è ad esse venuto da chi le ha considerate astrattamente, e non come parti d’un dramma: siccome non mancherebbe applauso a una bella pittura, ancorché impropria a quel luogo dove fosse veduta. Dicasi pure ciò che si vuole in favore delle similitudini, delle sentenze, delle allegorie ecc., le persone di buon senso le stimeranno sempre proprie della lirica, dell’epica, della didascalica, ma rare volte della drammatica, e queste rare volte solo in bocca di personaggi disappassionati che narrino, deliberino, e consiglino a mente serena.

[Sez.II.7.2.12] Il metterle in bocca di personaggi alterati da passione sarebbe gravissima improprietà; e perciò improprietà egualmente grave sarebbe inserirle nelle arie, le quali non debbono contenere che il linguaggio dagli appassionati.

[Sez.II.7.2.13] Le arie da noi fino a qui disapprovate non solo nuocono al dramma, ma alla musica altresì. Sotto quale spezie di musica, se t’aiti Iddio, metterà il povero maestro di cappella l’«Onda dal mar divisa»? Il modo sarà minore o maggiore? Il canto sarà parlante o di gorgheggio? Il movimento sarà tardo o presto? Tutto è indeterminato; e il compositore abbandonato a sé stesso è astretto ad attaccarvi una musica precaria e priva di senso. Quando all’opposto, se l’aria contenesse le più vive pennellate della passione cominciata nel recitativo, egli con una musica adatta a quella passione avrebbe intenerito tutto il teatro.

[Sez.II.7.2.14] Quindi una tal aria non ha mai sui nostri teatri cagionata quella commozione che altre arie del medesimo dramma, perché esenti da tal difetto, cagionar sogliono in noi, quali sono esempigrazia le arie Conservati fedele, Fra cento affanni, e cento, Deh respirar lasciatemi ecc. E se la musica del Cavalier Gluck messa all’Alceste, dramma del valoroso Calsabigi, fece sì bell’ effetto sul teatro di Vienna nel 1769, forse a produrre un tal’ effetto non contribuì poco l’attenzione, ch’ebbe il poeta d’evitare in tutte le arie que’ difetti di cui qui ragioniamo.

[Sez.II.7.2.15] Un’altra avvertenza vuole avere il poeta intorno alla materia propria delle arie, e si è che questa abbia stretta connessione con quella del recitativo, per modo che l’aria nasca dal recitativo come germoglio della radice. Crede per avventura il lettore che io avrei potuto trasandare questo precetto senza grande scapito de’ poeti. Anzi è questo per essi uno de’ più utili ricordi, al quale, se accordassero sempre quell’attenzione che merita, le arie più di rado che per ordinario non fanno, uscirebbero di tema.

[Sez.II.7.2.16] Finalmente si vuole avvertire che l’intercalare, o sia la prima parte dell’aria, contenga un senso intero; perciocché il canto dell’aria non termina altrimenti alla seconda parte, ma sì bene alla replica dell’intercalare; e però senza tale avvertenza il senso rimarrebbe imperfetto e sospeso. Conosciam bene che questo assoggetta contr’ogni dritto la poesia alla musica, che non rare volte snerva e insipidisce le arie, e che tende ad estinguere il fuoco della poetica fantasia, là dove più converrebbe che fosse acceso. Ma fino a che i cantanti non si risolvano ad abbandonare la malvagia usanza di terminar l’aria alla quarta replica della prima parte, e non piuttosto, come sarìa di ragione, alla seconda parte, bisognerà che il poeta soffra in pace un tal sopruso, e speri intanto che il buon gusto rimetta gli occhi della mente alla virtuosa famiglia.

§ III. Del loro stile

[Sez.II.7.3.1] Lo stile delle arie debb’essere semplicissimo: perciocché il linguaggio del cuore non soffre verun ricercato artifizio. Il che non si potrà mai ripeter troppo a’ poeti, i quali, perché le arie sono composte di versi lirici, danno alle medesime talora uno stile anche lirico: fallo gravissimo contro all’arte del dire. Se una persona arsa di sdegno pretendesse di sfogar la sua bile a forza d’antitesi e d’ampollose circollocuzioni, chi potrebbe contener le risa, e non direbbe che quel linguaggio tradisce chi l’adopera, dimostrando ch’egli non ha il cuore occupato da quella passione che vuol fingere con noi?

[Sez.II.7.3.2] Ma i recitativi, contenenti per lo più le deliberazioni di publici e importantissimi affari, poste in bocca di que’ personaggi che regolano sulla terra il destino degli uomini, esigono uno stile più sostenuto e sublime. Quando però di mezzo a tali deliberazioni comincia a pullulare la drammatica passione, lo stile non sarà più così alto; ed a misura che quello crescerà, questo vuole andar decrescendo, finché giunta la passione al suo colmo nell’aria, lo stile ancora sia giunto alla sua maggiore semplicità.

Sezione III.
Della musica teatrale

[Sez.III.0.0.1] Il melodramma composto così dal poeta passa nelle mani del maestro di cappella. Le nostre osservazioni ancora procedendo allo stesso cammino, s’aggireranno in questa sezione sulla musica richiesta da quel dramma, ch’io chiamerò musica teatrale. Per dichiarare a mio potere la materia che qui propongo, non gravi al mio lettore che sulla generazione del suono e sulla natura della musica in genere io premetta alcune osservazioni facilissime ed accomodate alla portata d’ognuno, dovendo tali osservazioni servir di princìpi alle regole appartenenti allo stile della musica teatrale, e in altre sezioni ancora a quelle che riguarderanno la decorazione e la danza teatrale.

Cap. I.
Della musica in generale
§. I. Quali sieno i fonti dell’estetico di questa facultà

[Sez.III.1.1.1] L’oscillazione d’un corpo sonoro produce nell’aria che lo circonda un ondeggiamento, simile a quello che produce nell’acqua d’un lago l’urto d’un sassolino che vi sia lanciato, o d’un uccello che vi s’immerga. I quali ondeggiamenti in ciò differiscono tra loro, che questo dell’acqua circolarmente, quello dell’aria sfericamente si diffonde, esercitando l’aria compressa l’elasticità sua per tutti i lati. È il centro di queste sfera occupato dal corpo sonante, la superficie è formata dall’onda che sia da sì fatto centro la più lontana, e coloro che si trovano dentro quest’ampia sfera, ascoltano il suono che parte da quel centro. Questo suono uno o un altro tuono darà, secondoché diverso grado avrà d’acutezza, giacché tuono altro non è che il grado d’acutezza d’un suono.

[Sez.III.1.1.2] Nasce questa diversità d’acutezza dal diverso numero d’oscillazioni che in un determinato tempo può eseguire un corpo sonoro, le quali cagionano diverso numero d’ondeggiamenti nell’aria e d’urti nell’organo dell’udito. Conciosiaché l’esperienza ha dimostrato: I. Che se due corde d’egual grossezza fanno in un medesimo tempo un medesimo numero d’oscillazioni, esse sono all’unisono, ciò è, danno lo stessto tuono ambedue. II. Che se nel tempo che la prima farà un’ oscillazione l’altra ne farà due, questa darà l’ottava alta del tuono di quella; se ne farà quattro darà la doppia ottava, se otto la tripla ottava e così in infinito, moltiplicando per due il numero dell’ottava vicina; e in conseguenza se per contrario mentre una corda farà otto oscillazioni un’altra ne farà quattro, questa darà l’ottava bassa del tuono di quella; se due la doppia ottava bassa, se una la tripla ottava e così in infinito, dividendo per due il numero dell’ottava vicina. III. Che se mentre una corda farà due oscillazioni un’ altra ne farà tre, questa produrrà la quinta del tuono di quella. IV. Che se in tempo che l’una farà quattro oscillazioni, l’altra ne farà cinque, si avrà de quest’ultima la terza maggiore. V. E che in fine se mentre la prima eseguirà cinque oscillazioni, l’altra n’eseguirà sei, questa darà la terza minore.

[Sez.III.1.1.3] Da ciò si vede che la simmetria è l’origine della consonanza de’ tuoni. E se i maestri di musica insegnano che la più perfetta consonanza è l’unisono, indi l’ottava alta e bassa, di poi la quinta, la terza ecc., la cagione di questi vari gradi di perfezione, che si osservano nelle consonanze, è facilissima a rinvenire dopo ciò che sulla simmetria fu da noi ragionato. L’unisono, a cagion d’esempio, è la più perfetta consonanza, perché dovendo i suoi tuoni mandare a un tempo eguale, egual numero di percosse all’organo dell’udito, tal consonanza è una simmetria che nasce dalla ragion d’uguaglianza, che a’ sensi è la più dolce di tutte le simmetrie. E se dopo l’unisono la più perfetta consonanza è l’ottava, ciò avviene perché è una simmetria fondata sulla ragione multiplice, che dopo la prima è la più grata di tutte le simmetrie. Co’ medesimi princìpi agevolmente si spiega perché la quinta sia una consonanza più perfetta della terza maggiore, e questa più della terza minore; e colla faciltà medesima se uopo il richiedesse, si potrebbe ancora spiegar la cagione delle dissonanze. Tanto è vero, che unico, semplicissimo, costante è il principio dell’estetico e della bellezza sensibile, sì naturale, come artifiziale.

[Sez.III.1.1.4] Non è però la combinazione simultanea, o successiva delle consonanze (in cui consiste la musica armonica) l’unico fonte dell’estetico della musica. Esso tre altri ne ha, e sono: 1. la varia durata delle note, ch’è l’oggetto della musica metrica; 2. la varietà de’ movimenti, o tardi o presti, ch’è l’oggetto della musica ritmica; e 3. la varia intensità de’ tuoni, o deboli o forti, simile a quella de’ colori nella pittura. Ma di essi a me non occorre di ragionare particolarmente.

§. II. Differenza tra la musica antica e la moderna.

[Sez.III.1.2.1] È la moderna musica (che dagl’Italiani riconosce la sua perfezione, come l’antica da’ Greci49) in questa parte ben superiore all’antica, avendo un estetico ben più ricco, più vario, più artifizioso che l’antica non ebbe, l’estetico della quale fu semplicissimo. Tre invenzioni soprattutto contribuirono a rendere in ciò sì diverse queste due spezie di musica. La prima fu quella del contrappunto, facultà ignota agli antichi, siccome oggimai si conviene tra gli eruditi dopo le pruove datene dal chiarissimo padre Martini. La seconda è quella degli odierni caratteri musicali, più facili e più comodi assai degli antichi, i quali non poteano sì distintamente e sì chiaro esprimere i concetti del compositore. L’ultima è l’invenzione di stromenti contenenti più ottave che quelli adoperati da’ Greci, niuno stromento de’ quali sorpassò mai le tre ottave, per quanto da quelle notizie si ritrae, che fino a noi pervennero della loro musica stromentale. È chiaro che una musica, la quale di tali invenzioni faccia buon uso, arricchirà il suo estetico ben più agevolmente che un’altra, la quale non abbia potuto trarne profitto. Ma vengasi al patetico di quest’arte.

§. III. Dove consista il patetico della musica

[Sez.III.1.3.1] Ciascuna passione porta seco un tuono di voce particolare, e molto diverso dalla voce dell’uom tranquillo. Infatti noi senza vedere una persona, e senza sapere l’attuale stato dell’animo suo, dal solo tuono della sua voce ci accorgiamo non solamente s’ella sia attualmente commossa da passione, ma ancora qual sia, se lo sdegno, o l’allegrezza, o il timore, quello onde vien posseduta. Gli antichi oratori distingueano molto bene questi tuoni propri di ciascun affetto: e Gracco, per intonargli più sicuramente nell’aringare, solea nascondere dietro a sé uno schiavo, il quale con un flauto gli suggeriva or l’uno or l’altro di tai tuoni, secondoché convenivano alle diverse parti della sua diceria50.

[Sez.III.1.3.2] Ora il patetico della musica consiste nell’imitazione di questi tuoni, per mezzo della quale essa ci dispone gagliardamente al concepimento di quelle date passioni a cui gl’imitati tuoni appartengono, riproducendo nell’immaginazione l’idea di que’ movimenti d’animo da noi altra volta provati nell’ascoltare sì fatti tuoni. Per esempio, un tuono compassionevole richiama nella mia fantasia l’idea di tuoni simiglianti da me ascoltati altra volta in bocca di persone infelici, e con tali idee si riaccendono ancora l’idee confuse de’ sentimenti di compassione da me allora provati per quel complesso, che si trova necessariamente nelle idee che già furono a un tempo medesimo presenti allo spirito. Non altrimenti il ritratto d’una persona temuta, amata, odiata, ci sveglia que’ medesimi alletti, che già ne svegliò la persona che è l’archetipo di quella imitazione o ritratto. Tale appunto è il modo, onde il patetico della musica opera sulle spirito umano. Né questa azione riman nello spirito, ma passa alla nostra macchina altresì. Avvegnaché a quelle idee confuse d’affetti altra volta sperimentati, corrisponde e, dirò così, echeggia nella nostra macchina una mozione simile a quella che allora accompagnò le mentovate agitazioni dell’animo.

[Sez.III.1.3.3] Di qui si vede che il patetico, non solo della musica, ma di tutte le arti piacevoli, opera sulla parte meccanica degli affetti mediatamente però, non già immediate, come fa sugli organi de’ sensi. Io nondimeno porto opinione (che che se ne debba parere a’ profondi fisici, quello che non son io) che la musica abbia un’azione anche immediata sulla meccanica delle passioni, ciò è su’ nervi, a cui questa meccanica è appoggiata. E primieramente egli mi par fuori di dubbio, che tra’ nervi del corpo umano alcuni sieno particolarmente’ destinati a servire alle passioni (che io nervi diatetici chiamerò per innanzi) e questi sono quelli che serpono per le regioni del petto e del ventre i quali appartengono per la maggior parte al paio vago, all’intercostale, e a qualche diramazione ancora del quinto paio51. Una giornaliera esperienza può fare accorgere ognuno che a qualunque movimento d’affetto corrisponda infallibilmente un altro moto nelle anzidette regioni della nostra macchina. E da queste agitazioni, che ivi sperimentiamo ogni volta che da passione siam posseduti, furono indotti gli antichi a stabilire in quelle regioni la sede degli affetti, verbigrazia quella dell’amore nel fegato, dell’ira nel fiele, del riso nella milza, e così degli altri. Dall’intima connessione che il movimento di tai nervi ha colle passioni, avviene ancora che qualora il particolar sistema di quelli da morbosa cagione venga alterato, l’uomo pruova de’ trasporti di mestizia, di sdegno, d’allegrezza senza motivo e senza che l’animo suo sia occupato da alcun obbietto di quelle passioni. Ond’è, che nel tempo che quelle cagionevoli persone soffrono tai ciechi movimenti d’animo, esse d’ordinario si lagnano d’una particolar contrazione de’ nervi del petto e delle parti vicine. Dall’uffizio che i nominati nervi prestano alle passioni, avviene in oltre che ogni passione ha la sua fisonomia particolare; perciocché essi nervi, e in ispezie quelli del quinto paio, mandano delle ramificazioni alle diverse parti del volto, le quali ramificazioni vengono irritate dal moto, che negli affetti concepiscono quelle che scendono verso il petto, e che noi tra’ nervi diatetici annoverammo. Di qui vien pure il pianto, che accompagna la mestizia, l’allegrezza, la compassione ed altri affetti, il riso, che altri ne accompagna, e la voce tremola e quali saltellante, che gli accompagna tutti, essendo questi effetti dell’irritamento de’ medesimi nervi diatetici, e in particolare delle diramazioni che essi mandano alle glandole lagrimali, a’ muscoli delle guance, alla bocca, al diaframma o setto trasverso, e alla laringe. Da ciò finalmente avviene secondo il Willis, che una delle maggiori differenze che passa tra la struttura del nostro corpo e quella del corpo de’ bruti, consista nella moltitudine de’ nervi, che noi abbiamo verso il petto e le viscere, là dove i bruti pochi ne hanno : mercecché non essendo essi capaci d’affetti, non hanno mestieri de’ nervi che in quelle regioni di nostra macchina al ministero degli affetti son destinati, ma solo di quelli che vengono impiegati alle funzioni vitali52. Tutto ciò conferma sempre maggiormente, trovarsi in noi una classe di nervi addetti all’uffizio delle passioni, e questi essere propriamente quelli che diatetici noi abbiam nominati.

[Sez.III.1.3.4] Sembra in oltre manifesto, che i nostri nervi, come altrettante corde d’uno stromento, abbiano un tuono determinato. È nell’acustica un indubitato principio, che un suono qualunque metta necessariamente in moto tutti que’ corpi, che si trovano dentro la sfera dell’ondeggiamento ch’egli forma nell’aere, se questi corpi abbiano un determinato tuono, e propriamente l’unisono o altro consonante a quel suono, e che per lo contrario non dia movimento alcuno a quegli altri corpi che non hanno un tuono determinato. Ond’è che da un suono stromentale o vocale, osserviam non di rado mosse non solo le corde di stromenti musicali compresi in questa sfera ondeggiante, ma i cristalli ancora, i vasi d’argento o d’altro metallo, i vetri delle finestre, e qualunque altro corpo in cui s’incontri per casualità un tuono, che faccia consonanza con quello che risuona attualmente. Ma noi sperimentiamo tai scotimenti anche su’ nostri nervi; talmenteché nell’ascoltare un suono soffriamo talora un tremore in alcun luogo della nostra macchina. Dunque i nostri nervi hanno anch’essi un tuono determinato, o, che vale il medesimo, sono disposti a un determinato suono. Di qui siegue: i. che essi dovranno essere immediate e necessariamente mossi da una musica, che adoperi suoni consonanti a quelli a cui essi trovansi dalla natura disposti; II. che un modo musicale fondato sopra suoni consonanti a quelli de’ nervi diatetici, moverà necessariamente e immediatamente tai nervi, e per quella corrispondenza che passa tra il movimento di questi e le passioni dell’animo, il loro oscillamento ne desterà quella passione che corrisponde a quel dato moto prodotto in essi.

[Sez.III.1.3.5] Tante sono le riflessioni natemi in mente, che mi rendono assai verisimile l’azione immediata della musica sul meccanismo de’ nostri affetti. La quale immediata azione pare che venga confermata dal dominio che gode la musica sull’animo umano, maggiore di quello che altra qual si voglia facultà ne fa sperimentare, ma soprattutto dagli effetti puramente meccanici che non di rado produce, e dalla sua efficacia nella cura delle malattie, osservata fin dagli antichissimi tempi e riconosciuta anche oggi in più occasioni, e segnatamente nella guarigione di quegl’infermi che la Puglia chiama tarantolati. I quali effetti né della pittura, né della scultura, né si narraron mai di qualunque altra delle belle arti.

[Sez.III.1.3.6] Ho creduto dovere esporre in breve il mio sentimento intorno all’azione immediata della musica sul meccanismo delle passioni, perché potrà in alcun modo contribuire nel capitolo seguente a determinar lo stile della musica teatrale.

§ IV. Altra differenza tra la musica antica e la moderna

[Sez.III.1.4.1] Nel patetico (convien confessarlo) la moderna musica è molto da men dell’antica. Pervennero i Greci a sì perfettamente analizzare questa parte della lor musica, ch’essi in breve tutti i modi ebbero rinvenuti propri ad eccitare e regolare una data passione53. Ed a ciascuno di questi modi corrispondeva ordinariamente tal passione nell’animo di chi ascoltava, come ce lo attestano concordemente gli antichi, i quali faceano testimonianza di ciò ch’essi medesimi sperimentavano nell’animo loro e in altrui, e come la storia medesima il conferma54. Senza che, se il modo lidio esempigrazia non avesse ordinariamente mossi gli ascoltatori ad allegrezza, per pochi e rari esempi che di un tal effetto si fossero osservati, non si sarebbe potuto assoluta mente affermare che quel modo svegliasse l’allegrezza, e molto meno avrebbe potuto convenire ognuno (come pur convenne) nel pensiero d’adoperare non altro che quel modo, quando volesse disporre gli animi a questo affetto.

[Sez.III.1.4.2] Gli antichi adunque da una musica povera traevano maggior vantaggio che non facciam noi da una ch’è doviziosissima. Se si dimandava a un greco qual modo si richiedesse per insinuare in noi una data disposizione, egli sapea bene a qual s’appigliare. Ma questa dimanda medesima farebbe oggi contorcere il più valente maestro di musica che s’abbia l’Italia: vedendo noi spesse volte un’ aria, per esempio composta nel modo minore d’effaut, che prima ci era stata cantata nel maggiore d’ellamì, e una, che fu parlante, divenire aria di gorgheggio, e quella, che altra volta tardamente procedea guidata dalla flemmatica misura binaria, tornarci poi innanzi, quasi di galoppo, sotto il frettoloso tempo a cappella.

[Sez.III.1.4.3] Non è già che i moderni compositori non riescano talvolta nel patetico, ma costa loro un continuo sforzo d’ingegno, e spesso inutile, ciò che i Greci otteneano con una semplice osservanza delle regole di quella parte della musica. Tra’ nostri componitori e i Greci quel divario passa, che passar suole tra chi ignori le regole dell’aritmetica pratica, e un altro che francamente sappia eseguirle. Può avvenire che l’uno, così esattamente come l’altro, giunga a ritrovare il numero dimandato: ma il primo vi sarà giunto tardi e a stento, il secondo presto e agevolmente. Il primo dubiterà sempre d’avere errato, ne ripeterà mille volte il calcolo e non uscirà mai d’incertezza: il secondo, sicuro dell’infallibilità delle sue regole, troverà in queste medesime una pruova ben certa dell’esattezza dell’operazione,

[Sez.III.1.4.4] Tre sono, s’io ben m’appongo, le cagioni che renderono il patetico dell’antica musica così regolare e così certo, e quello della moderna sì incerto e sì disordinato. La prima è la differenza dell’estetico dell’una da quello dell’altra. Una musica che faccia pompa d’un estetico troppo ricco, troppo vario e ricercato, impedisce necessariamente l’impressione che i suoni da essa posti in opera potrebbero fare sullo spirito e sulla macchina di chi ascolta, In una melodia composta di rapide note, di trilli, d’arpeggi, di volate, di mordenti, di gruppi, di sbalzi, appena un suono giugne a toccare i nervi uditori, che già la sua azione è totalmente cancellata da quella d’un altro suono che sopraggiugne all’istante, e ch’e incalzato da una folla d’altri di non maggior durata. Allo spirito non è conceduto agio di discernervi i tuoni simili a quelli ch’egli sperimentò patetici altra volta, né agio alla fantasia ed alla memoria di riprodurgli e di riconoscere le idee affettuose, complesse con quelle di sì fatti tuoni. Più indiscernevoli ancora e più incerti rende i tuoni allo spirito l’armonia contemporanea di più note, massime qualora, come per lo più accade, vanno alle consonanze unite le dissonanze.

[Sez.III.1.4.5] Se una tal musica niun’azione può avere sulla fantasia e sulla memoria, molto meno può averla su’ nervi diatetici: perciocché quell’oscillazione, che un tuono avea sopra di essi cagionata, cominciata appena viene interrotta da un’altra tutta diversa dalla precedente. L’esperienza dimostra che eseguendo una tal musica vicino a stromenti che stiano in riposo, niuno di essi ne sarà scosso, né obbligato a risonare, come sicuramente il sarebbe da un’ altra, che tuoni più chiari e più fermi ponesse in uso. Perciò la musica antica, la quale non ebbe un estetico sì ricercato, avea maggiore azione su’ nervi diatetici, sulla fantasia e sulla memoria, da’ quali dipende il patetico della musica.

[Sez.III.1.4.6] La seconda ragione è l’idea che hanno della musica i moderni maestri, diversa da quella che ne ebbero gli antichi. Oggi è questa trattata come un’arte destinata principalmente al piacer dell’udito: tutti coloro che la professano, ad altro quasi non mirano che a renderla commendabile all’orecchio. Quindi è ch’essi rinvennero le vere ed invariabili leggi della melodia e dell’armonia, ma niuna di quelle che appartengono al patetico dell’arte.

[Sez.III.1.4.7] I Greci per lo contrario riguardavano la musica non tanto come destinata ad appagar l’orecchio, quanto a muovere e regolare le passioni ch’essi dirigeano per mezzo di questa piacevole disciplina a’ più perfetti oggetti, e più degni dell’animo umano. È la musica, così adoperata, la più efficace ministra delle virtù. Quindi Ateneo ci assicura, che colla musica insegnavano i Greci i doveri della religione e della morale, e le azioni e gli esempi degli uomini illustri. Dal che si può comprendere ciò che scrive Polibio55 di due popoli d’Arcadia, l’un de’ quali adottando l’uso della musica divenne virtuoso e colto, l’altro dispregiandola si rimase barbaro e vizioso.

[Sez.III.1.4.8] Né pur nelle feste, nelle allegrezze, nelle nozze, ne’ conviti, la musica greca perdea di mira il suo scopo. Il cantore lasciato da Agamennone presso a Clitennestra non si applicava a divertire quella principessa con una musica puramente estetica. Egli attendeva a fomentarle nell’animo l’amore dell’assente marito e delle virtù necessarie a una regnante: talmenteché Egisto non potè trarre a’ suoi voleri la principessa, se prima non ebbe tolto nel mondo il suo cantore.

[Sez.III.1.4.9] Ma come erano giunti i Greci a formare sì giusta idea della musica? Condotti dalla loro propria esperienza. Essi erano stati istituiti per mezzo della musica, e a questa erano debitori della loro cultura. Lino, Orfeo, Cadmo, Anfione, da’ quali erano stati invitati ad abbandonare una vita brutale, che in compagnia delle fiere aveano fin allora menata, e a godere sotto la protezion delle leggi le dolcezze della civile società, di quella si erano serviti ad umanare, diciam così, quegli animi ferini. Perciò fu di essi allegoricamente favoleggiato che al suono della lira fossero pervenuti ad ammansir le fiere, e a indurre i sassi stessi a edificar le città. Per mezzo della musica quegli uomini, che fino allora poco degni erano stati di queste nome, e che forse né pur pensato aveano d’esser tali, cominciarono a gustar le delizie d’una vita socievole e sola degna di ragionevoli creature. Con un canto accompagnato dall’accordo d’un musico stromento furono loro insegnati i doveri verso l’essere supremo, promulgate le leggi d’una patria nascente, istillate le massime della giustizia, dell’amistà, dell’amor coniugale, l’urbanità, la beneficenza, la compassione verse i loro simili, il coraggio militare56.

[Sez.III.1.4.10] I Greci adunque, che aveano in loro stessi sperimentata l’efficacia della musica ad accendere e governare le passioni, furono dalla lor propria esperienza istruiti a formare la vera idea di questa disciplina. Quindi derivò l’alta considerazione in cui questa venne tra loro. Pitagora, a cagion d’esempio, la riguardava come la sorgente di tutta la morale; e però esigea da’ suoi discepoli che colla musica principiassero e terminassero la giornata57. Platone58 ne parla come del più caro presente del cielo, e «come donata dagli dei non pel solo diletto dell’udito, ma per ristabilire nell’anima l’ordine e l’armonia, e per bandirne l’errore e la voluttà». Il medesimo linguaggio tennero gli altri filosofi di quella nazione, e Plutarco sopra tutti, [per] il quale non v’ha virtù intellettuale, né morale, che dalla musica non derivi. In effetti che non doveano essi attendere da un’arte destinata a sì nobil uso ? Non è egli vero, che il mezzo più spedito di giugnere all’acquisto delle virtù dell’intelletto e dell’animo consiste nelle passioni vivaci, ma governate dalla ragione?

[Sez.III.1.4.11] Di qui apparisce il torto ch’ebbero que’ moderni, i quali non badando all’indole della musica greca, e di questa giudicando come della nostra, di stravagante e di ridicola tassarono la stima che gli antichi ne aveano concepita.

[Sez.III.1.4.12] Questo vantaggioso concetto che i Greci formarono della musica, gli portò a coltivarla con sommo studio, non tanto in quella parte che la rende grata all’udito, quanto in quella che muove l’animo. Ed essi ne fecero un articolo sì essenziale dell’educazione, che Temistocle fu avuto per incolto e per incivile, perché, essendo stato richiesto di toccar la lira in un convito, rispose ch’«egli non sapea trattarla, e che spendea la sua applicazione a render florida e formidabile la sua patria59». I più gravi tra’ loro sapienti, i più consumati tra’ loro filosofi presero a professare sì elegante ed util arte60. E questa è appunto, a mio intendere, la terza ragione del maggior grado di regolarità e di certezza, che godeva il patetico dell’antica musica in paragon della nostra. Perciocché quella fu professata dal fiore della letteratura d’una nazione, appo la quale le belle arti giunsero a un segno, al quale non pervennero altrove né prima, né poi; d’una nazione di gusto sistematico, e presso la quale un tal gusto degenerava in una spezie di mania che volea suggettare a sistema qualunque più ritrosa disciplina; d’una nazione, in fine, che formicava di sublimi ingegni, i quali portavano allo studio della musica un talento educato tra le scienze e le belle arti. Qual maraviglia, che la musica patetica, coltivata con tanto impegno da una tal nazione, divenisse ordinata e sistematica, e giugnesse a tanta perfezione?

[Sez.III.1.4.13] Ma tra noi l’opera sta tutta altrimenti. E’ vero, che, la buona mercé di Dio, il nostro secolo non cede in cultura a qualunque più florida età della Grecia. Ma coloro tra noi, che professano la musica, non sono quegli stessi che ampliano tutto dì i confini delle umane cognizioni, come avveniva tra’ Greci: che anzi i nostri filosofi si recano per lo più a una cotal onta di saper ricercare dilicatamente uno strumento. Ed oggi la cosa è giunta a tale, che quelli tra loro che hanno il farnetico d’ostentarsi impassibili, e che affettano uno stoico contegno, fanno pompa d’insensibilità, e di tedio per qual si voglia spezie di concento: letteraria ipocrisia, che nuderebbe saporitamente i denti al festevole Menchenio. Non essendo adunquo in oggi la musica esercitata da’ nostri filosofi, non potè il suo patetico profittar molto, come quello, che non può senza la scorta della filosofia andare innanzi. Onde di tutti i progressi di quell’arte profittò il solo suo estetico, al quale basta il giudizio dell’orecchio.

[Sez.III.1.4.14] Siamo entrati in queste considerazioni sulla musica antica e moderna, perciocché quello che abbiamo su tal suggetto osservato, gioverà a meglio intendere ciò che costituirà la materia del capo seguente. Al che conduce ancora l’aver notato quanto il patetico della nostra musica sia tuttor lontano dalla sua perfezione, e qual cammino per giugnervi dovrebbe tenere: perché quando manchi in questa parte, non solo non può sperare di ricercarci d’un piacer dilicato e durevole, ma ancora stranamente ecclissa la bellezza del nostro spettacolo.

Cap. II.
Stile della musica teatrale.
§ I. Prima legge di questo stile

[Sez.III.2.1.1] Fu la musica teatrale ammessa nel nostro spettacolo per dare maggior forza alle parole del dramma, a cui va unita, e col quale ha un medesimo e comun fine, qual è il movimento d’una determinata passione61. Di qui nasce il particolare stile, onde abbisogna questo genere di musica, destinato a un tempo stesso a sostener la parola e a muovere gli affetti.

[Sez.III.2.1.2] Or primieramente lo stile della musica teatrale vuol poche note. Perciocché una musica troppo rinzeppata di note, sieno simultanee o successive, è incapace di patetico, siccome nel capitolo antecedente fu dimostrato. Si aggiunga, che quel frastagliamento, che una continuazione di brevissime note cagiona alla voce dell’attore, scoprirebbe l’artifizio del compositor della musica: e l’aperto artifizio è, siccome ognun sa, vietato nell’azione drammatica, come distruttore d’ogni verisimile.

[Sez.III.2.1.3] Né la sola ragione, ma l’esperienza altresì maravigliosamente conferma l’esposta legge dello stil teatrale. Si esamini qualunque musica che sul teatro sia riuscita patetica: vi si troveranno sì poche note, che in un solo di que’ mortali gorgheggi, ch’hanno oggidì tanta voga, se ne potrebbero contare assai più. Né si troverà mai, che un canto composto d’una moltitudine di note sia riuscito patetico sul teatro, né proprio ad aggiugner forza al sentimento delle parole. Potrà bene un tal canto riuscir piacevole all’orecchio. Ma oltre che questo piacere è ben insipido, in confronto di quello che ne verrebbe dal movimento del cuore, egli è un fare abuso delle belle arti l’adoperar l’estetico delle medesime disgiunto dal patetico; massimamente nell’opera in musica, la quale, come si è detto, adopera queste arti a solo fine d’aggiugner polso e sostegno alla passione drammatica, di che è incapace l’estetico di quelle. Un effetto anche osservabilissimo di queste due differenti ragioni di musica ne somministrano i fanciulli. Essi a una musica di rare note composta, sia strumentale o vocale, danno segni di godimento e si mettono a ballonzare a lor modo: niuno però di tai segni danno a un’altra che sia troppo carica di note. Ma d’un’esperienza anche più manifesta ne fornisce quella sonata, che dall’essere adoperata alla guarigione de’ tarantolati, Tarantella è detta volgarmente. Questa sonata maravigliosa, che sì straordinari effetti cagiona sullo spirito e sulla macchina di quegl’infermi, è composta d’appena venti tuoni né troppo acuti, né gravi: e perderebbe tutto il valor suo, né alcuno più di tali effetti cagionerebbe, se un sonatore s’avvisasse di sminuirla, com’essi dicono, cambiandola in un tritume di moltissime e velocissime note.

§ II. Seconda legge

[Sez.III.2.2.1] Questo stile abborisce egualmente i tuoni troppo acuti e i troppo gravi. Il patetico consiste nel mezzo.

[Sez.III.2.2.2] Comparve, poco tempo è, sopra uno de’ più illustri teatri d’Europa una valente cantatrice dotata di voce sì acuta, che non avea forse avuta mai la pari in questo genere. Costei con una voce da calderino si tirò la maraviglia di tutti, ma non altro poté ottenere che maraviglia. Quella sua voce non solamente era incapace di servire alla drammatica passione, ma non appagava né pur l’orecchio, siccome non lo appagano que’ passi eseguiti sull’estremo manico d’un violino. La stessa impossibilità a rendere il patetico s’incontra nelle voci troppo basse. La sperienza è ben facile: scegliete un canto che vi muova; trasportatelo ne’ tuoni più acuti, o ne’ più gravi; questo basterà per fargli perdere tutto l’affettuoso. Di qui si comprende come i Greci avessero potuto riuscir sì bene in questo genere di musica, non ostante che, come dicemmo, niuno strumento avessero mai conosciuto che più di tre ottave abbracciasse.

[Sez.III.2.2.3] È questa sorta di musica amica di tuoni temperati, perché ella, se voglia muovere, deve imitare la voce dell’uomo, la quale non eccede in tuoni troppo acuti o troppo gravi. E quelle rare voci che danno in uno di questi eccessi, sentendo assai del ridicolo, mal converrebbero alla tragica gravità.

§ III. Terza legge

[Sez.III.2.3.1] Lo stil teatrale ama il canto parlante, non quello di gorgheggio. Volete voi un potentissimo specifico per togliere ogni forza a qual canto che sperimentate più energico? Disseminatevi una competente dose del più bel gorgheggio del mondo. Questa maniera di canto ripugna assolutamente alla musica vocale. Poiché uffizio di questa è di dare tal forza alla parola, che l’idea a questa unita sia vivamente riprodotta nello spirito. Or un’A, un’E, un O, gorgheggiato durante la valuta di più note, e talora di più battute, nulla dicono allo spirito; e questo mentre più ansiosamente cerca di penetrare lo stato dell’animo di personaggi che l’interessano, sente cominciare quel lungo sbadiglio, il quale coll’offerta d’uno straniero piacere estingue, in vece d’accrescere il piacer patetico. E poi non è forse un’intollerabile inverisimiglianza l’arrestare il ragionamento nel bel mezzo d’un senso, anzi alla metà d’una parola, per dar luogo a una folla di suoni inarticolati? Non è cosa da ridere il vedere un serio personaggio fermarsi di proposito a bocca aperta a gargarizzare un lungo passaggio?

[Sez.III.2.3.2] Fu questa strana maniera di canto menata sul teatro da que’ musici ambiziosi, i quali, per nulla lasciar d’intentato, invasero lo stile della musica stromentale. Essi acquistarono così più largo campo da far mostra della flessibilità della lor gorga coll’imitare que’ mordenti, que’ trilli, quelle volate, que’ gruppi, quegli arpeggi, che fanno sì ben sentire su d’alcuni stromenti. Ma non badarono che la musica, non meno di qualunque altra delle arti belle, ha i diversi stili, che solo per imperizia possono essere insieme confusi, e che lo stile della musica vocale vuol essere più sobrio e più severo assai che non quello della stromentale.

[Sez.III.2.3.3] Mai però più che oggi non ebbe questa impropria maniera di canto tanta voga su nostri teatri. La maravigliosa gorga d’una celebre odierna cantatrice62 ha ingerito su questo particolare uno spirito di vertigine ne’ nostri compositori. Da che essa cominciò a comparire su’ teatri d’Europa, e a far sentire quel suo inudito, distintissimo, inimitabil gorgheggio, tutto divenne gorgheggio sopra i teatri. Il popolo ammaliato da quel nuovo incanto credé di sentire allora per la prima volta il solo stile degno dell’opera in musica; e ‘l maestro di cappella, tocco anch’egli da quella malia, s’immaginò d’entrare in un nuovo mondo musicale. Mettendo il piede in quell’incantato paese, e mirando con occhio d’orgogliosa compassione gli Scarlatti, i Pergolesi, i Vinci, che dal mondo di là non poteano essere a parte di quella scoperta, benediceva il cielo (come già que’ primi Spagnuoli ch’entrarono in America) d’averlo sortito a nascere in questa età. Guai a chi avesse ardito in quelle circostanze di chiamare ad esame questa musica novità! Egli sarebbe per poco stato messo a brani da un popolo d’entusiasti. Onde quelle poche persone di buon gusto, che si erano mantenute salde contro le lusinghe della nuova sirena, conoscendo che non erano più i tempi di Timoteo e di Terpandro63, si guardarono bene di protestare contro quella novità; quantunque chiaramente conoscessero, che lo stile di quella cantatrice potesse per avventura fare onore a un sonator di salterio o di liuto, ma che il canto di ben altra musica avesse mestieri.

[Sez.III.2.3.4] Tempo però sarebbe ormai, che i Cafari, i Jommelli, i Piccinni, i Traetti, i Sacchini, prendendo per mano la vera musica vocale, la rimenassero sulle scene, rendendo quell’usurpato stile alla musica stromentale, a cui appartiene, anzi queste ancora dee d’uno stile sì ricercato fare assegnato uso e discreto. Conciosiaché (e ben lo sanno i lodati maestri) allora la musica può dirsi perfetta, quando ella ha in se quella apparente facilità, per cui

…. sibi quivis
Speret idem , sudet multum frustraque laboret
Ausus idem.

[Sez.III.2.3.5] Questa difficilissima facultà costituisce la perfezione non solo della musica, ma ancora di tutte le arti compagne. Questa rende esempigrazia l’eloquenza di Cicerone superiore a quella di Seneca, la musa del Petrarca a quella del Marino, l’antica architettura alla gotica, la tranquillità della statuaria de’ Greci alla veemenza e alla vivacità dello scalpello d’alcuni moderni.

§ IV. Avvertenze sullo stile proprio di ciascuna passione

[Sez.III.2.4.1] Ed ecco in breve le generali leggi dello stil teatrale. Esse riguardano principalmente il canto: perciocché l’accompagnamento degli stromenti d’una qualche maggior libertà dee godere. Colla scorta di tali princìpi si può ancora perfezionar lo stile proprio di ciascuna passione, purché i maestri di cappella vi congiungano un’attenta considerazione della natura. Va primieramente osservato quai tuoni di voce adoperano gli uomini mentre son posseduti da una data passione, e qual movimento danno eglino in tai casi alle loro parole. Di poi si vogliono diligentemente notare que’ passi di musica, i quali, talvolta per casualità, riescono efficaci ad eccitare una data passione. Perciocché non di rado avviene, che nell’ascoltare, o nell’eseguire un suono, un canto, c’imbattiamo in certi passi, i quali improvvisamente muovono in noi uno o un altro affetto, e talora senza che il compositore gli abbia diretti a questo fine. Or di tai passi il diligente maestro dee fare suoi repertori, o zibaldoni, non tanto per adoperargli qualora gli fosser luogo, quanto perché di essi può valersi come di nozioni direttrici nell’invenzione dello stile particolare d’un determinato affetto. Ben si deve in questo aver riguardo al carattere de’ personaggi, perciocché una data musica starà bene a una dilicata donna, che disdirebbe a un uomo eminente nella virtù o nella scelleratezza. Se tale avvertenza ha luogo in tutte le passioni, segnalatamente però lo ha nell’espressioni della tristezza, e dell’amore. È cosa indecente l’udire allora costoro miagolar sul teatro con languidi modi musicali, come avvien tuttavolta. I lamenti e le tenerezze medesime, in bocca loro debbono avere ben altro contegno che in bocca femminile.

§ V. Libertà che si attribuiscono i cantanti sullo stil teatrale.

[Sez.III.2.5.1] Affinché però una composizione di questo stile sia nello stil medesimo cantata, il compositore dee in quella esprimer tutto, e nella abbandonare all’arbitrio del cantante, né permettere che costui vi aggiunga di suo capo la menoma appoggiatura. Conciosiaché corre oggi tra’ nostri virtuosi un intollerabile abuso, ch’essi temerebbero di passar per novizi nella profession loro, se nell’esecuzione d’una sonata o d’una cantata, non vi cacciassero, bene o male, quanto sanno. E siccome ognun d’essi ha il proprio stile, avviene costantemente che un canto medesimo, eseguito da dieci virtuosi in dieci diverse sembianze apparisca, né più sia, quello che uscì della penna dell’autor suo. Ma il freno maggiore por si dovrebbe alle cadenze, per allontanar le quali del teatro basta, s’io non fallo, ciò che si è detto intorno al gorgheggio, e ciò che in questo paragrafo abbiamo osservato. Io non so ad altri che ne paia; ma quanto è a me, le cadenze son pure la più sazievol cosa ch’io mi possa udire. Nulla dicasi degli scorci di bocca e del brandire, che i cantanti fanno il capo, le braccia e ‘l resto della persona, nello stento che pruovano a cavar di gozzo que’ difficili passi, ond’è costume di formar le cadenze.

Cap. III.
Dello stile proprio di ciascuna parte della musica teatrale
§. I. Stile della sinfonia d’apertura

[Sez.III.3.1.1] Dopo avere co’ più necessari tratti delineato lo stile della musica teatrale, non ci crederemmo d’avere, quanto è in noi, promossa la perfezione di questa, se non iscendessimo a particolarmente favellare dello stile proprio della sinfonia d’apertura, de’ recitativi e delle arie, parti in cui questa musica è comunemente divisa.

[Sez.III.3.1.2] Ebbevi una città, non mi ricorda ben dove, nella quale tutte le porte erano d’una grandezza, e d’un disegno medesimo, senza riguardo alcuno alla qualità degli edifìzi. Era questa uniformità avvenuta perché nella fondazione di quella città la porta del primo edifìzio, che fuvvi eretto, parve sì bella, e sì garbeggiò a que’ buoni uomini, che ciascuno a furore prese ad imitarla. Il maestro di cappella, che attualmente legge queste nostre osservazioni sulla musica teatrale, ride della dabbenaggine di que’ cittadini.

… Quid rides? mutato nomine, de te
Fabula narratur.

[Sez.III.3.1.3] Per quanto diversi tra loro sieno i drammi, che voi prendete a mettere sotto le note, tutte le sinfonie, che a quelli servono d’apertura, sono sempre battute al conio medesimo: non falla mai ch’esse non sieno un solennissimo strombettio, composto d’un allegro, d’un largo e d’un balletto.

[Sez.III.3.1.4] Pure se i nostri compositori avessero consultate le leggi del buon gusto, appreso avrebbero in quel codice prezioso, che la sinfonia aver dee connessione col dramma, e segnatamente colla prima scena. Così esempigrazia nell’Alessandro nell’Indie del Metastasio aprendosi la scena colla fuga del disfatto esercito di Poro, la sinfonia non dovrebbe contenere che un presto bellicoso: un allegro sul modello di quelli delle nostre sinfonie starebbe ivi a pigione, e molto più a pigion vi starebbe un largo o un balletto. Che direbbe quel largo? Forse che que’ meschini prendessero un po’ di respiro? E il balletto vorrebbe invitar forse que’ fuggitivi a una danza? Per opposto la prima scena dell’Achille in Sciro presentando festive schiere di baccanti, che con allegre danze celebrano le feste del loro Dio, non richiede altra apertura che un balletto.

[Sez.III.3.1.5] Vuol dunque l’apertura avere intima connessione colla prima scena del dramma. Altri ha voluto64 che fosse un compendio del dramma. Io non intendo come un simil compendio possa essere eseguito in una sinfonia d’apertura. Ma quando io pur si potesse, in tal compendio sarebbe forse bene accolto nel fine dell’opera, perché richiamerebbe alla memoria la già terminata azione; ma posto all’apertura del dramma io non so quale applauso sarebbe in dritto d’esigere. In oltre saria per lo più così sconnesso, come sono le nostre sinfonie a cui in pena della loro sconnessione si vogliono sostituire sì fatti compendi, essendo sempre l’affetto che regna nella prima scena, diverso da quello che regna nell’ultima. Rechiamo in mezzo un esempio in pruova di nostra asserzione. L’Antigono è un dramma di lieto fine. L’apertura dunque, che compendiar dovrebbe quel dramma, lietamente anch’essa terminerebbe. E questo allegro come connetterebbe mai colla prima scena che gli succede, e che principia co’ pianti e co’ lamenti di Berenice?

[Sez.III.3.1.6] Dee però il compositore aver sempre l’occhio all’esito del dramma; e qualora il principio sia lugubre e l’esito lieto, come appunto avvien nell’Antigono, l’apertura non vuol essere malinconica a segno che dia sospetto di tristo fine nella favola.

§. II. Stile de’ recitativi

[Sez.III.3.2.1] Il maestro di cappella non si dà gran pena attorno a’ recitativi, persuaso ch’essi non possono a verun patto dilettar gli uditori. Ma egli va errato. Se gli uditori si annoiano d’uno stile recitativo, cotal noia non procede dalla natura di questo stile, ma dal poco studio, che fanno sopra di esso i moderni maestri di cappella. Deh non si abbiano a male, che uno ch’è sommamente affezionato alla loro professione, e che prenda un sincero interesse nella lor gloria, sì francamente per loro vantaggio ragioni. Se essi sullo stile che fa la materia di questo paragrafo, facessero quelle riflessioni che soleano fare i nostri antichi compositori, dalle quali dié loro Jacopo Peri sì belli esempi65, essi vi discernerebbero una certa grazia nativa e dilicata, che ha talvolta renduto un recitativo superiore a qualunque più sudato duetto.

[Sez.III.3.2.2] Per rendere adunque un recitativo melodioso insieme e spiegante, il compositore osserverà primieramente che nel ragionare non solamente ad ogni parola noi assegniamo particolar tuono, ma a tutte le sillabe ancora di ciascuna parola. In oltre ogni parte d’un periodo ha il suo tuono particolare. Un tuono indica il principio d’un periodo, un altro il suo fine, un terzo è sospeso, e ne avvisa altro esservi ancora ad ascoltare. Né ogni punto che termina il periodo ha una cadenza medesima. Altramente noi terminiamo un punto finale, dopo il quale nulla ci resti da aggiugnere, altramente uno che sol divida l’un periodo dall’altro, altramente un ammirativo o un interrogativo. Di più, ogni passione ha i suoi modi, le sue inflessioni, i suoi tuoni, e un discorse medesimo secondo le diverse disposizioni dell’animo sarà diversamente pronunziato.

[Sez.III.3.2.3] Baderà in oltre a distinguere nel verso le sillabe, che hanno l’accento acuto, da quelle che lo hanno grave, per dare all’une non solamente note più acute, ma ancora più lunghe che a queste: giacché nella poesia italiana ogni sillaba acuta è anche necessariamente lunga, ed ogni grave necessariamente breve66. La poca attenzione che i compositori danno al metro delle sillabe, non solo fa che la lor musica distrugga ogni poetica armonia, ma ancora che trasformi i termini; obbligando talvolta a dire aníma, barbáro, invece di ánima, bárbaro, e per contrario dólore, ámico, in luogo di dolóre, amíco.

[Sez.III.3.2.4] Osserverà poi, che non tutto in un discorso è proferito colla posatezza medesima: quel passo ha bisogno di movimento, questo d’una lentezza più che ordinaria. Darà alle pause il valore che ad esse conviene, non facendole tutte d’una durata, né seguendo ciecamente la scorta de’ punti, delle virgole e degli altri segni di riposo, che noi adoperiamo nella scrittura; attesoché non di rado avviene, che un passo non ammetta interrompimento di stromenti, non ostante che vi si trovi alcuno di que’ segni. Componeva un maestro di cappella un recitativo obbligato. Quando egli giunse a questi versi:

Ah, giusti Dei, non fate,
Ch’io più soffra così,

il buon maestro fra l’un verso e l’altro segnò una lunga pausa, introducendovi un motivo di stromenti. Invano fu a lui amichevolmente rappresentato, che il senso non amettea sì fatta interruzione, e ch’egli da sé medesimo si potea ben’ accorgere quanto mal sonasse quello «Ah, giusti non fate» condannato a stare sì lungamente sospeso. Ma si ebbe un bel dire: il maestro stette saldo, allegando che la virgola gli permettea quell’interrompimento. V’ha per contrario de’ luoghi, che hanno bisogno di qualche pausa, sebbene non abbiano verun segno di punteggiatura.

[Sez.III.3.2.5] Baderà ancora il compositore a conservar nella musica il numero e la cadenza del verso. Avvi de’ compositori, che distruggono sì fattamente ogni traccia di verso nella poesia, ch’essa diviene una prosa pretta e sputata: e così la loro musica annienta, in vece d’avvalorare, come suo uffizio sarebbe, il poetico numero.

[Sez.III.3.2.6] Baderà finalmente a dare tal musica a ciascuna parola, che questa si possa pronunziar netto e chiaramente, evitando il fallo di taluni, i quali sì scomoda musica adoprar sogliono, che il povero cantante è obbligato suo malgrado a pronunziare sì fattamente le parole, ch’egli ha più bisogno d’interprete, che se cantasse un’ aria tartara o moresca.

[Sez.III.3.2.7] Se con tali avvertenze i nostri maestri si porranno alla composizione de’ recitativi, questi diverranno vari e interessanti; ed unita alla naturalezza avranno quell’energia, che il fuoco d’una passione suol comunicare a un discorso.

[Sez.III.3.2.8] Bellezze ancor più spiccanti ha il recitativo obbligato, ove si usi a luogo e tempo, non già come talvolta fanno i nostri compositori, i quali non avendo mai pensato al fine del recitativo obbligato, lo adoperano, come suol dirsi, a occhio e croce. Adunque il recitativo obbligato conviene a un personaggio pensoso; perciocché quando alcuna grave circostanza ci metta in pensiero, noi sogliamo di tempo in tempo interrompere il nostro silenzio, con profferire per distrazione qualche parola, quasi parlassimo con altrui. Questo è a maraviglia espresso dal recitativo obbligato, il quale, dopo aver fatto dire poche parole all’attore, lo fa tornare al silenzio e alla considerazione delle attuali sue circostanze, sostituendo alla di lui voce il suono degli strumenti. Per questa ragione una tale spezie di recitativo è propria del soliloquio, il quale, figurando appunto il discorso di persona cogitabonda, non va profferito seguitamente, e quasi d’un fiato, ma a spezzoni e diradato dal motivo dell’orchestra; avvegnaché troppo inverisimil sarebbe, e contro l’intenzion del poeta, che un personaggio pronunziasse così fil filo un soliloquio.

[Sez.III.3.2.9] Ma quanto quel recitativo si affà al soliloquio, altrettanto disconviene a’ dialoghi, i quali niuna sembianza avrebber di vero, se fossero pronunziati colla lentezza, e cogl’interrompimenti d’un recitativo obbligato. Si posson nondimeno dar talvolta de’ rincontri, ne’ quali, tutto all’opposto di quanto si è detto, il recitativo obbligato convenga a un dialogo e disconvenga a un soliloquio. Di che colla scorta degli stabiliti princìpi potrà un accorto maestro agevolmente avvedersi.

§ III. Stile delle arie

[Sez.III.3.3.1] Oltre a queste avvertenze, le quali possono essere utili alla composizione delle arie, non meno che de’ recitativi, alcune altre fa mestieri che qui se ne aggiungano, che le arie singolarmente riguardano.

[Sez.III.3.3.2] E primieramente le arie teatrali non soffrono le tante repliche d’alcune loro parole e d’alcuni loro versi, come vezzo suol essere de’ nostri compositori, i quali con una disordinata ripetizione delle medesime parole fanno d’una brevissima aria una lunghissima filastrocca. Quel tanto ripetere vocem prodigaliter unam oltre al raffreddare il sentimento colla svenevolaggine sua, talvolta non ha significato alcuno, e tal altra prende un significato tutto opposto a quello che hanno le medesime parole nell’ordine, che ad esse assegnò il poeta.

Pensa oramai per te s’hai fior d’ingegno

se queste ripetizioni, che tanto vanno a verso a’ nostri compositori, possono dar sostegno ed anche, se a Dio piace, aggiugner posto alle parole.

[Sez.III.3.3.3] Le persone di buon senso non condannano solamente le suddette repliche, ma le repliche altresì della prima parte dell’aria, e le introduzioni e ritornelli delle medesime; e sì vorrebbero che dal recitativo si passasse immediatamente alla prima, e dalla prima alla seconda parte dell’aria, e qui terminasse il canto, non discontinuato giammai da ritornelli. Quelle repliche e que’ ritornelli, oltre al peccare contro al verisirimile, non possono che rattiepidire ogni movimento dell’animo nostro.

[Sez.III.3.3.4] Molto più si guardi il compositore d’aggiugnere di suo capo la menoma paroluzza. Lo spettatore sdegna in sentire il maestro di cappella far del poeta. Senza che, tali aggiunzioni distruggono la misura de’ versi.

[Sez.III.3.3.5] Per ultimo, quando in un’aria s’incontrino parole appartenenti a passione diversa da quella che regna nell’aria stessa, queste parole vanno messe in musica nello stile medesimo in cui è composta tutta l’aria, non già in quello che converrebbe alla passione a cui esse appartengono. Per esempio, accade non di rado che in un’aria di furore si trovino le voci Caro, Figlio, ed altrettali amorose parole. Che fa l’inesperto compositore? Qualora s’avviene in tali parole sospende quello stile concitato che l’aria esigea, cangia tempo, minora la terza, e fa tutto quell’altro ch’egli crede attato ad esprimere la dolcezza di quelle parole. L’animo dello spettatore, che già coll’aria correva in furore, sentendoti arrestato sì d’improvviso, biasima non a torto il mal gusto del compositore che gli dà così intempestivamente questa sbrigliata.

[Sez.III.3.3.6] Non mancherà forse chi tema ch’io, colla tanta brevità e semplicità a cui cerco di ridurre le arie teatrali, non iscemi in vece d’accrescere, com’ è mio intento, la loro bellezza. Anzi però ch’io prenda ad assicurar costoro di questa lor temenza, volentieri intenderei da essi nel venire all’opera in musica qual piacere vi cercano: quello che nasce dalla mozion degli affetti o quel dell’udito, ancorché a costo del primo? Se si dichiarano per quello che ne deriva dalla commozione del cuore, l’unico sentimento che le più colte nazioni attesero in ogni tempo da’ teatri, questo esige quello stile energico e breve, che noi abbiamo finora insinuato: testimonio non la sola ragione, ma la sperienza altresì. Che se poi vengono al teatro per ricrear l’udito co’ ricercati artifizi del solo estetico musicale, il publico si potrebbe dispensar d’ora innanzi d’aprire i teatri. Basterebbe che a questi sostituisse publiche accademie di musica, le quali risparmierebbero a lui una gran parte delle considerabili spese che richiede il mantenimento d’un teatro. A che profondere tant’oro all’edifizio d’un teatro, agli abiti, alle macchine, alle scene? Tutto ciò contribuisce assai a trattenere la drammatica illusione, senza la quale né anche la passione drammatica può sussistere. Ma qualora non si attende questa dal teatro, tutto ciò diviene inutile.

[Sez.III.3.3.7] Io però ho molto migliore opinione della nazion mia. Io osservo frequentemente ch’ella si dà pensiero d’esaminare il libricciuolo, e lo condanna severamente, quando questo s’allontani dalle regole della drammatica e del verisimile; ch’ella condanna colla severità medesima il compositore, ove non adoperi una musica espressiva; ch’ella s’annoia di quegli attori che non accompagnano il canto con una convenevole azione. Richiede tutto ciò solo chi è tratto all’opera in musica dal piacer teatrale: chi da quel dell’udito vi fosse principalmente condotto, ben poca melanconia si darebbe di tutto questo. Non ha dunque la mia nazione rinunziato al buon gusto; ed io posso a buon dritto promettermi ch’ella mi saprà grado del richiamarle ch’io fò alla mente gl’immutabili precetti di quel supremo regolatore delle arti belle.

[Sez.III.3.3.8] La giustezza e il mirabile effetto di tai precetti è stato pur ora vantaggiosamente provato in mezzo a una delle più brillanti corti d’Europa. Parlo della corte di Vienna, nell’aulico teatro della quale fu menata la mentovata Alceste del dotto Calsabigi, messa in musica dal cavaliere Cristoforo Gluck. Questa musica è sì conforme all’idea qui espressa della musica teatrale, ch’io, osservata così ben intesa composizione, mi sentii inondar l’animo da un maraviglioso piacere, in considerando che mentre in questa estrema parte d’Europa io stendea un teorico saggio, ma debolissimo e breve, di quella musica, in altra parte un degno professore ne mostrava sì sensatamente la pratica. Siami dunque lecito d’autorizzare colle proprie parole di questo dotto maestro quanto abbiamo fin qui esposto della musica teatrale, e di accattare a me credito con una sì valevole testimonianza. Il passo è così bello, che l’essere un tal pocolino lunghetto non rincrescerà a’ miei lettori.

[Sez.III.3.3.9] «Quando presi (così egli nella lettera dedicatoria a S. A. R. l’arciduca Leopoldo, granduca di Toscana) a far la musica dell’Alceste, mi proposi di spogliarla affatto di quegli abusi, che introdotti o dalla mal intesa vanità de’ cantanti o dalla troppa compiacenza de’ maestri, da tanto tempo sfigurano l’opera italiana, e del più pomposo e più bello di tutti gli spettacoli, ne fanno il più ridicolo e il più noioso. Pensai di ristringer la musica al suo vero uffizio di servire alla poesia per l’espressione e per le situazioni della favola, senza interrompere l’azione, o raffreddarla con degl’inutili superflui ornamenti, e credei ch’ella far dovesse quel che, sopra un ben corretto e ben disposto disegno, la vivacità de’ colori e il contrasto bene assortito de’ lumi e dell’ombre, che servono ad animar le figure senza alterarne i contorni. Non ho voluto dunque né arrestare un attore nel maggior caldo del dialogo, per aspettare un noioso ritornello, né fermarlo a mezza parola sopra una vocal favorevole, o a far pompa in un lungo passaggio dell’agilità di sua bella voce, o ad aspettar che l’orchestra li dia tempo di raccorre il fiato per una’ cadenza. Non ho creduto di dovere scorrere rapidamente la seconda parte d’un’aria, quantunque forse la più appassionata ed importante, per aver luogo di ripeter regolarmente quattro volte le parole della prima, e finir l’aria dove forse non finisce il senso, per dar comodo al cantante di far vedere, che può variare in tante guise capricciosamente un passaggio; insomma ho cercato di sbandire tutti quegli abusi contro de’ quali da gran tempo esclamavano invano il buon senso e la ragione.

[Sez.III.3.3.10] Ho immaginato che la sinfonia debba prevenir gli spettatori dell’azione che ha da rappresentarsi, e formarne per dir così l’argomento; che il concerto degl’istrumenti abbia a regolarsi a proporzione dell’interesse e della passione, e non lasciare quel tagliente divario nel dialogo fra l’aria e ‘l recitativo, che non tronchi a contrasenso il periodo, né interrompa mal a proposito la forza e il caldo dell’azione.

[Sez.III.3.3.11] Ho creduto poi, che la mia maggior fatica dovesse ridursi a cercare una bella semplicità, ho evitato di far pompa di difficoltà in pregiudizio della chiarezza; non ho giudicato pregievole la scoperta di qualche novità se non quanto sulle naturalmente somministrata dalla situazione e dall’impressione; e non v’è regola d’ordine, ch’io non abbia creduto doversi sacrificare in grazia dell’effetto».

[Sez.III.3.3.12] Tanto egli s’è prefisso, e tanto ha maestrevolmente eseguito. E se fosse stato anche più parco nelle repliche delle parole e nell’uso dagli stromenti, avrebbe fatta una musica teatrale totalmente secondo il mio cuore. Non pretenda però alcuno di chiamare ad esame sì fatto genere di musica avanti a un domestico cimbalo. In quel luogo una imparaticcia cantilena piacerà più assai che un capolavoro di musica teatrale: siccome a chi ne’ colori non cerca che l’armonia, darà più diletto una ben colorita bussola che un quadro di Raffaello. I colori di Raffaello e la musica di Gluck, quelli e questa destinati a servire all’espressione, vanno esaminati nell’azione. Solo allora si può giudicare se più diletti una bussola ben tinta che una tela animata dal pennello d’Urbino.

Sezione IV.
Della pronunziazione dell’opera in musica

[Sez.IV.0.0.1] Messo così in musica il libricciuolo, egli passa nelle mani de’ cantanti, perché vi aggiungano un’idonea pronunziazione. Veggiamo adunque nella sezione presente qual pronunziazione convenga all’opera in musica.

Cap. I.
Importanza della pronunziazione nell’opera in musica

[Sez.IV.1.0.1] Per pronunziazione io intendo l’arte d’esprimere co’ moti del corpo e colla modificazione della voce, i diversi sentimenti che si vogliono comunicare ad altrui67. Ella fa una parte dell’arte di persuadere, ed è quasi l’eloquenza del corpo68. Conciosiaché siccome l’eloquenza dello spirito consiste in un’avventuruosa scelta ed ordino d’idee, capaci di formare nell’animo altrui quelle disposizioni, che noi vi desideriamo, così l’eloquenza del corpo consiste in disegnare, dipingere e comunicar queste idee in tutta la loro energia e bellezza.

[Sez.IV.1.0.2] La pronunziazione adunque mette sotto i sensi quello che la parola presenta all’intendimento. E poiché ciò che fa impressione su’ nostri sensi, più ci muove che quello che va dirittamente allo spirito, perciò in questa consiste la parte più vigorose dell’arte del dire; se pur con Demostene non si voglia solo in essa far consistere tal arte. Infatti noi proviamo tutto dì, che un eloquentissimo discorso, ma insipidamente pronunziato, ci costringe a sbadigliare, e che al contrario un discorso mediocre, pronunziato maestrevolmente, ci par dettato dalla persuasione medesima69. Tali erano le aringhe d’Ortensio, le quali in publicandosi caddero di riputazione, e non più parvero quelle che aveano tante volte trionfato nella capitale del mondo, e ottenuto all’autor loro il primato tra’ romani oratori.

[Sez.IV.1.0.3] Le parole adunque hanno mestieri della pronunziazione, massimamente quelle destinate al movimento dell’animo70. Ciò basta a far comprendere quanto sia questa necessaria all’opera in musica. Il poeta e ‘l maestro di cappella, quando pure avessero composti de’ capolavori nelle loro arti, possono essere sicuri d’aver gittate al vento le opere loro, se gli attori non aggiungano ad esse una convenevole pronunziazione, senza la quale lo spettacolo, ben lungi dal muovere, infallibilmente ci tedierà. Perciocché chi parlando di cose interessanti con maniere ancora interessanti non le pronunzi, non ottiene da noi alcuna fede71 , perché la sua sconvenevole pronunziazione ci sia accorgere essere egli il primo a non credere sì fatte cose. E gli uomini non che s’annoino, ma si sdegnano anzi contro chi voglia spacciar loro per vero, ciò ch’egli medesimo faccia conoscere inverisimile.

[Sez.IV.1.0.4] Gli antichi erano ben persuasi di tal verità: appo di essi non v’era arte più necessaria della pronunziazione. In questa i Greci e i romani si esercitavano dalla loro più tenera fanciullezza: e adulti poi ne continuavano scrupolosamente l’esercizio. Bruto né pure nel campo di Farsalia l’omise72. Né altri creda, che si riservasse tal arte pe’ rostri o pe’ teatri; essi la stimavano sì necessaria anche ne’ familiari trattenimenti, che Platone la mise tra le civili virtù e Clistene tiranno di Sicione rifiutò Ipoclide ateniese, che aspirava alle nozze della figliuola, per essersi accorto non aver lui una molto dilicata azione. Sulle stesse cattedre delle scienze, ove parrebbe men necessaria che altrove, essi richiedevano quest’arte; e di Teofrasto particolarmente è fama, non essere e’ gli mai venuto in Liceo che non si fosse prima preparato ad accompagnare con espressiva pronunziazione, ciò che dovea far l’argomento di sue lezioni73.

[Sez.IV.1.0.5] Quanto poi fosse studiata dagli attori è chiaro non solo pe’ dotti volumi che in tal materia scrissero Glauco di Teo, Quinto Roscio ed altri di essi, ma da ciò ancora che i due fulmini d’eloquenza, Demostene e Cicerone, a due attori doveano in buona parte la forza della loro trionfatrice persuasione. Il romano oratore, certo dell’utilità che un dicitore avrebbe potuto trarre dall’azione di Roscio74, era solito d’esercitarli con questo istrione; e mentre egli in differenti medi s’ingegnava di spiegare un medesimo sentimento, ammirava ed apprendea l’arte di quel commediante, il quale, tenendo il fermo nella gara, con altrettanti diversi gesti il medesimo sentimento esprimea75. Quanto a Demostene, s’egli tonava, se co’ fulmini di sua eloquenza scompigliava la Grecia intiera, egli era debitore di sì felici successi a un altro attore. Ogni volta che si espose in Atene a parlare in publico non riportò che fischiate da quel popolo di squisito gusto ed insolente, finattantoché sì dolorose ammonizioni nol condussero ad apprendere l’arte della pronunziazione dell’attore satiro76. E d’allora in poi, convinto dalla propria e ben umiliante esperienza, e dal giudizio d’un popolo dilicato, nella sola pronunziazione stimò (come fu detto poc’anzi) che consistesse tutta l’arte dell’oratore.

[Sez.IV.1.0.6] Ma in oggi tal arte è in un estremo dichinamento. I nostri oratori sdegnano d’accordarle una seria occupazione, e i chironi della gioventù nostra non ebbero mai pur sospetto, che un’arte sì fatta dovesse impiegare una parte del tempo destinato all’educazione. Qui però non di costoro, ma degli attori dell’opera in musica va a noi talento di ragionare; e forte ne chiameremmo per contenti, se loro giugnessimo a persuadere l’importanza della pronunziazione. Gl’istrioni de’ drammi recitati danno a questa qualche attenzione; ma i cantanti de’ drammi in musica sono in questo particolare sì negligenti, e fanno degli atti sì sconvenevoli e mal graziosi, ch’è pure un fastidio a vedergli. Ciascuno de’ nostri arioni, quando abbia messo la sua tenera gorgozza in istato di disputare la palma del canto agli usignoli, crede d’aver fatto quanto è il pregio dell’opera e di potere legittimamente aspirare agli applausi del publico. Ma va fallito; e il suo inganno non pregiudica meno alla sua riputazione che allo spettacolo. Perciocché il publico riserba a gran dritto i suoi più vivi applausi a coloro, che accoppiano al canto una energica pronunziazione; ed egli a consacrati nel tempio di memoria i nomi dell’Acquino, di Catterina Aschieri, del Nicolini, della Tesi, perché sopra gli altri si distinsero in quest’arte.

[Sez.IV.1.0.7] Finché i musici si rimarranno nel loro errore, e finché i direttori de’ teatri non gli obbligheranno a deporlo, l’opera in musica non recherà che noia, per evitar la quale lo spettatore si dà a cicalare, a render visite ne’ palchetti, a cenarvi ed a giocarvi, ch’è peggio. Ciascuno, entrando nel teatro, in udirlo muggire come un mare burrascoso, in vederlo convertito in osteria e in bisca, condanna a gran ragione sì notabili abusi. Ora io ardisco di pronunziar francamente, che per qualunque forza sovrana tali abusi non cesseranno, finché i cantanti non sieno obbligati a una perfetta pronunziazione. Perché di grazia i mentovati abusi nacquero ne’ teatri d’opere in musica, e non in quelli di drammi recitati? Ognuno, che sia capace della menoma riflessione, converrà con noi che ciò sia proceduto dalla pronunziazione più negletta in quelli che in questi.

Cap. II.
Della pronunziazione propria dell’opera in musica
§ I. Del gesto

[Sez.IV.2.1.1] Per vedere ora qual sia la pronunziazione di cui abbisogna l’opera in musica, la considereremo relativamente al gesto e alla voce, che sono i due oggetti di quest’arte.

[Sez.IV.2.1.2] Gesto è il movimento di qualunque parte del nostro corpo, cagionato dal sentimento attuale dell’anima. Mal dunque alcuni restringono il gesto al moto delle braccia. Si può gestire col capo, cogli occhi, col piede e con qualunque altro delle nostre membra.

[Sez.IV.2.1.3] Si divide il gesto in imitativo, indicativo ed affettivo. Gesto imitativo è quello che contraffà il moto o la figura d’una cosa; come qualora, parlando d’un orgoglioso personaggio, alziamo il capo, sporgiamo il petto in fuori, e passeggiamo con andatura misurata e grave, o quando si parli d’una guanciata e si scagli la mano, come se in effetti se ne volesse avventare una allora allora. Gesto indicativo è quello che dimostra dov’è la cosa di cui si ragiona, o dove se l’immagina chi gestisce. Questa sorta di gesto induce lo spettatore a volgersi verso là, dove sono diretti gli occhi e le mani del gesteggiante. Il gesto affettivo è quello che dimostra la passione, che in quel punto possiede chi l’adopera. Così un adirato ringhia, e dà del piede in terra. Ma perché a questa spezie di gesto fu dato il nome d’affettivo, non perciò si dee credere, che le due antecedenti spezie non servano alle passioni. Ogni spezie di gesto può essere affettiva: e si è questa denominazione ristretta all’ultima delle annoverate, perché questa più propriamente delle altre caratterizza le passioni.

[Sez.IV.2.1.4] Or a quale di queste spezie che si appartenga un gesto, egli dev’essere nell’opera in musica sempre congiunto alla gravità e al decoro, che conviene alla sublime qualità de’ personaggi del dramma; e quel sentimento, che non può esser rilevato con gesto nobile e grave, si proferisca senza gesto alcuno, anziché avvilirlo con uno svenevole o mimico.77 Tanto più, che talvolta è un espressivissimo gesto il non far gesto alcuno e rimanere immobile. Di qui è, che il gesto imitativo vi vuol essere parchissimamente adoperato, da che, pizzicando molto del giocolare, più proprio è della commedia che della tragedia. Né a torto Aristotile si ride di que’ coristi de’ suoi dì, i quali se cantavano di Scilla che traea le navi, afferravano il corifeo, e lo strascinavano per mezzo al proscenio.

[Sez.IV.2.1.5] Affinché però il gesto abbia quel maestoso, ch’è dovuto alla tragica azione, esso richiede nel personaggio una vantaggiosa statura. Perciò i Greci e i Romani rilevavano col coturno la statura de’ tragici attori. Lungi dall’eroica scena, le persone cui fu negato sì fatto dono. Esse al più possono aver luogo nelle opere comiche musicali: la tragica gravità, male a lor converrebbe. Quindi la provvida natura, che adatta i talenti dell’animo a quelli del corpo, dà il più delle volte a costoro un umor brioso e festivo, come alle persone d’alta statura suol dare un grave e serioso carattere.

[Sez.IV.2.1.6] In oltre non si pretenda di gesteggiare ogni cosa nell’opera in musica, ancorché nobilmente e con dignità si possa farlo: tale armeggio sentirebbe del pedante e dell’affettato. Callipide, tuttoché valoroso istrione de’ tempi d’Alcibiade, per non si essere abbastanza guardato da somigliante difetto sul teatro d’Atene, incorse sì fattamente nello scherno di quel popolo dilicato, che il suo nome, passando in proverbio, cominciò a dinotare un affannone, un faccendiere; proverbio, che, passando di Grecia a Roma, asperse di sua salsezza lo stesse Tiberio, chiamato Callipide, pe’ gran preparativi di viaggio, che ogni anno facea, senza mai partir da Roma78.

[Sez.IV.2.1.7] Fermianci adesso alquanto più particolarmente sul gesto affettivo, siccome quello, ch’è il più nobile, il più eloquente e che fa il trionfo d’un discorso, imprimendolo con forza nel più sensibile dell’anima. Ogni altra spezie di gesto può talvolta occupare una sola parte del nostro corpo, ma l’affettivo l’occupa tutto; attesoché ciascuna passione dà un’aria, un contegno particolare all’intera macchina dell’appassionato. La tristezza per esempio inchina il capo, incurva le spalle, gela l’occhio, gli serra intorno e restringe le ciglia, spenzola le braccia e indebolisce le ginocchia, ch’esse appena sostengono la persona. La rabbia al contrario reca una rigidezza sorprendente alle braccia, alle gambe e al resto del corpo. Gli occhi scintillano, i denti digrignano e la soverchia rigidezza rende le membra tremanti e come paralitiche. Adunque nel gesto affettivo va data norma a tutto il corpo; avvertendo però nel tempo stesso, che per voglia di troppo esprimere, non si dia in ismorfie e in discompostezze.

[Sez.IV.2.1.8] Il gesto affettivo è più facile nelle gagliarde passioni che nelle moderate; e però i primi e i secondi attori riescono in questo gesto più agevolmente che i terzi e i quarti, perché tutto il patetico del dramma, è appoggiato sulle prime parti e sulle seconde. Le altre non hanno se non quella passione, che nasce dalla consapevolezza dell’altrui buona o rea fortuna, o dall’essere apportatore dì felice o di trista novella: passione limitata, che con termine dell’arte si chiama mezza passione. In questo stato è ben malagevole imbrecciar giusto. Per lo più l’attore o si affanna e si arrabatta più che non richiede la sua parte, e dà da ridere a sue spese, o si comporta men caldamente che non converrebbe, e gli spettatori si annoiano di quella melensaggine. Dal che si vede, che quanto meno interessanti sono gli attori, tanto più deve essere in essi perfetta la pronunziazione. Pure in oggi si pratica il contrario: i direttori de’ teatri e gl’impresari poco pensiero si danno delle ultime parti. Onde poi avviene, che quando la scena non è occupata da’ primi attori, lo spettatore sbuffa di tedio, perché gli altri attori non possono essergli a grado né pel canto, né per la pronunziazione.

[Sez.IV.2.1.9] Chiudiamo questo paragrafo con qualche riflessione sul gesto muto. Il gesto muto è quello che non è accompagnato dalla parola. Esso appartiene particolarmente all’attore qualora lasci di parlare per ascoltar l’altro che prende la parola. Deve egli allora badare attentamente a colui che di presente tiene discorso, e mostrare col gesto l’impressione che fanno nell’animo suo le parole di lui. La quale obbligazione di badare a chi parla e di gestire, non è solamente di quello attore a cui è diretta la parola, ma è obbligazione di tutti gli attori che sono in iscena. Tutti ne’ loro gesti muti debbono mostrar la ragione, che gli costringe a facete, e le diverse emozioni che fa sperimentare a ciascun di loco colui che parla.

[Sez.IV.2.1.10] Il saper ben tacere è più difficile assai che il parlar bene; e però non è maraviglia, che meno persone il sappiano fare. Un attore quando ha finito di dire il fatto suo, si dà a credere non essere egli ad altro tenuto, finché parli il compagno. Onde, senza fare la menoma attenzione al discorso di questo, si dà o a passeggiare a dilungo, o a sbirciare per la platea e pe’ palchi, e a dispensare, come segnalatissime grazie, saluti e ghigni. O pure crede quello il tempo di rassettarsi il guanto, di tirar giù la cravatta, o peggio, di soffiarsi il naso e di sputare. Deh quando giugneranno essi a sapere, che tutte queste libertà ch’è si danno sono tutti falli contro le buone creanze, e tanti mancamenti di rispetto verso gli spettatori? I principi stessi si astengono in pubblico da tali libertà, per non dar segni di disprezzo79 : pensate poi se un attore. Egli quando tace debbe aver gli occhi o a quello che parla, o dove gli esige la passione e ‘l discorso altrui, e non muoversi, se non come queste ragioni il richiedono.

[Sez.IV.2.1.11] V’ha de’ gesti muti energici oltre a qualunque parlante, a’ quali se si aggiugnesse la parola perderebbero tutta la loro forza. Questa sola riflessione dovrebbe determinare gli attori ad accordare più attenzione che non fanno al gestir muto, col quale essi possono talvolta toccarci il cuore assai più profondamente che con gesto sostenuto dal valore della poesia e del canto.

§ II. Della voce

[Sez.IV.2.2.1] Quanto alla modificazion della voce, è quest’arte più necessaria agli attori di drammi recitati, che a quelli d’opere in musica: il maestro di cappella, assegnando il tempo e ‘l tuono ad ogni sillaba del dramma musicale, ha liberati questi ultimi da sì fatte sollecitudini. Non per questo però si creda, che nulla resti da badare al cantante. Ciò che sono le note per essi, è la coregrafia pe’ ballerini, come ben notò l’Algarotti. Ma tuttoché la coregrafia prescriva il tempo, i passi, i giri, ciò nulla ostante tocca al ballerino a dare a’ passi e a’ giri quelle grazie che sono come l’anima d’una danza. Veggiamo adunque ciò che in questa parte della pronunziazione esiga il popolo dalla diligenza d’un cantante.

[Sez.IV.2.2.2] I. Deve in prima il cantante apprendere a parlar bene la lingua in cui canta, sotto pena d’essere cuculiato a doppio, se la parli come facea la buona femmina della mamma nel dialetto del suo paese.

[Sez.IV.2.2.3] II. Egli dee proferir netto e intieramente tutte le parole, e non cavarle scodate e languide, com’è pur vezzo di molti. Il che facea dire a uno della loro professione, che si fidava di cantar sulla scena un pezzo della gazzetta corrente, senza che persona se ne avvedesse. Sarebbe desiderabile che questi virtuosi avessero una volta fitto in capo, che ciò che essi cantano debb’essere inteso senza il menomo stento e senza mestieri di libricciuolo. Quella recitazione, che per essere intesa ha bisogno d’esser letta, è dal Salvini80 graziosamente paragonata a quelle rozze pitture degli antichissimi tempi, ne’ quali, per testimonio d’Eliano, facea d’uopo di scrivere sotto alla figura: “Questo è un cane; Questo è un cavallo”.

[Sez.IV.2.2.4] III. Dee far sentire il numero della poesia, e non dar nel farnetico d’alcuni, che si affannano a credenza, per estinguere ogni sentore di verso ne’ drammi.

[Sez.IV.2.2.5] IV. Dee diversificare la voce e ‘l canto, secondo i diversi sentimenti. Tal espressione esige tutto lo sforzo della voce, tal altra una voce dimessa. Quel passo vuol movimento, questo vuol gravità e posatezza81.

Sedato fatur quisquis deliberat ore :
Seu dat consilium Sullae, privatus ut altum
Dormitet82 ; sive ad Cannas vetat obvia Poenis
Signa movere, ducem dum portat bellua luscum 83.
Non ita Marcellum reducem gratabere Tulli,
Et super astra feres victoris scita benigni
Laudator; si quae ratio mollissima fandi,
Utere, ut augustas melius vox mulceat aures.
Quod praedatorem Siculum si forte lacessis
Increpitans; vel si Catilinam extrudere Roma
Est labor; aut contra Pisonem censor acerbus
Bellua nonne vides? nonne sentis bellua? clamas:
Illecebrosa procul laudantis mella Suadae:
Vox inflata placet, rauco pene aemula cornu. 
P. J. Lucas, Actio Oratoris, lib. II

[Sez.IV.2.2.6] Ma gli eunuchi non possono eseguire sì fatti precetti. Essi mentre vogliono comandare, adirarsi o ripigliare, mandano fuori una voce femminile, che in quell’incontro muove non a timore, ma a riso. Una tal voce ben conviene al sesso delle donne, il quale, perché inerme, ottenne una voce molle e delicata, comoda alle lusinghe, a’ vezzi, alle preghiere, le sole armi di chi non ha in mano il dominio e la forza. Ma il sesso destinato a comandare sortì una voce piena, autorevole, maestosa, propria a sottomettere gli animi, propria a ordinare, riprendere, rampognare. Ora il teatro sovverte questo bell’ordine; e gli alessandri, gli scipioni, i cesari delle nostre scene dispongono del destin della terra con una voce che muove invidia nelle italiane fanciulle. E non sarà questa riputata una grave improprietà, una intollerabile inverisimiglianza? So che molti non saran per entrare in queste avviso, e che avranno per rovinato lo spettacolo, se se ne allontanino gli eunuchi. Ma se costoro credono che si possa trovar piacere dov’è inverisimiglianza, io, ciò nulla ostante, ho per fermo che l’Italia non ha sì presto dimenticato un Buzzoleni, un Fabri, un Babbi, e tanti altri eccellenti tenori, i quali riscossero sulle scene quegli applausi, che forse non ebbe mai alcuno de’ nostri soprani, e che certamente furono più ragionevoli, e più meritati che non quelli dati a costoro. Non vo’ mettere in considerazione il danno che l’evirazione cagiona allo stato, l’oltraggio ch’ella reca all’umanità, l’ingiustizia che commette verso tanti infelici, de’ quali, riuscendo appena uno tra cento, gli altri vengono abbandonati a una obbrobriosa miseria. Non sono tali considerazioni da questo luogo. Altro qui non si vuol rilevare, che l’inverisimile, che nasce dall’addossare ad eunuchi parti da uomo: essi al più possono essere impiegati a rappresentar donne.

[Sez.IV.2.2.7] E fin qui basti della pronunziazione propria dell’opera in musica. Possono ancora gli attori trarre del vantaggio da’ libri che quest’arte particolarmente insegnarono84. È però la pronunziazione una di quelle facultà, che non si può appieno insegnare in iscritto85. Perciò, dopo avere esposto i primi rudimenti di questi arte, entriamo nel capo seguente ad additare agli attori altri mezzi, che menar possono all’acquisto di questa pronunziazione che al nostro spettacolo conviene.

Cap. III.
De’ mezzi d’acquistare la bella pronunziazione

[Sez.IV.3.0.1] Il primo mezzo, e per avventura il più efficace, si è l’esame del proprio temperamento. Tutti gli uomini, siccome nelle sembianze, così differiscono ancora nel parlare e nel gestire. Ciascuno ha in ciò una maniera sua propria, la quale, ove sia giudiziosamente adoperata, è sempre più bella di qualunque studiata e artifiziosa pronunziazione. Più delle copiate vagliono le grazie originali; e chi trascura di coltivarle rimarrà sempre tra lo stuolo servile degl’imitatori86.

[Sez.IV.3.0.2] Non già ch’io disapprovi l’imitazione, quando vada unita alla coltura delle grazie naturali. Anzi, l’imitazione de’ grandi attori è un mezzo efficacissimo di giugnere alla bella pronunziazione: nulla essendo tanto naturale agli uomini, quanto il contraffare quelle maniere di parlare e di gestire, che osservano in altrui. Così Eroe a’ tempi di Cicerone divenne eccellente, imitando Roscio. Così Baron, il degno discepolo di Molière, si rendé celebre imitando questo Roscio francese. Ma però l’Imitazione mestieri di non picciolo discernimento, per non imitare anche i difetti: ne’ grandi uomini non tutto è grande.

[Sez.IV.3.0.3] Le opere di scultura e di pittura somministreranno a un attore intelligente un altro secondo mezzo. I modelli che offrono agli occhi di lui queste due belle arti, sono per lo più perfettissimi, come quelli che presentano i gesti più energici e più nobili. Mercecché, non potendo l’artista dare che un solo gesto alla sua figura, egli fa consistere la sua principale attenzione in isceglier quello che meglio esprima la passione dell’eroe della sua opera, e che, secondo il precetto dell’Albani87, spieghi non solo ciò che il personaggio allora fa, ma quello ancora che ha fatto, e quello ch’è per fare. E quest’unico gesto è talora sì felicemente assortito, che la sua impressione scende fino al più profondo e al più sereno dell’animo. Chassé, il migliore attore che oggi fiorisca in Francia, deve la sua bella pronunziazione a’ gran modelli di pittura e di scultura, da lui con diligenza esaminati88.

[Sez.IV.3.0.4] Che non imparerà dunque un attore intelligente da que’ miracoli del greco scalpello che giunsero fino a noi, e dalle sculture di Michelagnolo, del Bernini, del Girardon, del Puget, e d’altri moderni emuli di Fidia e di Prassitele? Inestimabili tesori serbano ancora per lui le opere di quelli tra’ nostri pittori, che più nell’espression si distinsero, come son quelle della scuola romana, educata tra le opere degli antichi. Le pitture particolarmente del divin Raffaello vanno tant’oltre in questo genere, ch’io non so chi vi sia che gliene possa contendere il primato. Ma per opposto la scuola veneziana, la lombarda e la fiaminga, perdute dietro essa vivacità del colorito, spesso trascurarono l’espressione: ond’esse non vanno inconsideratamente prese per modelli d’una nobile pronunziazione.

[Sez.IV.3.0.5] Ciò che la scultura, e la pittura offerisce agli occhi nostri, la storia e la poesia offeriscano alla nostra immaginativa; e però la lettura degli storici e de’ poeti può ancora giovar molto a un attore.

[Sez.IV.3.0.6] Ma la sorgente più feconda per lui sarà il commercio del mondo, teatro d’ogni passione e d’ogni carattere. Nondimeno, siccome pochi tra questi convengono alla tragica dignità, è necessario che l’attore prenda di mira particolarmente i personaggi d’alto affare. Il mentovato Baron solea dire, che un attore dovrebbe essere stato allevato sulle ginocchia delle regine.

[Sez.IV.3.0.7] Dappoi che l’attore avrà procurato di derivare da questi fonti la bella e l’eloquente pronunziazione, egli dovrà esaminare se vi sia ben riuscito, e in queste esame non fidarsi che de’ propri occhi e nel consiglio d’un ampio specchio. Queste fu il maestro di Demostene. Coll’aiuto d’uno specchio quel principe degli oratori apprese a imitare i gran modelli ed a perfezionare le sue naturali disposizioni.

[Sez.IV.3.0.8] Perché poi adatti elegantemente alla sua parte una pronunziazion così fatta, due condizioni si richieggono in un attore. La prima si è, che la sua immaginazione vesta bene il personaggio, che rappresenta. Qualora un attore abbia presente la condizione del suo personaggio, e le differenti situazioni per le quali passa nel corso del dramma, egli darà alla sua pronunziazione quella proprietà, quel decoro, che non si può in conto alcuno apprendere da’ precetti dell’arte89. Questo è il mezzo più efficace d’interessare gli spettatori. Entrando l’attore nella passione del personaggio che rappresenta, egli darà a questa il gesto e la voce che l’è dovuta; e mettendo sotto gli occhi nostri i segni del dolore, del timore, dell’ira, sarà sicuro d’attristare90, d’atterrire91, d’accendere a sdegno92 i circostanti. Gli animi umani sono come accordati in consonanza tra loro: non può uno mandar fuora il suo tuono, che tutti gli altri non si mettano in movimento.

[Sez.IV.3.0.9] La seconda condiziona si è che l’attore abbia bene impressa in mente la parte sua. Quando egli vada col pensiero sempre innanzi alle suo parole, adatterà a queste una naturale e spedita pronunziazione, prevedendo sempre qual voce e qual gesto dimandi il sentimento ch’è par proferire. Par opposto, chi non sa a quante sconvenevolezze induca una memoria infedele? Gli occhi si stralunano, la persona si dibatte, il volto, si smarrisce, la voce è incerta e vacillante. Interrogato il Bourdaloue a quale de’ suoi sermoni egli desse la preferenza – A quello che ho meglio a memoria - rispose il grande oratore93.

Sezione V.
Della decorazione dell’opera in musica

[Sez.V.0.0.1] Esercitati che sieno gli attori a pronunziare con dignità il melodramma, si vuole par ultimo che il luogo dell’azione sia convenientemente decorato. È la decorazione l’arte d’abbellire e rendere verisimile all’occhio il luogo dell’azione. Essa regola il vestimento, le scene, le macchine, e la struttura medesima del teatro.

Cap. I.
Del vestimento degli attori dell’opera in musica

[Sez.V.1.0.1] All’inventore degli abiti è conceduta maggior libertà, che non agli altri artisti dell’opera in musica. Nel vestire un personaggio greco o romano, egli noti dee così scrupolosamente seguire quella maniera di vestire usata dalle mentovate nazioni, come ce la rappresentano gli scrittori delle costumanze greche o romane, e i monumenti che ne rimangono delle medesime: da che que’ buon uomini vestivano sì positivo, che le’ loro fogge non potrebbero ammettere la vaghezza, che si richiede negli abbigliamenti delle opere musicali.

[Sez.V.1.0.2] Ma per evitare questo inconveniente egli si guardi d’incorrere in quell’altro più biasimevole ancora, di adoperare le mode d’oggidì. Talvolta per difetto d’invenzione una Fedra, o un Ippolito compariscono in teatro senza la menoma traccia di caratteristico vestimento, e sì sembrano due signorini sbarcati pure allora di Parigi, che gli spettatori non si possono contenere di dar loro del ben venuto.

[Sez.V.1.0.3] Adunque l’inventore degli abiti si tenga egualmente lontano da questi due scogli. L’abito del suo personaggio conservi sempre qualche aria, qualche che traccia del vestire adoperato dalla costui nazione, onde chi sia inteso degli usi di quella, ve gli possa discernere, e confessi l’abito rassomiglare a quello della nazione, del tempo e della condizione del personaggio drammatico. Ma il resto del vestimento va supplito con invenzioni vaghe e bizzarre. Queste giunte dell’inventiva dell’artista passeranno anch’esse per antiche fogge. Ma perché egli conseguisca sì fatto intento, conviene, siccome si è detto, ch’elle non sentano delle mode correnti; e tanto maggior lode acquisterà l’inventore, quanto più esattamente eviterà queste mode anche nelle minuzie, affinché il popolo, sempre inclinato a motteggiare e a sfatare, non dimandi (come pur troppo suole) se anche allora usavano i manichini e le cravatte d’oggidì, e (ch’è più leggiadra a vedere) le croci pendenti dalla gola delle donne. Così ancora qualche volta una cantatrice godrà di vestire un abito capriccioso quanto si voglia, e non mai veduto, ma quanto alla pettinatura ella non può soffrire bizzarria né invenzione, vuol essere pettinata come usano allora le nostre dame: anacronismo in vestitura, simile a quello che in pittura commise il Tintoretto, armando di fucili i Giudei in un suggetto di sacra storia.

[Sez.V.1.0.4] Insomma l’inventore degli abiti imiterà lo stile de’ ritrattisti, che conservando i principali lineamenti della persona che ritraggono, gli abbelliscono con altri non appartenenti a persona che viva, ma nati nella lor fantasia; e sì ne compongono il ritratto, che chi lo vede riconosca l’originale, ma si maravigli come abbia fatto il pittore a render bello chi realmente non è tale. Per questa via giunse il Tribolo94 all’immortalità, felicissimo, come dice il Vasari, nelle invenzioni delle vesti, de’ calzari, delle acconciature di capo, e di altri abbigliamenti; e per questa vi giunsero ancora il Frigeri, i due Canziani, e il Boquet, il quale de’ nostri dì si ha tanta gloria acquistata oltremonti colla sua fertile e graziose fantasia.

[Sez.V.1.0.5] Inventato il modo dell’abito, dee l’artefice porre attenzione alla scelta del colore, per soddisfare all’estetico dell’arte sua. Il colore degli abiti vuol essere diverso da quello della scena, ma sì che facciano insieme armonia. Se la scena è d’un colorito dilavato e tranquillo, i vestimenti saranno d’una tinta vivace e brillanti d’oro e d’argento. Ma se la scena sarà di color gagliardo e carico, le vesti dimandano una tintura sfumata e schietta, e ‘l loro ornamento non sarà l’argento e l’oro, ma la gentilezza e ‘l costume. Ove l’abito non differisca dalla scena nel colore, o differisca solo nel grado di densità, languirà l’uno e l’altra, e cadranno in quel genere di pittura che i maestri chiamano chiaroscuro, genere monotono e freddo. L’occhio perderà di vista i personaggi, subito che questi cesseranno di muoversi. Quanto è poi all’armonia, che dee risultare da’ colori degli abiti e delle scene, è già troppo noto che i colori hanno tra loro quel medesimo rapporto che passa fra’ tuoni d’uno stromento. Se nella composizione degli abiti non sarà consultato sì fatto rapporto, questi e le scene si pregiudicheranno scambievolmente, e l’occhio ne rileverà quel dolore che pruova l’orecchio in una dissonanza.

[Sez.V.1.0.6] Talvolta né pur basta che l’artefice abbia felicemente scelto il colore degli abiti, s’egli non bada in oltre a degradarlo, quando i personaggi fanno anch’essi parte della decorazione, nel quale caso non tutti egualmente si accostano agli spettatori, ma restano in differenti siti sul proscenio95. Una legge della visione, osservata esattamente dalla pittura, si è che quanto più un oggetto s’allontana, tanto più il suo colore ammortisce. Contro la qual legge se pecca l’inventore degli abiti, mettendo addosso a un personaggio lontano colori d’una vivacità eguale a quella che si vede addosso a’ vicini, que’ personaggi compariranno vicini anch’essi, a dispetto ed a biasimo dell’artista.

[Sez.V.1.0.7] Ad aiutar l’inventiva di lui gioverà non poco un festevole carnevale colla varietà delle sue maschere, ma soprattutto la considerazione delle buone opere di statuaria e di pittura, e particolarmente le statue e le pitture antiche, o, se moderne, di straniere persone, e nate in paesi o in tempi che non erano adottate le nostre fogge.

Cap. II.
Della scena dell’opera in musica
§. I. Della vastità della scena

[Sez.V.2.1.1] Del Peruzzi, valente pittore e architetto senese, narra l’Ugurgieri96 e ‘l Vasari97, che nel far le scene alla Calandria del Bibbiena fece comparire d’un’ampiezza maravigliosa quel picciol sito ch’esse occupavano, e i casamenti, le logge, le porte, le finestre, le cornici erano di sì bizzarra e stravagante invenzione, e sì nel tempo stesso comparivano vere, che con dolce inganno dilettavano gli occhi di tutti. Da questo elogio del Peruzzi si possono dedurre le qualità che si hanno a trovare in una scena, le quali a tre si riducono, e sono vastità, novità e verisimiglianza.

[Sez.V.2.1.2] La scena è il fondamento di quella piacevole illusione, onde lo spettatore è trasportato or al Campidoglio, or sulle rive del Nilo, né giardini di Ninive, o tra le tende dagli espugnatori di Troia. A questa illusione contribuisce la scena, facendo unità col dramma; e unità non farà mai con questo quando le manchino le tre annoverate qualità.

[Sez.V.2.1.3] Per principiare adunque dalla sua vastità, il dramma richiede che la scena ora presenti l’interno d’una reggia, ora un giardino, una piazza, una foresta ecc., tutte cose che esigono ben altro spazio che quello d’un proscenio, per grande che sia. Dovrà perciò il pittore posseder bene li segreto di far apparir vasto ciò che in realtà non è tale. La prospettiva è la maestra di tal segreto. Il pittor delle scene deve addimesticarsi con questa scienza, e farne il suo maggior capitale. Ella nacque sulle scene98e merita un perpetuo dominio del paese natio, siccome il dimostrarono gl’Italiani, che in ogni tempo l’ebbero in pregio, e che non solo la renderon nota a tutte le più colte nazioni, ma via via di nuove bellezze l’ornarono, come ultimamente fece Ferdinando Galli Bibbiena colle scene vedute in angolo, di cui egli fu inventore99. Le quali scene (che vanno discretamente adoperate) danno ben altra vastità al luogo dell’azione, e ben altro diletto a vederle, che quegli stradoni o quelle gallerie che vanno sempre diritte al punto di mezzo, e che nulla lasciano a immaginare a chi guarda.

[Sez.V.2.1.4] In fatto però di prospettiva procuri il pittore di destinare con diligenza le aperture, onde gli attori debbono uscire ed entrare, affinché la loro statura ben si accordi colla grandezza, e colla lontananza ch’egli assegna agli oggetti che compongono la scena; e sappia esser cosa quasi ordinaria alle persone del suo mestiere il dare in questo errore. Vedrai talvolta uscire un personaggio da un luogo, dove le statue colossali che vi sono dipinte non gli arrivano al ginocchio, o dove un monte appena gli aggiugne alla spalla, ch’è ti par uno di que’ giganti, i quali montagna sopra montagna davano la scalata all’Olimpo: noto essendo, che l’occhio giudica della grandezza dell’oggetto dalla grandezza delle cose circostanti, e dalla lontananza che mostra la serie delle cose poste tra sé e ‘l suo oggetto.

[Sez.V.2.1.5] Ma per altra parte non dee il pittor delle scene troppo scrupolosamente seguire le regole della prospettiva, le quali non lascerebbero spazio bastante al passaggio degli attori, e molto meno alle comparse, a’ carri, troni, sedie ecc. Ond’egli è costretto a declinare alquanto dal rigor di tai regole, anche perché le scene facciano buon effetto vedute da qualunque lito della platea, e de’ palchetti. Ma questa declinazione ha d’uopo di molta circospezione, per non degenerare in rilassatezza, come fu quella d’alcuni pittori che nella prospettiva delle scene praticarono due punti di veduta: sconcezza intollerabile e indegna d’un pennello italiano. Quindi è che nella prospettiva non v’ha cosa più malagevole che quella delle scene, ad eseguir la quale non bastano le regole dell’arte, ma bisogna anche conoscere dove, e quanto è necessario di declinare dalle medesime. Il che non si può senza una lunga pratica, o senza una diligente osservazione della pratica de’ migliori maestri.

§. II. Della verisimilitudine della scena

[Sez.V.2.2.1] La verisimiglianza della scena induce lo spettatore a credere che il luogo ch’essa rappresenta è appunto il luogo dove si finge l’azione. Questa verisimiglianza dipende del decoro della scena, e dall’esatta osservanza delle regole della prospettiva e dell’architettura.

[Sez.V.2.2.2] Il decoro si trova in una scena quando il disegno del luogo, e di tutte le parti che lo compongono o l’adornano, sono propri all’uffizio di quel luogo, propri esempigrazia d’un giardino o di una reggia, e conformi agli usi ed a’ costumi del paese, in cui l’azione si finge, o almeno non non conforme alle costumanze moderne. Quindi una galleria va caratterizzata in modo che non sia presa per un tempio, né una carcere senta di cantina. Quindi ancora se la scena è in Egitto, l’architettura non sia gotica, gli arredi non paiano quelli che ci vengono d’Inghilterra, i ritratti e le statue non appartengano ad eroi, o a deità fenicie o caldee. E se la scena è vaga ed incerta (e però incapace d’essere troppa caratterizzata, come quando rappresenta una campagna la quale tanto può trovarsi in Egitto, quanto in ogni altra parte del mondo), il pittore, se ama d’acquistar lode d’ingegnose, e di valente nell’arte sua, dee contrassegnare quella campagna con tali particolarità, che indichi appartener essa all’Egitto e non ad altro paese100.

[Sez.V.2.2.3] L’osservanza poi delle regole della prospettiva e dell’architettura, manterrà l’illusione nell’animo del popolo. Della prospettiva dicemmo abbastanza nel paragrafo antecedente. Quanta all’architettura, se la sue leggi non sono elettamente osservate, i falli, che si commettono contro di esse, tendono ogni momento a richiamarci in noi stessi. Tali sono quelle volte senza appoggio, quelle arcate senza fondamento, quelle colonne che in vece d’andare a incontrare il capitello, si perdono tra le nuvole, o che in vece di sedere sul zoccolo si contentano dell’immaginario sostegno di una mensola, che sembra non un’opera di valoroso architetto, ma uno di que’ palagi incantati de’ tempi delle fate. Al qual proposto il più volte lodato Algarotti un fatto racconta accaduto al padre Pozzi, inventore infelice delle colonne a sedere. Nel dipingere una cupola avea costui sostenute con mensole le colonne che figuravano di reggere questa cupola. Alcuni architetti alla vista di tale inverisimiglianza cominciarono a torcere il muso, e a protestare ch’essi in fabbricando non avrebbero dato alle colonne un sì fragile appoggio; quando eccoti salta in mezzo un professore della medesima rilassata scuola del Pozzi, e credendo con un motteggio di tirarsi egregiamente di quello imbarazzo, si obbliga a rifar tutto a sue spese, quando, fiaccando lo mensole, la cupola e le colonne venissero a rovinare. Avea colui cattiva causa, ma la difesa fu ben peggiore. Io credo ch’egli in un accesso dell’eteroclito estro della sua scuola non avrebbe dubitato di dipingere per esempio una scala a rovescio, e d’obbligarsi poi a pagare il cerusico a chi nel salirla si fiaccasse la nuca. Non sepea messer lo professore che è un precetto universale e comune a tutte le arti d’imitazione, il rispettare il verisimile; precetto, che non ammette veruna licenza, se non nel caso ch’esse vogliano esporre li grottesco.

§ III. Della novità negli ornamenti della scena

[Sez.V.2.3.1] Ma non basta che la scena sia verisimile, ciò architettata regolarmente, e secondo l’uso di quella contrada, in cui s’immagina l’azione del dramma. Questo fondo ha bisogno di tutto l’ingegno d’un sagace artefice, che gli dia risalto e bellezza. Ma questi, nell’adornarlo, convien ch’abbia l’occhio a non adoperare gli usi e le maniere che attualmente sono in voga in quella città a cui appartiene il teatro ch’egli dipinge; e ciò per la ragione là esposta, dove la stessa avvertenza demmo all’inventore degli abiti.

[Sez.V.2.3.2] Gli ornamenti dunque, onde va abbellita una scena, compariscano nuovi agli occhi del popolo; e tali compariranno qualora sieno bizzarramente inventati dalla ricca immaginazion dell’artista, o almeno presi da mode antiche o straniere. Il Cinese industre, il molle Persiano, il maomettano fastoso, e lo stesso rozzo Americano, nell’architettura de’ loro edifìzi, nella simmetria de’ loro giardini, negli adobbi delle loro abitazioni, hanno di che adornare con novità le nostre scene. I Francesi medesimi, gl’Inglesi, e le altre nazioni colle quali abbiamo più familiarità e commercio, tengono pure alcuni usi, che non hanno ancora ottenuta la nostra cittadinanza, e che però, scelti con accorgimento, farebbero di sé bella mostra sul teatro.

§ IV. Di ciò che può soccorrere l’inventiva del pittor delle scene

[Sez.V.2.4.1] A un professore istrutto già nel suo mestiere molto possono giovare gli stampati disegni di scene inventate da celebri pittori. Tali son quelli delle scene del Neroni, publicati nel 1579. Tali altresì sono i rami delle scene del Chiarini, dell’Aldrovandini, del Buffagnotti, di Giuseppe Galli Bibbiena (i quali ultimi furono poco fa impressi in Augusta) e d’altri rinomati maestri.

[Sez.V.2.4.2] Possono in oltre giovar molto al pittore que’ libri che insegnano il modo di dipinger le scene, com’è quello di Nicolò Sabattini, intitolato: Pratica di fabbricare scene e macchine. Ravenna 1638; e l’altro di Ferdinando Galli Bibbienna sul modo di fare scene vedute in angolo, da lui inventate.

[Sez.V.2.4.3] Per terzo non leggiero soccorso trarrà egli dalla considerazione de’ disegni de’ più celebri architetti; come sono, a cagion l’esempio, i disegni del famoso Palladio. Non meno utili per lui saranno le opere di que’ pittori, che nell’architettura si distinsero sopra gli altri, quali furono il Brunelleschi, l’Alberti, il Bramante, Giulio Romano e Paolo Veronese, magni ipse agminis instar. A’ quali si aggiungano i più famosi paesisti, come il Ricci, Salvator Rosa, il Pussino, il Lorenese e Tiziano, superiore a tutti.

[Sez.V.2.4.4] Finalmente maraviglioso costrutto caverà egli da’ preziosi avanzi d’antichi edifìzi, che si ammirano tuttavia in Italia, nella Grecia, in Egitto, e dalle diverse maniere di costruir fabbriche e giardini, oggi adoperate da straniere nazioni. Quindi, per conchiudere colle parole d’un poeta pittore,

Bisogna, che i pittor sieno eruditi,
Nelle scienze introdotti e sappian bene
Le favole, le storie, i tempi, e i riti (Salvat. Rosa, Sat. 3.).
Cap. III.
Ufizio del macchinista

[Sez.V.3.0.1] Quanto al movimento delle macchine e delle scene, io non ho che a raccomandarne la prontezza non solo perché è noiosissima a vedere una macchina o una scena che stenti a giugnere al suo sito, ma molto più ancora perché esse con quella tardanza estinguono ogni drammatico piacere101.

[Sez.V.3.0.2] Un altro uffizio del macchinista è l’illuminazione delle scene, ma bisogna confessare che un tale uffizio è per ordinario con somma goffaggine e negligenza eseguito. II pittore avrà con tutte le leggi dell’arte ma dipinta una scena. Egli vi avrà acconciamente maneggiati i colori vivaci e i dilavati, i lumi e l’ombre. Viene il macchinista, e senza badar più che tanto all’idea del pittore, distribuisce le fiaccole a capriccio; e con quella sbadataggine sua distrugge lutto il bello dell’ombre e della degradazion de’ colori.

[Sez.V.3.0.3] Convien dunque sapere, che i lumi non si vogliono distribuire egualmente da per tutto, come per ordinario si fa, ma bensì a masse e a gruppi ineguali, per afforzare que’ luoghi che ne abbisognano;

Altri di poi, cui ‘l chiaro lume offende,

lasciargli foschi ed abbuiati. Noi veggiam pure qual vaghezza reca all’opere di Giorgione e di Tiziano il lor mirabile lumeggiare, il vedere con quanta forza esse illuminarono alcune parti, mentre altre erano lasciate fra l’ombre. Un macchinista intelligente, che coll’economia medesima distribuisse i lumi tra le scene, diverrebbe il Giorgione, il Tiziano del teatro; e tanto più l’opere sue diletterebbero che quelle de’ duumviri di quel genere, quanto il lume e l’ombra effettiva e reale è più efficace del lume e dell’ombra finta da’ colori. Perché però il macchinista tragga buon viso da quella faccenda, consulti sempre il pittor delle scene: niuno sa meglio di chi le ha dipinte, dove s’abbia a gittar molto chiaro, e dove nulla o poco.

Cap. IV.
Della costruzione del teatro
§ I. Della materia onde convenga fabbricare il teatro

[Sez.V.4.1.1] Tutto il di fuori del teatro, ciò è le sue facciate esteriori, i corridori, le scale, va fabbricato di mattoni, di pietra o di marmo, sì per dare solidità all’edifizio, sì molto più per garantirlo al possibile dagl’incendi, a cui per le faci, ond’esso viene illuminato, è oltre modo soggetto. Per la medesima ragione è d’uopo che sia per ogni parte isolato, a fin d’impedire il progresso di tali incendi.

[Sez.V.4.1.2] Col rendere isolato il teatro s’acquista un altro vantaggio, che se gli possono dare molte porte esteriori e corrispondenti a siti diversi; articolo essenzialissimo nella costruzione di sì fatti edifizi. Ove le porte sien poche, o corrispondano a un sito medesimo, la folla del popolo e delle carrozze cagionerà de’ gravi inconvenienti: vedendoli tai rincontri produr non di rado attacchi, inimicizie, duelli, ed anche impegni tra corone per occasione de’ loro ministri.

[Sez.V.4.1.3] L’interno del teatro non va edificato delle stesse materie che per l’esteriore edifizio del medesimo abbiam commendate: e per interno del teatro io intendo i suoi palchetti, e tutto ciò che sporge sopra quel vano, di cui è base la platea. Ora se, a cagion d’esempio, taluno per una mal intesa magnificenza si avviasse di formare di marmo l’interno del teatro, ciò sarebbe come far di marmo un leuto, un violino: essi non renderebbero verun suono102. È vero che gli antichi di pietre o di marmi soleano costruire l’interno de’ loro teatri, ma per rimediare al danno, che da tai materie soffriva la voce degli autori, essi davano a costoro delle maschere fatte in modo che servissero come di tromba. E oltre a ciò i Greci ne’ loro teatri situavano de’ gran vasi di rame, ne’ quali ripercossa la voce acquistasse sufficiente forza per giugnere alle più rimote parti del teatro. Ma in quelli che non di pietra, ma di legno erano costruiti, essi non poneano si fatto ordigno, avendo sperimentato che il legno dava tal risalto alla voce, che rendea del tutto inutile l’uso di que’ vasi.

[Sez.V.4.1.4] Questa pratica degli antichi, unita a una giornaliera pruova che noi ne facciamo, ha dato a conoscere che il legno è il materiale più convenevole all’interno edifizio del teatro. Quelle fibbre, onde questo materiale è tessuto, percosse dalla voce concepiscono un sì soave ondeggiamento, ch’esse ne propagano il suono mirabilmente, e con somma grazia e dolcezza. Conviene però avvertire, che il legno sia tutto egualmente stagionato, affinché le vibrazioni non sieno diverse, e così confondano e rendano come incerto il tuono della voce.

[Sez.V.4.1.5] Anche l’interno de’ teatri vuol avere più porte, che mettano nella platea, affinché in caso di disastro il popolo abbia più uscite per cui sgombrare e mettersi in salvo. Non una volta è avvenuto, che in un improvviso movimento, per la scarsezza delle porte della platea, gli spettatori sieno restati miseramente calpestati o divorati dalle fiamme. Non è però necessario che tai porte sieno sempre aperte; conviene anzi per la voce degli attori, che alcune restino ordinariamente chiuse, purché negl improvvisi accidenti si possano aprir prontamente.

§ II. Dell’ampiezza del teatro

[Sez.V.4.2.1] Non tutti i teatri vogliono avere un’eguale ampiezza. Essi debbono corrispondere all’ampiezza della città a cui appartengono, e ridicola si renderebbe una bicocca se una mole elevasse degna d’una vasta città. Ma questa medesima non potrebbe assegnare un’ ampiezza arbitraria ed enorme a’ suoi teatri. L’estensione a cui un teatro può giugnere, è quella della portata d’una voce mandata fuora senza stento.

[Sez.V.4.2.2] Alcuni per ampliare al possibile il teatro immaginarono un nuovo ripiego. Questo consiste in isporgere il proscenio molti palmi fra la platea e fuori delle scene; il qual ripiego, avvicinando per quanto si può l’attore agli opposti palchi, fa che la costui voce là giunga, dove senza questo artifizio non potrebbe. Ma se abbiamo a dire il parer nostro, costoro in adottare sì fatto artifizio diedero del loro discernimento un’assai ambigua pruova. Mercecché, tirando così l’attore fuori della scena, si viene a rendere inutile tutta la scenica decorazione, la quale a ciò solo si adopera, che l’attore sia circondato da oggetti a noi stranieri, e propri del luogo dove è supposta la scena, e del personaggio ch’egli rappresenta, acciocché insomma il luogo dell’azione sia verisimile. Ma quando si vede un’Arianna, che, in vece d’aggirarsi fra ‘l solitario lido di Nasso, si caccia nel bel mezzo de’ nostri palchi, ogni verisimiglianza cessa all’istante; e per molto ch’ella si rammarichi e pianga, il mio cuore freddo e indifferente non prende veruna parte in questo affanno. Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi. Taccio le sconvenevolezze, a cui è quasi costretto un attore quando sia fuori di scena, come di voltare il fianco o le spalle agli spettatori.

§ III. Figura dell’interno del teatro e disposizione de’ palchetti.

[Sez.V.4.3.1] Si cerca ancora una figura per l’interno del teatro la più adatta a favorire la vista insieme e l’udito. Taluni crederono d’aver soddisfatto al quesito coll’invenzione della campana fonica, com’essi chiamano. Questa invenzione consiste in dare al medesimo una figura di campana, disposta in modo che l’orlo, o il labbro di quella, corrisponda a’ palchi più vicini alla scena, e il luogo dov’è attaccato il battaglio, cada nel palchetto di mezzo, opposto dirittamente al proscenio. È però la più leggiadra cosa a sentire, che si voglia dare la figura di campana a un edifizio destinato a un effetto tutto opposto a quello del mentovato stromento. La campana ottenne quella sua figura, perché destinata a mandare il suono fuori di sé, e quanto più potesse de sé lontano. Le fu data quella quasi conica figura, e quelle labbra rimboccate in fuori, affinché l’onda sonora dell’aria interna sdrucciolasse al di fuori, e, urtando l’esterna, le comunicasse lo stesso oscillamento. Fu formata rotonda, affinché le oscillanti anella ond’è composta, percotessero egualmente e in tutti i suoi punti l’aria circonvicina. Ora tutte queste proprietà come possono mai convenire a un edifizio destinato non a spargere il suono fuori di sé, e lungi quanto si possa il più, ma al contrario a concentrarlo e custodirlo gelosamente in sé stesso? Di più, questa campana restringe lo spazio della platea e togli a molti palchetti la veduta delle scene.

[Sez.V.4.3.2] La miglior figura per l’interno del teatro è quella d’un semicerchio, la di cui aia sia occupata dalla platea, la periferia dalla fronte de’ palchetti e il diametro dal pulpito, o sia dall’esteriore orlo del proscenio. Questa figura rende spazioso il teatro, poiché tra tutte le figure d’un egual perimetro il cerchio comprende uno spazio maggiore di quello di qualsivoglia altra e mette i palchetti in distanza eguale dal centro, o sia dal punto di mezzo del proscenio. Un inconveniente si può trovare in questa figura, e si è che allarga troppo il vano, o sia la luce della scena. Si ripara a questo inconveniente dando al teatro la figura non già d’un semicircolo, ma d’una semiellisse, la quale ha per poco tutti i vantaggi dell’altra ed ha di più questo, che accresce il numero de’ palchetti essendo la periferia dell’ellisse maggiore di quella d’un cerchio, il diametro del quale sia eguale all’asse minore di quella.

[Sez.V.4.3.3] Altri preferiscono a ogni altra figura quella d’una semiellisse troncata sull’asse maggiore; e questi hanno per loro l’autorità del celebre Palladio, il quale tal figura dette alla platea del teatro Olimpico di Vicenza. Molto me muove l’autorità d’un tanto maestro; ma confesso di non comprendere come adottando una tal figura si possa evitare di rendere sproporzionatamente ampia la fronte del pulpito o proscenio; o pure, volendo ridur questa a una moderata estensione, io non so intendere come si possa render visibile il teatro a que’ luoghi della platea e a que’ palchi, che più avvicinano a’ lati del proscenio.

[Sez.V.4.3.4] Pe’ palchetti poi lodevole è la disposizione inventata da Andrea Sighizzi, e imitata più volte da i Bibbiena. Questa consiste in far sì che i palchetti secondoché dalla scena, o sia dal diametro del semicerchio allontanandosi, s’inoltrano verso il fondo del teatro, ciò è verso la metà della periferia, così vadano ancora salendo di qualche oncia l’uno sull’altro, e di qualche oncia ancora vadano sporgendo in fuori. Così ogni palchetto sta meglio affacciato sulla scena, né uno impedisce all’altro il vedere.

[Sez.V.4.3.5] Convien nondimeno avvertire, che i due lati di ciascun palchetto, essendo di necessità convergenti verso le scene, non formino angoli acuti col muro interiore de’ medesimi perciocché gli angoli di tal sorta estinguono e divorano il suono. Si baderà dunque a rendere ottusi, o almeno retti quegli angoli, o pure (e sarà ancor meglio) a spuntargli, e fare che i lati del palchetto vadano a terminare in un concavo cilindrico.

[Sez.V.4.3.6] Ma se con tutto ciò il teatro, o per difetto di costruzione o per troppa ampiezza, non mandasse chiaramente da per tutto la voce de’ cantanti, io crederei che si potrebbe utilmente imitare il ripiego de’ Greci, i quali, come accennammo, mettean ne’ teatri, e propriamente sotto a’ sedili, de’ gran vasi di rame, formati con esattissime misure, affinché ciascuno di essi avesse il suo tuono particolare: e sì fatti vasi invigorivano mirabilmente la voce degli attori. Dodici di questi (tanti essendo i semituoni, che compongono la scala musicale, e altrettanti i modi della nostra musica) gioverebbero moltissimo a parecchi moderni teatri.

§ IV. Dell’ornamento del teatro

[Sez.V.4.4.1] L’esteriore d’un publico teatro di ragguardevole città dee spirare magnificenza e buon gusto; al qual oggetto non vanno risparmiati i loggiati, le scalinate, le nicchie, e quanto altro ha di fastoso e di magnifico l’architettura. Ma per opposto nell’interiore di esso103 gli ornati vanno distribuiti con esattissima economia. Un principio generale su questo punto si è, che nell’interno del teatro solo quegli ornati si ammettono, che non impediscono l’occhio dello spettatore, che non offendono la voce del cantante e che non impiccioliscono verun sito. Ecco il paragone, sul quale si devono esaminare gli ornamenti che si vogliono dare all’interno de’ teatri.

[Sez.V.4.4.2] Se questo principio avessero avuto presente parecchi architetti, si sarebbero assolutamente astenuti da certi mal intesi ornamenti, che divengono eterni monumenti della poca abilità di chi gli ammise e imbarazzo e sfregio de’ teatri. Essi primieramente non avrebbero ammessi nell’interno de’ teatri quegli abbellimenti di carta pesta, a di panno lino, o lano, che si mangiano la voce da’ cantanti: perocché l’esperienza insegna che tanto indebolisce la voce una stanza apparata di carta, o di lino, di seta, di lana, quanto le dà risalto un’ altra, che foderata sia d’asse. Gli specchi ancora, quando sien molti, pregiudicano non poco, non essendo lo specchio capace di quegli ondeggiamenti che l’aere sonoro comunica al legno. E condannati avrebbero per la stessa ragione que’ fregi sinuosi e centinati, che rompono e sparpagliano il prefato ondeggiamento dell’aere, ch’è il veicolo del suono. La voce degli attori già è bastantemente occupata dal crasso ambiente del teatro, dalle tele delle scene, dagli abiti degli spettatori, per non dovere offenderla di vantaggio con altri argomenti. Ma quando pure un avveduto architetto avesse evitato simiglianti inconvenienti, tutto si può dir nulla se non si ha pensiero di tener sempre sbrattato ed esente da polvere il teatro, divorando la polvere la voce de’ cantanti104.

[Sez.V.4.4.3] Per rispetto poi alla vista e al sito, è necessario, che que’ sostegni, che dividono un palco dall’altro, e quella fascia, che separa i diversi ordini o file di palchetti, sieno sottili e gracili quanto si possa il più: né so quanto ben facciano coloro, che per un’ architettonica pedanteria gli destinano a rappresentare ordini d’architettura. Se del sostegno tu ne formi una colonna, e della fascia una cornice architravata, ne avverrà delle due l’una; o questi membri riusciranno meschinissimi e sproporzionati, per rendergli sottili quanto poc’anzi abbiamo detto che vogliono essere, o per dare ad essi qualche proporzione, si dovrà perdere molto luogo e impedire ancora la vista dello spettatore. Il che sarebbe biasimevole anche più, perché nel teatro non va perduto un dito solo di spazio o di veduta. Tutto ha da essere permeabile in esso, per valermi dell’espressione d’un valentuomo.

Sezione VI.
Della danza dell’opera in musica

[Sez.VI.0.0.1] Scorse le qualità del melodramma e quelle della musica, della pronunziazione e della decorazione proprie dell’opera in musica, che sono le quattro essenziali parti di questo spettacolo, uopo è per ultimo arrestarsi alcun poco intorno alla danza, parte, a dir vero, non essenziale del medesimo, quali sono le annoverate, ma, come fu detto altrove, dichiarata quasi tale dall’uso.

Cap. I.
Natura della danza
§. I. Che sia danza e dove consista il suo estetico

[Sez.VI.1.1.1] Danza o ballo, è una serie di straordinari movimenti del nostro corpo, regolati dalla cadenza della musica. Ella è una delle belle arti, e si divide in alta e bassa. Danza alta è quella che fa il ballerino, elevandosi da terra quanto più può con ambi i piedi. Danza bassa è quella ch’egli fa, appoggiando a terra tutteddue i piedi o uno almeno. Tuttavolta, a precisamente parlare, la sola danza bassa appartiene alle belle arti. L’alta non può entrare in questo numero, perché inetta al movimento delle passioni.105 Questa secondaria ed inferiore spezie di danza appartiene alla classe di quelle arti, che sono definiate a far mostra d’agilità, e di forza.

[Sez.VI.1.1.2] La danza ha molta affinità colla pronunziazione, e propriamente col gesto, dal quale differisce come il verso dalla prosa. Il verso ha colla prosa un fondo comune, e queste son le parole. Ma nel verso un tal fondo è assoggettato a certa misura, e interciso da una cadenza regolare; nella prosa è libero. Così il fondo comune del ballo e del gestire sono i movimenti del corpo. Ma questi movimenti nel ballo sono anch’essi intercisi e distinti da una cadenza regolare, laddove nel gestire non osservano misura o cadenza alcuna.

[Sez.VI.1.1.3] L’estetico della danza consiste nella simmetria che passa tra’ tempi de’ suoi movimenti e i tempi della musica che l’accompagna. In effetti il rincrescimento che si pruova in vedere uno che balli fuor di cadenza, nasce appunto perché egli non lega con simmetria veruna questi tempi de’ suoi movimenti e della musica. Noi siamo allora per istinto portati a muovere alla cadenza di quest’ultima il capo, le mani, i piedi, e ‘l resto della persona, per aiutare il ballerino ad osservarla, o per mettere questa connessione ch’egli non mette fra ‘l ballo e ‘l suono : tanto l’unità è grata al nostro spirito. Per una ragione contraria piace assaissimo un ballo eseguito in perfetta cadenza.

[Sez.VI.1.1.4] Un altro fonte dell’estetico della danza è la simmetria ch’ella osserva tra’ vari tempi de’ suoi movimenti, simile a quello della musica metrica e della metrica poesia.

[Sez.VI.1.1.5] Un terzo fonte dell’estetico di questa piacevole facultà nasce dalla bella disposizione ch’ella dà alle membra. La qual disposizione non è già che presenti una novella simmetria, ma solo rende più discernevole e più manifesta quella che dalla natura ebbe il nostro corpo. Perciocché gli uomini tengono per l’ordinario in negligente positura, le loro membra, sì che essi, quanto è in loro, estinguono quelle belle disposizioni e misere che sono osservabili nella lor macchina. La danza rimedia a questa negligenza, assegnando a ciascun membro il sito che più gli è vantaggioso (cioè quello che rende più agevole il discernimento delle ragioni che le membra hanno tra loro) ed alla macchina intera.

§. II. Del patetico della danza

[Sez.VI.1.2.1] Il patetico della danza consiste nell’imitazione di que’ movimenti che noi facciamo, qualora da alcuna passione siam posseduti: la qual imitazione è propriamente detta pantomimo. Tre sono le spezie di pantomimo: il serio, quello di mezzo carattere e ‘l grottesco. Il pantomimo serio, o eroico, imita gli eroi e i personaggi d’alto affare, e talvolta anche le deità e i semidei. Egli appartiene al genere tragico, ed è inteso ad ispirarci nobiltà di sentimenti. Il grottesco imita le persone d’infima nazione. Il genere delle sue favole è comico e tende a muoverci a riso. Il pantomimo di mezzo carattere è un misto d’ambedue le definite spezie. Le sue favole sono anche comiche, ma d’un genere più nobile, da taluni detto alto comico. Egli tende a piacerci, non già con goffe e ridicole maniere, ma coll’imitazione d’un costume placido ed ameno.

Cap. II.
Della danza teatrale
§ I. Connessione della danza teatrale col melodramma

[Sez.VI.2.1.1] Nel secondo capo della prima sezione fu da noi stabilita la necessità, che hanno tutte le arti adoperate nell’opera in musica, d’essere intimamente connesse all’azione drammatica. Quello adunque, che nel citato luogo fu osservato, basta a stabilire particolarmente per la danza teatrale la medesima necessità. Costituendo questa bella disciplina una parte del nostro spettacolo, non altrimenti che strettamente connessa all’azione drammatica può fare unità col suo tutto, né senza unità può opera alcuna conseguire perfezione o bellezza.

[Sez.VI.2.1.2] Pure, se v’è parte nell’opera in musica italiana che più si allontani da tale unità, i balli son dessi, a considerargli secondoché d’ordinario vengono composti. Tu avrai l’animo occupato da una favola di greco, o di romano argomento, quando ecco salta fuori una truppa di Persiani o di Cinesi, che ti comincia un ballo di strana foggia in una scena passeggiata poc’anzi dal greco o dal romano coturno. Chi non vede che sì fatto ballo sta in quel luogo, per così dire, a pigione, e che non alla sola unità d’azione, ma ripugna a un tempo stesso a tutt’e tre l’unità del dramma? Né è questo il solo inconveniente: il dramma è tragico, e l’ballo è le più volte buffonesco; il che arresta quel movimento, che la favola ne avea desto nell’animo, e per conseguente estingue tutto il drammatico piacere. Che maraviglia poi, se lo spettatore si attedia del dramma, quando quel moto, nel quale consiste il piacere che a noi reca l’azione drammatica, si estingue nel suo cuore da un contrario movimento che vi cagiona la danza? È questa una delle principali cagioni della poca attenzione che si dà per ordinario alla favola tragica. Tanto più, che l’uomo è formato in modo ch’egli, da una seria applicazione, è naturalmente menato al divertimento e al riso; ma non così facilmente torna poi da questo ad applicarsi a un serio affare. Vi sperimenta anzi un’intrinseca ripugnanza (né può farlo immediatamente, e quasi d’un salto), ma ha bisogno d’esservi disposto e di passare, a dir così, per uno stato intermedio. Dalla quale proprietà dell’animo nostro avviene, che solazzato egli, e come infralito da un ballo por lo più comico, non ha più coraggio, né forza di rimirare la maestà de’ tragici suggetti. Io me ne richiamo all’esperienza che può farne ciascuno. Esamini sé medesimo lo spettatore, e s’avvedrà, che non pruova egli mai tanta ripugnanza di dare orecchio alle parole degli attori, quanta allora che sia terminato un ballo fatto come sogliano essere i nostri.

[Sez.VI.2.1.3] Tal sorta dunque di ballo contamina l’intero spettacolo, e fa che il popolo incontri del tedio, là dove egli fu tratto dalla speranza del piacere. Per l’opposto, un ballo che abbia unione colla favola, alimenta ed accresce l’affetto acceso da questa e ci rende curiosi del proseguimento.

[Sez.VI.2.1.4] Ma quale sarà il modo d’ottenere sì fatta unione? Il suggetto della danza vuol esser tratto da quelle azioni, che il poeta drammatico suppone che accadano negl’intervalli degli atti, o che si può supporre che avvengano in quel tempo. Per esempio, nell’intervallo che passa tra l’primo e l’secondo atto dell’Achille in Sciro, finge il poeta che Arcade seguace d’UIisse faccia dalle navi trasportar sul lido i doni, che questo eroe destinava a Licomede re dell’isola, e che poi istruisca i soldati d’Ulisse a fingere un guerriero tumulto, per risvegliare il genio militare del travestito Achille. Qual più bella materia di questa per un ballo? I nostri danzatori adopran pure somiglianti materie, quando veruna connessione abbiano col dramma, e giungono, ciò non ostante, a piacere. Molto più dunque piaceranno, ove sì strettamente sieno connesse al loro tutto. Qual diletto non avrà il popolo, in vedere la favola continuata non più con parole, ma a forza della sola danza? Posto che il ballerino abbia i talenti necessari per discernere quando convenga far comparire Arcade, quando fargli abbandonare la scena affinché non raffreddi lo spettacolo, quali azioni, quali disegni sieno propri della danza, quali sieno da rigettare, come incapaci d’essere ben espressi dal pantomimo.

[Sez.VI.2.1.5] A tal effetto sarebbe desiderabile, che la composizione del ballo teatrale fosse addossata, non al ballerino, ma al poeta, assistito bensì dal primo. Niuno meglio dell’autore del dramma può conoscere ciò che più unisca un atto all’altro, e ciò, ch’egli finge, o si può fingere, che tra l’uno e l’altro intervenga. E dall’altra parte il ballerino additerebbe al poeta quello che non si può graziosamente esprimere colla danza. Composte così le scene del ballo, si potrebbe occupare il danzatore a ben idearne l’esecuzione, e ciò fatto, a comunicare al maestro di musica le suo idee, affinché la musica s’accordi a spiegare per mezzo del suono ciò ch’egli spiegherà colla danza: sì perché venga osservata l’unità tra la danza e la musica, sì ancora perché quella musica, che ha una medesima espressione colla danza, fa miracolosi effetti sul ballerino ; gli reca una forza, un coraggio, un fuoco, che onninamente gli mancherebbero, se la musica non fosse espressiva. Chi ha i piedi eruditi, e chi sa il dominio della musica sullo spirito e sulla macchina dell’uomo, non dubiterà d’esagerazione in ciò che asseriamo. Queste forza della musica si sperimenta in un modo maraviglioso su’ nostri tarantolati. A un di costoro, ancorché giaccia infermo e destiuto d’ogni vigore, si faccia sentire una sonata che gli vada a verso, egli si leverà sì prontamente, come se fosse nel periodo più florido di sua vita, e danzerà in modo, e sì lungamente, che qualunque robusto uomo si sgomenterà di fare altrettanto. Ma se per caso cessi quel suono improvvisamente, durante la danza, il tarantolato stramazzerà all’istante, e ricadrà, come tocco da un fulmine, in un abbattimento peggior del primo.

[Sez.VI.2.1.6] Da ciò che abbiam osservato intorno a’ suggetti de’ balli teatrali, si vede che il melodramma ha mestieri d’esser diviso in maniera, che ciascun atto termini in luogo che offerisca un verisimile attacco alla danza; la qual cosa non sarà difficile a un accorto poeta. Ma quando la favola ne porgesse l’occasione in mezzo a un atto, io vorrei che non fosse creduto un reato, se, invece di riserbar la danza per la fine dell’atto, si facesse nel corso di esso. I balli della più volte ricordata Alceste intervengono tutti non già negl’intervalli, ma nel bel mezzo dagli atti, e vi stanno a maraviglia, perché richiesti dall’azione medesima.

[Sez.VI.2.1.7] Taluno forse dubiterà, che tanta connessione tra l’ballo e l’dramma non produca una rincrescevole monotonia, e crederà che i danzatori scelgano espressamente suggetti che niuno attacco abbiano colla favola drammatica, per condir l’opera col sale della varietà. Ma chi è preso da sì fatto dubbio, che mai direbbe, se vedesse in un medesimo quadro da una parte dipinto Alessandro inteso a militari imprese, e dall’altra un Arlecchino che sia tutto in sul trastullare, senza che il pittore abbia messa veruna connessione tra questi due personaggi? O se vedesse che in un edifizio le finestre non posassero, com’è solito, sopra una medesima linea, sopra un medesimo davanzale, ma qual giù qual su, quale in mezzo, e questa fosse un palmo discosta dall’altra, e quella dieci, e una quadra, e una rotonda, e va discorrendo, che direbbe egli al pittore, o all’architetto, che credessero avere in tal guisa allontanata dalle loro opere la noiosa uniformità? Se egli avrà mai esaminata l’essenza della perfezione e della bellezza, risponderà all’inesperto artista, che la bella varietà non consiste in un ammasso di cose, le quali niuna lega abbian tra loro (che ciò costituisce l’imperfezione e la bruttezza), ma nella moltiplicità delle cose tendenti a una medesima unità. Così quel confuso ammasso di finestre è deforme; ma se esse fossero uniformi, equidistanti e sulla medesima linea disposte, questa esatta unità bella renderebbe la loro serie, e tanto più bella, quanto il loro numero fosse maggiore. Adunque il dramma, la musica, la pronunziazione, la decorazione e la danza, essendo le cinque parti che concorrono a formare l’opera in musica, se si vuole che piacciano, vanno marcate della medesima unità. I Greci infatti aveano per vizioso quel ballo, che col dramma non connettesse, ed Aristotile il disapprova altamente. Non rincresca al lettore, ch’io mi richiami sì spesso al gusto de’ Greci. Sono essi, per consenso d’ognuno, i maestri delle belle arti; e noi, ad onta de’ gran lumi che vantiamo, siamo a’ medesimi molto addietro finora.

[Sez.VI.2.1.8] Quanto poi a’ nostri ballerini, se essi per lo più scelgono danze che niuna convenienza hanno col dramma, nol fanno mica per zelo della varietà, ma sì perché que’ balli sono più acconci al loro stile, e sì perché non sanno, o non si vogliono dar pensiero d’inventar quelle danze che farebbero al proposito. Ma que’ danzatori, che non trascurarono le cognizioni necessarie al loro mestiere, entrano pienamente nel nostro avviso. Ecco ciò che scrive uno di essi, che più si è distinto a’ nostri giorni ne’ balli teatrali: «Finché i balli dell’opera in musica non saranno uniti strettamente al dramma, e non concorreranno alla sua esposizione, al suo nodo e al suo scioglimento, essi saranno freddi e spiacevoli. Ogni ballo dovrebbe a mio parere offerire una scena, che incatenasse e legasse intimamente il primo atto al secondo, il secondo col terzo ecc.» 106.

§ II. A qual genere appartenga la danza teatrale

[Sez.VI.2.2.1] Dovendo adunque il ballo teatrale essere una continuazione della favola drammatica, egli vuol essere atto all’espression degli affetti. Quindi il patetico della danza, o sia il pantomimo, dovrà sempre regnare in esso, congiunto però a tutte quelle grazie, nelle quali consiste l’estetico di questa disciplina.

[Sez.VI.2.2.2] Ma non ogni spezie di pantomimo si vuol trovare insieme nel ballo teatrale, come si costuma in oggi, mal grado che il buon gusto ne abbia. Gli antichi, non ostante che del pantomimo facessero le loro delizie, non incorsero però mai in tale sconvenevolezza. Essi ne’ loro spettacoli quel solo pantomimo ammetteano, che fosse del medesimo genere col dramma a cui si frammettea, di modo che alle tragedie non accoppiavano mai una danza grottesca, ma solo l’emmelie, serio e maestoso pantomimo. E per opposto fra le commedie niuna danza seria o eroica mai compariva, ma solo il cordace, pantomimo grottesco e pieno della licenza delle loro commedie. Il medesimo discernimento dovrebbe oggi osservarsi su’ nostri teatri, non ammettendo nelle tragedie in musica se non l’eroico pantomimo, unito, quando lo richieda il suggetto, a quello di mezzo carattere. Il pantomimo grottesco debbe aver luogo solo nelle opere comiche musicali.

[Sez.VI.2.2.3] Un’altra conseguenza, che deriva da ciò che abbiam ragionato nel paragrafo antecedente, si è che nel ballo teatrale non deve entrar mai il ballo alto, come quello ch’è incapace di servire all’imitazion degli affetti. Quel ballerino, che ha creduto fin qui che a divenire famoso bastasse distinguersi in una cavriola o in un mulinetto, dirà in questo ch’io parli da autore, non da ballerino, come fu detto poco fa al Cahusac, il quale non dissimili verità volea persuadere a’ danzatori francesi. Nondimeno, quelli tra loro che con occhio filosofico penetrarono l’indole della loro professione, benché eccellenti nel ballo alto, pure, posto giù questo, tutti si diedero al pantomimo, confessando che la danza non sarebbe mai giunta alla sua perfezione, finché a questo non rivolgessero i ballerini tutti i loro pensieri. Vagliami per tutti il prenominato Noverre, le di cui danze hanno riscosso recentemente i più lusinghieri applausi de’ teatri di Parigi, di Londra e d’altre insigni città d’Europa. Questo illuminato danzatore nella decima delle sue lettere sulla danza «Se vogliamo (dice) avvicinare alla verità la nostr’arte, bisognerebbe dar meno attenzione alle gambe e più cura alle braccia; abbandonare le cavriole per l’interesse de’ gesti; far meno passi difficili e maneggiar meglio la fisonomia; non mettere tanta forza nell’esecuzione, ma mischiarvi più senso; allontanarsi con grazia dalle regole strette della scuola per seguire le impressioni della natura, e dare alla danza l’anima e l’azione, che deve avere per interessare». Pilade, Batillo, Ila, e quegli altri famosi danzatori che furono sì cari alla colta e dilicata corte d’Augusto, non immortalarono i loro nomi spiccando salti e intrecciando cavriole, ma sì rendendosi maravigliosi nell’esprimere colla danza le umane passioni: del che ne dà Macrobio una palpabil pruova. Rapporta questo scrittore107, che Pilade, saltando l’Ercole furioso si accese per modo della passione che voleva imitare, che giunse tra le sue smanie ad avventar saette contro al popolo; e che ripetendo la stessa danza in casa d’Augusto, invaso dal furore medesimo scoccò de’ dardi contra lo stesso imperatore, senza che la maestà del popolo romano, né quella d’Augusto, si mostrasse offesa dell’entusiasmo del ballerino. E Luciano nel dialogo intitolato la Danza definisce questa per un’«arte che fa professione d’esprimere il costumi e le passioni degli uomini, e di contraffare ora l’allegro, ora il malinconico, ora il placido, ora il collerico»: riducendo così tutta quest’arte alla danza bassa, senza far ricordo alcuno dell’alta. Depongano dunque una volta i nostri danzatori su questo particolare i loro pregiudizi. Essi debbono badare a rendersi eccellenti nell’imitazion degli affetti, non già nel ballo alto. Questa inferiore spezie di ballo, che non va né anche messa al novero delle belle arti, si rinunzi pure’ a quelli tra’ nostri bagattellieri che fanno spettacolo dell’agilità di lor gambe, i quali, a dirla, riescono essai meglio che essi nel ballo alto.

§. III. Avvertenze intorno all’esecuzione della medesima

[Sez.VI.2.3.1] Tutto ciò propriamente appartiene alla teoria della danza teatrale, donde, passando alla sua pratica, dee primieramente il maestro de’ balli badare a distribuire in modo la favola pantomimica fra tutti i ballanti, che niuno paia venuto là per far numero. Nondimeno questa distribuzione va eseguita in maniera che il pantomimo sia tanto men forte e men carico, quanto è meno la parte che ha il ballante nella favola. Il che fa, che più attenzione meriti l’ultimo de’ figuranti, che i primi ballerini, per la stessa ragione per cui, parlando della pronunziazione, si disse quella delle ultime parti essere più malagevole che la pronunziazione delle prime. Quindi è che poca pratichezza mostrano nella loro professione que’ maestri di balli, che tutta la loro attenzione consumando attorno a’ primi ballerini, lasciano i figuranti in loro balia.

[Sez.VI.2.3.2] Procuri in oltre d’osservar tra’ ballanti la degradazione della statura, per modo che quanto più le figure si allontanano dallo spettatore, tanto più la loro statura vada decrescendo. So che ciò non può sempre riuscire, ma quando il maestro de’ balli abbia accorgimento, riuscirà più spesso che non si crede, massimamente quando il ballo nella sua introdduzione fa una parte della decorazion teatrale. Ecco come anni sono si governò un perito maestro. Il ballo dovea rappresentare una caccia. Egli divise i trentasei figuranti, di cui quella truppa era composta, in sei classi, ciascuna di sei persone, tre delle quali erano uomini ed altrettante donne. La prima classe comprendea le persone della più vantaggiosa statura; la seconda era più bassi di quella; la terza più bassa della seconda, e via via; sì che l’ultima era formata da ragazzi e ragazze. Tutte poi queste classi erano abbigliate uniformemente e senza differenza veruna. Usciva la prima classe dal luogo più vicino agli spettatori, né veniva scendendo da su in giù, ma uscendo da un lato del proscenio s’inoltrava verso l’altro: insomma spaziava per la larghezza del proscenio, non già per la lunghezza. Fatto il suo pantomimo, questa classe, quasi inseguendo le fiere, se n’entrava pel luogo opposto a quello ond’era uscita. Entrata questa, usciva la seconda da luogo più lontano, ed eseguito anch’essa il suo pantomimo, dispariva come la prima. La terza, la quarta, la quinta facevano il medesimo. I fanciulli finalmente, che formavano la festa, comparvero dal fondo del proscenio, facendo un passaggio sopra un ponte. Siccome la statura de’ figuranti degradava, degradava parimente la musica, talché quella dell’ultima comparsa era così sommessa, che pareva un suono di stromenti da caccia che venisse di gran lontananza. Ora questa degradazione di statura e di musica, fece sul teatro il più bel giuoco. Il popolo vedendo i figuranti tanto più impicciolire, quanto più andavano in là, credea che fossero sempre que’ medesimi ch’erano comparsi da prima, ma dalla lontananza impiccioliti; e l’occhio, sedotto da quello inganno, mostrava gli oggetti in una distanza maravigliosa. Con questa degradazione di statura e di musica, andò d’accordo anche quella de’ colori delle vestimenta, onde parlammo in altro luogo.

[Sez.VI.2.3.3] Ma sopra un altro teatro un mal accorto maestro fece passare una truppa di gente a cavallo sopra un lontanissimo ponte, il quale era più picciolo della persona che su vi passava; disproporzione, che offese l’occhio de’ meno intendenti. O il passaggio doveva essere eseguito da fanciulli montati sopra finti cavalli, o il ponte doveva essere più vicino.

[Sez.VI.2.3.4] Che se quella comparsa lontana dovesse essere eseguita da ballerini che fanno le prime parti nella danza, allora la comparsa si farà da un fanciullo, e a questo, quando sarà tempo che il personaggio s’avvicini per dar principio alla sua parte, si sostituirà destramente il ballerino vestito alla stessa foggia del fanciullo.

[Sez.VI.2.3.5] Di più, particolarmente nel pantomimo di mezzo carattere e nel grottesco, i quali sogliono abbondare di scene di pianto e di riso, di sdegni e di riconciliazioni, procuri che le scene di pianto, di disperazione, di dolore, sieno lunghe e frequenti, interrotte bensì ad ora ad ora da scene di riso, di riconciliazioni, d’allegrezze. Queste scene però di contentezze sieno brevissime, poiché quando somiglianti scene sieno punto punto lunghe e frequenti, danno nel languido e nel noioso. Perciò i pas de deux, e simili altri balli, in cui vanno per l’ordinario a terminare queste scene di contenti, se non son corti, ed animati da sentimenti, sogliono riuscire episodici e freddissimi.

[Sez.VI.2.3.6] Si occupi finalmente a regolare non tanto la figura del ballo e le gambe de’ ballerini, quanto il loro volto, perciocché questo fornisce i più espressivi mezzi all’imitazion degli affetti. Il che fa abbastanza comprendere quanto l’uso delle maschere sia condannabile nel ballo teatrale, e generalmente in ogni scenica azione. La maschera nuoce all’attore (sia parlante o mutolo, com’è il ballerino) e allo spettatore. All’attore toglie la più vivace e la più feconda parte de’ pantomimici elementi, e lo riduce a quella inabilità, a cui sarebbe ridotto uno che fosse costretto a parlare con quattro sole lettere dell’abbiccì, allo spettatore la veduta della più vigorosa, della più passionevole espressione108. Si mascheri il volto a tutte le figure d’un quadro di qualunque eccellente pennello, e poi sia chiamato il più sagace uomo che ci viva, a spiegare, una per una, cose vogliono esprimere quelle figure. Il quesito lo dispererebbe, non ostante la felicità degli atteggiamenti adoperati dal pittore. Ma si tolga poi via la maschera. Quante novità! Che bel contrasto di sentimenti che la maschera oscurava! Che non dice quel sembiante sdegnato, quell’altro timoroso? Qui l’allegrezza che anima quelle guance, là lo squallore che ottenebra quella fronte, e d un’altra parte la tenerezza che illanguidisce due begli occhi? Ecco quante perdite cagiona la maschera. Di che convinti da lunga esperienza, i comici di Francia le hanno oggimai sbandite dal loro teatro. Molti sensati ballerini hanno fatto il medesimo; e quando loro occorra d’introdurre tritoni, fauni, ecc. non più gli mascherano, ma s’ingegnano di tinger loro il viso di tal colore, o di contrassegnare il loro capo e le membra di tali attributi, che caratterizzino que’ personaggi.

[Sez.VI.2.3.7] Non mi si opponga il costante uso che della maschera fecero gli antichi. Questa invenzione di sozza origine, come quella a cui diede nascimento il volto impiastrato di fango dagli attori di Tespi, nacque nell’infanzia della drammatica, e sopra un rozzo teatro. Il teatro col tempo s’ingentilì, ma non fu più nello stato d’allontanare da sé quel resto di sua antica rozzezza; e la maschera nata dal fango, e tra un popolo incolto, divenne necessaria su’ teatri delle più polite nazioni. La ragione che rendette allora necessario sì fatto arnese, fu l’ampiezza enorme degli antichi teatri, in cui si davano gratuitamente gli spettacoli a popolo numerosissimo. La parola dunque degli attori non sarebbe giunta all’orecchio de’ più lontani uditori, se non fosse stata soccorsa da una spezie di tromba, qual era l’antica maschera, fatta in modo che servisse a dar corpo e rimbombo alla voce. Ma oggi, che i teatri sono di gran lunga più angusti, perché la loro porta è tenuta a tutti coloro che non intendono di divertirsi a proprie spese, cessa ogni necessità di maschere. Da ciò che si è detto della maschera, s’intende ancora quanto sarebbe desiderabile che si abolisse sul teatro l’uso del belletto, il quale impedisce di vedere il cambiamento del colore, che ha tanta forza di muoverci.

Cap. III.
Qualità richieste in un danzatore.
§ I. Cognizioni necessarie a un danzatore

[Sez.VI.3.1.1] Dovendo il ballerino procurare non tanto di divenire agile e leggiero, quanto di rendere le mani e ‘l corpo eloquenti (come il filosofo Demetrio dicea d’un danzatore de’ tempi di Nerone) egli ha mestieri d’essere iniziato in più discipline. Luciano nel soprallegato dialogo sulla danza richiede in un ballerino l’intelligenza della poesia, della geometria, della musica e della filosofia. Vuole che possegga il segreto di muovere le passioni insegnato dalla rettorica; che accatti dalla pittura e dalla scultura i diversi atteggiamenti; che abbia (ciò che Tucidide attribuisce a Pericle) il segreto di discernere ogni dove il convenevole, il decoroso; che sia acuto, inventivo, giudizioso e di fino orecchio; e finalmente, che sappia la favola e la storia. È forse un pretender troppo? E non sarebbe anzi troppa la pretendono d’un ballerino, che sfornito delle cognizioni necessarie a ben esercitare li mestier suo, cercasse di comparir sul teatro d’una polita nazione? Non farebbe forse un oltraggio a quella nazione, di crederla di cattivo gusto, di facile contentatura, e capace di prender piacere in una danza intempestiva, eteroclita, sconnessa? Per contentare i Greci e i romani vi volea pur tanto; e per contentar noi non ci vorrà egli per lo meno altrettanto? Noi, che ci crediamo i depositari del gusto, e capaci di mangiar la torta in capo a tutta la Grecia e a tutta Roma.

[Sez.VI.3.1.2] Facciamo però giustizia a danzatori dell’età nostra. Non manca tra loro chi conosca questa verità, testimonio il più volte nominato Noverre, il quale nella quinta delle sue lettere non solo le cognizioni poc’anzi annoverate, ma di più quelle della notomia, della macchinistica, del disegno, richiede in un ballerino. Piacemi il recare spesso in mezzo i sentimenti di questo degno figliuol di Terpsicore, che è giunto a formarsi la vera idea dell’arte sua, traversando i pregiudizi comuni a coloro che esercitano la sua medesima professione.

[Sez.VI.3.1.3] Oltre al profitto che possano trarre dallo studio delle facultà pur or raccomandate, possano i danzatori profittare anche molto dell’osservare attentamente gli atti de’ mutoli, i quali col movimento or d’una, or d’un’altra parte del loro corpo si compongono un visibile parlare (come lo chiama il nostro primo poeta) e un copioso vocabolario di tutto ciò che vien loro in talento d’esprimere. Lionardo da Vinci, che sapea bene ciò ch’egli si dicea, assicurava che i mutoli erano i migliori maestri de’ pittore: del medesimo possiam noi assicurare i ballerini.

[Sez.VI.3.1.4] Può in oltre di grande uso esser loro la lettura di que’ libri e la cognizione di quelle cose che di sopra raccomandammo agli attori per l’acquisto d’una regolare pronunziazione. La pronunziazione ha colla danza una grande affinità, come fu da noi osservato, e però le loro leggi sono in buona parte all’una e all’altra comuni.

§ II. Taglio a lui proprio

[Sez.VI.3.2.1] Per accennare ora qualche cosa intorno alla corporatura del danzatore, essa vuol essere avvenente e ben formata; le sue membra forti insieme e snelle; la sua statura mezzana e, secondo la maniera di Policleto, né troppo alta né troppo bassa né pingue né magra, perché con gli accada quello che ad alcuni del suo mestiere intervenne sul teatro d’Antiochia. Perciocché fattosi su quel teatro un ballerino cazzatello a voler rappresentare Ettore, il popolo dimandò ad alta voce quando Ettore fosse per uscire, giacché colui non era che Astianatte. E un’altra volta, mentre uno spilungone rappresentava Capaneo sotto le mura di Tebe, «Tu non dovrai (gridò il popolo) aver bisogno di scale, poiché sei più alto delle mura». A un grasso, «guarda (disse), di non isfondare il palco»; e a un magro, «Bada a guarire e non a danzare». Tanto era quel popolo buono conoscitore e di difficile contentatura.

Sezione VII.
Della direzione dell’opera in musica

[Sez.VII.0.0.1] Abbiamo finora veduto qual sia il dovere di ciascuno de’ principali artisti che vengono impiegati nell’opera in musica. Dipendendo però il buon successo d’uno spettacolo non tanto da essi, quanto dall’opera di quel magistrato a cui n’è commessa la direzione, come il seguente capitolo dichiarerà: è d’uopo vedere in ultimo ciò che in particolare lo spettacolo nostro esiga dal suo direttore, e mettere così sotto un altro punto di veduta quelle medesime arti che abbiamo, ciascuna di per sé, insino a qui considerate.

Cap. I.
Necessità che ha l’opera in musica d’un abile direttore

[Sez.VII.1.0.1] Tutti i pubblici spettacoli, come quelli che sono destinati a trattenere un intero popolo, sogliono cagionare impressioni gagliardissime e universali. Quindi sono essi in ogni tempo stati gli arbitri de’ costumi delle intere nazioni; e le inclinazioni di queste, le loro più serie determinazioni, le loro usanze, si sono mutati a talento d’un tragico o d’un comico poeta. Di ciò molti esempi ne somministra la greca storia e la romana, siccome ne’ tempi ancora a noi più vicini abbiam veduto una sola commedia del Molière cagionare una general rivoluzione nel costume delle donne francesi109 , e un tragico poeta riformare uno de’ maggiori monarchi del mondo, abolendo con quattro versi il costume che aveano i re di Francia, di danzare su’ publici teatri110. Molto ancora contribuiscono gli spettacoli al progresso delle arti: e noi già osservammo fin da prima111, che la perfezione, a cui queste sì per tempo vennero tra noi, a quelli si debba in buona parte attribuire. Per lo contrario lo scapito recato all’agricoltura da un’ altra Commedia del citato Molière forse non mi sarebbe creduto sì di leggieri, se non mi garantisse l’autorità di riguardevole scrittore112.

[Sez.VII.1.0.2] Se dunque il costume e le arti d’una nazione, importantissimi oggetti ambidue, tanta dipendenza hanno dagli spettacoli, ben si vede quanto a questi sia necessaria la direzione d’un capo dotato di prudenza e di sapere, il quale ponga la sua attenzione a ordinare in vantaggio di que’ due grandi oggetti la gagliarda e universale impressione che gli spettacoli fanno. Il perché non si potrà mai abbastanza lodare la saviezza degli antichi, i quali a’ più riguardevoli magistrati affidavano la direzione de’ loro spettacoli.

[Sez.VII.1.0.3] Ma tra quanti n’ebbero i passati tempi e i nostri, niuno più dell’opera in musica ha bisogno d’un direttore savio insieme e intelligente. Da che, se la poesia, la musica, la pittura, l’architettura, la danza, possono molto influire nel costume e nel buon gusto d’una nazione, se ciascuna delle medesime merita una particolare attenzione della politica, vie maggiore sarà l’attenzione ch’esse meriteranno, quando insieme unite si soccorrano e sostengano scambievolmente, per imprimere una più profonda e durevol traccia negli animi nostri.

[Sez.VII.1.0.4] Evvi ancora un’altra ragione, per la quale la direzione dello spettacolo, che fa la materia di questo trattato, ha mestieri di non comuni talenti. Il direttore dell’opera in musica dee regolare il poeta drammatico, i maestri della musica e de’ balli, l’ingegniere, l’architetto, l’inventore degli abiti e delle scene. Ora, se egli non salutò né pur da lungi le annoverate arti, come potrà erigersi in lor direttore? Come si accorgerà egli, se il poeta o il pittore abbia o no osservate le leggi della drammatica, della prospettiva ecc.; se il maestro di cappella abbia adoperata una musica teatrale? Se l’inventore de’ balli abbia ideata una danza confacente alla favola drammatica? E quando gli occorra di valersi dell’architetto, come si guarderà egli di non obbligarlo a lavori che ripugnano alle regole dell’arte? Dal che avviene, che quando i teatri sortiscono per disgrazia simili direttori, niuna delle professioni sta in dovere, anzi si studia ciascuna di dare in arzigogoli, sicura d’incontrare per questo verso l’umore eteroclito e ‘l cattivo gusto di chi le dirige.

[Sez.VII.1.0.5] Tre oggetti principalmente fissar debbono la vigilanza del direttore, e sono: la buona esecuzione dello spettacolo, il buon ordine che si richiede nel luogo della rappresentazione e, quello ch’è dilicatissimo oltre a ogni altro, il costume della nazione. Veggiamo in breve, come s’abbia egli governare intorno a questi tre punti.

Cap. II.
Come vada procurata la buona esecuzione e ‘l buon ordine dello spettacolo dell’opera in musica

[Sez.VII.2.0.1] Perché lo spettacolo sia ben eseguito, il direttore dee principalmente occuparsi della scelta degli artisti che vi s’impiegano, ed aver poi l’occhio sopra di essi, affinché ciascuno faccia compiutamente il suo dovere. S’egli si abbandona alla balia delle persone di teatro, come oggi comunemente si fa sotto colore che a queste più che a qualunque altro stringano i cintolini e stia a cuore la buona riuscita dell’opera; s’egli sotto sì spezioso pretesto si rilassa punto punto sopra questi due principali doveri; tenga per fermo, che lo spettacolo riuscirà sazievole ed oltraggioso alla nazione a cui si ardisce di presentarlo, e che ciascuno degli artisti lo sfigurerà a capriccio. Se il cantante ha nel suo studio un’aria che gli va a verso, egli la caccerà nel libretto in barba d’Apollo e di tutto Parnaso. Il danzatore se ha un ballo prediletto, lo menerà in iscena, abbia pure tanto che fare col dramma, quanto la luna co’ granchi. La cantatrice priverà di sua protezione il poeta, se nelle arie di lei avrà messi tai sentimenti che non dieno gran presa a quella sorta di canto a cui sola è avvezza, e se avrà dimenticata la farfalla, l’eco, l’usignuolo, la tempesta, la navicella. Ma questo, e il di più che volentieri si tace, tutto è nulla appetto allo sconcerto che vi porta l’impresario. L’interesse di costui, quando non gli si ponga argine alcuno, domina dispoticamente il teatro; e la poesia, la musica e l’altre loro compagne, sono costrette a seguir le sue leggi e a trasgredir quelle della loro arte.

[Sez.VII.2.0.2] L’unico mezzo d’evitare sì fatti disordini, si è che il direttore non riposi sulla pretesa diligenza delle persone di teatro, ma che con occhio illuminato osservi da sé medesimo ciascuna disciplina. Questo Tarpa esamini tritamente se il libricciuolo è fatto sulle regole della drammatica e del buon gusto, se la musica esprima, o non piuttosto, come per l’ordinario avviene, uccida il sentimento: e così delle altre. Ma il verbo principale consiste, per nostro avviso, a vegliare sull’impresario. Io, quanto a me, rare volte soffrirei impresari alla testa d’uno spettacolo scenico; essendo fuor di dubbio tutto ciò che il teatro ha di contrario al buon costume, alle buone regole e al buon ordine, tutto derivato dall’avidità di costoro, i quali per guadagneria non arrossiscono d’allettare gli uomini coll’esca dell’impudicizia e di bizzarre novità. E la principal cagione che rendette gli antichi spettacoli sì superiori a’ moderni, si è che quelli non erano affidati a tal genia di mercenarie persone, ma a’ più rispettabili magistrati. Meno soffrirei impresari, qualora il teatro avesse molta dote, molta rendita certa. In questo caso l’impresario, sicuro del suo guadagno, si dà poca sollecitudine di ben servire il publico. Miglior consiglio è mettere l’amministrazione di quelle rendite tra le mani di persone di sperimentata probità, dalle quali può sperare il publico più soddisfazione che da uno stremo e tenace impresario, e le quali in fine di ciascun anno saran tenute a render conto di loro amministrazione. Ma qualora circostanze particolari non desser luogo a tale amministrazione, e il direttore si vedesse in necessità d’appaltare l’impresa del teatro, allora egli si terrà sempre guardingo, e procurerà che il suo zelo non sia soppiantato dall’avidità, che per ordinario regna nell’animo d’un impresario:

Gestit enim nummum in loculos dimittere; post hoc
Securus, cadat, an recto stet fabula talo113.

[Sez.VII.2.0.3] Quanto al buon ordine, il direttore baderà che non nasca veruno sconcerto nell’occupar le piazze o i sedili, che niuno impedisca la vista, il passo o l’udire al compagno, che tacciano i rumori, le grida, il batter delle mani, il cicalìo, i viva; che giovanotti presuntuoselli non vengano ad insolentire, e a toccare il naso al terzo e al quarto. Particolar vigilanza richiede il tempo, che, finita l’opera, s’esce di teatro. Fu da noi già dianzi notato che un edificio di questa natura ha bisogno di molte porte, corrispondenti a siti diversi per evitare i gravissimi inconvenienti che la scarsezza delle porte esteriori suol cagionare.

[Sez.VII.2.0.4] Ove per non essere il teatro isolato, o per altro accidente, il numero delle porte non fosse bastante, il direttore assegnerà ciascuna di esse ad uscieri di capacità e di coraggio, i quali facciano sì che tutto passi con tranquillità e con buon ordine, e ponga freno massimamente al servidorame, la di cui avventataggine è una delle maggiori sorgenti di risse, proverbiandosi scambievolmente, e percotendosi per ogni minimo che. Presso un popolo incivilito dovrebbe essere ignoto anche il nome di sì fatte villanie. Gli uscieri assegneranno a ciascuno il tempo d’uscire, e se taluno, formalizzato d’essere stato obbligato ad arrestarsi o a dare indietro, insolentisca contro di lui, messer lo spadaccino sarà punito in modo che gli putisca. L’usciere è colà come un giudice stabilito dal principe a diffinir le contese che insorgono alla porta del teatro, e del suo procedere non dà conto se non al principe e al direttore: onde all’uno o all’altro andrà a richiamarsene, chiunque crederà d’essere stato da lui soverchiato.

[Sez.VII.2.0.5] Ma affinché il direttore possa adempiere questa parte di suo uffizio, ha bisogno d’esser munito d’un’autorità sufficiente. Convien soprattutto che mentre egli è in teatro questa sua autorità si estenda sopra qualunque ceto, e che tutti, per condizione o grado che vantar possano, sien tenuti a rispettare gli ordini di lui.

Cap. III.
Come vada procurato nell’opera in musica il publico costume

[Sez.VII.3.0.1] Io non entrerò a dimostrare quanto importante oggetto pel direttore dell’opera in musica sia il costume della nazione. La cosa parla sì vivamente da sé, che a volersi arrestare a darne pruove egli sarebbe un cespitar nel piano.

[Sez.VII.3.0.2] Perché dunque non si desideri la di lui diligenza in un affare di tanta dilicatezza, il suo primo pensiero sarà quello di esaminare colla più accurata esquisitezza il libricciuolo. Procurerà in esso che i personaggi non parlino troppo della divinità, né (ove sieno pagani) secondo la grossolana religione del volgo de’ gentili, la quale trasferiva a’ suoi dei le più umilianti debolezze degli uomini, ma che dieno a conoscere ne’ loro ragionamenti qual idea aver si debba dell’essere supremo. Il qual linguaggio non sarà punto inverisimile in bocca loro, ben si sapendo che dalla teologia del volgo pagano era tutt’altra quella delle colte persone, le quali rigettando la moltiplicità degli dei, e le ingiuriose favole che si spacciavano di essi, un solo Dio e perfettissimo ammetteano114. Questo linguaggio adunque, anzi che sembrare inverisimile, arroge dignità e decoro a’ tragici personaggi. Così pure che non parlino tanto di sorte, di stelle, di destino, che non insinuino insomma la fatalità dagli avvenimenti, come affettano alcuni tragici; ma piuttosto la dipendenza che essi hanno dal sovrano arbitrio dell’autore della natura e dalla libertà degli uomini.

[Sez.VII.3.0.3] In generale somma attenzione esigono i discorsi e le azioni de’ personaggi drammatici, affinché gli uni non contengano delle massime false, e gli altri non dieno degli esempi perniziosi. Avviene spessissimo (non senza nota di chi dirige i teatri) l’udire le massime più contrarie alla religione e allo stato, spacciate impunemente in sulle scene, e dato un aspetto lodevole a’ più rei e più contagiosi esempi. Massime ed esempi sì fatti noi non gli soffriremmo in un libro, in un sermone. Procureremmo anzi di sopprimer quelli che ne fossero infetti; e non abbiamo il torto. Ma le stesse massime, gli stessi esempi si sentono sulle scene senza che se ne tenga conto veruno; ed abbiamo il maggior torto del mondo, mercecché que’ velenosi princìpi fanno più gran’ progresso e più rapido, spacciati in un dramma che in un sermone o in un libro. Tra’ popoli anche più illuminati, pochissimi son coloro che s’impacciano di legger libri, ma molti quelli che frequentano i teatri; e raro, o non mai, un oratore ha tanta udienza quanta un attore. Più: non dico tra’ sermoni, ma tra que’ libri stessi che hanno avuta più fortuna e più voga, qual è quello che si sappia per lo senno a mente, come avviene d’un dramma musicale? Qual autore, pognamo esempio, va così per le bocche di tutti, come il Metastasio? In oltre quando leggiamo un libro o ascoltiamo un sermone, il nostro spirito è tutto intento a ciò che gli si vuole insegnare, onde il proporgli un principio erroneo, di cui egli non conosca la falsità, è più malagevole che all’opera musicale, dove si è in uno stato di distrazione. L’illusione che cagiona in noi questo artifiziosissimo spettacolo, ci rende poco attenti a ciò che passa dentro di noi, sì che, uscendo poi di teatro, troviamo alcuna volta in noi stessi delle novità, alle quali avremmo certamente resistito, se altronde non fossimo stati distratti. Aggiugni che quando anche alcuna volta accada che ci arrestiamo ad esaminare alcun sentimento che le scene c’ispirano, pure quel sentimento medesimo, che in altro luogo e tempo sarebbe stato da noi rigettato come erroneo e pernizioso, allora, favorevolmente ricevuto, ci comparisce nobile ed innocente. Perciocché rari sono coloro che giudicano delle cose secondo il loro intrinseco valore: i più ne giudicano dal nodo onde vengono presentate. Se esse ci si espongono nudamente, e senza grazia veruna, poca accoglienza ottengono da noi. Ma se ci vengono innanzi d’una maniera aggradevole e interessante, esse scendono senza opposizione nell’imo della mente e del cuore. Perciò è più volte avvenuto, che il vero medesimo, presentato nella sua semplicità, ha avuto pochissimo corse e solamente

… condito in molli versi
I più schifi allettando ha persuaso. 

[Sez.VII.3.0.4] In una parola, gli uomini giudicano per la maggior parte come gli anziani di Troia. Finché costoro esaminano freddamente tra sé medesimi i motivi che ha Paride di negar Elena a Menelao, questi motivi sono insussistenti, contrari ad ogni dritto e alla publica tranquillità; e la bella greca va renduta senza indugio al marito. Ma appena Elena comparisce in mezzo ad essi, Paride ha mille ragioni, Menelao ha torto a ripeter la moglie, e questa amabil preda va sostenuta coll’estremo sangue de’ cittadini. Ecco per appunto l’illusione che l’opera in musica produce in noi. La poesia, la musica, le decorazioni c’innebriano in modo lo spirito, ch’egli, buona, o rea, beve avidamente ogni cosa.

[Sez.VII.3.0.5] Queste riflessioni dimostrano abbastanza, se il nostro animo non falla, qual esame richieda la poesia del nostro spettacolo. Che se l’opera in musica sia comica, questo esame vuol essere più rigoroso. Una tale spezie di drammi, non prendendo il tuono importante della tragedia, ma con motteggi e con risa rallegrando i suoi spettatori, tanto è più degna d’attenzione, quanto meno par che ne meriti. Essa delle volte sembra che adempia esattamente i suoi doveri. Comparisce tutta intesa ad emendare i nostri difetti, a ingentilire le nostre maniere; ma intanto tende nascostamente a rovinare la sana morale e a corrompere i costumi. Quest’indole perniziosa si può, chi ben l’esamini, discernere nelle commedie di Terenzio. Nell’Andria, a cagion d’esempio, il poeta espone come cosa indifferente l’illecito commercio che il giovane Panfilo mantiene con Gliceria, e i suoi raggiri per deludere il padre. Rende anzi quanto può amabile il carattere di quel giovane, e dispregevole quello di Simone suo genitore, affinché la colpe del primo, non solo compariscano indifferenti, ma belle e desiderabili; e molesta, ed odiosa la cura che prende il saggio vecchio per distogliere il figlio da quel criminoso attacco. Nell’Eunuco si animano gli uomini a disordinare coll’esempio della divinità. Così il giovane Cherea incoraggisce sé stesso a violare una vergine, perché il massimo Giove avea prima di lui fatto a Danae altrettanto. Il soldato Trasone conforta sé medesimo a sottomettersi a Taide cortigiana, riflettendo alle umiliazioni a cui Onfale soggettò Ercole. E di questa Taide si fa un carattere sì lodevole, che basta per togliere dall’animo della fanciulle ogni ripugnanza d’abbandonarsi all’infame mestiere di colei, vedendo che anche una cantoniera può comparir virtuosa e degna della stima delle oneste persone. Simili riflessioni si potrieno proseguire sulle altre commedie che ci rimangono del teatro greco e del romano, e sopra quelle del Molière, del Voltaire e di altri fra’ moderni, le quali peccano del vizio medesimo; ma volentieri le omettiamo, tenendo per fermo che le poche or ora esposte bastino per ricordare al dotto direttore quanto più delle tragiche abbiano l’opere comiche musicali bisogno d’accorgimento e di ponderazione.

[Sez.VII.3.0.6] Al cimento medesimo, a cui si sarà messa la poesia, si metterà di mano in mano ciascuna delle arti compagne. La musica, la danza, la pittura, le decorazioni, tutte sosterranno un esame diligente e severo, affinché niuna di esse spiri libertinaggio e licenza, ma tutte contribuiscano a rendere questo spettacolo degno d’una costumata nazione.

[Sez.VII.3.0.7] Ma per esser certo che l’opera in musica non offenda la publica costumatezza, non basta che tutte le arti che la compongono sieno state alla ripruova. Questo anzi è il meno. L’importanza consiste nella probità degli attori e de’ ballerini. Sieno le prefate arti gastigate quanto si voglia il più, tutto è nulla se il musico e il danzatore, e massimamente le donne di ambe le classi, non contano l’onestà fra le virtù più necessarie alla loro professione.

[Sez.VII.3.0.8] Per ciò che concerne le cantatrici, ben si sa qual predominio abbia sul cuore umano il canto donnesco, e una funeste e giornaliera esperienza fa vedere quanto spesso se ne abusino le donne di questa professione. Nella favola delle sirene, che col canto faceano naufragare gl’incauti naviganti, esprimer volle l’antichità in uno, e quel predominio, e quello abuso.

[Sez.VII.3.0.9] In ordine poi alle persone che si destinano alla danza, non è men noto quanto la loro professione inclini al libertinaggio quasi di sua natura. Infatti l’immodesta licenza, a cui altra volta si lasciaron trascorrere, rovinò la loro arte, attirando sopra di essa i fulmini del sacerdozio e dell’impero. Non possono leggersi senza rossore presso gli antichi le laidezze, alle quali le ballerine s’abbandonarono, per cui Claudio imperatore le proscrisse dal teatro romano. Tale azione va meritevolmente annoverata tra le più illustri del regno del mentovato imperatore, giacché queste mercenarie Salomi hanno talvolta corrotto il costume delle più famose nazioni. Un tale paragonava le ballerine a quelle galanteriette dilicatamente travagliate, le quali ci vengono di Francia o d’Inghilterra, che persona non può vedere senza solletico di possederle.

[Sez.VII.3.0.10] Non si possono, la buona mercé di Dio, rimproverare alle ballerine de’ nostri giorni i disordini delle antiche. Nondimeno rare sono anche in oggi quelle, che abbiano il coraggio di sacrificare all’onestà un passo leggiadro sì, ma seducente, di rinunziare a un movimento eloquente, espressivo, ma che contristar potrebbe la pudicizia. Particolarmente le nostre danzatrici grottesche gran libertà s’arrogano su queste punto, sicché il loro ballo par che voglia talvolta gareggiare colla protervia dell’antico cordace.

[Sez.VII.3.0.11] L’abuso adunque, che le cantatrici e le ballerine non rare volte fanno della loro professione, indusse la saggia Roma, sedente Innocenzio XI, a bandire perpetuamente le donne dal suo teatro: esempio degno d’essere da per tutto imitato, potendo lo spettacolo essere molto ben eseguito da’ soli uomini. Ne’ tempi più felici per la drammatica greca e latina, e per l’italiana, fu la rappresentazione de’ drammi a’ soli uomini addossata: le attrici non comparvero sul teatro prima della metà del secolo sedicesimo. Senza che ogni altra ragione dee cedere a quella della publica costumatezza.

[Sez.VII.3.0.12] Per lodevole però che sia un tal ripiego, non si creda ch’esso liberi il direttore da ogni sollecitudine, poiché spesso abbiam veduto un danzatore, o un Arione d’ambiguo sesso, cagionare non men gravi disordini, che una scapigliata cantatrice o ballerina.

[Sez.VII.3.0.13] Il direttore adunque non limiterà la sua vigilanza a un sesso. Egli procurerà a suo potere d’allontanar dal teatro ogni persona d’equivoca probità, siane il sesso qualunque. Ma (non si dissimuli) è sì ardua e sì dura tale intrapresa, ch’egli è ben malagevole di cavarne buon viso. Conciosiaché (se oserem dire apertamente ciò che ne va per l’animo su tal proposito) finattantoché cadrà sospetto d’infamia sulla professione delle persone di teatro115, e che si dubiterà se gli spettacoli drammatici di qualunque ragione sieno illeciti e incompatibili colla professione di nostra sacrosanta religione116 , l’onestà e l’innocenza avran ribrezzo di passeggiare le nostre scene. Perciocché le onorate persone, non senza una somma e giustissima ripugnanza, si possono recare ad eleggere un genere di vita, che a ragione o a torto vien riputato infame: non v’ha che i trasandati sulla loro riputazione e su’ loro costumi, che possono entrar di buon animo in tal carriera. Facciamo però giustizia al vero: noi cadiamo in una strana contraddizione. I nostri drammi sono publicati colla sovrana e coll’ecclesiastica approvazione; e intanto crediamo infami coloro che gli menano sulle scene. Si erigono ogni giorno de’ teatri sotto la protezione di secolari e di ecclesiastici principi; vi si va ogni giorno sotto gli occhi de’ medesimi; e, ciò nulla ostante, gli scenici divertimenti sono creduti repugnanti alla professione di cristiano. Questa contraddizione è più importante che altri a prima giunta non crede: essa illaccia le coscienze di molti, e rende l’arte scenica abbominevole alle persone costumate e dabbene, le quali sole per publico vantaggio sarebbe desiderabile che la professassero. Donde apparisce quanto gioverebbe l’uscire una volta di simile contraddizione. Se gli spettacoli drammatici sono illeciti e contrari allo spirito del cristianesimo, se i fulmini avventati una volta dalla chiesa e da’ padri contro gli antichi spettacoli hanno vigore anche in oggi, si demoliscano pure una volta i teatri. Non mancheranno altri più innocenti spettacoli, altri più lodevoli divertimenti da potervi sostituite. Ma se per lo contrario i moderni spettacoli non ripugnano al cristianesimo e se la chiesa e i padri condannarono, non gli spettacoli in generale, ma solo quelli usati da’ gentili, si cessi di declamare generalmente contro i teatri, e d’applicare a’ nostri attori117 il vituperio e l’infamia, a cui erano condannati gli antichi istrioni. Si cominci anzi a incoraggiare i buoni a questa professione, e a non permettere l’esercizio della medesima che a persone di sperimentata integrità. Questo è il mezzo più efficace di pervenire alla totale depurazione de’ nostri teatri. A questo fine il parlamento di Parigi nel 1641 registrò un dichiarazione in cui, dopo aver rinnovate le pene ordinarie contro i comici, che useranno parole equivoche o lascive, si dice che qualora osservino tali condizioni, essi non saranno in avvenire notati d’infamia118. Ma ad onta ancora di tal dichiarazione, la Francia, a parer mio, proseguirà a pensare come prima sulle persone di teatro, finché i suoi moralisti saranno discordi su questo punto, e non converranno o a condannare, o ad approvare gli spettacoli teatrali. Non appartiene a noi l’indicare i mezzi che tener dovrebbe lo stato, per terminare queste dissenzioni tra persone che rendono dubbiosa e incerta la cristiana morale, in vece di dichiararla e di simplificarla, per mettere (come lor dovere sarebbe) alla portata d’ognuno la più necessaria di tutte le scienze. Si torni dunque in via.

[Sez.VII.3.0.14] Ciò che finora osservammo, appartiene alle precauzioni da prendere, perché il nostro spettacolo non offenda la publica costumatezza. Ma la politica altro ancora, e non immeritamente, richiede, ordinando che l’opera in musica non solo non nuoca al costume de’ cittadini, ma che lo migliori e lo emendi. Ricordiamo adunque al savio direttore il modo ch’e’ vuol tenere per adempiere questo secondo più importante e insieme più malagevol dovere, ed appagar pienamente i desideri d’una politica benefattrice.

[Sez.VII.3.0.15] Secondoché gli stati sono diversamente governati, così richiedono ne’ loro sudditi diverse virtù. Le virtù, esempigrazia, onde ha d’uopo la monarchia, sono ben altre da quelle che a una repubblica convengono. In oltre ogni nazione ha il suo particolar carattere, nella composizione del quale entrano e virtù e difetti. Il direttore adunque dee conoscere quali sieno le virtù necessarie al governo nel quale egli vive, e le virtù e i vizi dominanti della sua nazione, per procurare che l’opera in musica insinui le prime e discrediti i secondi119. Perché egli ottenga sì fatto intento, la sua prima cura consisterà nella scelta nel dramma. Sarebbe sommamente commendabile, che ciascuna nazione avesse de’ drammi composti espressamente per sé. Euripide nella composizione delle sue tragedie aveva unicamente in mira la nazione, pel teatro della quale egli scriveva, e valeasi di quelle per ingerire segretamente in lei sane massime di morale e di politica. La tragedia a cagion d’esempio intitolata Le Supplicanti fu da lui composta per disporre quella nazione a far la pace co’ lacedemoni, come l’Addisson compose il suo Catone per occasione de’ torbidi che allora agitavano l’Inghilterra. Un dramma composto a caso, o destinato a istruire una straniera nazione, è spesse anzi pernizioso che utile. Così i drammi greci, che contengono sì frequenti pitture delle tirannie usate da’ monarchi, delle loro sventure e delle sollevazioni de’ popoli contro i loro principi, tai drammi composti in favore d’un popolo libero, qual era l’ateniese, tendeano ad affezionarlo sempre più al proprio governo, ad alimentare in lui l’abborrimento contro la monarchia e ad allontanare dall’animo di ciascuno il pensiero d’erigersi in tiranno della propria patria. Ma questi medesimi drammi riuscir potrebbero pericolosi a una nazione che sotto altro governo vivesse. Così ancora un dramma inglese potrebbe essere sedizioso in Francia, e un dramma francese tenderebbe a rovinare la costituzione del governo britannico.

[Sez.VII.3.0.16] Quanto a rendere amabile la virtù, e in particolare quelle che più son necessarie alla nazione, l’impresa non è la più malagevole. Ma lo screditare i vizi della medesima ha mestieri d’una somma circospezione. In questa materia va fatta distinzione tra il vizio tragico e ‘l comico, alla qual distinzione tanto è più necessario che badi il direttore, quanto che spesse volte è dimenticata dal poeta drammatico. In generale que’ vizi enormi, e che metter sogliono profonde radici nell’animo di chi gli contrae, possono entrar solo nella tragedia; nella commedia, o sia nell’opera comica, un accorto poeta non concederà loro mai luogo. Al contrario i leggieri difetti, quelli soprattutto che offendono l’urbanità e l’esterior compostezza, debbono entrar solo nella commedia; nella tragedia non mai. Se un mal avvisato poeta pensasse esempigrazia di soggettare al comico riso il vizio dell’usuraio o del truffatore, egli, in vece d’estirparlo, il confermerebbe nell’animo di chi n’è infetto. Perciocché, coloro ben sanno che i loro vizi son degni della publica esecrazione, onde, vedendo che non riscuotono che derisione, sembra ad essi di levarla del pari e lasciano volentieri rider di sé, purché eglino sien lasciati proseguire in pace il fatto loro. Credete voi che mai l’Aulularia di Plauto abbia guarito alcuno avaro, o Il Tartuffe del Molière alcuno ipocrita? Pensò meglio il Voltaire, che sparse di tutto l’orrore che merita l’ipocrisia, e ne rilevò tutte le funeste conseguenze nella tragedia intitolata il Maometto, che che biasimo ella meriti per altri conti. Da che il vedere tutto un publico dichiarato contro quel vizio, vederlo persuaso di tutte le sue orribili conseguenze, e disposto a tutto intraprendere per punirlo dovunque s’incontri, questi motivi sono più efficaci che la derisione a mettere il cervello d’un ipocrita a partito, e bastanti a mantenere nel dritto sentiere chi si senta tentato a deviare. Il bersaglio adunque, che l’opera comica musicale prenderà di mira, sono que’ leggieri difetti che si oppongono, come sogliam dire, al galateo: una donna vana, un saccentino, una salamistra, un tagliacantoni, un affettato ed altri caratteri equivalenti. Questi sono i vizi, contro i quali il riso è l’antidoto più possente e più efficace, i vizi comici, e che non possano essere esposti che in commedia. Chi nella tragedia gl’introducesse con dare a’ medesimi un aspetto tragico, porgerebbe materia non di spavento, ma di riso agli ascoltanti, che vedrebbero il poeta intimorito da que’ leggieri difetti, ed affannato a caricargli di tutto l’orrore che sol meritano le maggiori scelleratezze. Che se egli nella tragedia maneggi comicamente queste leggerezze, urterà nell’inconveniente delle tragicommedie spagnuole. Il ridicolo di que’ caratteri non troverà luogo nell’animo degli spettatori, occupato dalla grandezza de’ tragici avvenimenti, ed essi ne sdegneranno, come sì sdegna contro un buffone chi è occupato da grandi affari. Del qual difetto non so se sia del tutto esente il carattere dell’incolto Ircano nella Semiramide del Metastasio, personaggio più degno del socco che del maestoso coturno, solo che se gli desse una meno illustre condizione.

[Sez.VII.3.0.17] Avvi però alcuni difetti che in veruna spezie di drammi debbono aver luogo, e questi sono i difetti naturali, poiché, non dipendendo essi dal nostro arbitrio, invano sarebbero perseguitati dalla drammatica, scopo della quale è la nostra emendazione. Quindi, que’ poeti che soggettano al publico riso il sordo, il balbo, il cieco, il gobbo, lo scemo, oltraggiano indegnamente l’umanità, e scuoprono la malvagia tempera dell’animo loro. Per qual colpa meritarono il disprezzo degli altri uomini quegl’infelici, a cui la natura diede al contrario cotanto dritto alla compassione ed al soccorso altrui? Qual ragione ha l’inumano poeta d’aggravare il peso della loro miseria?

[Sez.VII.3.0.18] Non solamente il poeta dee rispettare alcuni difetti a cui soggiace l’umanità, ma sopra que’ vizi medesimi e quelle virtù, ch’egli dee prender di mira, non pretenderà di sguainarci addosso uno scolastico trattato o una solenne predica, come noi abbiam veduto in alcuni drammi, i quali, non ostante che si sarebbero degnamente potuti intitolare il trionfo de’ vizi, pure i personaggi in mezzo a infami azioni, ti regalavano a luogo a luogo di sì mortali tratti di morale, che cavato avrebbono Aristotile del seminato. Egli è vero che il poeta, non meno che l’oratore e ‘l cristiano filosofo, debbono essere come publici educatori destinati all’istituzione de’ loro concittadini, ma ciascuno di essi ha il suo proprio stile, dal quale non è lecito d’allontanarsi. E quanto biasimevole sarebbe un filosofo, che prendesse il tuono d’oratore, altrettanto il sarà un poeta, che cambi in pergamo il teatro, o che, entrato in liceo,

… d’acuti sillogismi
Empia la dialettica faretra.

[Sez.VII.3.0.19] Egli non deve attaccare il vizio e soccorrere la virtù a fronte scoperta, ma bensì come non fosse suo fatto, sì che il popolo non si accorga che si cerchi anzi d’istruirlo che di dargli solazzo. Breve, il poeta drammatico non dee metter la morale in precetti ma in azione.

[Sez.VII.3.0.20] Regolata così la poesia, il direttore volgerà l’animo alle altre arti, affinché tutte tendano ad ispirare le medesime virtù, e a screditare i medesimi vizi che il dramma vuol mettere in veduta, lusingandomi che al lettore non sembri strano, che la musica, la pittura, la danza, il vestimento, destramente adoperati, sieno attissimi ad introdurre alcune date disposizioni negli animi nostri, e ad impedirne alcune altre. E tali avvertenze, che non pretendiamo avere insegnate, ma ricordate solo al dotto direttore ed egli abili artisti, se nell’esecuzione dell’opera in musica verranno osservate, non sarà questa, come altri declama, uno spettacolo privo di buon senso e nocivo al costume; ma per lo contrario contribuirà moltissimo al progresso della publica costumatezza ed a quello delle belle arti.

Commento

Prefazione

[commento_Pref.2]né pur pensavano ancora ad avere un teatro: l’affermazione del primato dell’Italia anche nel teatro è un luogo comune della storiografia settecentesca: si veda per esempio S. Bettinelli, Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti, e ne’ costumi dopo il Mille, Bassano, Remondini, 1775,17862, parte seconda, cap. IV (musica) e cap. VI (feste e spettacoli). Prima di Bettinelli, Riccoboni e Muratori avevano diversamente argomentato intorno alla rinascita del teatro in Italia sin dal medioevo. Si veda per esempio, pur in un contesto di critica moralistica, L.A. Muratori, De spectaculis et ludis publicis Medii Aevi (in Antiquitates Italicae, t. II, Dissertatio vigesimanona, Milano, Società Palatina 1739): «Certo nullum ego tempus fuisse puto, quo Italia gerronibus, ludionibus, et praestigiatoribus istis caruerit […]. Si e quibusvis saeculis historicos, poëtas, aliosques scriptores haberemus, facile deprehenderemus, nulli tempori defuisse publica spectacula, quibus oblectarentur civium animi, eaque praesertim, quae ex hominum crumenis argentum exprimunt» (coll. 849-850: ‘Certamente credo che in nessun tempo l’Italia fosse scarsa di questi novellatori, giocolieri, prestigiatori. Se in quei secoli avessimo avuto storici, poeti e altri scrittori, facilmente li avremmo scoperti; ma in nessun tempo mancarono pubblici spettacoli da cui l’animo dei cittadini trae diletto, in particolare gli spettacoli che spillano denaro dalle borse’).

i massimi e i minimi di Apollonio: allude alla De maximis et minimis geometrica Divinatio in quintum Conicorum Apollonii Pergaei adhuc desideratum, Firenze, Cocchini 1659 di Vincenzo Viviani (1622-1703), uno degli ultimi, se non proprio l’ultimo discepolo di Galilei; per quanto la Divinatio sia un trattato importante nel campo della geometria secentesca (è la ricostruzione, per via congetturale, di un’opera di Apollonio Pergeo considerata allora perduta, poi recuperata), è abbastanza sorprendente, secondo il nostro metro, che Planelli accostasse Viviani a sommi quali Palladio, Michelangelo e Raffaello.

[commento_Pref.3]siccome recentissimi esempi lo han dimostrato: riferimento forse trasparente per il lettore contemporaneo, meno per noi; potrebbe trattarsi (come ipotizza Degrada) della chiusura del napoletano Teatrino di San Giacomo, detto anche Cantina: «a motivo dell’abolizione [nel 1769] si addusse l’oscenità delle recite che, facendosi all’improvviso, sfuggivano alla censura preventiva; la vita immorale delle attrici (e particolarmente di una Maddalena Scazzocchia, di cui il marito, Giovanni Vitonomeo, permetteva e sfruttava la ‘rilassatezza’; e infine (e di ciò veramente ci si avvedeva un po’ tardi) la sconvenienza che spettacoli cotanto profani avessero luogo così prossimo alle sacre cerimonie della superiore chiesa di San Giacomo» (B. Croce, I teatri di Napoli [1891], ristampa di Milano, Adelphi, 1992, p. 273).

[commento_Pref.4]solo il chiarissimo Algarotti: si riferisce al fortunato e influente Saggio sopra l’opera in musica di Francesco Algarotti (1755, ristampa aumentata nel 1763), che comprende anche due abbozzi di libretti in prosa, appositamente scritti dall’autore a sostegno della riforma dell’opera da lui proposta (Enea in Troja e Iphigénie en Aulide): il disegno del libro algarottiano in sostanza anticipa la riforma di Gluck ed è in più punti citato, e riecheggiato, come si vedrà, da Planelli.

[commento_Pref.7]Hor. Epist. ad Pison.: Orazio, Epistole, II, 3 (Ars Poetica), vv. 304-305: «farò la parte della cote, / non adatta per tagliare ma per affilare la lama» (allude ironicamente al cómpito del critico di fronte al poeta: è citazione comunissima, che si ritrova per esempio in testa alla Dissertazione su Metastasio del Calzabigi).

Imprimatur

[commento_Imprim.2]ἀγεωμέτρητοι, ἄμουσοι, ἀθεώρητοι: ‘privi di conoscenze geometriche, musicali, filosofiche’.

γεωμετρητάτη, μουσικωτάτη, θεωρητοτάτη: ‘massimamente geometrici, musicali, filosofici’.

θεωρητικωτατῶς: ‘nella maniera più filosofica’.

[commento_Imprim.3]Martorelli: Giacomo Martorelli (Napoli,1699 – Ercolano, 1777), professore di lingua greca all’Università di Napoli, erudito e archeologo, fu avversario di Genovesi e del programma di riforme di Tanucci; esercitò l’attività di Regio Revisore alle Stampe dal 1744 (vedi Dizionario biografico degli italiani, vol. 71, 2008, pp. 361-364, ‘voce’ di P. Matarazzo).

[commento_Imprim.5]Girardus de Angelis: anche l’altro revisore alle stampe è noto alle cronache letterarie: si tratta del padre minimo Gherardo degli Angioli (Ebola 1705 – Napoli 1783), che era stato in giovinezza poeta di qualche fama presso la corte di Vienna.

[commento_Sez.I.1.0.2]di queste volgari e cantate tragedie: il passo citato in nota (con relativo riferimento a Muratori) è dal Prologo dell’opera De obsidione Domini Canis Grandis de Verona ante civitatem Paduam di Albertino Mussato (1261-1329), già edito arbitrariamente nel Seicento (donde la fonte muratoriana utilizzata da Planelli) come libro nono del De gestis Italicorum post mortem Henrici septimi imperatoris; vedi l’edizione moderna dell’operetta a cura di G.M. Gianola, Padova, 1999, pp. 6-9. Il brano si conclude con questa clausola:«Nichil ergo recusandum disponens quod vestra deposcat amica suasio, fratribus meis annuens, qua licet et sciero, heroico usus metro exigente materia, populariter morem geram rudis ego cum rudibus». Su Mussato cfr. la ‘voce’ del Dizionario biografico degli italiani, vol. 77, 2012, pp. 520-524 (di Marino Zabbia: che ringrazio per le indicazioni che mi ha gentilmente fornito). È evidente che gli esempi addotti da Mussato poco o nulla hanno a che vedere con l’opera in musica modernamente intesa.

Sezione I

Cap. I

[commento_Sez.I.1.0.3]come si costuma anche in oggi: l’anonimo è da identificarsi con il domenicano milanese Galvano Fiamma; la citazione è tratta dal Chronicon extravagans (circa 1340), dopo Muratori parzialmente ripubblicato, insieme ad altro testo, da A. Ceruti a Torino nel 1896.

[commento_Sez.I.1.0.4]con sontuose decorazioni: cfr. L. Riccoboni, Réflexions historiques et critiques sur les differens théâtres de l’Europe, Paris, Guerin, 1738, pp. 12-17. Discutendo delle rappresentazioni sacre a Roma in epoca medievale, Riccoboni scrive tra l’altro: «si la Passion de notre Seigneur n’a pas été représentée au Colisée la première année de l’établissement de la Confrérie del Gonfalone, qui a été fondée en 1264, elle n’a pas tardé à y paroître. Cela supposé, je crois qu’il faut penser aussi, que dans l’établissement de la Confrérie, et dans l’arrangement des Statuts, les Confréres n’imaginérent pas les premiers ces sortes de Représentations; qu’elles avoient déjà été mises sur la scene particulierement et en mauvais ordre, et que la Confrérie se proposa de l’exécuter en meilleure forme et avec magnificence au Colisée. A quoi auroit servi l’institution de la Confrérie, qui avoit cet objet en vûe, si elle en avoit différé l’exécution de cent quatre-vingt-cinq ans? Il est donc naturel de croire que l’exécution de ce projet ne traîna pas long-tems, et ce seroit parler contre toute la probabilité de dire qu’elle a été portée jusqu’à l’année 1449» (p. 16: l’allusione polemica riguarda Crescimbeni).

[commento_Sez.I.1.0.5]Giovanni Villani: quella festa teatrale di calendimaggio ebbe in realtà un esito tragico: cfr. G. Villani, Cronica. A cura di F. Gherardi Dragomanni, Firenze, 1844-1845. Ristampa anastatica, Frankfurt, Minerva 1969, t. II, pp. 88-89 (da precisare che si tratta di Borgo san Friano, non Priano):«In questo medesimo tempo che ‘l cardinale da Prato [il domenicano fra Niccolò da Prato] era in Firenze, ed era in amore del popolo e de’ cittadini, sperando che mettesse buona pace tra loro [è il tempo della contesa tra Cerchi e Donati], per lo calen di maggio 1304, come al buon tempo passato del tranquillo e buono stato di Firenze, s’usavano le compagnie e le brigate di sollazzi per la cittade, per fare allegrezza e festa, si rinnovarono e fecionsene in più parti della città, a gara l’una contrada dell’altra, ciascuno chi meglio sapea e potea. Infra l’altre, come per antico aveano per costume quegli di borgo san Friano di fare più nuovi e diversi giuochi, sì mandarono un bando, che chiunque volesse sapere novelle dell’altro mondo, dovesse essere il dì di calen di Maggio in su ‘l ponte alla Carraia, e d’intorno all’Arno; e ordinarono in Arno sopra barche e navicelle palchi, e fecionvi la simiglianza e figura dell’inferno con fuochi e altre pene e martorii, con uomini contraffatti a demonia orribili a vedere, e altri i quali aveano figure d’anime ignude, che pareano persone, e mettevangli in quegli diversi tormenti con grandissime grida, e strida, e tempesta, la quale parea odiosa e spaventevole a udire e a vedere; e per lo nuovo gioco vi trassono a vedere molti cittadini, e ‘l ponte alla Carraia, il quale era allora di legname da pila a pila, si caricò sì di gente che rovinò in più parti, e cadde colla gente che v’era suso, onde se ne guastarono le persone, sicché il giuoco da beffe avvenne col vero, e com’era ito il bando, molti per morte n’andarono a sapere novelle dell’altro mondo, con grande pianto e dolore a tutta la cittade [...]».

l’Ammirato: la pagina dell’Ammirato dipende strettamente dalla Cronica di Villani, menzionando il «miserabile accidente», propiziato da «quelli di Borgo San Friano [che] con pazza invenzione promettono per il lor banditore di dar novelle dell’altro mondo a chi si fosse ragunato in sul ponte alla Carraia», sottolineando la credulità del popolino accalcatosi e le dimensioni dell’incidente («pochi furono quegli, che scamparono la morte, che guasti d’alcun membro o storpiati non rimanessero»); colpisce Ammirato più che la verosimiglianza dello spettacolo il «cattivo augurio» dell’incidente, quasi annuncio del rinnovarsi delle contese municipali (S. Ammirato, Istorie fiorentine, tomo I, Firenze, Massi, 1647, libro IV, p. 225).

Buonamico Buffalmacco: questo il passo di Vasari: «Scrivono alcuni che essendo Buonamico in Firenze, e trovandosi spesso con gl’amici e compagni suoi in bottega di Maso del Saggio, egli si truovò con molti altri a ordinare la festa che in dì di calen di maggio feciono gl’uomini di borgo S. Friano in Arno sopra certe barche, e che quando il ponte alla Carraia, che allora era di legno, rovinò per essere troppo carico di persone che erano corse a quello spettacolo, egli non vi morì, come molti altri feciono, perché quando appunto rovinò il ponte in sulla machina che in Arno sopra le barche rappresentava l’inferno, era andato a procacciare alcune cose che per la festa mancavano» (G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti [Edizione 1568]. A cura di C.L. Ragghianti, Milano, Rizzoli,1942-1949, I, p. 351).

il Cionacci: cfr. Rime sacre del Magnifico Lorenzo De’ Medici il vecchio, di Madonna Lucrezia sua madre e d’altri della stessa famiglia. Raccolte e d’Osservazioni corredate per Francesco Cionacci Sacerdote Fiorentino ed Accademico Apatista. Edizione seconda, Bergamo, Lancellotti 17602 [prima edizione, Firenze 1680], pp. XIII-XIV; il Cionacci cita sulla scorta del Villani e dell’Ammirato la «Festa rappresentata in Arno del 1304», congetturando in tal modo: «non può essere, s’io non m’inganno, se non o quella di Teofilo, in fine della quale potrebbesi veder lo ‘nferno, essendovi notato: Entrati i Diavoli nello Inferno con l’Ebreo, uno Angelo dà licenza; o più tosto quella di Lazzero ricco e Lazzero povero, nella fin della quale il Ricco dallo ‘nferno chiede in vano soccorso al Povero posto nel seno d’Abramo» (p. XIV).

[commento_Sez.I.1.0.6]il Crescimbeni: cfr. G.M. Crescimbeni, L’Istoria della volgar poesia. Terza impressione, Venezia, Basegio 1731, vol. I [Comentarj], pp. 272, 296 e 300-301: «dal luogo, dove ella fu fatta, cioè sopra fiume, e dal tempo, che fu per le Calen di Maggio, le quali sempre è stato solito di celebrarsi profanamente, giudicandola noi festa profana, e non sacra […], così da essa non fonderem qui principj delle rappresentazioni, o feste sacre» (300-301).

[commento_Sez.I.1.0.8]misteri: cfr. le Osservazioni cit. del Cionacci, p. XI, dove è menzionata anche la rubrica del Biagio: «Volendo voi, che qui si rappresenti / il bel Mister di Biagio contadino».

apertamente dimostra: cfr. Cionacci, Osservazioni cit., p. XIII, dove sono citati gli esempi di Planelli, con la precisazione: «si recitavano le Rappresentazioni con una maniera di proprio canto». Nella medesima edizione del Cionacci Planelli poteva leggere l’ottava iniziale della Rappresentazione di San Giovanni e Paolo di Lorenzo il Magnifico: «Silenzio, o voi, che ragunati siete: / voi vedrete una istoria nuova e santa, / diverse cose, e divote vedrete, / esempli di Fortuna varia tanta: / sanza tumulto stien le voci chete, / massimamente poi quando si canta; / a noi fatica, a voi el piacer resta, / però non ci guastate questa Festa».

a tal effetto impiegati: per Buffalmacco vedi retro; per Brunelleschi: «Dicesi […] che gl’ingegni del Paradiso di S. Felice in piazza […] furono trovati da Filippo [Brunelleschi], per fare la rappresentazione o vero festa della Nunziata, in quel modo che anticamente a Firenze in quel luogo si costumava di fare. La qual cosa invero era meravigliosa, e dimostrava l’ingegno e l’industria di chi ne fu inventore: perciò che si vedeva in alto un cielo pieno di figure vive moversi, et una infinità di lumi, quasi in un baleno scoprirsi e ricoprirsi» (G. Vasari, Le vite, ed. cit., I, p. 627); per Francesco di Giovanni detto il Cecca: «Dicesi che le nuvole che andavano in Fiorenza per la festa di S. Giovanni a processione, cosa certo ingegnosissima e bella furono invenzione del Cecca, il quale allora che la città usava di fare assai feste era molto in simili cose adoperato» (ivi, p. 820; nella Vita del Cecca Vasari menziona altre macchine effimere escogitate in occasione di feste religiose).

il prenominato Cionacci: cfr. Cionacci, Osservazioni cit. pp. XV-XVI:«Utilissime poi per molti capi riuscivano queste Feste alla Città; perché se riguardiamo alla plebe ed agli Artisti, che vivono del sudore delle loro braccia, a pro loro cadevano le grandi spese che portavan seco questi spettacoli: se riflettiamo a’ sottili ingegni de’ Fiorentini professori dell’arte del disegno, e delle Matematiche e Meccaniche, per ridurre la professione a quella perfezione in questo genere, che adesso la gode il mondo tutto: e se vogliamo parlare de’ costumi, per conto delle cose rappresentate, ne miglioravano gli spettatori, perché erano tali che si potevano rappresentare in Chiesa; né mai per conto di ciò vi fu bisogno, come oggidì, che i dotti e prudenti chiedessero la moderazione del Teatro» (notevole è l’esplicita polemica del Cionacci contro i rigoristi del suo tempo).

[commento_Sez.I.1.0.9]verso il 1480: cfr. F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, III/II, Milano, Agnelli 1744, p. 431-434; utilizzando il Sulpizio (su cui vedi la nota seguente) e altre fonti, Quadrio difende, contro lo scetticismo, a dire il vero ben fondato, di Crescimbeni, l’idea di una precoce diffusione della poesia «drammatica musicale» nella città del papa: «Roma, che aveva la medesima Musica Drammatica come smarrita e perduta, per aver dato alla declamazione degli Attori ciò che i Greci davano al Canto, e all’Armonia; la fece poi comparire sul Teatro verso l’anno 1480, come si ricava da Sulpizio nella Lettera Dedicatoria delle sue Note sopra Vitruvio, che presentò al Cardinale Riari Camerlengo di S. Chiesa; dove si dice, che questo Prelato fu il primo, che cantar facesse una Tragedia in pubblica piazza» (p. 431).

que’ melodrammi: menziona l’umanista Giovanni Sulpizio da Veroli (circa 1430-1490) e la sua famosa dedicatoria a Raffaele Riario tramite F.S. Quadrio, Della storia cit., pp. 431-432: «Le parole di Sulpizio son queste: ‘Tu il primo hai un Teatro, di altezza di cinque piedi, in mezzo alla Piazza eretto, fatto superbamente adornare ad uso di quella Tragedia, la quale noi i primi in questa età abbiamo alla Gioventù, per eccitarla, insegnato a rappresentare, e a cantare [probabilmente in occasione dell’Ippolito di Seneca]: perciocché azione di questa fatta non si era in Roma da molti secoli in qua veduta’. Ora come avrebbe egli potuto Sulpizio scrivere, che il primo aveva insegnato in quell’età a rappresentare, e a cantar la Tragedia, se del canto avesse egli inteso, che nel recitare le cose poetiche si usava in que’ tempi? Non era egli tal canto per testimonianza del medesimo Crescimbeni praticato già nelle Rappresentazioni, nelle Farse, e in altri simili cose, che prima assai di quel tempo erano nell’Italia introdotte? Ma il fatto sta, che Sulpizio uomo era nelle antiche dottrine e cose assai ben versato: e ponendo però egli mente, che le Rappresentazioni Drammatiche erano dagli Antichi cantate, tentò egli a suoi giorni di restituire con esse Tragedie anche questo costume». La fonte di Quadrio è la princeps del De Architectura di Vitruvio curata dal Sulpizio forse con la collaborazione di Pomponio Leto (raro incunabolo romano realizzato tra il 1486 e 1488), testo riprodotto anastaticamente da I.D. Rowland: L. Vitruvii Pollionis De archtectura libri decem / Ten Books of Architecture. The Corsini incunabulum, Roma Edizioni dell’Elefante, 2003. Ecco il passo («Ad lectorem», non pag.): «Tu enim primus Tragoediae, quam nos juventutem excitandi gratia et agere et cantare primi hoc aevo docuimus (nam ejus actionem iam multis saeculis Roma non viderat) in medio Foro pulpitum ad quinque pedum altitudinem erectum pulcherrime exornasti. Eandemque postquam in Hadriani mole Divo Innocentio [papa Innocenzo VIII] spectante est acta, rursus intra tuos penates tanquam in media circi cavea toto consessu umbraculis tecto, admisso populo et pluribus tui ordinis spectatoribus honorifice excepisti». Vedi anche F. Cruciani, Teatro nel Rinascimento: Roma 1450-1550, Roma, Bulzoni, 1983, pp. 219-225.

[commento_Sez.I.1.0.10]sorprese l’Europa: cfr. T. Calchi, Nuptiae Mediolanensium Ducum, sive Ioannis Galeacij cum Isabella Aragona, Ferdinandi Neapolitanorum regis nepte [1489], in: Id., Residua. E Bibliotheca patricij nobilissimi Lucii Hadriani Cottae, nunc primo prodeunt in lucem studio et opera Ioannis Petri Puricelli […], Milano, Malatesta, 1644, pp. 59-85; dell’aspetto musicale della grandiosa allegoria dell’amor profano escogitata dal Botta in realtà Calci fa appena un cenno: «[...] nullum ferculum illatum est, quod non histrio mimus et cantor cum apta ad rem ipsam fabula, ex veteri historia et priscorum pöetarum fabulamentis petita antecesserit» (p. 75). L’umanista e filologo Tristano Calchi (nato a Milano intorno alla meta del secolo quindicesimo, là morto tra il 1514 e il 1515) fu lo storiografo ufficiale di Ludovico il Moro: gli si devono gli Historiae mediolanensis libri viginti, apparsi a stampa solo nel 1627, di cui i Residua sono un’appendice.

gli autori dell’Encyclopédie: l’articolo Danse théâtrale è di Louis de Cahusac, storico e teorico della danza citato più avanti da Planelli. Il passo relativo allo spettacolo rinascimentale italiano è il seguente: «La danse, ensevelie dans la barbarie avec les autres arts, reparut avec eux en Italie dans le quinzième siècle; l’on vit renaître les ballets dans une fête magnifique qu’un gentilhomme de Lombardie, nommé Bergonce de Botta, donna à Tortone pour le mariage de Galéas duc de Milan avec Isabelle d’Arragon. Tout ce que la poésie, la musique, la danse, les machines peuvent fournir de plus brillant, fut épuisé dans ce spectacle superbe; la description qui en parut étonna l’Europe, et piqua l’émulation de quelques hommes à talens, qui profitèrent de ces nouvelles lumières pour donner de nouveaux plaisirs à leur nation. C’est l’époque de la naissance des grands ballets» (Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, ristampa di Lucca, tomo IV, 1759, p. 521). Come si vede, Cahusac non attribuisce alla festa sforzesca il merito, come sembra a Planelli, d’aver propiziato la nascita dell’opera in musica, quanto semmai il diffondersi dei balli spettacolari moderni.

[commento_Sez.I.1.0.11]di macchine e di decorazioni: la citazione è da La Presa di Granata, azione teatrale (la dizione farsa equivale qui a festa) in endecasillabi del Sannazzaro, rappresentata a Napoli (Castel Capuano), alla presenza di Alfonso Duca di Calabria, il 4 marzo 1492 per celebrare la caduta dell’ultimo baluardo arabo in Spagna (il trionfo militare di Ferdinando il Cattolico era stato nel gennaio di quell’anno). Vedi J. Sannazzaro, Le opere volgari, Padova, Comino 1723, pp. 422-426 (la citazione della didascalia da p. 425). Altre feste furono organizzate a Roma per quella storica vittoria: F. Cruciani, Teatro nel Rinascimento cit., pp. 228-239.

[commento_Sez.I.1.0.12]poeta ferrarese: la favola pastorale Il Sacrificio (o Il Sacrifizio) di Agostino de’ Beccari (Ferrara 1510 circa - 1590) fu rappresentata per la prima volta l’11 febbraio 1554 (non 1555), alla presenza di Ercole III d’Este con intermezzi musicali scritti da Alfonso Dalla Viola (Ferrara 1508 – 1573), col quale aveva collaborato il fratello di Alfonso, Andrea, anch’egli musicista. Il dramma fu replicato nel marzo dello stesso anno a Ferrara per Renata di Francia, poi a Parigi, alla corte di Enrico II, sempre nel 1555; molto dopo, nel 1587, venne ripreso a Ferrara per le nozze di Benedetta Pio con Girolamo Sanseverino Sanvitale prima, e di Clelia Farnese con Marco Pio poi (cfr. Dizionario biografico degli italiani, vol. 32, 1986, pp. 59-60, sub voce Dalla Viola, di N. Balata). Una ristampa moderna del dramma è nella silloge: A. Beccari – A. Lollio – A. Argenti, Favole. A cura di F. Pevere. Prefazione di G. Barberi Squarotti, Torino, Res, 1999.

duca di Ferrara: si tratta di Aretusa. Comedia pastorale (a stampa nel 1564) di Alberto Lollio (Firenze 1508 – Ferrara 1568): anch’essa è ripubblicata in A. Beccari – A. Lollio – A. Argenti, Favole cit.

del mentovato Viola: Alla prima rappresentazione della favola pastorale Lo sfortunato del letterato e giurista Agostino Argenti (o Arienti: Ferrara, inizio del XVI sec. – 1576) presenziò, insieme al duca Alfonso II, anche Torquato Tasso, che divenne poi amico sia di Argenti sia di Dalla Viola. Il testo (la princeps è del 1568) si legge ora in A. Beccari – A. Lollio – A. Argenti, Favole cit.

[commento_Sez.I.1.0.13]parecchi ne compose: Alessandro Striggio (o Strigio) senior (Mantova 1540-1592), compositore e suonatore di liuto e di viola, fu al servizio dei Medici prima e dei Gonzaga poi (da non confondere con l’omonimo figlio, 1573-1630, cantante e poeta, autore del libretto dell’Orfeo monteverdiano): uno dei primi a cimentarsi con la commedia madrigalesca, è ricordato principalmente per Il cicalamento delle donne al bucato, a quattro e a sette voci (1567).

sfuggito al Quadrio: Striggio musicò il primo, il secondo e il quinto intermezzo dell’Amico fido di Giovanni Maria de Bardi dei conti del Vernio (Firenze 1534 – Roma 1612): la commedia, oggi perduta (alle musiche collaborò Malvezzi, di cui alla nota seguente), andò in scena in occasione delle nozze di Virginia de’ Medici e Cesare d’Este. Bardi fu in sostanza il fondatore della Camerata fiorentina (detta infatti anche Camerata de’ Bardi): diede un decisivo contributo teorico alla nascita del nuovo genere musicale con il Discorso mandato a Caccini detto romano sopra la musica antica el cantar bene (circa 1590).

la quarta parte dell’interludio compose: Cristofano Malvezzi (Lucca 1547 – Firenze 1599), figlio d’arte, organista nella chiesa fiorentina di Santa Trinita, poi maestro di cappella nel Battistero di San Giovanni, scrisse vari intermezzi per la corte medicea, tra cui (oltre all’Amico fido) quelli per Le due Persilie di Giovanni Fedini (1583) e per La pellegrina di Girolamo Bargagli (1589); apprezzato madrigalista e allievo dello Striggio, fu maestro di Jacopo Peri: servendo in questo modo quasi da ideale anello di congiunzione nella preistoria dell’opera in musica (vedi Dizionario biografico degli italiani, vol. 68, 2007, pp. 310-313, ‘voce’ di C. Luzzi).

[commento_Sez.I.1.0.14]cantata in Roma: Emilio de’ Cavalieri (Roma 1550 circa – 1602), organista, compositore e autore di coreografie, fu a lungo al servizio del cardinale Ferdinando de’ Medici; esponente del nuovo stile monodico, contribuì sia al genere profano, sia a quello sacro. Non de La disperazione di Sileno (come scrive Planelli) si tratta ma di Fileno (Degrada). Il testo poetico del ballo Il giuoco della cieca (la cui musica è perduta) fu un rimaneggiamento, egualmente perduto, dal Pastor Fido II, 2 del Guarino: il ballo ebbe molte rappresentazioni a Firenze (nella Sala delle Statue di Palazzo Pitti) tra il 1595 e il 1598. Della poetessa lucchese Laura Guidiccioni (1550-1597 circa) poco ci è rimasto – appena due sonetti e una canzone –, ma fu figura di rilievo nella vita della corte: vedi la ‘voce’ di T. Megale in Dizionario biografico degli italiani, vol. 61, 2004, pp. 329-330, nonché, in generale, A. Solerti, L.G. Lucchesini ed Emilio De’ Cavalieri. I primi tentativi del melodramma, «Rivista musicale italiana», IX, 1902, pp. 797-829. L’allegoria drammatica Rappresentatione di anima et di corpo di Cavalieri fu eseguita a Roma, nella Chiesa Nuova dei padri oratoriani (Santa Maria in Vallicella), durante la quaresima dell’anno giubilare 1600, sul testo di una precedente lauda (1577) dell’oratoriano Agostino Manni. Si fa risalire convenzionalmente a questa data la nascita del genere dell’oratorio sacro: tuttavia lo spettacolo allora allestito era qualcosa di più, perché comprendeva costumi, apparati e una complessa scenografia.

[commento_Sez.I.1.0.15]di note musicali: è L’Amfiparnaso, comedia harmonica a cinque voci (il titolo vale grecamente ‘doppio Parnaso’, cioè poetico e musicale insieme) di Orazio Vecchi (Modena, 1550-1605): celebre esperimento musicale, non melodramma ma madrigale drammatizzato, che mescola satiricamente nel testo, alla maniera della commedia dell’arte, vari dialetti settentrionali, oltre a una versione parodica della lingua ebraica.

riportata dal Muratori: benché Muratori fosse avverso al genere dell’opera in musica, manifestò un orgoglio municipale nei confronti del lontano compatriota modenese, da lui considerato impropriamente inventore del genere e quindi da anteporre ai toscani della Camerata: «Ma, poiché si tratta di gloria, siami lecito il dire, che una tale invenzione, almen per quello che s’aspetta alla musica de gli strumenti, si dee piuttosto attribuire ad Orazio Vecchi cittadin modenese. Fu costui uomo valentissimo sì nella poesia, come nella musica, ed io nelle Memorie de gli Scrittori Modenesi, che ho raccolte, tengo il catalogo di tutte le opere composte, molte delle quali sono ancora stampate. Ora questo valentuomo prima del Rinuccini insegnò la maniera di rappresentare i mentovati drammi, e pieno d’anni, e di gloria se ne morì in patria l’anno 1605» (L. A. Muratori, Della perfetta poesia italiana spiegata e dimostrata con varie osservazioni e con varj giudizj sopra alcuni componimenti altrui […], tomo II, Modena, Soliani, 1706, p. 34). L’incipit dell’epigrafe commemorativa (menzionata da Muratori), che si può leggere ancora oggi nel chiostro dell’antica chiesa di San Biagio nel Carmine a Modena, è trascritta da Planelli alla nota seguente.

la musica a’ drammi: ‘[Vecchi], colui che primo la musica unì al genere comico e destò l’ammirazione universale’.

[commento_Sez.I.1.0.16]più particolarmente diremo: su Peri (Roma 1561 – Firenze 1633), il più importante musicista vissuto presso la corte medicea a cavallo tra Cinque e Seicento, vedi infra.

[commento_Sez.I.1.0.17]Neroni: Bartolomeo Neroni, detto il Riccio (nato forse a Montecchio tra il 1505 e il 1510, morto a Siena nel 1571), pittore e intagliatore, allievo di Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma (di cui sposò la figlia): nel campo della scenografia legò il suo nome soprattutto al magnifico allestimento dell’Ortensio di Alessandro Piccolomini nel senese Teatro degli Intronati (1560).

Peruzzi: Baldassarre Peruzzi (Siena 1481 – Roma 1536) fu uno dei più importanti architetti attivi a Roma durante i papati medicei (le sue spoglie riposano al Pantheon accanto a quelle di Raffaello, di cui fu seguace); il suo maggior contributo al teatro è la scenografia per le Bacchidi di Plauto allestite in occasione delle nozze di Giulia Colonna con Giuliano Cesarini (Roma, 1531).

Aristotile: Bastiano da San Gallo, soprannominato per la sua ingegnosità Aristotile (Firenze 1484 - 1551), pittore e scenografo, realizzò importanti allestimenti, tra cui si ricordano quello per Aridosia di Lorenzino de’ Medici (1536) e per Il Commodo di Antonio Landi (1539); fu molto ricercato a Firenze e a Roma per la realizzazione di architetture effimere innalzate in occasione di feste e di matrimoni principeschi (una di queste «prospettive», come erano chiamate, venne lodata dal Vasari). Vedi F. Cruciani, Teatro nel Rinascimento cit., pp. 620-623.

Leoni: Leone Leoni (Arezzo, 1509 – Milano 1590), scultore e incisore di monete dalla vita avventurosa (il Cellini nella Vita l’accusa tra l’altro d’aver tentato di avvelenarlo), è qui ricordato per la sua attività alla corte di Alfonso d’Avalos marchese del Vasto, governatore di Milano negli anni Cinquanta del Cinquecento, per il quale organizzò applaudite giostre e feste.

Timante Bonaccorsi: Bernardo Buontalenti, detto Bernardo Timante Bonaccorsi o anche Bernardo delle Girandole (Firenze 1531 – 1608), architetto civile e militare, fu continuatore del Vasari nella realizzazione della fabbrica degli Uffizi e realizzò molti apparati scenografici per la corte medicea (ad esempio nel 1579 per le nozze di Francesco I con Bianca Capello: M. Pieri, La nascita del teatro moderno in Italia tra XV e XVI secolo, Torino, Bollati Boringhieri 1989, pp. 93-95).

Lancia: Baldassarre Lanci, o Lancia (Urbino 1510 – Firenze 1571), architetto e ingegnere militare, ricordato tra l’altro per la realizzazione del giardino botanico dell’Università di Pisa e per varie scenografie teatrali eseguite tra Firenze e Pisa.

Monaldo: Bernardino Monaldi (Firenze [?] 1568 [?] – L’Aquila [?] 1620 [?]), pittore e frescante la cui biografia è malnota, forse citato qui per la sua collaborazione al «monocromo con la Battaglia di Lepanto (perduto) realizzato in occasione dell’allestimento dell’apparato decorativo per l’ingresso a Firenze di Cristina di Lorena, sposa del granduca Ferdinando, nel 1589» (A. De Lillo, ‘voce’ del Dizionario biografico degli italiani, vol. 75, 2011, pp. 546-549 [547]).

Vannocci: Oreste Biringucci, detto Vannocci (Siena 1558 – Mantova 1585), matematico e architetto, è tra l’altro noto per la realizzazione di apparati effimeri per la corte gonzaghesca.

Tribolo: Niccolò Pericoli, detto il Tribolo (Firenze, 1500 – 1550): verrà citato più avanti (vedi infra V, I) per le sue realizzazioni scenografiche.

Trissino: si riferisce naturalmente alla Sofonisba (pubblicata nel 1524) del vicentino Gian Giorgio Trissino (1478 – 1550), considerata, per la stretta imitazione dei modelli classici, la prima tragedia ‘regolare’ del Cinquecento: tanto lodata dai letterati, pur con le importanti riserve del Tasso, quanto raramente messa in scena.

Divizio da Bibbiena: Bernardo Dovizi detto il Bibbiena (Arezzo 1470 – Roma 1520), cardinale e diplomatico al servizio della famiglia Medici, è autore dell’acclamata commedia La Calandra (Urbino, 1513), modello per il teatro comico rinascimentale, non solo italiano.

Andronico: il tarentino Lucio Livio Andronico (circa 280 – 204 a.C.) portò per primo a Roma la tragedia greca, cimentandosi anche nel genere comico della palliata; della sua opera, che doveva essere cospicua, restano solo frammenti.

Tespi: Tespi è, secondo una tradizione che sfuma nel mito, l’inventore della tragedia in Grecia: i pochi frammenti conservati sotto il suo nome sono quasi certamente spuri.

[commento_Sez.I.1.0.18]tuttor gli mancava: Planelli rievoca brevemente in queste pagine la storia della Camerata fiorentina, che costituisce il vero e proprio atto di nascita dell’opera in musica, di là dai vaghi precorrimenti di cui ha sin qui discorso. Sorta per iniziativa del già menzionato conte de’ Bardi, ebbe tra i suoi principali membri: Vincenzo Galilei (padre del grande astronomo), umanista e compositore, in particolare per liuto (Santa Maria a Monte, Firenze 1520 circa – Firenze 1591); Pietro Strozzi (seconda metà del XVI secolo), madrigalista, autore della musica della Mascarada degli accecati, su testo di Rinuccini, 1595 (è tra gli interlocutori del Dialogo della musica antica et della moderna di V. Galilei, 1581); Jacopo Corsi (Firenze 1561 – 1604), letterato, grande mecenate intrinseco del granduca Ferdinando I, intonò due arie per la Dafne di Peri (il Chiabrera pianse la morte del Corsi in una serie di egloghe); Ottavio Rinuccini (Firenze 1562 – 1621), il prolifico poeta del gruppo, autore dei libretti delle due opere di Peri, oltreché di testi per Monteverdi (Il ballo delle ingrate, 1608) che visse a Firenze, Mantova, Parigi e Roma. Il prodotto più maturo del fervore dei fiorentini furono appunto la Dafne di Peri e Corsi (carnevale 1597, ma forse anticipata in occasione privata a Firenze nell’inverno 1594-1595) e l’Euridice di Peri (6 ottobre 1600, Palazzo Pitti, in occasione delle nozze di Enrico IV con Maria de’ Medici): questa è la prima opera conosciuta di cui si conservano integralmente le musiche (vi collaborò per alcune arie Giulio Caccini, che a sua volta, nel 1602, diede una diversa intonazione del medesimo libretto). I versi di Rinuccini riprendono con efficacia i modi dell’Aminta tassiana e del Pastor fido guariniano e costituiranno un modello per tutti i librettisti del Seicento. Dell’altra opera ricordata da Planelli, Arianna (1608, libretto ancora di Rinuccini), Peri scrisse solo i recitativi, mentre il resto della partitura è da attribuirsi a Monteverdi, «che il Planelli ignora del tutto» (Degrada).

Chiabrera: anche il savonese Gabriello Chiabrera (1552 – 1638) ebbe parte attiva nella nascente forma artistica, scrivendo tra l’altro i versi per Il rapimento di Cefalo, su musica di Caccini e di altri musicisti (1600: rappresentato insieme all’Euridice per le nozze di Enrico IV con Maria de’ Medici), più tardi per La veglia delle Grazie di Peri, Angelo Ricci e Lorenzino del Liuto (1615), e per Galatea di Sante Orlandi (1617). I ritmi apparentemente facili, in realtà studiatissimi, delle canzonette chiabreresche ispirarono molti musicisti contemporanei.

[commento_Sez.I.1.0.19]circolazione del sangue: vuole suggerire che nessuna scoperta è davvero nuova: Galileo stesso aveva indicato tra i precursori di Copernico i pitagorici; tra i predecessori dell’inglese William Harvey (1578 – 1657) si menziona di solito il medico aretino cinquecentesco Andrea Cesalpino.

[commento_Sez.I.1.0.20]d’italica poesia: Planelli asseconda l’idea, tipica della storiografia settecentesca (arriverà sino al Tiraboschi), della decadenza culturale secentesca e del conseguente cosiddetto cattivo gusto barocco: con la significativa eccezione della scienza di tradizione galileiana.

[commento_Sez.I.1.0.21]La Divisione del mondo: La Divisione del mondo di Giovanni Legrenzi, su versi di Giulio Cesare Corradi (Venezia, Teatro di San Salvador, carnevale 1675), fu celebre anche per l’impiego di macchine funzionali alla trama mitologica del libretto, che era dedicato alla nobiltà veneziana (l’opera è stata ripresa in anni recenti in Germania, al Festival di Schwetzingen). Legrenzi (Clusone, Bergamo 1626 – Venezia 1690) fu uno dei più versatili musicisti del suo tempo: scrisse sia nel campo della musica strumentale, sia dell’opera (si ricordino, tra i titoli teatrali veneziani, Germanico sul Reno, Totila, Ottaviano Cesare Augusto, Giustino).

anacreontiche stanze: Giasone di Giacinto Andrea Cicognini (Firenze 1606 – Venezia 1651 circa) fu rappresentato, per la musica di Francesco Cavalli (Crema 1602 – Venezia 1676), a Venezia, al Teatro di San Cassiano, nel gennaio 1649: è considerato, non solo per la novità segnalata da Planelli, uno dei capolavori del teatro barocco; ebbe molte riprese in tutta Italia, come è testimoniato dal gran numero di libretti (una quarantina di edizioni nel corso del secolo).

[commento_Sez.I.1.0.22]Apostolo Zeno: Zeno, Venezia 1668 – 1750, poeta cesareo alla corte di Vienna tra 1718 e il 1729, quando lasciò in favore del giovane Metastasio: fu autore di decine di libretti per oratorii sacri e per opere serie, a queste ultime cercando di ridare regolarità classica a correzione delle inverosimiglianze barocche. Sugli ultimi anni di Zeno (di rilievo anche negli studi storici e nel giornalismo letterario) vedi il recente: M. Forcellini, Diario zeniano. A cura di C. Viola, Pisa-Roma, Serra, 2012.

Pier Jacopo Martelli: Martello (o Martelli), Bologna 1665 – 1727, fu uno dei più influenti scrittori della prima Arcadia: gli si devono tragedie, commedie e importanti testi critici (Della tragedia antica e moderna, 1715; Il vero parigino italiano, 1719). Al suo nome si lega l’adattamento del verso alessandrino francese in forma di doppio settenario (detto appunto martelliano), molto fortunato nel teatro settecentesco.

l’abate Frugoni: Carlo Innocenzo Frugoni (Genova 1692 – Parma 1768), poeta e professore di retorica, protagonista della vita di corte a Parma, prima sotto i Farnese poi sotto i Borbone, sodale di Bettinelli nella polemica in favore del verso sciolto; librettista per il pugliese Traetta (Ippolito ed Aricia, 1759; I Tindaridi, 1760; Le feste d’Imeneo, 1760), precorse, alla lontana, alcuni dei princìpi della riforma di Gluck.

il marchese Maffei: il veronese Scipione Maffei (1675 – 1755), archeologo, storico, poeta, autore di una Merope (1713) composta a gara con Voltaire, scrisse tra le altre cose un importante trattato anti-rigoristico, De’ teatri antichi e moderni (1753); per Antonio Vivaldi compose i versi de La fida ninfa (Verona 1732, ripresa a Vienna nel 1737).

Paolo Rolli: Rolli (Roma 1687 – Todi 1765), tra i più originali poeti della prima Arcadia, scrisse durante un trentennale soggiorno londinese (1715-1744) libretti per Giovanni Bononcini, Domenico Scarlatti, Nicola Antonio Porpora, Georg Friedrich Händel; vedi P. Rolli, Libretti per musica. Edizione critica a cura di C. Caruso, Milano, Angeli, 1993.

il signor abate Metastasio: Metastasio (Pietro Trapassi), nato a Roma nel 1689 e morto a Vienna (dove si era trasferito nel 1729), nel 1782: il notissimo letterato che portò a compimento la riforma del melodramma intrapresa da Zeno, imponendo la lingua italiana nei teatri d’Europa.

[commento_Sez.I.1.0.23]nella vicina Inghilterra: il cardinale Mazarino, principale fautore dell’italianizzazione della corte all’epoca della Reggenza, chiamò a Parigi Luigi Rossi (1598-1653) perché componesse un’opera: e fu la tragicommedia Orfeo, che debuttò a Palais Royal il 3 marzo 1647 (il libretto, molto libero rispetto al mito tradizionale, era di Francesco Buti); Giovan Battista Balbi realizzò le scenografie, mentre le macchine teatrali, che destarono stupore, furono opera di Giacomo Torelli. L’Erismena di Francesco Cavalli (Venezia, 30 dicembre 1655), su libretto di Aurelio Aureli, fu probabilmente la prima opera italiana interamente eseguita in Inghilterra, Londra, 5 gennaio 1674 (Degrada); ma a lungo prevalse là il modello francese della tragédie lyrique, che ancora influenzò a fine secolo Purcell: solo con l’arrivo a Londra di Händel (1712) si affermò davvero il gusto italiano.

Cap. II

[commento_Sez.I.2.0.3]Siccome il Casa: il passo del Casa menzionato in nota da Planelli è tratto dal capitolo XXVI del Galateo (cfr. G. Della Casa, Prose. A cura di A. Di Benedetto, Torino, Utet, vol. I, 19912, pp. 263-264): riprende un’idea di convenienza estetica comune tra i classicisti dal Rinascimento in poi.

Cap. III

[commento_Sez.I.3.1.1]al movimento delle passioni: su questo punto, tipico dell’estetica musicale settecentesca, vedi C. Batteux, Les Beaux arts réduits à un même principe, 17472, II, III, 2.

[commento_Sez.I.3.1.2]un movimento di passione: Planelli tradusse l’opera del letterato tedesco di cultura francese J.H.S. Formey (Berlino 1711 – 1797), Principes élémentaires des belles-lettres (Berlino, 1758): Principj elementari delle belle-lettere. Opera del Sig. Formey tradotta dal francese, e corredata di note, e di appendici. All’Altezza Eminentissima di Emanuele Pinto Gran Maestro del Sacro e Militar Ordine Gerosolimitano, Principe di Malta, Gozzo ecc., Napoli, D. Campo, 1767. Corredò la traduzione di varie note e di una decina di appendici, in cui, a integrazione e correzione, richiamò soprattutto alcuni punti della storia letteraria italiana. L’appendice cui Planelli allude qui è la più lunga e la più interessante (pp. 22-25: a commento del brevissimo capitolo quinto «Della poesia»): scontento della troppo laconica e scolastica definizione di poesia data da Formey, richiama, discutendo col Tartarotti, il concetto latamente platonico di entusiasmo (o furore) poetico: «non v’à perfetto poema senza precedente furor poetico, per modo che ne abbisognan anche i più umili, l’egloga e.g., l’apologo etc. Mal dunque alcuni restringono l’entusiasmo al fuoco della lirica. Non niego io già che l’entusiasmo di questa sia per lo più maggiore di quello degli altri generi di poesia, cioè che la commozion degli affetti sia in esso proporzionata alla grandezza de’ suggetti lirici. Ma non perciò qualunque altro genere non avrà un entusiasmo a suo modo, e proporzionato al suggetto» (p. 25). Le pagine di Planelli nel sottinteso antimimetico («le cose reali, le creature non possono essere suggetti di poesia», p. 23), anticipano di pochi anni quanto teorizzato da Saverio Bettinelli in Dell’entusiasmo delle belle arti (Milano, 1769: edizione propiziata da Pietro Verri).

[commento_Sez.I.3.3.1]del quarto libro dell’Eneide: cfr. Confessiones, I.13, dove Agostino ricorda la remota formazione di studente (poi deplorata), quando era indotto a leggere gli «errores» di Enea, dimenticando i propri, a piangere sulle sciagure di Didone, non sulle proprie: «tenere cogebar Aeneae nescio cuius errores, oblitus errorum meorum, et plorare Didonem mortuam, quia se occidit ab amore, cum interea me ipsum in his a te morientem, deus, vita mea, siccis oculis ferrem miserrimus».

[commento_Sez.I.3.4.2]come i matematici amano di dire: allude qui alla teoria delle proporzioni musicali così come fu teorizzata nell’àmbito della polifonia (secondo la progressione 2:1, 3:1, 4:1, ecc; 4:3, 5:4, 6:5, ecc.).

[commento_Sez.I.3.4.3]non senza ragione insegnò Vitruvio: cfr. De architectura, I, II: «Item symmetria est ex ipsius operis membris conveniens, consensus ex partibusque separatis ad universae figurae speciem ratae partis responsus. Uti in hominis corpore e cubito, pede, palmo, digito ceterisque particulis symmetros est eurythmiae qualitas, sic est in operum perfectionibus» (‘La simmetria è un accordo tra le parti della stessa opera e una corrispondenza di ciascuna separatamente rispetto all’intero. Come nel corpo umano c’è armonia tra il braccio, il piede, la palma, il dito e le altre parti proporzionate, così è in ogni opera dotata di perfezione’).

[commento_Sez.I.3.5.2]siccome il dolore: la fenomenologia sensistica intorno al piacere e al dolore si cristallizza in Italia, anche in rapporto con il piacere estetico, nel discorso di Pietro Verri Sull’indole del piacere e del dolore (1773).

[commento_Sez.I.3.5.3]Due rosa fresche, e colte in paradiso: Petrarca, Canzoniere, 245.

[commento_Sez.I.3.6.1]alla disavventura di Priamo: la morte dei tre figli, tra i quali Ettore, il cui cadavere Priamo reclamò, infine con successo, presso Achille (il celebre episodio è nel libro ventiquattresimo dell’Iliade).

Sezione II

Cap. I

[commento_Sez.II.1.2.1]regole della Poesia nuova: allude agli esperimenti rinascimentali (poi ripresi nel secolo diciottesimo e quindi a fine Ottocento) di metrica quantitativa o ‘barbara’ – termine usato da Campanella, ripreso da Carducci – a imitazione del greco e del latino: Leon Battista Alberti li promosse all’interno del Certame coronario (1441), mentre Claudio Tolomei apprestò un vero e proprio manuale (Versi, et regole de la nuova poesia toscana, 1539).

[commento_Sez.II.1.2.2]del Conte Magalotti: vedi L. Magalotti, Il Fiore d’arancio. Ditirambo, in Id., La donna immaginaria. Canzoniere. Con altre di lui leggiadrissime composizioni inedite […], Lucca, Riccomini, 1762, p. 246.

[commento_Sez.II.1.2.5]era il giorno che al sol si scoloraro: Petrarca, Canzoniere, 3.

[commento_Sez.II.1.2.6]e nulla stringo e tutto il mondo abbraccio: Petrarca, Canzoniere, 134.

[commento_Sez.II.1.2.9]e i grappoli gli pendon dalle corna: P. Rolli, Autunno, in Id., De’ poetici componimenti [Libro II], Venezia, Occhi, 1761 p. 227.

[commento_Sez.II.1.2.10]canzonetta incidere: cfr. G.P. Zanotti, A S. Filippo Neri [incipit: «Ben puoi scherzando»], vv. 43-48, si legge in: G.P. Cavazzoni Zanotti, Didone. Tragedia. Con altre poesie, Bologna, Pisarri, 1724, p. 252.

[commento_Sez.II.1.2.11]perché sprezzi de leggi d’amor: G. Gigli, La forza del sangue e della pietà. Drama per musica, atto III, scena V, ed. di Siena, 1686, p. 58.

[commento_Sez.II.1.2.13]Galatea non sei fedel: P. Metastasio, La Galatea [1722], parte prima: Opere di P.M., Parigi, Herissant, t. X, 1782, p. 25.

[commento_Sez.II.1.2.14]voti innocenti: difficile identificare la paternità di questi versi citati exempli gratia (sono di Planelli stesso?).

[commento_Sez.II.1.2.16]senza nevi nel bere un contento: F. Redi, Bacco in Toscana. Ditirambo, vv. 297-300.

[commento_Sez.II.1.2.17]cetra d’or mi torna al petto: P. Rolli, Oda XIV, vv. 1-3, in Id., De’ poetici componimenti cit., p. 151.

[commento_Sez.II.1.2.18]ch’abbondevole sempre ammasso: A. Pegolotti, Ditirambo, in: Scelta di canzoni de’ più eccellenti poeti antichi e moderni, compilata e corredata di critiche osservazioni per uso della studiosa gioventù dal Padre Teobaldo Ceva […], Edizione terza, Venezia, Novelli, 1769, p. 531.

[commento_Sez.II.1.2.19]perché in moglie al bell’olmo si lega: A. Guidi, La Dafne. Cantata, in: Canzonieri di Alessandro Guidi e de’ due Zappi [a cura di A. Rubbi], Venezia, Zatta, 1789, p. 149.

[commento_Sez.II.1.2.22]la peggior morte: A. Zeno, Sisara. Azione sacra, parte prima, in Id., Poesie sacre drammatiche, Tomo VIII, Venezia, Pasquali, 1744, p. 6.

[commento_Sez.II.1.2.24]cómene un moggio, dolcissima Aglaja: L. Magalotti, Il Fiore d’arancio. Ditirambo cit., p. 246

mostro peggior non v’è: P. Metastasio, Artaserse, atto II, scena XII (aria di congedo di Mandane).

[commento_Sez.II.1.2.25]va fra l’orror de l’ircane foreste: questo e il precedente verso sono naturalmente libere variazioni di Planelli sull’incipit dell’aria metastasiana.

[commento_Sez.II.1.2.27]presso a morir: sono notissimi versi del Demetrio di Metastasio (atto II, scena XIII: pronunciati da Leonice); si avverta che nelle migliori edizioni settecentesche si legge non «ancorchè» ma «ancor che», quel che rende pleonastico parte del ragionamento espresso da Planelli in nota.

[commento_Sez.II.1.2.30]sia facile a soffrir: P. Metastasio, Adriano in Siria, Atto II, scena XII: dall’aria di congedo (e finale d’atto) di Farnaspe.

Cap. II

[commento_Sez.II.2.0.1]il Muratori: cfr. L.A. Muratori, Della perfetta poesia cit., p. 37: «Confesso ben’ anch’io non essere i moderni drammi per l’ordinario, se non Tragedie vestite della Musica. Ma perché mi pare a dismisura mutato sotto questo abito il sembiante vero delle Tragedie, tali non oserei quasi chiamarle, non si convenendo loro, anzi abborrendosi da loro (se pure han da essere perfette) la Musica, quale a’ nostri giorni s’usa» (al solito Muratori era piuttosto convinto del mancato accordo tra i generi).

il Calsabigi: cfr. R. de’ Calzabigi, Dissertazione su le poesie drammatiche del signor Abate Pietro Metastasio [1755], in Id., Scritti teatrali e letterari. A cura di A.L. Bellina, Roma, Salerno, 1994, vol. I, p 24 «[…] le poesie del signor Metastasio adornate di musica sono poesie musicali; ma senza l’unione di questo ornamento sono vere, perfette, e preziose tragedie, da compararsi alle più celebri di tutte le altre nazioni: tragedie corredate di unità, di costume, d’interesse, di sublime linguaggio poetico, di spettacolo, di maravigliosi accidenti, di maneggio singolar di passioni, e tali che per sé sole, senz’altro artificio che nell’animo meglio le insinui e penetrare destramente le faccia, risvegliano a seconda di ciò che esprimono il terrore, la compassione, l’amore, la pietà, e vanno al gran fine di emendare i vizî e di accendere le menti al conseguimento delle virtù, quali oggetti si sono nella tragedia prefissi i poeti greci, i latini, i francesi e gl’inglesi, alcuni de’ quali ha il signor Metastasio uguagliati ed altri di gran lunga superati». Successivamente, nella polemica ingaggiata con Arteaga, Calzabigi diventerà aspro critico di Metastasio.

il Voltaire: cfr. Voltaire, Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne. À son Éminence Mgr. Le Cardinal Querini, posta in testa alla Sémiramis [1749]: «Le récitatif italien est précisément la mélopée des anciens; c’est cette déclamation notée et soutenue par des instruments de musique. Cette mélopée, qui n’est ennuyeuse que dans vos mauvaises tragédies-opéra, est admirable dans vos bonnes pièces. Les chœurs que vous y avez ajoutés depuis quelques années, et qui sont liés essentiellement au sujet, approchent d’autant plus des chœurs des anciens, qu’ils sont exprimés avec une musique différente du récitatif, comme la strophe, l’épode et l’antistrophe étoient chantées chez les Grecs tout autrement que la mélopée des scènes» (Voltaire, La tragédie de Sémiramis, et quelques autres Pièces de littérature, Paris, Le Mercier – Lambert, 1750, pp. 5-6).

l’Algarotti: cfr. F. Algarotti. Saggio sopra l’opera in musica, Livorno, Coltellini, 1763, p. 14: «L’intendimento de’ nostri poeti fu di rimettere sul Teatro moderno la Tragedia Greca, d’introdurvi Melpomene accompagnata dalla musica, dal ballo, e da tutta quella pompa, che a’ tempi di Sofocle e di Euripide le soleva fare corteggio».

Cap. III

[commento_Sez.II.3.0.2]Poetica: cfr. Aristotele, Poetica, XIII, 1453a: «dapprincipio i poeti riportavano racconti qualsiasi, mentre ora invece le migliori tragedie sono composte intorno a poche famiglie, come per esempio le stirpi di Alcmeone, Edipo, Oreste, Meleagro, Tieste, Telefo e a quanti sia accaduto di patire o di fare cose terribili» (traduzione D. Lanza).

[commento_Sez.II.3.0.3]la drammatica illusione: il passo virgiliano citato da Planelli in nota suona per intero (vv. 21-26): «ipse caput tonsae foliis ornatus olivae / dona feram. Iam nunc sollemnis ducere pompas / ad delubra iuvat caesosque videre iuvencos, / vel scaena ut versis discedat frontibus utque / purpurea intexti tollant aulaea Britanni» (‘Io col capo ornato di foglie d’ulivo / porterò doni. E fin d’ora giova condurre la solenne processione / e vedere i giovenchi uccisi / o come cambia la scena voltando le quinte / e come s’alza il sipario di porpora dove sono raffigurati i Britanni’).

Calsabigi: cfr. R. de’ Calzabigi, Dissertazione, ed. cit., pp. 27-28: «Ma dalla coartata unità più evidenti inverosimili sono insinuati nella Tragedia, e tanto più gravi, quanto che o il costume, o la condotta del poema, o la dignità de’ personaggi che vi si introducono notabilissimi svantaggi ne ricevono. E ben potrei col far minuto esame delle antiche tragedie numerosi rilevarne gli esempî, ma mi contenterò di addurne alcuni che basteranno al mio disimpegno […]. Confida la Fedra di Euripide nella pubblica strada alle donne di Trezene i suoi furiosi amori sopra il figliastro; sceglie l’Elettra di Sofocle il vestibulo frequentato del palazzo di Egisto per trattar con Oreste, e con Pilade la congiura della morte dell’usurpatore».

Cap. IV

[commento_Sez.II.4.0.3]l’ingegnosissimo autore del Rutzvanscad il giovine: Zaccaria Vallaresso (1686-1769) sotto lo pseudonimo di Cattuffio Panchianio scrisse, a parodia della molto stentata tragedia d’imitazione sofoclea Ulisse il giovane (1720) di D. Lazzarini, la «arcisopratragichissima tragedia» Rutzvanscad il giovine (Bologna, Pisarri, poi, Venezia, Rossetti, 1724); nell’avviso all’«Amico lettore» Vallaresso scrive tra l’altro: «Come sono a’ tempi nostri cessati tutti que’ motivi, per i quali all’antica Grecia piacevano le orribilità e superstizioni tragiche, così è parso all’Autore molto strano ed inopportuno il voler avvezzare i nostri Teatri alla totale, e servile imitazione de’ Greci, e render grate all’udito e alla vista cose sì ripugnanti al nostro genio e al nostro costume».

il Crebillon e ‘l Lazzarini: Prosper Jolyot de Crebillon (1674-1762, detto anche Crebillon père, per distinguerlo dal quasi omonimo figlio (il romanziere erotico degli Égarements du coeur et de l’esprit), ebbe fortuna nel primo Settecento soprattutto con la tragedia Rhadamiste et Zénobie (1711); il menzionato maceratese Domenico Lazzarini (1688-1734) insegnò a lungo eloquenza greca e latina all’Università di Padova.

Cap. V

[commento_Sez.II.5.0.1]né sovranamente virtuoso, né malvagio: cfr. Aristotele, Poetica XIII, 1453a, dove è indicata la ‘misura’ dell’eroe tragico, che «non distinguendosi per virtù e per giustizia, non è volto in disgrazia per vizio e malvagità, ma per un errore [amartía

[commento_Sez.II.5.0.4]al carattere di Temistocle: Temistocle (1736) fu intonato da Antonio Caldara: la prima rappresentazione è viennese (4 novembre 1736) in occasione del compleanno dell’imperatore Carlo VI (come sempre, seguirono decine di intonazioni da parte di altri musicisti).

Cap. VI

[commento_Sez.II.6.0.1]il precetto d’Orazio: versi dell’Ars poetica (189-190) che sovente impacciarono i tragediografi in età moderna: «l’intreccio che vuol essere rappresentato e replicato / non deve essere né più breve né più lungo di cinque atti».

[commento_Sez.II.6.0.3]il Dacier: nelle osservazioni apposte da André Dacier alla propria traduzione sofoclea in prosa (L’Oedipe et l’Electre de Sophocle. Tragédies grecques, Paris, Barbin, 1692) non ritrovo questa pointe.

[commento_Sez.II.6.0.4]che oggi s’abbia l’Italia: cfr. F.M. Zanotti, Dell’arte poetica. Ragionamenti cinque [1768]. Ragionamento II [Della tragedia], in Id, Opere scelte, Milano, Società dei classici italiani, 1818, p. 124. Il fisico e filosofo Francesco Maria Zanotti (Bologna 1692 – 1777) non è da confondersi col fratello Giampietro, poeta e pittore menzionato sopra da Planelli.

Cap. VII

[commento_Sez.II.7.1.2]più si riscaldano contro le arie: vedi per esempio F. Algarotti, Saggio sopra l’opera cit., p. 31: «le arie si rimangono oppresse e quasi sfigurate sotto gli ornamenti, con che studia di sempre più abbellirle la foia della novità. Soverchiamente lunghi sogliono essere quei ritornelli, che le precedono, e ci sono assai volte di soprappiù. Nelle arie di collera per esempio; ché troppo ha dell’inverisimile, che un uomo in collera se ne stia ad aspettare con le mani a cintola, che sia finito il ritornello dell’aria per dare sfogo alla passione, che bolle dentro il cuor suo». Osservazioni del genere si trovavano, in versione satirica, già nel Teatro alla moda di Benedetto Marcello (1720): «Avverta poi [il musicista] che l’arie fino alla fine dell’opera siano a vicenda una allegra ed una patetica, senza aver riguardo veruno a parole, a tuoni, a convenienze di scena; se nell’arie vi entrassero nomi propri, v.g. padre, impero, amore, arena, regno, beltà, lena, core, ec. ec., nò, senza, già, e altri adverbi, dovrà il compositore moderno comporvi sopra un lungo passaggio, v.g. paaaa… impeeee… amoooo… areeee… reeee… beltàaaaa… lenaaaa… cooo… ec., noooo…. seeeen…giàaaaa… ec.» (ed. a cura di C. Di Gennaro, Milano, Il Polifilo, p. 16).

[commento_Sez.II.7.2.3]crie: nel linguaggio retorico-giuridico cria vale ‘parafrasi, commento’ (dal greco chráomai, ‘usare’, passato poi nel latino cria). Il termine è nel Dizionario del Tommaseo («Componimento fatto per esercizio, nel quale esponesi un fatto o una verità, ajutandosi degli ornamenti che porge l’arte rettorica»), ma non nei moderni dizionari storici.

[commento_Sez.II.7.2.4]in questo duetto tra Megacle ed Aristea: nell’atto I, scena X dell’Olimpiade di Metastasio (1733, musicata da Antonio Caldara) si legge per esteso: «Megacle: Ne’ giorni tuoi felici / ricordati di me. Aristea: Perché così mi dici, / anima mia perché? Megacle: Taci bell’idol mio. Aristea: Parla mio dolce amor. Megacle: Ah che parlando, oh dio! / tu mi trafiggi il cor! Aristea: Ah che tacendo, oh dio! / tu mi trafiggi il cor!».

nel terzo atto del suo Demofoonte: nell’atto III, scena III del Demofoonte (1733, musicato ancora da Caldara) il recitativo e l’aria di Matusio (citata sotto, in forma abbreviata, da Planelli) suonano così: «Quanto le menti umane / son mai varie fra lor! Lo stesso evento / a chi reca diletto, a chi tormento. / Ah che né mal verace, / né vero ben si dà; / prendono qualità / da’ nostri affetti. / Secondo in guerra o in pace / trovano il nostro cor, / cambiano di color / tutti gli oggetti».

[commento_Sez.II.7.2.5]al Quadrio il quale asserisce: cfr. F. S. Quadrio, Della storia e della ragione cit., III/II, p. 447: il gesuita (che, ci confessa altrove, era stato in gioventù anche lui librettista, seppur coperto dall’anonimato) difendeva ancora l’idea barocca dell’opposizione tra la serietà dei recitativi e la facilità concettosa delle arie; scriveva tra l’altro: «nelle ariette si suole intromettere non di rado qualche similitudine, o comparazione di farfalletta, di navicella, di ruscelletto, di tempesta, di venticello, di violetta, di augelletto, e simili, perché queste son tutte cose, che guidano l’idea in non so che di gradevole, che la ricrea» (ivi).

[commento_Sez.II.7.2.7]nella Merope una similitudine tratta da Virgilio: il riferimento è a S. Maffei, Merope, atto I, scena 3 (battuta di Polifonte): «…Io con sicura fronte / sprigiono il braccio a forza, egli, a due mani / la clava alzando, mi prepara un colpo / che, se giunto m’avesse, le mie sparse / cervella foran giocondo pasto / ai rapaci avoltoi […]»; cfr. una simile figura retorica sviluppata in Virgilio, Georgiche I, 49 («illius immensa eruperunt horrea messes»). L’osservazione era stata di Girolamo Tartarotti, che in un opuscolo indirizzato a Fontanini (1743) aveva tra l’altro censurato questa imitatio virgiliana del poeta veronese: cfr. C. Viola, La tragedia degli inverisimili. Girolamo Tartarotti critico della Merope maffeiana, nel vol. coll. «Mai non diero i dei senza un egual disastro una ventura». La Merope di Scipione Maffei nel terzo centenario. A cura di E. Zucchi, Milano, Mimesis, 2015, pp. 169-198 (192-193).

sprigionato da Artaserse: Artaserse fu rappresentato per la prima volta a Roma, con la musica di Leonardo Vinci, il 4 febbraio 1730: è l’ultimo grande testo metastasiano prima della partenza per Vienna (dell’aprile di quell’anno).

[commento_Sez.II.7.2.8]va prigioniera in fonte: questo l’intera arietta (fa séguito ai versi sopra citati di Arbace): «L’onda dal mar divisa / bagna la valle, il monte, / va passaggiera in fiume, / va prigioniera in fonte. / Mormora sempre e geme / fin che non torna al mar. / Al mar dov’ella nacque, / dove acquistò gli umori, / dove dai lunghi errori / spera di riposar».

un famoso letterato di Francia: di quest’aria metastasiana D’Alembert ebbe a scrivere, come accenna Planelli in nota, nel saggio apparso nei Mélanges de littérature, d’histoire et de philosophie: «Le grand mérite de ces morceaux [parla delle arie delle opere italiane] est d’être liés à la situation, et d’en augmenter l’intérêt. Mais malheureusement les italiens n’observent pas toujours cette règle et les airs de leurs scènes sont trop souvent détachés du sujet; ce sont des maximes, des comparaisons, des images qui refroidissent nécessairement l’action, quelque bien rendues qu’elles puissent être par le compositeur et le poète. On ne peut s’empêcher de reconnoître ce défaut dans l’air célèbre chanté par Arbace, Vo solcando un mar crudele, tout admirable qu’il est pour la musique et pour les paroles: il n’est point dans la nature qu’Arbace accusé, innocent et prêt à périr, se compare en beaux vers à un nautonier égaré qui a perdu ses voiles, qui voit l’onde se soulever, et le ciel se couvrir de nuages. Arbace sort encore plus de la nature dans ce qu’il ajoute, qu’abandonné de tout le monde, il a pour seule compagne son innocence, qui le conduit elle-même au naufrage» (ed. di Amsterdam dei Mélanges, tomo IV, 1760, p. 434).

Vò solcando un mar crudele: Artaserse, atto I, scena XV (chiusura d’atto): «Vo solcando un mar crudele, / senza vele e senza sarte; / freme l’onda, il ciel s’imbruna, / cresce il vento e manca l’arte / e il voler della fortuna / son costretto a seguitar. / Infelice in questo stato / son da tutti abbandonato; / meco sola è l’innocenza / che mi porta a naufragar».

[commento_Sez.II.7.2.10]facciamo che Megacle: si riferisce rispettivamente a due celebri luoghi dell’Olimpiade metastasiana: atto II, scena X ( «Se cerca, se dice: / ‘l’amico dov’è», con quel che segue); atto I, scena X (duetto di Megacle e Aristea: «Ne’ giorni tuoi felici / ricordati di me // Perché così mi dici, / anima mia, perché?» ecc.).

[commento_Sez.II.7.2.14] • le arie Conservati fedele, Fra cento affanni, e cento, Deh respirar lasciatemi: sono ancora arie dal primo atto dell’Artaserse metastasiano: I, 1 (aria di Mandane); I, 2 (Arbace); I, 11 (Artaserse).

Alceste: l’Alceste di Gluck fu rappresentato per la prima volta senza grande successo, contrariamente a quanto scrive Planelli, al Burgtheater di Vienna il 26 dicembre 1767 (il 1769 menzionato da Planelli si riferisce evidentemente alla prima edizione a stampa della partitura e del libretto). L’opera volle essere, come Calzabigi spiega nella prefazione-dedica all’arciduca d’Asburgo e Granduca di Toscana Pietro Leopoldo (firmata «Cristoforo Gluck» ma attribuibile all’italiano), una sorta di manifesto della nuova drammaturgia, che prevedeva tra l’altro una drastica limitazione delle arie con da capo, un ampliamento del canto sillabico e dei recitativi accompagnati; la ‘naturalità’ dell’intreccio portava inoltre alla cancellazione dei ruoli attribuiti tradizionalmente ai cantanti castrati (nei due paragrafi che seguono Planelli non fa che parafrasare le idee di Calzabigi). Calzabigi registrò con soddisfazione il giudizio di Planelli nella sua verbosissima autodifesa del 1789 contro l’Arteaga (e Metastasio), Risposta che ritrovò casualmente nella gran città di Napoli il licenziato Don Santigliano di Gilblas y Guzman y Tormes y Alfarace (cap. V): vedi R. Calzabigi, Scritti teatrali e letterari cit., vol. II, p. 381. Alceste fu poi ripreso da Gluck a Parigi nel 1776, con nuovo libretto francese scritto da Le Bailly du Roullet.

[commento_Sez.II.7.3.2]uno stile più sostenuto e sublime: cfr. F. Algarotti, Saggio sopra l’opera cit., p. 29: «Una qualche commozione pare che cagioni presentemente il recitativo, quando esso sia obbligato, come soglion dire, e accompagnato con istrumenti. E forse non disconverrebbe, che una tale usanza si facesse più comune ancora ch’ella non è. Qual calore, e qual vita non viene a ricevere in fatti un recitativo, se là dove si esalta la passione, sia rinforzato dall’orchestra, se ogni sorta d’arme, per così dire, assalga il cuore ad un tempo, e la fantasia?».

Sezione III

Cap. I

[commento_Sez.III.1.2.1]come l’antica da’ Greci: la cultura settecentesca conobbe una forte ripresa d’interesse per la poesia biblica (in particolare per i Salmi, che vennero a più riprese volgarizzati) e l’accostamento stesso tra sapienza greca e sapienza ebraica divenne un tema canonico, soprattutto dopo i controversi lavori del napoletano Saverio Mattei (vedi C. Leri, «Il sublime dell’ebrea poesia». Bibbia e letteratura nel Settecento italiano, Bologna, Il Mulino, 2008).

le pruove datene dal chiarissimo padre Martini: per il contrappunto (legato alla polifonia, probabilmente ignota agli antichi) Planelli si riferisce a G.B. Martini, Storia della musica, t. I, Bologna, Dalla Volpe, 1757, Dissertazione seconda [«Qual canto in consonanza usassero gli antichi»], in particolare alle pp. 171-176.

[commento_Sez.III.1.3.1]alle diverse parti della sua diceria: cfr. Cicerone, De oratore, III, 60 «Itaque et idem Graccus – quod potes audire, Catule, ex Licinio cliente tuo, litterato homine quem servum sibi ille habuit ad manum – cum eburneola solitus est habere fistula, qui staret occulte post ipsum, cum contionaretur, peritum hominem, qui inflaret celeriter eum sonum, quo illum aut remissum excitaret aut a contentione revocaret» (‘Tu stesso, Catulo, potresti farti raccontare dal tuo cliente Licinio, uomo di lettere, che fu uno schiavo di Gracco e svolse per lui il compito di scrivano, che, quando pronunciava un discorso, Gracco era solito tenere con sé, nascosto, un aiutante esperto che, con una piccola zampogna d’avorio, suonava rapidamente una nota per fargli innalzare il tono di voce quando si abbassava troppo, e per farglielo abbassare quando era troppo in alto’).

[commento_Sez.III.1.3.3]diramazione ancora del quinto paio: il ricorso al termine medico diatetico (‘predisposto’) in questo contesto pare un originale scelta lessicale di Planelli.

secondo il Willis: si riferisce a T. Willis, De anima brutorum quae hominis vitalis ac sensitiva est. Exercitationes duae, Londra, Oxon, 1672 (in particolare al capitolo IV). Thomas Willis (1621-1675), importante medico e anatomopatologo inglese, membro della Royal Society, ha legato il proprio nome alla nascita della neurologia, oltreché allo studio delle cause del diabete. Da un punto di vista filosofico le sue ricerche sull’anima degli animali (più volte ristampate anche nell’Europa continentale) si situano entro il meccanicismo cartesiano: l’interesse di Planelli per lo studio dell’origine fisiologica delle passioni ha dunque qualcosa di vagamente materialistico (ma si vedano le critiche rivolte a Willis nella nota)

[commento_Sez.III.1.3.5]quegl’infermi che la Puglia chiama tarantolati: le notizie sui cosiddetti tarantolati ebbero nel Settecento anche una vivace eco letteraria; si veda per esempio, in àmbito arcadico, G.M. Crescimbeni, L’Arcadia, Roma, De’ Rossi, 17112, pp. 80-81.

[commento_Sez.III.1.4.1]come la storia medesima il conferma: per il passo plutarcheo menzionato da Planelli in nota, vedi De musica, IV-VI (Terpandro a Sparta). La discussione sugli effetti pratici della musica, con esplicito paragone tra antichi e moderni, ha una lunga storia nel Settecento: in tema Antonio Conti offrì a Benedetto Marcello i versi de Il Timoteo o gli effetti della musica (cantata 1727: ispirato all’Alexander’s Feast di Dryden). Sull’argomento scrisse tra gli altri il medico, figlio di musicista, Pierre-Jean Burette, tradotto anche in Italia: Paragone dell’antica colla moderna musica. Dissertazione del Signor Burette in cui si dimostra, che i maravigliosi effetti attribuiti alla musica degli antichi non provan in niun modo, ch’essa fosse più perfetta della nostra, Venezia, Groppo, 1748 (l’originale è del 1729).

[commento_Sez.III.1.4.2]sotto il frettoloso tempo a cappella: «il “modo minore d’effaut” (o fefaut) corrisponde a fa minore; il “maggiore dell’ellamì” corrisponde a mi maggiore. Si tratta evidentemente di tonalità assai lontane fra loro, donde la censura del Planelli» (Degrada).

[commento_Sez.III.1.4.7]quindi Ateneo ci assicura: sul valore didattico e sugli effetti della musica Ateneo si sofferma in particolare nel libro IV dei Deipnosofisti, 174a-185a: Ateneo, I deipnosofisti. I dotti a banchetto. Edizione diretta da L. Canfora, vol. I, Roma, Salerno, 2001, pp. 433-451.

ciò che scrive Polibio: nel quarto libro delle Storie, capp. 20-22, Polibio loda il costume della maggior parte dei popoli dell’Arcadia che insegnavano ai bambini la musica, a partire dalle cerimonie in onore di Bacco; abitudine ignota ai Cinetesi, considerati per questo poco meno che barbari.

[commento_Sez.III.1.4.8]il cantore lasciato da Agamennone: si riferisce alla versione omerica della storia di Clitemnestra: «E lei prima rifiutava l’orribile azione, / Clitemnestra gloriosa: aveva buon sentimento. / E l’era vicino il cantore [aoidòs anér], a cui molto raccomandò, / andando a Troia, l’Atride di sorvegliargli la sposa (Odissea, III, vv. 265-268, trad. R. Calzecchi Onesti).

[commento_Sez.III.1.4.9]il coraggio militare: il passo oraziano suona tradotto «Orfeo, sacerdote e interprete degli dei, / distolse gli uomini selvaggi dalle stragi e da nutrimenti atroci, / e si disse per questo che ammansiva le tigri e i leoni feroci; / anche di Anfione, fondatore di Tebe, narrarono / che muoveva le pietre al suono della lira, / spostandole dove voleva / con la dolcezza della sua preghiera. / Così a quel tempo era la sapienza: / distinguere il pubblico dal privato, il sacro dal profano / interdire l’amore libero da vincoli, / promulgare il diritto di famiglia / fondare le città, incidere su tavola le leggi» (Orazio, Epistolae, II, 3, vv. 391-399, trad. M. Ramous).

[commento_Sez.III.1.4.10]principiassero e terminassero la giornata: dei benefici quotidiani apportati secondo Pitagora dall’armoniké epistéme Giamblico parla per la precisione nel capitolo XXV della Vita di Pitagora.

Platone: la sentenza platonica del De superstitione di Plutarco, cap. V, è un adattamento da Timeo 47d.

[commento_Sez.III.1.4.12]la sua patria: cfr. il capitolo II della Vita di Temistocle di Plutarco: il giovane condottiero è motteggiato dai giovani esperti nelle arti liberali perché non sa accordare la lira o maneggiare il salterio.

[commento_Sez.III.1.4.13]al festevole Menchenio: si riferisce allo storico e giurista Johann Burckhardt Mencke (Lipsia 1674-1732) e al suo De charlataneria eruditorum (1713-1715), storia aneddotica di abbagli e bizzarrie attribuite agli eruditi lungo i secoli (l’equivalente italiano sarà forse il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi di Leopardi).

Cap. II

[commento_Sez.III.2.3.3]una celebre odierna cantatrice: sotto l’abbreviazione L.S.G. si cela, come ha ben visto Degrada, Caterina Gabrielli (‘la signora Gabrielli’), celebre cantante romana (1730-1796), che recitò nei teatri di mezza Europa e fece parlare di sé non solo per l’eccezionale voce sopranile ma per i molti amori (per esempio a Vienna, dove nel ‘56 fu protégée di Metastasio, provocò un mezzo incidente diplomatico tra gli ambasciatori di Francia e Portogallo, che se la contendevano): alla «coghetta» o «cochetta» (com’era soprannominata) i maggiori musicisti dell’epoca, da Hasse a Traetta, a Piccinni, a Mysliveček, dedicarono molte parti di prima donna. Il giudizio non benevolo di Planelli, che insiste sulla convenzionalità e il manierismo dei suoi eccezionali gorgheggi, è contraddetto dalle lodi che molti le riservarono; tuttavia non la ammirò Mozart, il quale in una lettera al padre del febbraio 1778 diede giudizi severi sulle qualità artistiche della Gabrielli (è vero che Mozart poté ascoltarla solo alla fine della carriera). Vedi la ‘voce’ del Dizionario biografico degli italiani, vol. 51, 1998, pp. 80-83 (S. De Salvo).

gli Scarlatti, i Pergolesi, i Vinci:

• musicisti fondatori della scuola napoletana citati «in funzione polemica rispetto alla situazione della musica teatrale contemporanea come rappresentanti di un ideale equilibrio tra testo e musica» (Degrada); Scarlatti è naturalmente il vecchio, Alessandro (1660-1725).

non erano più i tempi di Timoteo e di Terpandro: per la citazione di Cicerone, De legibus, II, XV, 39: pur col beneficio del dubbio, Cicerone menziona un severo provvedimento preso dai legislatori contro Timoteo: «siquidem illa severa Lacaedemo nervos iussit, quo plures quam septem haberet, in Timothei fidibus incidi» (‘se è pur vero che la severità di Sparta fece strappare dalla cetra di Timoteo le corde che superavano le sette’); per Plutarco, vedi Instituta laconica, XVII: «[Terpandro] fu punito dagli Efori che gli appesero la cetra al muro perché vi aveva aggiunto una corda allo scopo di dilettare con la variazione della voce». Al poeta Timoteo di Mileto (446 a.C. – 357 a.C.) è attribuito il primato nel genere del ditirambo; al citaredo Terpandro (VIII-VII secolo a.C.), originario di Lesbo ma a lungo soggiornante a Sparta, si fa tra l’altro risalire (come da aneddoto plutarcheo) l’introduzione dell’eptacordo. La menzione erudita ha in Planelli una sfumatura ironica: nessuno al tempo presente oserebbe colpire con spartana inesorabilità la corruzione del gusto musicale.

[commento_Sez.III.2.3.4]i Cafari, i Jommelli, i Piccinni, i Traetti, i Sacchini: cita i più importanti esponenti del contemporaneo teatro musicale di scuola napoletana (ma attivi internazionalmente): Pasquale Cafaro (1715-1787), Nicolò Jommelli (1714-1774), Nicolò Piccinni (1728-1800), Tommaso Traetta (1727-1779), Antonio Sacchini (1730-1786). Manca il nome di Domenico Cimarosa, forse in virtù della «modesta considerazione del nostro autore per l’opera buffa» (Degrada).

ausus idem: dall’Ars poetica oraziana, vv. 240-242: « tanto che ognuno / credesse di poterlo rifare e, tentando con fatica, / sudasse invano».

Cap. III

[commento_Sez.III.3.1.2]fabula narratur: Orazio, Satire, I,I,69-70 («Perché ridi? Sotto altro nome è proprio di te che si parla»).

[commento_Sez.III.3.1.4] • Alessandro nell’Indie del Metastasio: dramma per musica scritto da Metastasio nel 1726 e rappresentato per la prima volta a Roma (Teatro delle dame) il 26 dicembre 1729 per la musica di Leonardo Vinci.

Achille in Sciro: eseguito per la prima volta a Vienna il 13 febbraio 1736 per la musica di Antonio Caldara.

[commento_Sez.III.3.1.5]Altri ha voluto: «Suo [della sinfonia] principal fine è di annunziare in certo modo l’azione, di preparar l’uditore a ricevere quelle impressioni di affetto, che risultano dal totale del Dramma; E però da esso ha da prendere atteggiamento e viso, come appunto dall’orazione l’esordio. Ma oggidì viene considerata la sinfonia come cosa distaccata in tutto e diversa dal Dramma, come una strombazzata, diciam così, con che si abbiano a riempiere d’avanzo, e ad intronare gli orecchi dell’udienza. Che se pure taluni la pongono come esordio, convien dire che sia di una medesima stampa cogli esordj di quegli scrittori, che con di bei paroloni si rigiran sempre sull’altezza dell’argomento, e sulla bassezza del proprio ingegno, che calzano a ogni materia, e potriano stare egualmente bene in fronte di qualsivoglia orazione» (F. Algarotti, Saggio sopra l’opera cit., pp. 26-27).

• L’Antigono: scritto a Vienna nel 1743, fu rappresentato per la prima volta alla corte di Dresda nel carnevale del 1744 per la musica di J. A. Hasse; la complessità e anche l’imprevedibilità della peripezia di Antigono impedirebbe, secondo Planelli, un compendio sinfonico-tematico secondo i princìpi espresso da Algarotti.

[commento_Sez.III.3.2.1]diè loro Jacopo Peri sì belli esempi: il passo di Planelli sembra dipendere da S. Bettinelli, Risorgimento d’Italia negli studj, nelle arti, e nei costumi dopo il Mille, Bassano, Remondini 17862: «[…] Jacopo Peri, che nel Proemio dell’Euridice dà precetti e ragioni sì chiare, e sì profonde nel magistero suo nel recitativo singolarmente, del quale però fu giustamente detto creatore» (parte I, cap. IV, p. 162). Con «proemio» Planelli intende evidentemente il Prologo dell’Euridice in cui il soprano (la «Tragedia» in persona) programmaticamente enuncia in forma di recitativo accompagnato il tema del dramma (stratagemma che troverà molti imitatori nel corso del Seicento).

[commento_Sez.III.3.2.4]ch’io più soffra così: distico non identificato (probabile si tratti di esempio fittizio).

[commento_Sez.III.3.3.2]vocem prodigaliter unam: ‘ripetere insistentemente la stessa parola’. L’espressione si trova nello stesso contesto in L.A. Muratori, Della perfetta poesia, III, V, ed. cit., p. 44 nota a («quel variare così vocem prodigaliter unam è cosa troppo sconcertata e fuori del naturale»).

pensa oramai per te s’hai fior d’ingegno: Dante, Inferno, 34, 26 (nel testo dantesco, «oggimai»).

[commento_Sez.III.3.3.8]il passo è così bello: è la già menzionata Dedica di Gluck, il cui testo è attribuibile al Calzabigi. L’onore della citazione per esteso sottolinea la completa e forse anche un po’ acritica adesione di Planelli al programma artistico gluckiano.

[commento_Sez.III.3.3.12]dal pennello d’Urbino: Degrada segnala un passo di G.M. Leblond, a commento di J.-F. Marmontel, Mémoires pour servir à l’histoire de la révolution opérée dans la musique par M. Le Chevalier Gluck (1781: Marmontel era il capofila degli anti-gluckiani), in cui si menziona con favore l’impegnativo accostamento tra Gluck e Raffaello: vedi F. Degrada, Il palazzo incantato. Studi della tradizione del melodramma dal Barocco al Romanticismo, Fiesole, Discanto, 1979, vol. I, p. 207.

Sezione IV

Cap. I

[commento_Sez.IV.1.0.1]comunicare ad altrui: Rhetorica ad Herennium, III, XIX, 1: «la recitazione [pronuntiatio] si articola nella forma della voce e nel movimento del corpo».

eloquenza del corpo: per la precisione, la celeberrima definizione della pronuncia oratoria come «eloquenza del corpo» appare piuttosto nel De oratore di Cicerone (I, 18) e nelle Institutiones di Quintiliano (III, 3, 1).

[commento_Sez.IV.1.0.2]persuasione medesima: cfr. Cicerone, De orat., III, 56: «la pronuncia [actio] è il principale fattore dell’eloquenza; senza questa il miglior oratore non vale niente, mentre uno mediocre, ma abile in quella, può battere i sommi oratori. Si dice che Demostene richiesto cosa maggiormente importasse nell’eloquenza, rispondesse: alla pronuncia va il primo posto, e poi il secondo, nonché il terzo».

[commento_Sez.IV.1.0.3]al movimento dell’animo: cfr. Quintiliano, Institutiones, XI, V: «di necessità languiscono gli affetti, se non sono riscaldati dalla voce, dall’espressione del volto e da tutto il movimento del corpo».

alcuna fede: cfr Quintiliano, Institutiones, XI, III: «Se il gesto e l’espressione del volto contraddicessero le parole, diremmo con ilarità cose tristi, e affermeremmo in atto di negare; cessa così non solo l’autorità nelle parole ma la fiducia stessa».

 

[commento_Sez.IV.1.0.4]nel campo di Farsalia l’omise: si riferisce al passo della vita plutarchea in cui Bruto eloquentemente annuncia di volersi uccidere, ovvero ‘fuggire dalla vita’: «Certo, disse, bisogna fuggire; non però coi piedi, ma colle mani» (trad. G. Pompei: Plutarco Le vite degli uomini illustri, t. V, Milano, Sonzogno, 1824, p. 588).

l’argomento di sue lezioni: non sono riuscito a identificare il passo di Ateneo cui Planelli allude.

[commento_Sez.IV.1.0.5]Roscio: cfr. Cicerone, De oratore, I, 59: «chi può negare che l’oratore abbia bisogno nei suoi movimenti del gesto e dell’eleganza di Roscio?». Quinto Roscio Gallo (I sec. a.C.) è il liberto divenuto uno dei più celebri attori del suo tempo (gli si attribuisce l’introduzione della maschera in scena); Cicerone lo difese in una causa (Pro Roscio comoedo).

il medesimo sentimento esprimea: in Saturnali, III, 14, 12, si parla d’un manuale (perduto) che Roscio stesso avrebbe scritto accostando tecnica della recitazione e oratoria: «[…] res ad hanc artis suae fiduciam Roscium obstraxit, ut librum conscriberet quo eloquentiam cum histrionia compararet» (Macrobio Teodosio, I Saturnali, ed. a cura di N. Marinone, Torino, Utet 19772 , p. 426).

dell’attore satiro: riferisce Plutarco che l’istrione Satiro, amico dell’oratore esordiente, gli consigliasse di esercitarsi recitando Sofocle ed Euripide: «Avendogliene Demostene recitato, prese quegli a ripetere gli stessi versi; ma li proferì con una inflessione di voce, e con una maniera sì acconcia al costume e al sentimento della persona introdotta, che parvero totalmente diversi a Demostene stesso: il quale avendo così ben compreso quanto di ornamento e di grazia si apporti al ragionare dall’azione e dalla pronuncia, tenne quindi per cosa piccola, anzi da nulla, l’esercitarsi in quella facoltà, quando si trascuri la pronuncia e l’azione corrispondente a quel che si dice» (trad. G. Pompei: Plutarco, Le vite cit., t. V cit., pp. 151-152).

[commento_Sez.IV.1.0.6]i nomi dell’Acquino, di Catterina Aschieri, del Nicolini, della Tesi: cantanti di varia fama e fortuna: Caterina Aschieri, detta Romanina (Roma 1710 – dopo il 1757): cantò a Napoli e poi a Milano (dal 1738) dove recitò nell’Artaserse di Gluck (1741, Teatro Ducale); Nicolò Grimaldi, detto Nicolini o Nicolino, sopranista e contraltista (Napoli 1673 – 1732), diresse la Cappella Reale della sua città; nel 1708 si trasferì a Londra, dove fu acclamato interprete, tra l’altro, del Rinaldo di Händel; di ritorno a Napoli nel ‘19, vi diresse il Teatro S. Bartolomeo e cantò ancora in ruoli importanti, per esempio nel Cambise di Alessandro Scarlatti; Vittoria Tesi-Tramontini, detta Moretta (Firenze 1700 – Vienna 1779), contralto, cantò a Firenze, Bologna Parma e successivamente a Dresda e a Vienna; nella capitale dell’Impero aprì nel ‘47 una scuola di canto e recitò (nel ‘49) nella Didone di Jommelli. Più difficile identificare Acquino, che secondo Degrada potrebbe essere un Onofrio D’Acquino attivo tra Napoli e Palermo a metà Settecento.

Cap. II

[commento_Sez.IV.2.1.4]con uno svenevole o mimico: Orazio, Ars poetica, 149-150 («tutto ciò / che credi non possa brillare nella narrazione»).

Né a torto Aristotile si ride: cfr. Poetica XXVI, 1461b: «Ci si può chiedere se sia superiore l’imitazione epica o quella tragica. Se è superiore quella meno volgare […], è chiaro che quella che imita tutto è volgare: come se non si capisse se non ciò che viene posto direttamente davanti, si agitano con molti movimenti, come gli auleti scadenti che si attorcigliano se devono imitare un disco o tirano il corifeo quando suonano Scilla [ditirambo di Timoteo]» (trad. D. Lanza).

[commento_Sez.IV.2.1.6] • senza mai partir da Roma: cfr. Svetonio, Vita di Tiberio, XXXVIII: «quamvis provincias quoque et exercitus revisurum se saepe pronuntiasset et prope quotannis profectionem praepararet, vehiculis comprehensis, commeatibus per municipia et colonias dispositis, ad extremum vota pro itu et reditu suo suscipi passus, ut vulgo iam per iocum Callippides vocaretur, quem cursitare ac ne cubiti quidem mensuram progredi proverbio Graeco notatum est» (‘[Tiberio] annunciava spesso che avrebbe visitato le province e le truppe. Ogni anno preparava la partenza, disponeva nei municipi e nelle colonie le poste e le provvigioni, accettava che si facessero voti solenni per il viaggio e per il ritorno, così che per scherzo era comunemente chiamato Callipide, dal nome di quell’attore greco che si muoveva di qua e di là senza in realtà spostarsi d’un passo’). Callipide, è un attore ateniese vissuto a cavallo tra il quinto e il quarto secolo a.C; un mimo con questo nome è menzionato anche da Aristotele, ma non è certo che sia lo stesso cui si riferisce l’aneddoto.

[commento_Sez.IV.2.1.10]dar segni di disprezzo: ‘[si dice] che [Costanzo] mai fu visto soffiarsi il naso in pubblico o sputare o torcere altrove il volto’ (omette un parte del passo: «nec transtulisse in partem alterutram vultum aliquando est visus»). L’apologia di Ammiano Marcellino della dignitas cristiana dell’imperatore è accostata significativamente all’ideale dell’attore moderno sobrio nel portamento.

[commento_Sez.IV.2.2.1]come ben notò l’Algarotti: cfr. F. Algarotti Saggio sull’opera in musica cit., pp. 42-43: «Un grande vantaggio sopra il comico ha senza dubbio l’attore nell’opera in musica, dove la recitazione è legata e ristretta sotto le note, come nelle antiche tragedie. Egli ha segnate con ciò le vie tutte, che ha da tenere; non può mettere piede in fallo quanto alle differenti inflessioni e durate delle voci sopra le parole dalla parte sua, che a lui esattamente le prescrive il compositore. Ma non resta per tutto questo che molto ancora egli non ci abbia a metter del suo. Che altro fa la coreografia se non prescrivere anch’essa al ballerino insieme col tempo i passi e i giri ch’egli ha da fare sopra le note dell’aria? Pur nondimeno non si può mettere in dubbio, che il dare a quei passi il loro finimento sta al ballerino medesimo e il condirgli di quelle grazie, che ne son l’anima».

[commento_Sez.IV.2.2.2]cuculiato a doppio: ‘doppiamente canzonato’ (le pronunce dialettali dei cantanti sono messe alla berlina da Benedetto Marcello nel Teatro alla moda).

[commento_Sez.IV.2.2.3]dal Salvini: questo il commento di Salvini al passo muratoriano sulla recitazione antica: «qui mi verrebbe in acconcio di dire, che siccome rozza e imperfetta era quella pittura negli antichissimi tempi, ne’ quali, per testimonio d’Eliano, facea di mestieri di scrivere sotto alle figure: questo è un cane, questo un cavallo: così imperfetta fosse quella recitazione, che per essere intesa, avesse bisogno d’essere letta» (L. A. Muratori, Della perfetta poesia italiana […]. Con le annotazioni critiche di A. M. Salvini, vol. III, Milano, Società Tipografica dei classici italiani, 1821, p. 249).

[commento_Sez.IV.2.2.5]gravità e posatezza: menziona, attingendo liberamente a De oratore, III, 57 ss., i genera dell’actio (le parole ciceroniane sono intervallate da esempi che Planelli omette) «un tipo di voce richiede la commiserazione e il dolore: flessibile, piena, flebile, interrotta. Altro il fastidio senza commiserazione: un suono grave, duro e quasi impedito; altro il tono della paura: basso esitante, avvilito; altro la violenza: intenso, energico, incalzante e impetuosamente solenne; il piacere lo richiede libero, tenero, gioioso, calmo; altro ancora l’ira: acuto, concitato, interrotto»

dormitet: le due citazione in nota da Giovenale (Satira I e X) sono tradotte sotto nel testo di Lucas. P. J. Lucas, Actio Oratoris, lib. II: cita dalla singolare evocazione in esametri dei princìpi dell’oratoria classica scritta dal gesuita francese Jean Lucas, Actio oratoris, seu de gestu et voce libri duo, Parigi, Bernard, 1675 (dal secondo libro, pp. 49-50): ‘Si può deliberare con voce tranquilla; / o consigliare Silla di ritirarsi e dormirci su; / o a Canne impedire ai cartaginesi d’avanzare / e all’orbo duce [Annibale] di guidare la belva getulica. / Né allo stesso modo festeggerai, o Tullio, il reduce Marcello, / e porterai alle stelle un facile vincitore; / perché usando un modo dolcissimo di parlare / meglio si accarezzano le orecchie / e invece insultando si provoca il siculo predatore; / occorre tener lontano Catilina da Roma; / o gridare con l’acerbo censore di Pisone [Cicerone]: non vedi, o bestia, / o bestia, non senti? / Da lontano è accattivante il miele della Dea della persuasione, / ma anche piace la voce gonfia, che quasi imita il suono rauco del corno’).

[commento_Sez.IV.2.2.6]un Buzzoleni, un Fabri, un Babbi: si tratta nell’ordine dei tenori: Giovanni Buzzoleni, bolognese, vissuto tra fine Sei e primo Settecento; Annibale Pio Fabri, soprannominato Balino (Bologna 1697 – Lisbona 1760), cantò a Londra, dove fu prediletto da Händel, in Spagna e infine in Portogallo; Gregorio Babbi (Cesena 1708-1768), attivo a Venezia, Milano, Napoli, e poi anche fuori d’Italia (Lisbona, Madrid, Vienna).

l’evirazione: la critica all’impiego dei cosiddetti evirati cantores cominciò a farsi molto comune, anche in Italia, a partire dalla metà del Settecento; notissima l’ode di Parini La musica (già intitolata L’evirazione, 1769); si sa che nello Stato della Chiesa la pratica continuò sino a Ottocento inoltrato. Degrada ha ricordato un recensore (anonimo) delle «Efemeridi letterarie di Roma», n. V, 30 gennaio 1773, che pur approvando le idee di Planelli sugli evirati si dimostrava scettico sulla loro scomparsa dai palcoscenici (anche cadendo il bando per le cantanti donne): «non isperi di convertire un pubblico, il quale non si cura punto di vedere avviliti peggio dei Custodi di un serraglio Achille, Arminio, e Rinaldo, quando promettere si possa il piacere di risentire (ma Dio sa quando!) un Farinelli, un Caffarelli, ed un Giziello» (p. 36).

[commento_Sez.IV.2.2.7]insegnarono: questi, nell’ordine, gli autori citati da Planelli in nota: Luigi Riccoboni (Modena 1676 – Parigi 1753), detto Lelio, il già menzionato celebre attore e storico del teatro; Charles Le Brun (Parigi 1619-1690), pittore barocco che lasciò anche originali riflessioni teoriche, in gran parte pubblicate postume; Jean Lucas, il gesuita appena citato; Jospeh-Antoine Tousaint Dinouart (Amiens 1716-1686), abate della Chiesa di Sant’Eustachio a Parigi, socio d’Arcadia, autore di un fortunato L’éloquence du corps, ou l’action du predicateur (Parigi, 1754, 17612), nonché del trattatello L’art de se taire, principalement en matière de religion (1771, tradotto in italiano nel 1989 presso Sellerio); Louis de Sanlècque (Parigi 1652-1714), canonico di Sainte-Geneviève a Parigi, versificatore vivacemente satirico (entrò in contesa con Boileau): Planelli allude all’incompiuto Poème contre les mauvais gestes de ceux qui parlent en public, et surtout des predicateurs (1696). È tipico che Planelli mescoli esempi di eloquenza dal pulpito e di facondia teatrale; non lo soccorre la pratica oratoria degli avvocati contemporanei, italiani o no (per il Foro preferisce fermarsi alla latinità).

insegnare in iscritto: cfr. Cicerone, Ad Herennium, III, 15: ‘Non ignoro quanto sia difficile il mio compito di imitare con parole i movimenti del corpo e con la scrittura il suono della voce. Per altro sono convinto di poterne scrivere con sufficiente efficacia, perché se così non fosse, riterrei inutile quanto ho fatto: voglio dunque fornire opportune raccomandazioni, lasciando il resto all’esercizio’.

Cap. III

[commento_Sez.IV.3.0.1]degl’imitatori: «o imitatori, servile gregge» (v. 19).

[commento_Sez.IV.3.0.2]Baron: Michel Baron, o Boyron (1653-1729), allievo di Molière, fu il più importante attore della Comédie française all’epoca del Re Sole, nel repertorio sia comico, sia tragico (si ritirò dalle scene a fine Seicento).

[commento_Sez.IV.3.0.2]Albani: cfr. C. C. Malvasia, Felsina pittrice. Con aggiunte, correzioni e note inedite del medesimo autore e di G. Zanotti […], tomo II, parte IV, Bologna, Guidi, 1841, p. 171, lettera dell’Albani del 29 luglio 1637: «bisognarebbe formare le figure operanti, che si conoscesse in fare quello che fa, quello che anco ha fatto, e che sono per fare» (a proposito della pala d’altare dell’Annunciazione con Dio padre eseguita a Bologna nel 1632 per la Chiesa di San Bartolomeo). Francesco Albani (Bologna 1578-1660), sodale del Domenichino e del Reni, è uno dei maggiori pittori bolognesi dell’età barocca.

Chassé: Claude-Louis-Dominique Chassé de Chinais (Rennes 1699 - Parigi 1786), cantante lirico francese: nella sua fortunata carriera fu soprattutto interprete (nel ruolo di basso) dei classici del teatro francese contemporaneo, da Lully a Rameau, a Campra.

con diligenza esaminati: nell’articolo Déclamation scritto da E.-F. Mallet si legge tra l’altro: «L’étude de l’histoire et des ouvrages d’imagination est pour lui [per l’attore] ce qu’elle est pour le peintre et pour le sculpteur. Depuis que je lis Homère, dit un artiste célèbre de nos jours (M. Bouchardon), les hommes me paraissent hauts de vingt pieds. Les livres ne présentent point de modèle aux yeux, mais ils en offrent à l’esprit: ils donnent le ton à l’imagination et au sentiment; l’imagination et le sentiment le donnent aux organes» (Encyclopédie, ed. cit., tomo IV, p. 566).

[commento_Sez.IV.3.0.2]del Girardon, del Puget: François Girardon (1628-1715) e Pierre Puget (1620-1694), noti scultori francesi dell’età barocca, entrambi attivi anche in Italia.

[commento_Sez.IV.3.0.8]dell’arte: Cicerone, De oratore, I, 29 ‘sento che Roscio spesso dice che il decoro è il fondamento di ogni arte, e tuttavia è l’unica cosa che non si può insegnare con alcuna arte’ d’attristare: è il verso 102 dell’Ars poetica: «se vuoi farmi piangere / devi provar tu per primo dolore» (l’antico e controverso principio dell’identificazione dell’attore nel personaggio vivacemente combattuto da Diderot nel suo Paradoxe sur le comédien) d’atterrire: «Territus terreo, timens Gehennam» (Agostino, In Psalmos 80)

d’accendere a sdegno: è un broccardo molto diffuso, che però non sembra ritrovarsi (almeno in questa forma) negli scritti di Cicerone; un concetto simile è espresso in De oratore II.42 e II.45.

[commento_Sez.IV.3.0.9]il Bourdaloue: Louis Bourdaloue (1632-1704), gesuita, fu celebre predicatore: ai suoi sermoni, poi raccolti in vari volumi, accorreva il fior fiore della società parigina (predicò anche al cospetto di Luigi XIV).

il grande oratore: «Le Père Bourdaloue répondit à quelqu’un, qui lui demandoit auquel de ses Sermons il donnoit la préférence, C’est à celui que je sçais le mieux, parce que c’est lui que je dis le mieux» (J. A. Dinouart, L’éloquence du corps, ou l’action du prédicateur […]. Seconde édition revue et augmentée, Paris, Desprez, 1761, p. 46, nota).

Sezione V

Cap. I

[commento_Sez.V.1.0.3]il Tintoretto: Planelli ricava questa notiza da F. Algarotti, Saggio sopra la pittura (terza edizione, 1764): «Il Tintoretto trattando un soggetto dell’Istoria sacra armò gli ebrei di fucili; e da Paolo Veronese furono introdotti alle cene del Signore, Svizzeri, levantini e altri bizzarri personaggi; a segno che alle sue composizioni fu dato il nome da non so chi di belle mascherate» (Saggio sopra la pittura, cito dalla ristampa di Venezia, Graziosi, 1784, p. 77); l’anacronismo si trova nell’ultimo quadro realizzato dal Tintoretto, e da aiuti, La raccolta della manna nel deserto (1592-94, Venezia, Chiesa di San Giorgio Maggiore).

[commento_Sez.V.1.0.4]il Vasari: cfr. G. Vasari, Le vite cit., II, p. 728 : «Tribolo fece per gli abiti degl’intermedi [della commedia Il Commodo di A. Landi e G.B. Gelli], che furono opera di Giovan Battista Strozzi (il quale ebbe carico di tutta la commedia), le più vaghe e belle invenzioni di vestimenti e calzari, d’acconciature di capo e d’altri abbigliamenti, che sia possibile immaginarsi. Le quali cose furono cagione che il duca si servì poi in molte capricciose mascherate dell’ingegno del Tribolo, come in quella degli Orsi, per un palio di Bufale, in quella de’ Corbi, ed in altre». Niccolò Pericoli, detto il Tribolo (Firenze, 1500 – 1550), scultore e architetto allievo di Jacopo Sansovino, lavorò con Michelangelo ed ebbe parte in vari progetti architettonici nella Toscana di Cosimo I.

il Frigeri, i due Canziani, e il Boquet: non ho trovato traccia di un Frigeri (o Frigerio) cronologicamente compatibile con la citazione di Planelli; si ha notizia di un Gianbattista Canziani (Verona 1664 – Roma 1730), pittore tardo-barocco attivo nell’Italia centrale e settentrionale, mentre non sembra pertinente al contesto il nome di Giuseppe Canziani, noto ballerino e coreografo vissuto tra Venezia, Vienna e Pietroburgo nella seconda metà del Settecento, parlandosi qui di pittori e di decoratori. Louis-René Boquet (o Bocquet: Parigi 1717-1814) è l’importante decoratore, scenografo e costumista che nella sua lunghissima vita lavorò con tre generazioni di autori e attori francesi (anche con Noverre, che aiutò nel ridisegnare in senso naturalistico i costumi dei ballerini); a torto Degrada sospettava un lapsus calami di Planelli al posto del nome del pittore François Boucher.

[commento_Sez.V.1.0.6]proscenio: cfr questo passo della sesta lettera del Noverre: «Le mêlange des couleurs, leur dégradation et les effets qu’elles produisent à la lumiere doivent fixer encore l’attention du Maître des ballets ; ce n’est que d’après l’expérience que je suis convaincu du relief que cela donne aux Figures, de la netteté que cela répand dans les formes, et de l’élégance que cela prête aux grouppes. J’ai suivi dans les Jalousies ou les Fêtes du serrail la dégradation des lumieres que les Peintres observent dans leurs Tableaux ; les couleurs fortes et entieres tenoient la premiere place, et formoient les parties avancées de celui-ci, les couleurs moins vives et moins éclatantes étoient employées ensuite» (J.-G. Noverre, Lettres sur la danse et sur les ballets, Lyon, Delaroche, 1760, pp. 91-92). Jean-Georges Noverre (Parigi 1727 – Saint-Germain-en-Laye 1810) è il celebre danzatore e coreografo francese iniziatore, con il cosiddetto «ballet d’action», della danza moderna, da lui emancipata dai virtuosismi e ricondotta a un linguaggio realistico e naturalistico; entrò in polemica con Noverre (in Inghilterra esaltato da David Garrick come lo Shakespeare della danza) il nostro Gasparo Angiolini, che a Vienna aveva collaborato con Gluck. Le Lettres ebbero, vivente Noverre, due riedizioni aumentate nel 1804 e nel 1807; vedi la traduzione italiana delle Lettres a cura di A. Testa (Roma, Di Giacomo, 1980), nonché la ristampa francese preceduta da un’intervista a M. Béjart (a cura di T. Mathis, Paris, Ramsay, 1978).

Cap. II

[commento_Sez.V.2.1.1]Ugurgieri: cfr. I. Ugurgieri Azzolini, Pompe Sanesi, o vero relazioni delli huomini e donne illustri di Siena e di suo stato […]. Parte seconda, Pistoia, Fortunati 1649, p. 384, dove Peruzzi è menzionato come autore di un ritratto del cavaliere Agostino Chigi.

Vasari: «[…] quando si recitò al detto papa Leone [Leone X] la Calandra, commedia del cardinale di Bibbiena, fece Baldassarre [Peruzzi] l’apparato e la prospettiva, che non fu manco bella, anzi più assai che quella che aveva altra volta fatto [...]; ed in queste sì fatte opere meritò tanta più lode, quanto per gran pezzo addietro l’uso delle commedie, e conseguentemente delle scene e prospettive, era stato dismesso, facendosi in quella vece feste e rappresentazioni; ed o prima o poi che si recitasse la detta Calandra, la quale fu delle prime commedie volgari che si vedesse o recitasse, basta che Baldassarre fece al tempo di Leone X due scene che furono meravigliose, ed apersono la via a coloro che ne hanno poi fatto a’ tempi nostri» (G. Vasari, Le vite cit., II, pp. 259-260). Baldassarre Peruzzi (Ancaiano [Siena] 1481-Roma 1536), architetto, pittore e scenografo, fu legato alla famiglia Chigi, per la quale realizzò la residenza di Villa Farnesina a Roma; la recita romana della Calandra risale al dicembre 1514 (in onore di Elisabetta d’Este Gonzaga).

[commento_Sez.V.2.1.3]sulle scene: Vitruvio, De architectura, VII, Praefatio, 11: ‘Innanzi tutto Agatarco, mentre Eschilo ad Atene insegnava la tragedia, realizzava la scena tragica e ne lasciò un trattato; da questo incoraggiati, Democrito e Anassagora ne scrissero un altro: dove spiegarono come, secondo il punto di vista e la distanza, si debbano far corrispondere ad imitazione della natura tutte le linee verso un punto stabilito, che ne è il centro; e come con cose non vere si possano rappresentare sulla scena immagini di veri edifici, che sembrino, benché dipinti sopra superfici dritte e piane, gli uni allontanarsi, gli altri avvicinarsi’

fu inventore: Ferdinando Galli Bibiena (Bologna 1657-1743) pittore e architetto, fu forse il più grande scenografo e teorico della scenografia attivo in Italia tra Sei e Settecento; oltre al trattato menzionato da Planelli (Direzioni della prospettiva teorica corrispondente a quelle dell’architettura, in prima edizione nel 1732), di non minore importanza è L’architettura civile preparata sulla geometria e ridotta alle prospettive (1711), dove è escogitata per la prima volta la «visione per angolo» della scena teatrale, che dà l’illusione allo spettatore di uno spazio infinito. Al servizio dei Farnese a Parma, viaggiò in Italia e fuori d’Italia (nel 1708 fu per esempio a Barcellona, sovrintendente agli spettacoli per le nozze di Carlo III d’Austria, futuro imperatore).

[commento_Sez.V.2.2.2]ad altro paese: cfr. Plinio, Naturalis historia, XXXV: ‘Nealce [pittore greco di età ellenistica] era ingegnoso e operoso nella sua arte: poiché aveva dipinto una battaglia navale tra Egiziani e Persiani che voleva fosse immaginata svolgersi nel Nilo, che è simile al mare, lo dimostrò con un argomento estraneo all’arte. E infatti dipinse un asinello che si abbeverava sulla riva con un coccodrillo che lo insidiava’.

[commento_Sez.V.2.2.3]il più volte lodato Algarotti: Cfr. F. Algarotti, Saggio dell’opera cit., p. 62: «Aveva egli [il pittore gesuita Andrea Pozzo, o Pozzi] nella pittura di una cupola appoggiato le colonne sopra mensole; cosa alla quale si storcevano alcuni architetti, protestando ch’essi per conto niuno non l’avrebbono fatto in una fabbrica. Se non che tolse loro ogni pensiero, secondo che riferisce egli stesso, un professore amico suo, il quale si obbligò a rifare ogni cosa a sue spese, qualora, fiaccandosi le mensole, le colonne fossero venute a cadere. Magra scusa, quasi che l’architetura non si avesse a dipingere secondo le buone regole, e ciò che offende nel vero non offendesse ancora nelle immagini di esso».

[commento_Sez.V.2.4.1]Neroni: Bartolomeo Neroni, detto il Riccio (nato a Siena tra il 1505 e il 1510, morto nella sua città nel 1571), pittore, architetto e ingegnere militare, qui evocato per la realizzazione della scenografia de L’Ortensio di Alessandro Piccolomini (1560), allestimento che a Siena fu ripreso per vari decenni sino al nuovo secolo.

Chiarini: Marcantonio Chiarini (Bologna 1652-1730), pittore e scenografo: tra i suoi lavori più significativi la decorazione della sala dei marmi del Palazzo del Belvedere inferiore a Vienna, su commissione di Eugenio di Savoia (1716); nel campo scenografico gli si devono vari allestimenti giovanili per melodrammi recitati al Teatro Malvezzi di Bologna (1694-1695), in cui mise a frutto le innovazioni prospettiche del concittadino Bibiena.

Aldrovandini: la famiglia bolognese degli Aldrovandini annovera vari pittori e scenografi, tra cui il più importante è probabilmente Pompeo (Bologna 1677 – Roma 1735): avviato al mestiere dal padre Mauro, anche lui pittore, eseguì affreschi e apparati effimeri nella sua città, a Torino, Vienna, Praga ed infine a Roma, dove si conserva tra l’altro un ciclo di suoi affreschi nel palazzo pontificio di san Giovanni in Laterano.

Buffagnotti: Carlo Antonio Buffagnotti (Bologna 1660 – dopo il 1715), pittore e scenografo, lavorò nella sua città, a Genova, a Torino, a Ferrara: tra i suoi allestimenti teatrali si ricordano quello per La virtù in trionfo o sia la Griselda di L.A. Predieri (Bologna, 1711) e per Teuzzone di A. Lotti (Genova, 1712).

Giuseppe Galli Bibiena: secondo figlio di Ferdinando (Parma 1695 - Berlino 1757), lavorò come scenografo soprattutto nel mondo tedesco: fu Primo Ingegnere teatrale a Vienna dal 1727 al 1740; successivamente lavorò a Dresda e a Berlino; pubblicò, come ricorda Planelli, alcuni dei disegni eseguiti per le scene in Architetture e prospettive dedicate alla Maestà di Carlo sesto Imperador dei romani da G. G. B., suo primo ingegner teatrale ed architetto, inventore delle medesime, Augusta, 1740 (ristampa anastatica, Forni, 1987).

[commento_Sez.V.2.4.2]Nicolò Sabattini: recte Niccolò Sabbatini (Pesaro 1574 – 1654), architetto e scenografo attivo alla corte di Urbino, pioniere delle tecniche d’illuminazione del palcoscenico; pubblicò la Pratica di fabbricar scene e machine ne’ teatri a Pesaro e a Ravenna nel 1637-1638 (in due parti).

[commento_Sez.V.2.4.3]magni ipse agminis instar: ‘pari da solo a una grande schiera’ (da Virgilio, Eneide, VII, 707: «agmen agens Clausus magnique ipse agminis instar»). Della schiera di notissimi pittori menzionati, basterà specificare che il Ricci è il bellunese Sebastiano Ricci (1659-1734), mentre «Pussino» è naturalmente Nicolas Poussin (1594-1665) e «il Lorenese» è Claude Lorrain Gellée, detto Lorrain (1600-1682).

[commento_Sez.V.2.4.4]Salvat. Rosa, Sat. 3: versi dalla Satira III di Salvator Rosa, «La pittura» (1640), 175-177: il pittore e letterato napoletano polemizza in particolare con i bamboccianti e con i facili esecutori di nature morte, capaci di goffaggini e anacronismi dettati dall’ignoranza

Cap. III

[commento_Sez.V.3.0.3]Altri di poi, cui ‘l chiaro lume offende: parafrasi da Petrarca, Canzoniere, 19, v. 3 («altri, però che ‘l gran lume gli offende»): fuori contesto, perché l’incipit del sonetto si riferisce al vario modo con cui gli animali sostengono la luce del sole, paragonato alla visione di Laura.

Cap. IV

[commento_Sez.V.4.2.2]quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi: ‘odio, incredulo, quanto tu mi mostri’ (Orazio, Ars poetica, v. 188).

[commento_Sez.V.4.3.1]campana fonica: il già citato recensore romano contestò a Planelli la sua sfiducia verso questo espediente fonico-architettonico: «il suo raziocinio, al paragrafo terzo, sulla campana fonica, è falso e non ben applicato, siccome dimostrar si potrebbe agevolmente ove qui fosse permesso entrare in fisiche e matematiche disquisizioni» («Efemeridi letterarie di Roma», n. V, 30 gennaio 1773, p. 37).

[commento_Sez.V.4.3.3]teatro Olimpico di Vicenza: sulle scelte spaziali e prospettiche di Andrea Palladio e dell’architetto che completò e realizzò il suo progetto, Vincenzo Scamozzi, vedi D. Gioseffi, Palladio e Scamozzi: il recupero dell’illusionismo integrale del teatro vitruviano, in «Bollettino del Centro di Studi Internazionale di Architettura Andrea Palladio», XVI, 1974, pp. 271-286.

[commento_Sez.V.4.3.4]Andrea Sighizzi: pittore, scenografo e pittore quadraturista bolognese (morto nel 1684): fu attivo nella sua città e a Parma, Modena e Genova (dove eseguì un importante ciclo di affreschi a Palazzo Balbi-Durazzo, oggi Palazzo Reale). Sul suo contributo alla scenotecnica: R. Marchelli, Gli inizi del teatro pubblico italiano e Andrea Sighizzi, «Commentari», VI, 1955, pp. 117-126.

[commento_Sez.V.4.3.6]gran vasi di rame: Planelli si riferisce a Vitruvio, De architectura, libro V, cap. V: «Ita ex his indagationibus mathematicis rationibus fiant vasa aerea pro ratione magnitudinis, theatri, eaque ita fabricentur, ut cum tangantur sonitum facere possint inter se diatessaron diapente ex ordine ad disdiapason» [‘Dalle precedenti argomentazioni tratte da princìpi matematici si fabbricheranno vasi di rame adatti alla grandezza del teatro e si dovranno realizzare in modo che una volta toccati essi rendano i suoni del diatessaron, del diapente, via via sino al diapason’].

[commento_Sez.V.4.4.2]la voce de’ cantanti: ‘Strane cose si dicono intorno alla voce: nell’orchestra dei teatri è divorata dalla segatura o dalla polvere posta in mezzo’ (Plinio, Naturalis Historia, XI, 119).

Sezione VI

Cap. I

[commento_Sez.VI.1.1.1]passioni: sul legame tra la danza e la cosiddetta poetica delle ‘passioni’, vedi C. Batteux, Les Beaux-arts cit., III, III, II («Les passions sont le principal objet de la musique et de la danse»).

Cap. II

[commento_Sez.VI.2.1.4]Achille in Sciro: è il già menzionato libretto di Metastasio: la peripezia guerresca sembra a Planelli massimamente adatta all’introduzione delle danze.

[commento_Sez.VI.2.1.6]Alceste: il giurista Joseph von Sonnenfels nei suoi Briefe über die wienerische Schaubühne ha lasciato in occasione della prima recita viennese dell’Alceste di Gluck (1767) un’eloquente testimonianza sulle danze pantomimiche escogitate in quell’occasione dal Noverre: cfr. F. Pappacena, La danza classica. Le origini, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 123-125.

[commento_Sez.VI.2.1.7]Aristotile: Aristotele si esprime in maniera più sfumata: «Non ogni movimento [kínesis] è da criticare [nella tragedia], visto che non lo è la danza [òrkesis] ma solo quello degli attori scadenti, il che appunto si rimproverava a Callipide e ora ad altri che non sanno imitare le donne per bene» (Poetica 1462a, trad. D. Lanza).

[commento_Sez.VI.2.1.8]«Tant que les Ballets de l’Opéra ne seront pas unis étroitement au Drame et qu’ils ne concourront pas à son exposition, à son noeud, à son dénouement, il seront froides et désagréables. Chaque Ballet devroit à mon sens offrir une scène qui enchaînât et qui liât intimement le premier Acte avec le second, le second avec le triosième etc.» (Lettres sur la danse cit., VIII, pp. 132-133).

[commento_Sez.VI.2.2.2]una danza grottesca: l’emmeléia, era una danza grave, tipica della tragedia; il kordax era la danza del coro nell’antica commedia greca dai ritmi sfrenati e buffoneschi (eseguita anche fuori dal teatro, soprattutto nei culti dedicati ad Artemide; infine al dramma satiresco apparteneva la síkinnis, antica danza frigia nata inotrno ai culti agrari della dea Cibele.

[commento_Sez.VI.2.2.3]Cahusac: il già menzionato Louis de Cahusac (Montauban 1706 – Parigi 1759), autore teatrale, poeta, librettista, è qui annoverato per La danse ancienne et moderne ou Traité historique de la danse (L’Aja 1754), una delle fonti di Noverre; tra l’altro Cahusac riscoprì e fece tradurre il De saltatione di Luciano (su cui infra).

Noverre: « […] il faudroit donc si nous voulons rapprocher notre Art de la vérité, donner moins d’attention aux jambes, et plus de soin aux bras ; abandonner les cabrioles pour l’intérêt des gestes ; faire moins de pas difficiles, et jouer davantage de la physionomie ; ne pas mettre tant de force dans l’exécution, mais y mêler plus d’esprit; s’écarter avec grace des regles étroites de l’Ecole, pour suivre les impressions de la nature, et donner à la Danse l’ame et l’action qu’elle doit avoir pour intéresser » (Lettres sur la danse cit., X, pp. 261-262).

Pilade, Batillo, Ila: tre celebri pantomimi e istrioni: Pilade, proveniente dalla Cilicia, e Batillo, originario di Alessandria d’Egitto, si contesero a Roma nel secolo di Augusto i favori del pubblico, introducendo le novità della danza greca; Ila fu allievo e emulo di Batillo.

Macrobio: «Quando [Pilade] impersonò l’Ercole pazzo ad alcuni sembrava che non mantenesse il portamento adatto a un attore; ma egli si tolse la maschera e gridò a chi rideva: ‘Sciocchi! Faccio la parte di un pazzo’. In questo balletto scagliava anche frecce sul pubblico; e quando eseguì la stessa parte su invito di Augusto nella sua sala da pranzo tese l’arco e lanciò dardi. Cesare Augusto non si sdegnò d’essere messo da Pilade alla stessa stregua del popolo romano» (Macrobio Teodosio, I Saturnali, ed. cit., II.16-17, p. 355).

Luciano: Cfr. Luciano, De Saltatione [Perí orchéseos], § 67: «la pantomima si propone di rappresentare e interpretare i costumi e le passioni mettendo in scena ora un innamorato ora un collerico, ora un furioso ora un addolorato, e ognuno di questi caratteri con moderazione. In realtà il fatto più paradossale è che nello stesso giorno vengano rappresentati Atamante pazzo, Ino impaurita, Atreo in persona e poco dopo Tieste, o poi Egisto o Erope: tutti questi personaggi sono in un solo uomo» (Luciano, La danza. A cura di S. Beta. Traduzione di M. Nordera, Venezia, Marsilio 1992, p. 95). In Italia, sulla scorta della riscoperta francese del testo lucianeo, comparve, poco dopo il libro di Planelli, una fortunata versione: Della danza. Dialogo di Luciano. Con annotazioni, Firenze, Pecchioni, 1779 (con dedica al ballerino Antonio Muzzarelli di un traduttore che si cela sotto lo pseudonimo di «Crittodunamio»).

[commento_Sez.VI.2.3.2]perito maestro: difficile dare un nome a questo maestro di ballo.

[commento_Sez.VI.2.3.6]passionevole espressione: Cfr. Apuleio, De Platone et eius dogmate, § 208: «Totum vero hominem in capite vultuque esse; nam prudentiam sensusque omnis non alias quam illa parte corporis contineri» (‘L’uomo è tutto intero nella testa e nel volto; perché il discernimento e tutti i sensi sono riuniti in questa sola parte del corpo’); la massima deriva da un passo dell’Alcibiade I: cfr. Apulée, Opuscules philosophiques et fragments, Paris, Belle Lettres, 1973, p. 73.

si tolga poi via la maschera: questa avversione all’uso della maschera, che semplicisticamente Planelli ritiene solo uno strumento per amplificare la voce, è solidale con la polemica settecentesca, goldoniana in particolare, contro la commedia dell’arte

Cap. III

[commento_Sez.VI.3.1.1]il filosofo Demetrio: l’aneddoto sul filosofo cinico Demetrio, che scopre il valore conoscitivo della danza di fronte alle prodezze di un pantomimo del tempo di Nerone (forse un Paride citato da Svetonio), è letto da Planelli ancora nel De saltatione di Luciano: «Demetrio che aveva apprezzato moltissimo lo spettacolo attribuì al pantomimo la massima lode prorompendo in un’esclamazione a gran voce: ‘Non solo vedo ma odo le cose che fa e mi sembra che siano le sue stesse mani a parlare’» (§ 63: tr. cit. p. 91).

Tucidide: anche l’obliquo riferimento a Tucidide giudice di Pericle (da Guerra del Peloponneso II.60.5) dipende dal De saltatione di Luciano: «La lode di Tucidide a Pericle potrebbe essere il più alto encomio anche per un pantomimo (‘conoscere le cose necessarie e interpretarle’); in questo contesto per interpretazione [ermenéia] s’intende l’evidenza dei gesti» (§ 36, tr. cit. p. 79).

[commento_Sez.VI.3.1.2]Il più volte nominato Noverre: il francese scrive tra l’altro, a proposito delle competenze auspicabili in un maestro di ballo: « Réunissons le génie du Poëte et le génie du Peintre, puisque notre Art n’emprunte ses charmes que de l’imitation parfaite des objets. Une teinture de Géométrie ne peut être encore que très-avantageuse : elle répandra de la netteté dans les figures, de la justesse dans les combinaisons, de la précision dans les formes. […] Nos productions tiennent souvent encore du merveilleux. Plusieurs d’entr’elles exigent des machines : il est, par exemple, peu de sujets dans Ovide, que l’on puisse rendre, sans y associer les changements, les vols, les métamorphoses, etc. Il faut donc qu’un Maître de Ballets renonce aux Sujets de ce genre, s’il n’est machiniste lui-même »; ancora: « l’étude de l’Anatomie jettera de la netteté dans les préceptes qu’il donnera aux sujets qu’il voudra former : il démêlera dès-lors aisément les vices de conformation, et les défauts d’habitude qui s’opposent si souvent aux progrès des éleves » (Lettres sur la danse cit., pp. 63-65 e p. 69). Munito di tale ambizioso ideale filosofico, l’iconoclasta Noverre si trovò comprensibilmente contro tutti i vecchi routiniers della professione.

[commento_Sez.VI.3.1.3]Lionardo da Vinci: Cfr. Trattato della pittura, parte II [Precetti al pittore]: «Le figure degli uomini abbiano atto proprio alla loro operazione, in modo che vedendoli tu intenda quello che per loro si pensa o dice, li quali saran bene imparati da chi imiterà i moti de’ mutoli, i quali parlano con i movimenti delle mani, degli occhi, delle ciglia, e di tutta la persona, nel volere esprimere il concetto dell’animo loro» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, Roma, De Romanis, 1817, pp. 80-81).

[commento_Sez.VI.3.2.1]cazzatello: ‘uomo piccolo’, ‘ragazzino’.

Sezione VII

[commento_Sez.VII.0.0.1] • Quest’ultima sezione del libro di Planelli, che tocca questioni d’ordine moral-religioso, è stata ripresa per intero in testa al volume terzo dell’edizione napoletana delle Opere di Metastasio (De Bonis, 1781), pp. XLVII- LXXXIV.

Cap. I

[commento_Sez.VII.1.0.1]donne francesi: il riferimento è alla commedia Les femmes savantes (1672) di Molière; vedi Réflexions nouvelles sur les femmes par une dame de la Cour, Paris, Breton, 1727, pp. 5-7: «Le livre de Dom-Quichotte, selon un Auteur Espagnol, a perdu la Monarchie d’Espagne; parce que le ridicule qu’il a répandu sur la valeur, que cette Nation possedoit autrefois dans un dégré si éminent, en a amolli et énervé le courage. Molière en France a fait le même desordre, par la Comedie des Femmes Sçavantes. Depuis ce tems-là on a attaché presque autant de honte au sçavoir des femmes, qu’aux vices qui leur sont les plus défendus. Lorsqu’elles se sont vûës attaquées sur des amusemens innocens, elles ont compris que, honte pour honte, il falloit choisir celle qui leur rendoit davantage, et elle se sont livrées aux plaisirs. Le desordre s’est accru par l’exemple et a été autorisé par les femmes en dignité; car la licence et l’impunité sont les privileges des la Grandeur: Alexandre nous l’a appris». Anne-Thérèse de Marguenat de Courcelles, marchesa di Lambert (1647-1733), tenne uno dei più vivaci salotti letterari dell’età della Reggenza (vi si incontrarono tra gli altri Montesquieu, La Rochefoucauld, Fontenelle), dintinguendosi nel rivendicare il diritto delle donne all’istruzione.

 

publici teatri: i versi citati in nota sono dal Britannicus di Racine, IV, 4 (Narcisse riferisce malevolmente a Nerone le opinioni di Burro, e di altri, sui costumi dell’imperatore); l’aneddoto su Luigi è riferito da Voltaire nel capitolo XXVI del Siècle: «Dès-lors il ne dansa plus en public; et le poète réforma le Monarque» (cito da Voltaire, Siècle de Louis XIV. Nouvelle édition, tomo II, Lausanne,1780, p. 246).

riguardevole scrittore: Planelli si riferisce al seguente passo del marchese di Mirabeau, che prende di mira sia George Dandin di Molière (1668), sia Le Baron de la Crasse di Raymond Poisson detto Beroche (1662): «Un Espagnol blâmoit Miguel de Cervantes d’avoir nui à sa patrie en ridiculisant la Chevalerie dans son Dom Quixote […]. On pourrait faire le même reproche à Molière et à ses imitateurs: en ridiculisant les Gentilshommes campagnards, les Barons de la Crasse, les Sottenville etc. ils ont cru n’attaquer que la sote vanité et la plate ignorance des Seigneurs châtelains; mais le mot de campagnard et de provincial sont devenu ridicules. La crainte du ridicule feroit passer un François par le gouleau d’une bouteille; tout le monde a voulu devenir homme de Cour ou de Ville, et adieu les champs» (L’ami des hommes ou Traité de la population. Première partie, c. VI, Avignon, 1756, p. 73). Victor Riqueti marchese di Mirabeau (1715-1789), economista e filosofo, fu uno dei più appassionati assertori dei princìpi della fisiocrazia: ebbe largo seguito tra gli illuministi, sia in Francia sia in Italia.

Cap. II

[commento_Sez.VII.2.0.1]il direttore: forse nelle righe che seguono c’è una lontana eco delle vecchie pagine satiriche di Benedetto Marcello: «Non dovrà l’impresario moderno possedere notizia veruna delle cose appartenenti al teatro, non intendendosi punto di musica, di poesia, di pittura» (e così via: Il teatro alla moda cit., p. 40); si noti però che Planelli cerca di distinguere tra le responsabilità del direttore (noi diremmo: direttore artistico) e dell’impresario, che immagina mosso solo dalla molla economica. Ma è chiaro che, con l’eccezione dei casi di mecenatismo da parte dei prìncipi, erano gli impresari, non i direttori, a dettare le regole.

[commento_Sez.VII.2.0.2]Tarpa: Spurius Maecius Tarpa, grammatico e letterato latino vissuto nel primo secolo a.C. la cui autorità di giudice del gusto fu riconosciuta, tra gli altri, da Orazio; cfr. Ars Poetica, vv. 385-390: «Tu nihil invita dices faciesve Minerva; / id tibi iudicium est, ea mens. Siquid tamen olim / scrpseris, in Maeci discenda iudicis auris / et patris et nostras, nonumque prematur in annum / membranis intus positis: delere licebit / quod non edideris; nescit vox missa reverti» (‘Se Minerva si oppone, niente dirai, / per il giudizio e l’intelligenza che possiedi. E se qualche volta / scriverai, lo farai leggere a Mecio / a tuo padre e a me, e nove anni lo terrai chiuso / nella cassetta delle pergamene e potrai distruggere / quanto non avrai pubblicato, perché voce fuggita poi richiamar non vale’).

securus, cadat, an recto stet fabula talo: Orazio, Epistolae, I, II, vv. 175-176: ‘ha come unico scopo riempirsi la borsa / e non gli importa se la commedia stia in piedi o no’.

Cap. III

[commento_Sez.VII.3.0.2]perfettissimo ammetteano: in quest’ultimo capitolo Planelli ingaggia, a suon di auctoritates filosofiche e religiose relegate in nota, una battaglia contro i rigoristi e i moralisti a difesa dell’intrinseca moralità del teatro. Qui tocca la vecchia questione della liceità d’introdurre invocazioni agli dèi in bocca agli eroi dei melodrammi (si sa che gli stampatori dei libri se la cavavano con formule di comodo, suggerite dallo stesso censore, in cui si negava che parole cone numi, fato, dèi, eccetera, potessero inficiare la fede dell’autore). Rimanda in particolare alla tesi sull’implicito monoteismo dei filosofi classici menzionando due teologi anglicani: Rulph Cudworth, The True Intellectual System of the Universe in which all the Arguments for and against Atheism are clearly stated and examined (1678); William Warburton, quest’ultimo letto in una fortunata compilazione antologica francese, Dissertations sur l’union de la religion, de la morale et de la politique, tirées d’un ouvrage de M. Warburton par Monsieur de Silhouette, L’Aja, 1742 (pensieri tratti dalla Divine Legation of Moses di Warburton, di pochi anni prima).

[commento_Sez.VII.3.0.3]i più schifi allettando ha persuaso: Tasso, Gerusalemme liberata, I, 3 (recte: «schivi»).

[commento_Sez.VII.3.0.5]nelle commedie di Terenzio: per Planelli Andria e Eunuco rappresentano, secondo antica tradizione umanistica, gli esempi migliori di commedia castigata e didatticamente efficace.

[commento_Sez.VII.3.0.9]Claudio imperatore le proscrisse: alle riforme teatrali di Claudio fa cenno Svetonio, Vitae Caesarum, Vita Divi Claudi, XXI.

[commento_Sez.VII.3.0.11]Innocenzio XI: durante il pontificato di Benedetto Odescalchi (papa tra il 1676 e il 1689) gli spettacoli teatrali furono regolati a Roma in senso rigoristico: prima vietando che le donne apprendessero la musica da maestri uomini, poi proibendone del tutto la presenza sul palcoscenico. S’intende che per l’opera in musica il ricorso agli evirati (emigrando le cantanti per lo più a Venezia, Milano e Napoli) provocò a Roma scandali d’altro tipo: ma di questo Planelli preferisce prudentemente tacere, pur detestando, dal punto di vista dell’effetto artisico, i castrati.

[commento_Sez.VII.3.0.12]un Arione: dà genericamente il nome del citaredo e cantore del mito (Arione di Metimna, presunto inventore del ditirambo) al tipo di efebo che compariva sulle scene settecentesche nel ruolo di danzatore o cantante dopo le leggi di Innocenzo XI.

[commento_Sez.VII.3.0.13]persone di teatro: Planelli, accanto alle molte autorità scritturali, cita due opere italiane medio-settecentesche: Daniele Concina, De spectaculis theatralibus Christiano cuique tum laico, tum clericis vetitis (Roma, Barbiellini, 1752); Giovanni Antonio Bianchi [Laurisio Tragiense], Dei vizj e dei difetti del moderno teatro e del modo di correggergli e d’emendarli (Roma, Stamperi di Pallade 1753). Il padre domenicano D. Concina (1687-1756) tenne il partito dei rigoristi condannando, contro i gesuiti e sulla scorta del pensiero giansenista, ogni forma di spettacolo; gli risposero in molti, tra cui Scipione Maffei e appunto il frate minore osservante G.A. Bianchi (1686-1758), il quale attaccò Concina anche sul punto dell’autorità di san Tommaso, appoggiandosi a Bossuet: «solamente sotto il nome di Strione [Tommaso] volle comprender alcuni giocolieri, i quali coi lor giochi dilettano, rallegrano la brigata, che perciò non mai nominò, né commedie, né scene, né teatro» (G.A. Bianchi, Dej vizi cit., p. 197). Di là dalla sostanza della controversia teologica, è ovvia la preferenza di Planelli per le argomentazioni degli antirigoristi; l’impegno dialettico mostrato da Planelli testimonia la persistente attualità in Italia di tale dibattito, che era ormai fuori corso in Francia o in Inghilterra.

notati d’infamia: Planelli si riferisce a questi due passi: «On ne pourroit sans une grande injustice imputer à la poésie l’abus qui a été fait de ses attraits innocents eux-mêmes, autrement il s’ensuivroit que c’est un crime que de penser et de parler, ni aïant rien dont ait tant abusé que de la pensée et de la parole. La poèsie elle-même a condamné les ouvrages trop libres» ( H.-C. Le Gendre, Traité de l’opinion ou Mémoires pour servir à l’histoire de l’esprit humain, t. I, Paris, Briasson, 1735, p. 48); «Il seroit fort injuste d’attacher l’infamie à une profession, dont le but doit être la réforme des mœurs, la correction des vices, l’élévation des sentiments. Regardons, à la bonne heure, les comédiens publics comme exerçant un métier mercenaire; mettons-les dans notre estime au-dessous des artisans distingués qui excellent dans leur art; mais ne déshonorons pas un métier qui est bon en soi, et qui demande des talens du genre et du charactère les plus honnêtes» (Traité cit., t. III, 1741, pp. 693-694). L’opera enciclopedica di Gilbert-Charles Le Gendre (1668-1746) marchese di Saint-Aubain-sur-Loire provò a tracciare, nel solco del cattolicesimo illuminato, una storia universale delle opinioni e dei pregiudizi filosofici (di particolare interesse la critica alle cosiddette scienze occulte).

[commento_Sez.VII.3.0.15]discrediti i secondi: in nota Planelli si riferisce a Voltaire, Socrate, Préface: «Addison regardait Caton comme la victime de la liberté et Socrate comme le martyr de la sagesse. Mais le Chevalier Richard Steele lui persuada que le sujet de Caton était plus théâtral que l’autre et surtout plus convenable à sa Nation dans un temps de trouble. En effet la mort de Socrate auroit fait peu d’impression, peut-être, dans un pays où l’on ne persécute personne pour sa religion; et Richard Steel dit expressement dans le Tatler, qu’on doit choisir pour le sujet des pièces de théâtre le vice le plus dominant chez la Nation pour laquelle on travail» (Socrate. Ouvrage dramatique traduit de l’Anglais de feu M. Tompson, Amsterdam, 1759, pp. 4-5).

Le Supplicanti: ovviamente la tragedia di Euripide, scritta durante la Guerra del Pelopponeso, più spesso tradotta come Le supplici [Hikétides].

Addisson: in Cato. A Tragedy (1712) Addison fece l’apologia dello stocismo antitirannico, criticando implicitamente le tentazioni autoritarie del regno di Anna durante la Guerra di sucessione spagnola.

[commento_Sez.VII.3.0.16]credete voi che mai l’Aulularia: accosta, un po’ avventurosamente, Plauto, Molière e Voltaire; per Planelli assai efficaci furono gli attacchi volterriani al fanatismo (il Mahomet è del 1741: allo zenit della predicazione di Voltaire contro l’infâme), mentre senza effetto risultarono le critiche plautine all’avarizia o lo smascheramento dell’ipocrisia religiosa tentato da Molière (il cui Tartuffe provocò tuttavia più di un grattacapo al suo autore).

nella Semiramide del Metastasio: Ircano, principe scita, è il rozzo e sfortunato amante di Tamiri nella Semiramide riconosciuta di Metastasio (1729, per la musica di Leonardo Vinci): a Planelli sembra che quel ruolo di contralto si adatti più a un personaggio da commedia che da tragedia.

[commento_Sez.VII.3.0.18]empia la dialettica faretra: cfr. Petrarca, Trionfo della Fama, III, 61-63: «E quel che ‘nver di noi divenne petra, / Porfirio, che d’acuti sillogismi / empiè la dialettica faretra» (Petrarca cita Porfirio in veste di aspro avversario del cristianesimo).

[commento_Sez.VII.3.0.20] • Regolata così la poesia, il direttore volgerà l’animo alle altre arti, affinché tutte tendano ad ispirare le medesime virtù, e a screditare i medesimi vizi che il dramma vuol mettere in veduta, lusingandomi che al lettore non sembri strano, che la musica, la pittura, la danza, il vestimento, destramente adoperati, sieno attissimi ad introdurre alcune date disposizioni negli animi nostri, e ad impedirne alcune altre. E tali avvertenze, che non pretendiamo avere insegnate, ma ricordate solo al dotto direttore ed egli abili artisti, se nell’esecuzione dell’opera in musica verranno osservate, non sarà questa, come altri declama, uno spettacolo privo di buon senso e nocivo al costume; ma per lo contrario contribuirà moltissimo al progresso della publica costumatezza ed a quello delle belle arti.