CAPO III.
Melodrammi.
I.
Favole Liriche.
Non ebbe nè esempio nè seguaci, ch’io sappia, il capriccio di quell’ Italiano del secolo scorso mentovato nella Drammaturgia, che con un solo personaggio condusse una favola intera di tre atti. Io non ho veduto che uno scherzo del Grazioso Gabriele Cinita in Madrid, il quale solo, in tre picciole scene buffonesche che chiamava atti, rappresentava un’ azione mimica. Ma tali capricci non ebbero verun presidio musicale. Fu il famoso Gian Giacomo Rousseau che col Pigmalione mostrò in qual maniera poteva una bizzarria convertirsi verisimilmente in una scena sublime interessante secondando le passioni e i pensieri coll’ espressiva armonia. In Francia e in Alemagna abbiam veduto ch’ebbe seguaci.
In Italia calca gloriosamente le orme del gran Ginevrino il conte Alessandro Pepoli nella sua Pandora favola lirica divisa in cinque scene, in cui intervengono Pandora, Prometeo, Epimeteo. Noi ne ammiriamo la nobiltà e grandezza dello stile e la copia de’ sentimenti appassionati. Soprattutto in essa comendiamo il soliloquio di Prometeo nella 1 scena, e l’ultima sua disperazione. Ne’ dialoghi poi delle altre scene ugualmente belli, non veggiamo chiaro in qual maniera attendendosi p.e. con impazienza una risposta possa sempre con proprietà di rappresentazione darsi luogo alle battute musicali che debbono precedere. Tal verità che alla lettura a noi si occulta, sparirà forse nell’esecuzione. Quest’ornatissimo cavaliere ha pur composta la favola odecoreutica di Ati e Cibele che attendiamo con avidità per ammirarla come un capo d’opera d’invenzione, di condotta, di maneggio di sentimenti, secondochè si esprime il sig. consigliere Calsabigi67.
Si è provato il sig. avvocato Pagano anche a produrre una scena somigliante nel suo Agamennone, ch’egli intitola Monodramma, benchè sieno tre i personaggi che v’ intervengono, per la qual cosa con più proprietà si nominerebbe scena o favola lirica &c.
II.
Opera buffa.
Centauri, sfingi, gorgoni, scille, chimere, arpie e quante mostruose larve pose Virgilio nella sede de’ sogni sull’ingresso degli elisj, rappresentano una pretta, e pur non piena immagine delle fantastiche stravaganze della presente opera buffa. Essa per sua natura sarebbe una commedia musicale, cui al più si permette di avvicinarsi alla farsa, ma non già a’ vaneggiamenti di pazzi e d’infermi, come sono i tanti malcuciti e sconnessi centoni che corrono per l’Italia.
Nacque in Napoli e nacque sobria, ogni poeta essendo persuaso sin dall’ incominciar del secolo di non aver dalla musica ricevuta la facoltà di allontanarsi dalle regole del verisimile. Furono dunque commedie vere le opere buffe di Francesco Antonio Tullio, le Fenziune abbentorate del 1710, il Gemino Amore del 1718, le Fente Zingare, lo Viecchio Avaro &c. Commedia fu l’Elisa di Sebastiano Biancardi detto Lalli in Venezia, cantata colla musica del Ruggieri nel 1711, e fu la prima vera commedia in musica veduta su quelle scene. Commedie e ben graziose le opere di Bernardo Saddumene morto qualche anno dopo del 1732, lo Simmele, la Carlotta, li Marite a forza, la Noce de Beneviento, e singolarmente l’ eccellente dipintura del Paglietta geluso. Andrea Belmuro autore de’ due intermezzi recitati in Venezia nel 1731, la Contadina, ed il Cavalier Bertone, posti in musica il primo dal famoso Sassone, e l’altro dall’ugualmente chiaro maestro Francesco Mancini, fece pur fra noi commedie musicali. Ne fecero altresì il Palma ed il Viola. Ma chi pareggiò in Italia la grazia delle commedie musicali del nostro Gennaro Antonio Federico inimitabile pel colorito Tizianesco de’ suoi ritratti comici? Il di lui Finto Fratello colla musica di Giovanni Fischetti si cantò nel 1730: lo Frate ’nammorato nel 1732 colla musica squisitissima in tutte le sue parti del Raffaele della musica Giambatista Pergolese68: Da un disordine nasce un ordine del 1737 colla musica di Vincenzo Ciampi: la Lionora del 1742 colla musica del Ciampi nelle parti serie, e del celebre Niccolò Logroscino nelle buffe &c. Commedie pur furono benchè di minor bellezza le opere di Pietro Trincera autore della Vennegna, dell’Abate Collarone, e singolarmente della Tavernola abbentorata cagione d’ ogni sua sventura, in cui fece una dipintura vivace di un Fra Macario simile al Tartuffo recitata colla musica di Carlo Cecere. Commedia fu il Carlo ed altre prime opere di Antonio Palomba, da cui poscia cominciò la stravaganza illimitata che sbandì la commedia dalle scene musicali napoletane. Le sue disgrazie l’allontanarono di Napoli, e la commedia vi fu di bel nuovo stabilita coll’intermezzo della Canterina colla musica di Niccolò Conforto, coll’ Astuto Balordo posto in musica dal celebre Niccolò Piccini, coll’ Innamorato Balordo posto in musica in gran parte dal Logroscino, e singolarmente colla Furba Burlata fortunatissima commedia la cui musica appartiene per la maggior parte all’insigne Piccini. Tornando il Palomba in Napoli vi ricondusse fra molte stranezze due felici opere la Donna di tutti i caratteri, e lo Sposo di tre e marito di nessuna poste in musica da Pietro Guglielmi. Palomba finì i suoi giorni con varie mostruosità sceniche, che servirono di esempio e di guida ad un folto sciamo di nojosissime cicale fino a tanto che cominciò a produrre le sue opere il nostro don Giambatista Lorenzi noto poeta de’ nostri giorni.
Perito nell’arte, dotato di natural piacevolezza, facile ne’ partiti e ne’ motteggi, testimone dell’alterazione del gusto avvenuta per le recenti mostruosità, sceglier seppe il Lorenzi la maniera più idonea per riuscire, cioè eccedere nel comico popolare alternandolo con tragiche situazioni. Nell’opere Tra due litiganti il terzo gode del 1766, in cui pose in opera il sacco di Bertoldo e di Scapino, nella Luna abitata più artifiziosa e teatrale del Mondo della Luna del Goldoni, nell’Idolo Cinese, in cui un buffone Napoletano è creduto un idolo nel la China, nella Corsala del 1771, il sig. Lorenzi pende alla farsa, per altro all’opera buffa non disdicevole. Nella Gelosia per gelosia del 1770, nelle Trame zingaresche del 1772, nel Tamburo del 1773, nel Duello, nella Fuga, ne’ Tre Eugenj, nella Scuffiara &c. si attenne più alla commedia. Ne incresce nel Furbo Mal accorto, come in qualche altra, l’abuso delle tinte troppo tragiche per la scena comica. Ma che mai può increscere nella bellissima farsa del Socrate Immaginario, che vivamente e con la più ridente satira comica rappresenta l’immagine di un Calabrese che sona l’arpa tra’ suoi discepoli; loda la musica greca che non conosce; ha una moglie da cui è bastonato ch’ei chiama Santippe, e un Mastr’ Antonio suo barbiere da lui denominato Platone; e beve la cicuta per rassomigliare in tutto l’antico Socrate? Le note preziose del sig. Paisello (che ha poste in musica egregiamente la maggior parte delle opere del Lorenzi) sono in tutte le parti nel Socrate inarrivabili. L’autore dell’Ammalato Immaginario oh quanto c’invidierebbe quest’ Immaginario Socrate, che al pari de di lui Tartuffo, fu alla prima proibito come indiscreto dopo tre sere di recita, per aver servito di limpido specchio a chi vi si raffigurò e se ne dolse. Onde ciò venne? Esisterebbe mai un vero Socrate della Magna Grecia all’immaginario rassomigliante, come esiste per nostro vanto un Aristofane Napoletano? Che che sia di ciò il Socrate è poi ritornato sulle scene, e ritornerà, e muove il riso, e se ne cerca ognor con gli occhi l’originale.
Apostolo Zeno e Pietro Pariati pubblicarono insieme il Don Chisciotte ed altri drammi giocosi che meritano di nominarsi. Goldoni compose il Mondo della Luna ed altre farse musicali; ma la sua Cantatrice, la Birba, la Pupilla, intermezzi piacevoli, e singolarmente il Filosofo di campagna posto in musica dal Buranelli, e la Cecchina dall’inimitabile Piccini, sono vaghe commedie musicali. Tali sono pure secondo me le Donne son sempre donne, e qualche altra dell’ab. Chiari, e le Pazzie d’Orlando del Badini cantata in Londra ove egli da più anni è morto. La riuscita del Trofonio, e del Re Teodoro poste in musica dal Paisello, in Vienna, in Parigi e per l’Italia, dell’erudito sig. canonico Casti di Montefiascone, son pure pregevoli opere buffe da ricordarsi con onore.
III.
Opera eroica.
L’opera eroica che può chiamarsi istorica incominciata nel secolo scorso, in cui ebbe una lunga fanciullezza, ha nel presente avuta la sua adolescenza e la virilità. Si osserva la prima nella Dafni di Eustachio Manfredi, nell’Arsace di Antonio Salvi, nel Polifemo di Paolo Rolli, nel Farnace e nel Farasmane ed altre del Biancardi o Lalli Napoletano, e specialmente nell’Eraclea, nel Tito Sempronio Gracco, ne’ Decemviri, nel Turno Aricino ed altri drammi del Romano Silvio Stampiglia poeta Cesareo dell’imperadore Carlo VI. Le di lui favole sono doppie e piene d’intrighi amorosi simili a quelli delle tragedie galanti francesi, e lo stile abbonda di pensieri lirici. Esse sono tutte di lieto fine, ed alcuna di esse risale agli ultimi anni del passato secolo, come la Partenope dramma cantato in Napoli sin dal 1699 e replicato altrove tante volte. Sono adunque alcuni de’ suoi drammi anteriori a quelli del Zeno. Non bene dunque il dotto sig. ab. Eximeno attribut al Zeno il costume osservato poi costantemente nello scioglimento de’ melodrammi istorici di far mutare di sinistra in prospera la fortuna dell’eroe. Le di lui ariette furono per lo più poco musicali; ma mostrò talora di saperne fare, come si vede in questa dell’Eraclea:
Incominciai per gioco,E poi m’innamoraiQuanto potesse maiInnamorarsi ancor.
Ma la virilità dell’opera eroica incominciò senza dubbio col prelodato Apostolo Zeno Veneziano, e si perfezionò nel Metastasio. Il signore Zeno Poeta e Istorico Cesareo succeduto allo Stampiglia è stato di lui assai più regolare, più naturale, più maestoso, più vivace. Ebbe più invenzione, più arte di teatro, più verità e forza nel maneggio delle passioni, più grandezza ne’ suoi eroi. La lingua è pura, lo stile ricco e proprio degli argomenti e della drammatica. A lui non manca se non quel calore, quella precisione, quell’armonia, quella scelta che costituiscono il merito del gran poeta che gli succedette. Notabili singolarmente sono i melodrammi del Zeno per la varietà de’ caratteri e degli argomenti, essendosi arricchito nelle storie greche, romane e barbare a lui famigliari. Dovunque incontrò (disse l’ab. Conti valendosi delle parole dello stesso Zeno) o maturità di consiglio ne’ dubbj affari, o magnanimità di perdono nelle offese sofferte, o moderazione ne’ tempi prosperi, o fortezza ne’ casi avversi, costanza di amicizia e di amor conjugale, man forte a sollievo degl’ innocenti, cuor generoso a ristoro de’ miserabili, atti di beneficenza, di giustizia, di temperanza ed altre virtù, tutti n’espose, n’ ingrandì, e illustrò gli esempj in teatro. Ciò che ne segnala ancora il carattere è l’aver saputo in ciascun atto delle sue favole preparare una scena vistosa, popolare, interessante che tiene svegliata l’attenzione dello spettatore. I drammi onde trasse maggior onore, sono, Lucio Papirio, Cajo Fabricio, Andromaca, Merope, Mitridate, Ifigenia, Nitocri &c. Non minor gloria gli recarono i sacri Oratorj musicali pieni di entusiasmo profetico e di sacra erudizione, tra’ quali si distinguono, Sisara, Daniele, Davide umiliato, Giuseppe, Ezechia &c. L’autore stesso ha data la più giusta idea di tali sacri componimenti: In essi (ei dice) studiai di far ragionar le persone, e in particolare i Patriarchi, i Profeti e gli Apostoli collo stile delle Scritture, e co’ sentimenti de’ Padri e de’ Dottori della Chiesa, stimando, che quanto meno fossevi frapposto del mio, tanto più di compunzione e di diletto avesse a destarsi negli animi degli uditori. Tutte le di lui opere drammatiche comprendonsi in dieci tomi, ma gli ultimi due contengono quelle che compose in compagnia di Pietro Pariati.
Ed eccoci a’ più lieti giorni della virilità dell’opera eroica, ai giorni rischiarati dal corso del più bell’ astro della poesia drammatica musicale. Pietro Trapasso, il cui cognome dal celebre Calabrese Gian Vincenzo Gravina, che l’educò nelle lettere per lo spazio di dieci anni, cangiato in greco suono divenne Metastasio e riempì l’Europa, nacque in Roma nel 1698, passò parte della gioventù in Napoli esercitandosi nel foro, succedette ad Apostolo Zeno nel 1729 nell’onorevol carica di Poeta Cesareo, e caro agl’ impp. Carlo VI, Francesco I e Giuseppe II, e alle imperatrici Elisabetta e Maria Teresa fiorì in Vienna sino all’anno 1782, in cui mancò con lutto universale della virtù, del sapere e della poesia. Che diremo noi di sì raro e felice ingegno che corrisponda alla sua grandezza? Ch’egli era sì grande che ha inspirato in tutti i contemporanei la disperazione di appressarlo nel suo sistema, ed in alcuni il partito di torcere dalle sue vestigia? Che i di lui splendidi difetti stessi, i quali appartengono agli abusi musici anzi che a lui, lo rendono rispettabile fin anco agli orgogliosi che volgono altrove il capo per non vederne l’odiata luce che gli umilia? Le Grazie sole potrebbero convenevolmente encomiarlo, le Grazie amiche di Anacreonte che mercè del Metastasio ridenti passeggiarono le musiche scene, e che tacquero come egli tacque. E quando ripiglieranno il canto, l’ilarità, il riso? E chi le rimenerà sulle armoniche scene? Forse i partigiani delle furie e de’ demonj ballerini?
La musa di questo grand’uomo si distingue per molti pregi, e singolarmente per la grazia, la facilità, la naturalezza dell’ espressione, per la precisione, la chiarezza e l’armonia dello stile (Nota III) per l’eleganza permessa al melodramma, e per la grandezza e la sublimità69. Di grazia a chi mai cede egli, sia che alla maniera di Sofocle migliori i grand’uomini dell’ antichità nel ritrarli, ovvero sia che gareggi di sublimità col gran Cornelio dipingendo Greci e Romani, e di delicatezza coll’ armonioso Racine facendo nelle passioni che maneggia riconoscere a ciascuno i movimenti del proprio cuore? A quanti anzi egli non sovrasta per la particolar magia del suo pennello che anima quanto tocca, e l’ ingentilisce colla grazia del Correggio e coll’ espressione di Raffaello? Chi non ravvisa nel Metastasio il gran maestro allorchè (nel tempo stesso che si presta al duro impero dell’uso e del canto introducendo amori subalterni come pur fecero i migliori tragici francesi) c’interessa pel solo protagonista mostrandolo in preda d’un amore forte, imperante, disperato qual si richiede nella severa tragedia? Zenobia, Siroe, Arbace, Timante, Megacle, Demetrio, Ipermestra &c. personaggi agitati da una passione contrastata dall’ eroismo o dal dovere, sono perfettamente tragici. E con quanta maestria non colorisce i caratteri? Quel fandi fictor Ulysses non è dipinto al vivo nell’Achille in Sciro? l’ energia e l’impeto del vincitor di Troja non si vede quasi nascente nella finta Pirra? Ezio arrogante, che parla di se e delle sue gesta, ma però nobile, prode, magnanimo, virtuoso, non rappresenta appunto la bontà con qualche debolezza richiesta nel personaggio tragico70? Tito, Temistocle, Catone, Regolo 71 quando comparvero più grandi sulle scene? e qual tesoro di filosofia non vi profondono? L’idea di rappresentare gli affetti di una madre in Merope fu più d’una volta felicemente eseguita; ma chi può soffrire il paragone del colorito inimitabile di Mandane nel Ciro riconosciuto? chi fece Egisto più interessante di Ciro sotto il nome d’ Alceo? Per altra parte quanta erudizione sacra, nobiltà di dire, interesse tragico ed unzione negl’ inimitabili Oratorj, Betulia, Gioas, Giuseppe, la Morte d’Abel, la Passione di Gesù Cristo! Qual ricchezza di filosofia e d’immaginazione e di splendidezza di decorazioni nelle Serenate Enea negli Elisj, Astrea placata, il Parnaso accusato e difeso, l’Asilo d’Amore &c.?
Pieno di erudizione di ogni maniera egli imita gli antichi ma con tal maestria che par nato or ora quel che dissero venti secoli indietro. E chi saprà più dare agli altrui pensieri quella naturalezza che si ammira nelle imitazioni del Metastasio? Tito si vale delle parole del Gran Teodosio quando abolì la legge che dichiarava rei di morte quelli che profferivano parole ingiuriose contro del Principe72. V’è, gli dice Publio, chi lacera anche il tuo nome; e Tito:
E che perciò? Se il mosseLeggerezza, nol curo:Se follia, lo compiango:Se ragion, gli son grato: e se in lui sonoImpeti di malizia, io gli perdono.
È prosa, dice l’invidia sotto la maschera del gusto; ma che bella prosa che fa obbliare tanti e tanti versi! Servesi Metastasio di un gran numero di sentenze di Seneca ma spogliandole d’ogni affettazione nativa. Quel Dubiam salutem qui dat afflictis, negat, è un aforismo in Seneca, e diviene una ragione ben naturale in Fulvia:
Non dir così; niega agli afflitti aitaChi dubbiosa la rende.
É una ruvidezza pedantesca la risposta di Megara ad Anfitrione, Quod nimis miseri volunt Hoc facile credunt, la quale acquista semplicità e naturalezza in Metastasio:
E poi quel che si vuol, presto si crede.
Dal Petrarca, dallo Zeno, e da’ Francesi trasse del mele; ma chi nol fa? chi nol fece? Importa saperlo convertire in proprio sangue e sostanza, ed è questo uno de’ rari pregi del Metastasio. Si è da’ critici detto ancora che la maggior parte delle favole Metastasiane viene dalle francesi, senza avvertire che la maggior parte delle francesi si trasse dalle italiane. Questo traffico de’ letterati è antichissimo (Nota IV); ma distinguasi il plagio vergognoso dalla lodevole imitazione. Bisogna posseder critica, principj e riflessione per comprendere ancora quando gli autori s’incontrano per ventura, e quando si seguono a bello studio; Aretade presso i Greci fece un volume de’ pensieri degli scrittori che s’incontrano senza seguirsi73.
Il calore della contesa che ebbe in Londra col Martinelli trasportò anni sono Carlo Francesco Badini esgesuita ad affermare nella Bilancia di Pandolfo Scornabecco, che Metastasio tolse il Demofoonte dall’Ines de Castro. E perchè non può metter capo nella bella Semiramide del Manfredi, in cui le occulte nozze di Nino e Dirce che si scoprono fratelli, rassomigliano meglio alle avventure di Timante e Dircea? Non conosceva poi il Badini altra Inès anteriore a quella del suo ingegnosissimo La Motte?
Dall’Ambigu Comique di Montfleury (disse lo stesso mordace esgesuita) Metastasio ha tratto la Didone. Che cosa fu quest’obbliato Ambigu, di cui si cibava il Badini? Una stravaganza eterogenea uscita nel 1671 in tre atti, ognuno de’ quali contiene un argomento differente, e in uno si rappresenta in iscorcio l’avventura di Didone. Quell’Ambigu fu dunque il modello del Metastasio? Il Badini non conobbe tragedie vere della regina di Cartagine del secolo XVI? Metastasio non sapeva leggere la divina Eneide?
Anche l’Attilio Regolo (afferma lo stesso erudito esgesuita) venne da’ Francesi. Da chi mai venne? forse dal Regolo dell’insipido Pradon tanto screditato nelle Satire del Boileau e nell’epigramma di Racine? Ma sapeva egli che il Regolo di Pradon è un petit-maître colla sua bella accanto74? Poteva nascere da sì molle e negletto padre l’eroico, il Romano Attilio Regolo Metastasiano?
E Badini e molti altri dissero ancora che dal Cinna formò il Poeta Cesareo la sua Clemenza di Tito. Chi può ignorare il capo d’opera del teatro di Cornelio? La Clemenza di Tito nulla perderebbe quando anche ne fusse un’ esatta imitazione. Ma per istruzione della gioventù e per rendere giustizia al vero, osserviamo in qual maniera si condussero que’ due grand’ingegni nel maneggiare in generi diversi due congiure e due perdoni tramandatici dalla storia.
Cinna è tragedia destinata a commuovere lo spettatore: Tito è melodramma fatto per commuovere ed appagare i sensi. Per riuscire nel primo lavoro, si vale il buon poeta di un’ azione importante ma semplice per dar campo al dialogo in cui spicca l’ entusiasmo tragico. Chi compone pel teatro musicale, abbisogna di maggiore attività e rapidezza nella favola, per servire al suo oggetto più con colpi di scena e situazioni che col dialogo obbligato dalla moderna musica a soggettarsi a una precisione rigorosa. Cornelio e Metastasio hanno soddisfatto compiutamente al loro intento; ma se quest’ ultimo avesse seguite l’orme del primo nella condotta della favola, avrebbe fatta un’ opera fredda di una buona tragedia75.
Quindi profuse nel suo argomento maggior ricchezza d’invenzione, e questa che nel Tito si scorge ad ogni passo, per gli nuovi colpi teatrali e pe’ bei quadri prodotti da’ contrasti di situazione, non poteva trovare l’Italiano nel tragico Francese, e trasse dal proprio fondo le fila che gli abbisognavano per la sua tela. Non basta a Metastasio che Sesto ami Vitellia che lo seduce e lo precipita nella congiura; ma ha bisogno che questa aspiri a una vendetta, non di un padre come fa Emilia, ma di un’ attiva ambizione delusa nella speranza di regnare. Ha bisogno che Tito faccia uno sforzo e rimandi Berenice per risvegliare la spenta speranza di Vitellia, e che poscia egli elegga per consorte Servilia sorella di Sesto impegnata con Annio nobile, virtuoso e degno della di lei tenerezza. Ha bisogno che Sesto strascinato dalla passione alla congiura, e richiamato da un resto di virtù e dalla gratitudine a salvar Tito, nel tempo stesso che contro di lui conspira, corra a difenderlo: che chiamato da Tito non ardisca presentarglisi col manto macchiato di sangue: che Annio gli dia il suo: che quest’amico col manto di Sesto segnato colla divisa de’ congiurati arrivi alla presenza dell’ imperadore in tempo che la virtuosa Servilia ha scoperto il segreto del nastro, e che il suo amante all’apparenza risulti colpevole, e ponga in confusione l’inconsiderato Sesto, ed Annio nella necessità di comparir reo o di accusar l’amico. Queste cose fanno riuscire il melodramma italiano diversissimo dalla tragedia francese per la ricchezza e l’ economia dell’azione76.
I caratteri poi di Augusto, Emilia e Cinna differiscono da quelli di Tito, Vitellia e Sesto. Augusto si dimostra clemente la prima volta stanco dalle famose proscrizioni: e la clemenza è la caratteristica della vita di Tito delizia del genere umano; caratteri che esigono un colorito differente. Emilia innamorata di Cinna intraprende lo sconvolgimento dello stato contro al suo benefattore, per vendicar la morte di un padre; nel che si scorge cert’aria di romanzo, perchè l’ affetto filiale narrato non iscuote tanto lo spettatore quanto i benefizj presenti di Augusto, e la di lei passione per Cinna esposta agli sguardi. Ma Vitellia è un ben dipinto carattere somministrato dalla natura, e da’ costumi de’ grandi, superiore forse alla stessa Ermione di Racine da cui deriva77. Ella è una Romana ambiziosa che più non isperando di conseguire colla mano di Tito l’imperio, si prevale della debolezza di un suo amante per tramare la rovina dell’imperadore; e l’ondeggiamento delle di lei mire comunica all’azione un continuo patetico movimento. Cinna poi e Sesto sono veramente due ingrati per cagione di una donna; ma Cinna sempre considera Augusto come un tiranno, e i suoi rimorsi dell’atto III non provengono dalla conoscenza dell’ingiustizia del suo attentato, ma da’ benefizj ricevuti da Augusto. Sesto al contrario, personaggio incomparabilmente più tragico78, è combattuto dalla conoscenza delle virtù di Tito, dall’amicizia da lui oltraggiata, dall’immagine d’un gran tradimento senza discolpa, dalla virtù cui non ha del tutto rinunziato, dalla debolezza per Vitellia che lo tiranneggia. Per comprendere appieno la diversità de’ due caratteri, pongasi, nella scena full’ abdicazione di Augusto, Sesto in luogo di Cinna, e la tragedia non potrà andare avanti, non potendo convenire a Sesto la parte che vi sostiene Cinna d’ipocrita e di traditore determinato.
Personaggi così diversi producono situazioni ancor più differenti. Senza dubbio eccellente è la scena prima dell’atto V tra Cinna ed Augusto dopo scoperta la congiura; e benchè ne sembri troppo famigliare l’ incominciamento, Cinna, prendi una sedia e ascoltami, il discorso di Augusto si va gradatamente elevando, finchè conchiude con quella famosa interrogazione,
Cinna, tu t’en souviens, & veux m’ assassiner?
Cinna però, come ogni reo ordinario, si risolve a negare il delitto,
Moi, Seigneur, moi que j’ eusse une ame si traîtresse?
Ma Augusto lo riempie di confusione mostrandosi inteso di tutta la congiura, ed allora Cinna convinto si appiglia al partito di mostrar coraggio,
Vous devez un exemple à la posterité,Et mon trépas importe à votre sureté ..
Tutto è detto con senno, proprietà e grandezza ancora, e nulla è straordinario. Ma nel nostro melodramma che cosa produce lo scoprimento della congiura? Due incontri originali inimitabili. Nella scena 4 del II Tito sa che si congiura contro la sua vita, ma ignora che Sesto sia il reo principale; perciò vedendolo venire va a lagnarsi con lui medesimo, coll’ amico, dell’ingratitudine de’ Romani:
Tit.
Sesto, mio caro Sesto, io son tradito.Ses.
(Oh rimembranza!)Tit.
Il crederesti, amico?Tito è l’odio di Roma. Ah tu che saiTutti i pensieri miei: che senza veloHai veduto il mio cor: che fosti sempreL’oggetto del mio amor, dimmi se questaAspettarmi io dovea crudel mercede.Ses.
(L’anima mi trafigge e nol sel crede!)
Che contrasto sommamente interessante fa quell’aspetto franco e amichevole di Tito, e quella confusione di Sesto lacerato da’ rimorsi! E chi non invidierà all’Italia questa scena impareggiabile? Nella scena 6 del III non si conosce meno il maestro. Tito più non ignora che Sesto è un traditore, e che il Senato l’ha convinto e condannato alla morte; ma vuol parlargli, e quando Sesto si appressa, si sforza di mostrar nel volto la rigorosa maestà offesa. Sesto si avanza sbalordito affatto dal delitto palese. L’uno osserva la mutazione dell’aspetto dell’altro; e lo spettatore vi ammira un quadro patetico degno del Raffaello della scena tragica:
Ses.
(Numi! è quello ch’io miroDi Tito il volto? Ah la dolcezza usataPiù non ritrovo in lui! Come divenneTerribile per me!)Tit.
(Stelle! ed è questoIl sembiante di Sesto? Il suo delittoCome lo trasformò! Porta sul voltoLa vergogna, il rimorso, e lo spavento.) ec.
Tali scene non si leggono nel Cinna, nè in altri drammi ch’io sappia. Bellezze originali son parimente, e fatte per l’ immortalità, le vie tentate da Tito per sapere il segreto di Sesto: le angustie di questo infelice posto nel caso o di accusar Vitellia, o di commettere una nuova ingratitudine verso il suo buon principe: l’ ammirabile combattimento di Tito nel soscrivere la sentenza nella scena 7 del III, che meritò l’ammirazione di Voltaire. Deggio, dice Tito, una vendetta alla mia clemenza sprezzata . . . . . .
Vendetta! Ah Tito, e tu sarai capaceD’un sì basso desio, che rende ugualeL’offeso all’offensor? Merita inveroGran lode una vendetta ec. . . . . . .. . . . . . . . Eh viva . . . . InvanoParlan dunque le leggi? Io lor custodeL’eseguisco così? Di Sesto amicoNon sa Tito scordarsi? Han pur saputoObbliar d’esser padri e Manlio e Bruto.Seguansi i grandi esempj: ogni altro affettoD’amicizia e pietà taccia per ora.Sesto è reo, Sesto mora ec.. . . . . . . . . . . . . Or che dirannoI posteri di noi? Diran che in TitoSi stancò la clemenzaCome in Silla e in AugustoLa crudeltà ec.. . . . . . . . . . . . . Che Tito alfineEra l’offeso, e che le proprie offese,Senza ingiuria del giustoBen poteva obliar . . . Ma dunque faccioSì gran forza al mio cor, nè almen sicuroSarò ch’altri m’approvi? Ah non si lasciIl solito camin. Viva l’amico,Benchè infedele, e se accusarmi il mondoVuol pur di qualche errore,M’accusi di pietà, non di rigore.
Ed ecco in qual guisa i grand’ingegni anche con argomenti già maneggiati diventano originali. Virgilio e Tasso, prendendo per modello Omero, ci arricchirono di nuove fogge di poemi eterni. I grandi drammatici della Grecia scrissero molte volte su di un medesimo argomento componimenti che non si rassomigliano. Chi sa imitar migliorando, nasce per essere successivamente imitato; quindi è che il nostro Poeta Imperiale ha prodotta una folta schiera d’imitatori Italiani che lo seguono senza raggiugnerlo nè appressarglisi; ed è stato tradotto e imitato in Francia da molti poeti, Le Franc de Pompignan, Collé, Belloy, Le Miere, Dorat ec. Egli è vero che possono ne’ suoi drammi notarsi alcuni difetti, ne’ quali incorse a cagione del sistema che trovò introdotto, del genere stesso, degli esempj passati, e soprattutto degli abusi musicali, come sarebbero tante arie di paragoni lirici per se stessi eccellenti, e certi amori subalterni, e qualche espressione studiata più che alla scenica non si conviene. Ma che perciò? Metastasio è pur tutto insieme l’Euripide, il Cornelio ed il Racine Italiano: Metastasio è tale che se di mezzo il togli, senti che si forma un orrido vuoto nella poesia melica che niuno più riempie; là dove se altro moderno poeta, e grande ancora, tu ti finga di non avere esistito, nulla sentirai mancare all’Italico Parnaso. Non per tanto intorno a lui non si ascoltino gli elogj del Piccini il giovane, del sig. Torcia, del sig. Cordara ec., nè il Vespasiano, nè il consigliere imperiale Calsabigi, nè l’Algarotti, nè il Franceschi, nè il Signorelli. Odansi gli esteri. Questo caro figlio della natura (diceva il dotto sig. Eximeno) ha accordati insieme estremi che niun filosofo avrebbe mai pensato di potersi combinare, quali sono le dolcezze della lira greca co’ sentimenti romani. Il suo stile è chiaro, netto, conciso, le parole piene di sugo e di grazia, i periodi di giusta misura per penetrare nell’animo. E quantunque il Metastasio non sia stato posto nella lista degli autori del conciossiacchè, egli sarà non per tanto l’originale che si proporranno ad imitare i poeti filosofi. La sua rima è discretissima ed esente di legge, i versi, in quanto lo permette la lingua, sono pieni di ritmo, e però facili d’adattarsi alla musica. Se Anacreonte rinascesse, dubito che scrivesse in italiano un’ ode nè più armoniosa nè più dolce di questa:
Oh che felici pianti,Che amabile martir,Purchè si possa dirQuel core è mio.Di due bell’ alme amantiUn’ alma allor si fa,Un’ alma che non haChe un sol desio.
Voltaire parlando della scena 6 del III della Clemenza di Tito e del costui monologo soprallodato diceva: “Queste due scene sono comparabili, se non le superano, alle più belle produzioni di Grecia medesima: sono degne di Cornelio quando non è declamatore, e di Racine quando non è debole”. Un altro prezioso testimone ammirisi in un sol frammento del lunghissimo e squisitissimo elogio che gl’ intesse l’elegante sig. Andres con ben poche eccezioni. Non ha perchè temere (dice) il Metastasio il confronto con Cornelio, con Racine e con qualunque altro poeta tragico. I suoi caratteri non cedono per l’ esattezza e verità a’ migliori caratteri degli altri poeti. La sublime anima di Cornelio ha ella saputo immaginare Greci e Romani come Temistocle, Regolo e Tito? E il dolce cuor di Racine avrebbe avuto bastevole tenerezza, e sensibilità per formare i Timanti, i Megacli, le Dircee, le Zenobie, e tanti altri affettuosi ed appassionati personaggi? Tratti più nobili e grandi, più rilevati ed energici, sentenze più sublimi e giuste, più chiare e precise, pezzi più teneri e toccanti, espressioni più piene di sentimento e d’ affetto, non si troveranno facilmente nel Cornelio, nel Racine, nel Voltaire, nè in alcun altro; e il solo Metastasio potrà in queste parti drammatiche far fronte a tutto il più bello e grande del teatro francese &c.
Dopo ciò, studiosi giovani, che amate la poesia scenica e Metastasio, non vi potrete consolare del molesto ronzio di qualche povero mendicante, che, avendo sempre scritto scorrettamente in italiano e prose e versi, ardisse esitare intorno al valersi di qualche vocabolo non da altri usato che da Metastasio? Ascolterete chi chiamasse svenevoli le tenerezze Metastasiane? le vendute tirate di certi automati periodici che respirano coll’ altrui fiato velenoso? la severità de’ Petrarchisti e Dantisti? l’invide filippiche di qualche versiscioltajo? Udite per vostro meglio ed a gloria dell’ Italia, di cui Metastasio è il più caro ornamento, udite gli esteri, gli emuli stessi oltramontani, udite il vostro cuore, e coll’ Algarotti
a piena man spargeteSopra lui fiori, e del vivace alloroOnorate l’altissimo poeta.
Seguaci ebbe questo valorosissimo ingegno nell’opera istorica il Livornese sig. Marco Coltellini autore dell’Almeria e dell’Antigona composta per Pietroburgo, e Vittorio Amadeo Cigna Torinese che scrisse Enea nel Lazio ed altri melodrammi, a’ quali mancò buona parte della delicatezza, del patetico, della grandezza, del calore Metastasiano. I loro disegni non furono sì ricchi e giudiziosi; non originali o quasi tali le invenzioni; i loro colpi di scena spariscono a fronte del vigoroso colorito di Apostolo Zeno, ed i loro quadri accanto a quelli del Metastasio. Decaddero ancora per lo stile, anche in faccia al Coltellini ed al Cigna, la Disfatta di Dario, e l’Incendio di Troja del duca Morvillo, e l’Armida abbandonata dell’avvocato don Saverio de Rogatis che nel 1770 si rappresentò in Napoli da Anna de Amicis e da Giuseppe Aprile: ma tutti e tre questi drammi riuscirono oltre modo in teatro, per le decorazioni e per la musica de’ primi due di Pasquale Cafaro, e dell’ultimo del maraviglioso Jommelli, la quale si tiene meritamente per un capo d’opera.
Il sig. duca don Domenico Perrelli impresse in Napoli in un tomo nel 1777 quattro melodrammi, la Circe, Cesare in Armenia, Lisimaco, e l’Adolfo sul gusto ragionevole dell’opera istorica, ma non si rappresentarono. Oggi dall’illustre autore si fa imprimere una raccolta di sue poesie teatrali in più tomi, ed il pubblico è vicino ad accertarsi de’ di lui progressi nell’arte d’incatenar gli eventi con verisimiglianza, nel colorir gli affetti, e nell’esprimersi con nobiltà e naturalezza, frutti saporosi e grati del tempo e di un ostinato travaglio.
Don Luigi Serio professore di Eloquenza italiana nel Liceo Napoletano e Poeta di Corte sin dal 1779 volse i suoi poetici ben conosciuti talenti all’opera Metastasiana con fondata speranza del pubblico, e la scelta de’ suoi argomenti accreditò il di lui gusto. La sua Ifigenia in Aulide collo scioglimente naturale del Racine fu rappresentata in quell’anno colla musica del Valenziano Vincenzo Martin, il quale abbisognava di più lungo soggiorno in Italia per riuscire sul teatro di San Carlo ripieno dell’armonia immortale de’ Jommelli, de’ Piccini, de’ Mai e de’ Paiselli. Il suo Oreste colla musica del Napoletano Domenico Cimarosa comparve nel medesimo teatro nell’agosto del 1783. La sua versificazione è musicale; facile l’espressione ed acconcia al genere; lo stile chiaro, nobile, conciso, ed ornato de’ fiori poetici che Metastasio stesso ammise nella Didone ed in altri drammi ma che poi usò più parcamente nell’Attilio; ad onta degli ostacoli musici non perde di vista il tragico fine di commuovere sulle orme de’ tragici dell’antichità. Ma di quanto verso quel tempo non eran cresciuti gl’ inconvenienti teatrali che incepparono tal volta il genio stesso di Metastasio! Quanta altra parte di poesia e di verità non conviene oggi sacrificare al furore de’ gran pantomimi, mercè de’ quali ormai s’ignora se il melodramma sia parte accessoria o principale dello spettacolo!
Non è mancato qualche altro melodramma istorico in Italia, come il Pirro del sig. Gamerra, il Creso del sig. Pagliuca, ed i Tirreni melodramma inedito tuttavia dell’ingegnoso giovane don Matteo Galdi de’ cui ben coltivati talenti già si gustano i precoci frutti.
L’umana incostanza che mena sovente il rincrescimento dello stato attuale ed il desiderio di cambiare, fe pensare a rivolgere lo sguardo indietro ed a vedere in lontananza l’opera mitologica rifiuto delle scene italiche ed imperfetta ancor nelle mani di Quinault. Come seguir nel suo sistema Metastasio e non rimanergli di grande spazio indietro? In vece di rettificar quel sistema, si penso a cangiar sentiero. Ed ecco sorgere l’Alceste, e l’Orfeo del sig. Calsabigi animati dalle note immortali di Gluck in Vienna; e si corse allo spettacolo che varca oltre l’Olimpo e travalica le rive d’Acheronte. Il Migliavacca oltre alla sua Tetide scrisse l’Armida, ed ebbe la destrezza di congiungere agl’incantesimi, ai sison delle furie ed a’ bilancè de’ personaggi allegorici di Quinault il vivo interesse dell’inimi abile Armida del gran Torquato ed una felice imitazione del seducente stile Metastasiano. Marco Coltellini richiamò la pomposa favola di Psiche già sceneggiata da Moliere, e mostrò in Vienna nel 1767 la sua di Amore e Psiche colla selva de’ destini, coll’ antro degli oracoli, coll’Acheronte, colla caverna di Averno, ed accoppiò allo spettacolo de’ sensi l’interesse e la possibile commozione in buono stile. Il prelodato sig. Serio nel 1780 riprodusse sulle scene napoletane tale argomento; ma gli convenne tutto fondare nella poesia, e servire alle circostanze spogliando lo spettacolo di quasi tutte le indicate decorazioni, per dar luogo a’ balli di Zemira e Azor ed al Convitato di pietra. Psiche, Zemira, l’inferno di don Giovanni Tenorio tutto in un fascio? Ma tutto oggi dee sacrificarsi a’ ballerini. L’anno 1782 (ed è questo un altro fatto che smentisce solennemente il gazzettiere Colpo d’occhio) il Sovrano di Parma, continuando nell’intento di promuovere d’ogni maniera i progressi della drammatica, fe rappresentare splendidamente nel suo teatro Alessandro e Timoteo scritto con eleganza e forza poetica dal sig. conte Castone della Torre Rezzonico e posto in musica dal celebre Giuseppe Sarti. Ma nè anche le seducenti bellezze di quella musica e di quella poesia, nè quelle apparenze incantatrici ma posticce, poterono supplire all’interesse ed al calore che produce la sola verità nell’opera istorica non guasta da’ musici e da’ ballerini.
I momenti più favorevoli dell’opera mitologica cessarono tosto, e si ricorse di bel nuovo a i riposti arredi di Zeno e Metastasio, ma essi furono mutilati al pari di coloro che reggono le parti de’ loro protagonisti. È colpa forse de’ lodati poeti la barbara esecuzione de’ norcini teatrali all’impero de’ direttori de’ moderni pantomimi?
Il sig. Calsabigi fermo nel proposito di raddrizzare il trono giacente dell’opera mitologica, impiegò tutto l’ apparato naturale di essa de’ demonj e delle furie danzanti e della descrizione del Tartaro nelle sue Danaidi che fe porre in musica dal nostro Millico; ma non si rappresentò. Il sig. conte Pepoli che lo segue e ne adora le vestigia, ha pubblicato nel 1789 il suo Meleagro accompagnato da una lettera sul melodramma serio ad un uomo ragionevole, il quale nè anche parmi che abbia presentate sulle scene le nuove vesti delle antiche furie, de’ numi infernali, delle ombre e delle parche, corteggio perpetuo delle tragedie musicali mitologiche. O Nitteti, ricca figliuola di nobil padre e sforzo felice dell’ arte che sa arricchirsi nell’immenso campo della natura di sì varie e vaghe e preziose pompe, ad onta de’ valorosi ingegni che fra noi pur fioriscono, non avrai tu una compagna nel regno dell’armonia? Passiamo a fare un motto della danza e della musica.
E la danza che oggi forma una parte non indifferente dell’opera, e la musica che la costituisce tale insieme colla poesia, hanno ricevuto nel nostro secolo da varj eccellenti artisti novello gusto e splendore. La danza teatrale ora non è più un’ arbitraria filza di più pantomimi eterogenei serii o grotteschi con pieni senza oggetto concatenato: ma rappresenta anch’essa co’ soli gesti favole compiute comiche o tragiche. Il Toscano Angiolini espose in Italia, in Alemagna, in Pietroburgo varii balli serii e giocosi, il Convitato di pietra, il Solimano II, Errico IV alla caccia, Ninetta in corte, il Disertore con lieto fine &c. In una lettera scritta da Vienna nel 1759 a m. Arnaud lodavasi il ballo di Flora eseguito da madama Angiolini. In Parigi ed in Vienna intorno al medesimo tempo si distinsero la Bugiani e la Paganini. Il Fiorentino Vestris tanto applaudito in Parigi si è segnalato nel serio e gentile, Viganò in Italia nel grottesco, il Napoletano Gennaro Magri in Venezia, in Torino, in Napoli per leggiadria e leggerezza, per varie felici invenzioni di balli applauditi, e pel trattato teorico-pratico del ballo in due volumi con trenta rami dato alla luce nel 1779.
Il più riscaldato, il più burbero, il più preoccupato nemico del nome Italiano, non contrasterà all’Italia il primato sopra le altre nazioni nell’arte incantatrice della musica. Dal di lei seno uscirono i primi musici legislatori e i più famosi maestri, e quei che insegnarono a ricongiungere con proprietà e verità sulla scena la poesia e la musica. Dal di lei seno senza contrasto sono usciti i più celebri maestri di questo secolo. Egli è ben vero che i Tedeschi possono vantarsi di eccellenti maestri di musica strumentale, degli Haydn, Huber, Cramer, Schmit ecc.: che debbono andar fastosi del loro Hass (pregevole allievo de’ conservatorj di Napoli) e del prodigioso Gluck e dell’armonioso Back ecc. Ma gli Spagnuoli che già ebbero un Ramos, un Salinas, un Morales, non parmi che oggi contino altri che il maestro Rodriquez de Hita compositore della musica della Briseida, e che il nominato Valenziano Martin; perchè Gaetano Brunetti maestro di violino di Carlo iv essendo Principe di Asturias, ed il Corselli della R. Cappella, ed il Conforto appartengono all’Italia. Pregiansi meritamente i Francesi di dottissimi scrittori teorici di musica e particolarmente di Mersenio, Burette, D’ Alembert &c.; pure qual altro nome de’ loro moderni maestri musici ha sormontate le Alpi fuorchè quello del difficile Rameau (Nota V)? Ma eccetto che il solo Gluck, potranno gli oltramontani sulla musica gareggiar di preminenza con gl’ Italiani? Son pur essi medesimi gli ammiratori degli eccellenti musici teorici e pratici che in prodigiosa copia escono da Bologna, da Firenze, da Venezia, da Milano ed altronde, ma singolarmente da Napoli reggia e fonte perenne della scienza musica. Scarlati, Vinci, Porpora, Leo, Corelli, Veracini, Tartini, Bucarini, il nobile Marcello, l’eccellente storico della musica e maestro Martini, il Buranelli introduttore del gusto della musica italiana in Alemagna, il Mancini, il Sarro, il Durante gran maestro di gran maestri, l’ impareggiabile Pergolese, il maestoso ed infelice Gaetano Latilla, il profondo armonico Logroscino, il grande Jommelli, il gajo, vivace, dilicato Piccini, che ha prodotto in Parigi la felice rivoluzione predetta sin dal 1777 dal Signorelli (ne frema pure il Lampillas) il dotto Cafora, l’armonioso Majo, il felice Traetta, il pieno e grande Sacchini, il dolce Anfossi, l’espressivo e dotto Giuseppe Sarti, il graziosissimo Paiselli, e tanti e tanti altri per la maggior parte figli di Partenope, faranno confessare a’ posteri imparziali (secondochè affermò l’Inglese autore del Parallelo della condizione e delle facoltà degli uomini) che la perfezzione di sì bell’ arte è confinata nella parte più occidentale dell’Europa. Glorioso singolarmente è per la mia patria il testimone per ogni riguardo autorevole del gran Cittadino di Ginevra79: “Giovane artista, vuoi tu sapere, se qualche scintilla di questo fuoco divoratore serbi nell’ anima? Corri, vola a Napoli ad ascoltar le opere maestrevoli di Leo, Durante, Jommelli, Pergolese. Se ti si empiono gli occhi di lagrime, se ti palpita il cuore, se tutto ti commuovi, ti agiti, e ti senti ne’ tuoi trasporti opprimere, suffocare; prendi allora il Metastasio, e componi; il suo genio riscalderà il tuo; col suo esempio tu saprai creare; e gli occhi altrui ti renderanno ben tosto il pianto, che ti avranno fatto versare i tuoi maestri. Ma se le grazie incantatrici di questa grand’arte ti lasciano in calma, se non hai nè delirio nè trasporto, se in ciò che dee rapirti, tu non trovi che del bello, osi tu domandare che cosa è Genio? Uomo volgare, non profanar questo nome sublime; e che t’importerebbe il conoscerlo? tu nol sentiresti: và, componi musica francese”.