(1790) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome VI « LIBRO IX. Teatro Spagnuolo del secolo XVIII — CAPO I. Tragedie. » pp. 4-67
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(1790) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome VI « LIBRO IX. Teatro Spagnuolo del secolo XVIII — CAPO I. Tragedie. » pp. 4-67

CAPO I.
Tragedie.

Il sistema delle scene spagnuole non ha ricevuto alterazione sino alla metà del secolo. La nazione nè vide sulle scene nè più si ricorda di essersi impressa nel 1713 una traduzione del Cinna di Francesco Pizarro Piccolomini; e rammenta con giusto disdegno come un esempio di pazzia la goffa tragedia del Paolino alla moda francese uscita nel 1740, che Montiano stesso nomina coll’ultimo disprezzo. La gloria di aver prodotta la prima tragedia debbesi al nominato Agostino de Montiano y Luyando. Egli nel 1750 con un discorso istorico sulle tragedie spagnuole di tre secoli pubblicò la sua Virginia, e tre anni dopo l’Ataulpho non mai recitate nelle Spagne, e conosciute in Francia per essersi enunciate in un giornale. Il sig. Andres ci parla di una traduzione francese di tal Virginia, di cui a me finora non è riuscito di trovar vestigio. Regolarità, decenza, purezza di locuzione e scelta del verso endecasillabo sciolto all’italiana, formano tutto il merito di tali favole. Mancano poi di anima, di grandezza, di moto. Nella Virginia si esprimono con proprietà i caratteri di lei e di suo padre; ma nè proprietà nè verità apparisce in quello d’Icilio, quando nell’ atto III corteggia il Decemviro con umili espressioni proprie della moderna politezza spagnuola. Icilio Romano, repubblicano, popolare, rivestito una volta della tribunizia potestà, prende il linguaggio insignificante delle moderne cerimonie a guisa di un basso cliente:

Ya que la suerte quando no esperava
que pudiera ofrecerse tan propicia,
me dà, señor, motivo de obsequiaros,
permitidme que atento y reverente
consigua el alto honor de iros sirviendo.

È poi da notarsi che ne’ primi tre atti Appio non dà indizio veruno di meditata violenza contro Virginia. Appena come innamorato da commedia si è raccomandato a Publicia; appena una volta ha parlato a Virginia senza trasporto e senza minacce. A che dunque tanto furore d’Icilio e tante declamazioni degli altri? L’azione e la violenza di Appio che occasiona la morte di Virginia, comincia nell’atto IV, ed i tre primi altro non sono che una lenta protasi. Pari lentezza si scorge ne’ primi tre atti dell’Ataulfo, e si protrae a una parte del IV. Le passioni in quest’altra non sono molto disdicevoli del genere tragico, ma vi si desidera la forza da’ Greci chiamata energia nemica di ogni soporifera languidezza. Forse sono esse indebolite dalle arti cortigianesche che vi campeggiano aliene dalla ferocità de’ Goti non da molto tempo avvezzi alla coltura che raffina gli artifizj. La favola sino all’atto V si aggira sulla delicatezza dell’amore di Placidia offeso da certe reticenze di Ataulfo, e su i sospetti di costui, de’ quali egli si querela più perchè offendono il suo amore, che perchè tema che possano nuocere allo stato. Queste diffidenze artificiosamente seminate da Sigerico ad impulso di una donna ambiziosa ritardano la pace ed insieme l’azione ne’ primi quattro atti. Sembra poi che ad un tratto nel V tutta svapori la ferocità e la tracotanza de’ congiurati a danno di Ataulfo. Manca adunque questa favola di quella savia graduazione che progressivamente crescendo conduca le passioni al punto da farne scoppiare l’evento tragico. È pure da riprendersi l’inverisimiglianza dell’ equivoco preso nella scena 8 da Rosmunda. Ella entra dicendo a Sigerico che l’attenda, nè torna se non dopo due lunghe scene, essendo partito Sigerico. Ella trova in di lui vece Ataulfo, e vedendolo per le spalle gli parla come fosse Sigerico e gli rivela con molte parole tutti i suoi disegni. Nè anche può piacere nel medesimo atto V che un Goto, un sovrano impetuoso soffra che un temerario vassallo alterchi con lui insolentemente, contentandosi solo di ripetergli più volte detente, calla calla, e ponendo inutilmente la mano sulla spada. Morto Ataulfo si spendono tre altre non brevi scene nello svenimento di Placidia, nell’uccisione di Vernulfo, nelle insolenze di Rosmunda e nella di lei volontaria morte, cose che doveano soltanto accennarsi in pochi versi per non iscemare o distrarre l’ attenzione ad altri oggetti che al gran misfatto dell’uccisione di Ataulfo. Lascio poi che l’istruzione morale che dee prefiggersi un buon tragico, non si scorge in tal tragedia quale esser possa. Le tragedie del Montiano indicano la regolarità nascente nella nazione, ma non gusto e spirito tragico.

Tenne dietro al Montiano il di lui amico Nicolas Fernandez de Moratin, e dopo dieci anni nel 1763 pubblicò la sua prima tragedia la Lucrezia verseggiata coll’ assonante, che però nè anche si rappresentò. Lotta in essa l’autore coll’ invincibile difficoltà di ben riuscire in siffatto argomento: vi frammischia certi amori subalterni riprovati dal gusto: e lo stile non si eleva abbastanza per giugnere alla sublimità tragica1. Scioccamente l’autore di un foglio periodico spagnuolo intitolato Aduana critica, ignorando che l’indole della poesia tragica è di abbellire utilmente e non già di ripetere la storia, pretendeva che Moratin avesse introdotto nella sua favola Bruto finto pazzo. Ma questa è la smania de’ follicularj famelici, voler dar legge di tutto tutto ignorando.

Sette anni dopo, cioè nel 1770 l’istesso Moratin fe rappresentare ed imprimere Ormesinda altra sua tragedia colla medesima versificazione, e la prima in questo secolo comparsa sul teatro di Madrid. Vi si vede lo stile migliorato, e più incatenato lo sceneggiamento. Ma presenta una eroina violata da un Moro che incresce oggi che si vuole una rigorosa decenza negli argomenti. Un racconto della battaglia di Tarif e Rodrigo (forse poco necessariamente congiunto all’avventura di Ormesinda) contiene diverse buone imitazioni Virgiliane. In ogni modo l’autore che fra’ suoi correva una via sì poco battuta, non meritava la persecuzione che sofferse d’inetti efimeri libelli e de’ motteggi del solito volgare scarabocchiatore di sainetti insipidi e maligni chiamato per soprannome el poetilla.

Con nobil coraggio l’indefesso scrittore non abbandonò per questo la tragica carriera, e nel 1777 diede alla luce la terza tragedia Guzman el bueno dedicata al duca di Medina Sidonia Don Pedro de Guzman el bueno discendente da quell’eroe. L’effetto di questa favola è l’ ammirazione che risulta dall’eroismo di Gusmano il quale preferisce la propria fede alla vita di suo figlio. Assediava il Moro con pochissima speranza la piazza di Tariffa fortemente difesa da Gusmano, quando il di lui figliuolo in una uscita rimane prigioniero. Il Moro propone al governadore di comprarne la libertà colla dedizione di Tariffa, o di vedergli mozzare il capo. Il padre trafitto dal dolore ma sempre eroe gli getta dalle mura la propria spada perchè esegua la minaccia. Benchè l’autore avesse divisa la favola in tre atti, pur si trovò in angustia e gli convenne ripetere qualche situazione o pensiero. La stessa necessità di darle una giusta grandezza l’obbligò ad un maneggio tra il Moro e l’assediato Gusmano ed a farli parlare l’uno dal suo campo l’altro dalle mura. Non bene apparisce in qual maniera avesse l’autore ideato il luogo dell’azione per rendere in tanta distanza verisimili tali conferenze, e specialmente tutto l’atto III. Ciò può nuocere alla verità, all’ illusione, al fine tragico. Ma l’eroico carattere di Gusmano è dipinto e sostenuto felicemente. Che risposta recherò al mio re? dice l’ambasciadore Moro nell’atto I; e Gusmano: che i Castigliani non rendono le fortezze finchè possono sostener la spada;

Ami.

Y de tu hijo?

Guz.

El Moro determine.

Interessa la scena dell’atto II, in cui Gusmano esamina il valore del figlio che ha conseguito un momento di libertà sotto la parola di tornar al campo nemico. L’autore si prefisse l’imitazione di una scena della Clemenza di Tito 2. Temi la morte? dice Gusmano al figlio,

Confiesalo à tu padre que te estima;
no hablas ya con Guzman el riguroso,
nada sabrà el Alcayde de Tarifa.

In fatti la mancanza di coraggio non si potrebbe confessare che ad un padre. Di poi non senza bellezza ripete questa tinta con artificiosa variazione, e vuole che a lui fidi il di lui amore considerandolo solo come amico e militare, e non come padre severo:

Cuentaselo al Alcayde de Tarifa,
nada sabrà Guzman tu adusto padre.

Soprattutto chiama l’attenzione l’atto III, quando il re Moro mostra voler ferire il prigioniero incatenato sugli occhi del padre e sopraggiugne la madre. Le di lei lagrime, la costanza di Gusmano, la fierezza del Moro, la nobile rassegnazione del giovane Gusmano, formano una situazione tragica assai teatrale, che si risolve colla magnanimità di Gusmano che getta la propria spada al nemico. Intanto questa tragedia che compensa i suoi nei con varie situazioni teatrali e con un patriotismo che rileva un atto eroico della storia nazionale, non si è nè pregiata, nè premiata, nè rappresentata in Madrid.

La seconda tragedia che quivi comparve fu Don Sancho Garcia di Giuseppe Cadahalso y Valle d’illustre famiglia, la quale si recitò un anno dopo della rappresentanza dell’Ormesinda. L’ argomento tratto parimente dalle storie nazionali è proprio per eccitare il tragico terrore. Una contessa di Castiglia cieca d’amore per un principe Moro appresta il veleno al proprio figlio per rendere l’ambizioso amante signore di se stessa e del suo stato. Qualche verseggiatore del secolo passato avea scioccamente maneggiato quest’argomento, e il sig. Cadahalso volle rettificarlo trattandolo con arte, con decoro e in buono stile; ma la versificazione di due endecasillabi rimati perpetuamente per coppia produce qualche rincrescimento. Gli affetti della contessa combattuta da un eccessivo amore per l’avido Moro e dalla tenerezza materna, sono bene espressi. Solo vi ho sempre desiderato che la richiesta del Moro fosse preparata con più arte. Per prova di amore egli esige da una madre la morte dell’unico di lei figliuolo; ed in che fonda la speranza di conseguirlo? nella sfrenata passione che ha per lui la contessa. Ma non dovea il poeta riflettere che la di lei passione poteva scemare per sì cruda richiesta propria a scoprire tutta l’ambizione del Moro? Dovea dunque occultarsi meglio la di lui avidità di regnare in Castiglia sotto qualche altro colore che non indebolisse l’unica molla della di lui speranza. Per altro vi si osserva più di una scena di molta forza specialmente la quarta dell’atto II, in cui vedesi ben colorito il contrasto di una passione sfrenata colla tenerezza di madre. L’atto termina con quest’ottima riflessione della combattuta contessa:

Que lexos de la culpa està el reposo!
y que cerca del crimen el castigo!

Siffatta tragedia in una nazione che ne ha sì poche, dovea accogliersi, ripetersi, acclamarsi, e pure fu lo scopo delle maligne satire de’ piccioli rimatori. Maria Ordoñez già prima donna ne’ teatri di Madrid, morta alcuni mesi dopo, rappresentò non senza energia tanto la parte di Ormesinda quanto di Elvira nel Sancho. Il Cadalso autore di varie poesie, del piacevole libretto los Eruditos à la violeta, e di un’ altra tragedia inedita la Numancia, graduato colonnello terminò gloriosamente i suoi giorni l’anno 1782 nella trincea del campo di San Roque sotto Gibilterra3.

Due anni dopo, cioè nel 1773 Don Tommaso Sebastian y Latre Aragonese pubblicò una tragedia rappresentata l’anno stesso, in cui pretese rettificare la favola di Francesco de Roxas Progne e Filomena. La buona intenzione ed il patriotismo dell’autore bramoso del miglioramento del teatro nazionale merita ogni lode. Ma il mezzo scelto di ripetere le antiche favole del patrio teatro col solo vantaggio di renderle più regolari, male secondò il di lui disegno. Nocquegli per avventura anche l’elezione di un argomento della rancida mitologia a’ nostri dì poco interessante, ovvero quel radicale ostacolo che oggi seco portano in teatro le deflorazioni e simili violenze, ovvero ancora la mancanza di novità e d’invenzione nelle situazioni e di spirito tragico e di sublimità nello stile.

Ignazio Ayala4 Andaluzzo regio professore di poetica in Madrid morto nella sua patria nel 1789, volle pure contribuire agli avanzamenti del teatro nazionale, di cui da più anni era censore. Egli pubblicò nel 1775 la Numancia destruida in cinque atti in endecasillabi coll’ assonante. La storia di sì famosa città è senza dubbio compassionevole, e basterebbe ad apprestar materia per un poema epico; ma nella guisa che si vede maneggiata dal sig. Ayala, divide per tal modo l’interesse colla distruzione di un popolo intero per mezzo della fame, del ferro e del fuoco, che invece di commuovere esaurisce il fondo della compassione senza fissarla a un oggetto principale, e non ottiene il fine della tragedia. L’erudito autore v’incastrò varj squarci di poeti antichi; ma vi si nota un dialogo elegiaco uniforme più che un’ azione tragica, e non poca durezza nello stile. Annojano parimente le frequenti declamazioni contro Roma, le quali a tempo e parcamente usate converrebbero a’ Numantini, ma colla copia e col trasporto manifestano troppo il poeta.

Tali cose da me dette nella prima storia teatrale dispiacquero in parte al prelodato bibliografo de’ viventi, e prese a giustificarne l’Ayala, che non pertanto dopo la pubblicazione del mio libro erami rimasto amico fino alla mia partenza da Madrid. Il dottor Guarinos punto non risentissi di ciò che accennai del dialogo uniforme ed elegiaco, e della durezza dello stile. Gl’ increbbe sì bene ch’io avessi reputato tale argomento più proprio per un poema epico che drammatico, come anche l’ osservazione sulle frequenti declamazioni intempestive e prodotte da un affettato patriotismo. La censura del Signorelli (dice il difensore) suppone pochissima riflessione sulla natura del poema epico e della tragedia. Secondo lui il poema ha sempre un esito felice, e la distruzione di Numanzia funestissima ad esso non conviene. Ma perchè tal distruzione non potrebbe avere un esito felice? Un encomiatore di Scipione non se ne varrebbe degnamente a gloria del suo eroe? e non sarebbe ottima materia benchè funestissima per un poema come io dissi? Ma è poi sicuro codesto bibliografo che il poema epico debba aver sempre un esito felice? Ciò essendo errò Omero che nell’Iliade si prefisse di cantar solo l’ira perniciosa (μηνιν ουλομενεν) di Achille che tanti dolori cagionò agli Achivi? Errò Stazio cantando la Tebaide, cioè le discordie fraterne ed il regno alternato combattuto con odj profani e scellerati? Errò Lucano nella Farsaglia cantando le funestissime guerre più che civili, la scelleratezza divenuta diritto, ed un popolo potente che converte la destra vincitrice contro le proprie viscere? Errò Milton nel Paradiso perduto facendo un poema eroico del funestissimo precipizio di tanti angelici cori? Se codesto Sampere non ha prestato come automato la bocca al fiato altrui nel compilar la sua gazzetta bibliografica, io l’esorto a provvedersi di più pure e chiare idee di poetica prima di altro scrivere. Ma venghiamo a più stretta pugna.

Perchè mai affermò il Signorelli che tale argomento nella guisa che l’ha trattato il sig. Ayala, mal conviene ad un dramma? Perchè (degni notarlo il patrocinatore de los menesterosos) una distruzione collettiva, vaga, generica di un popolo intero istupidisce i sensi, distrae a mille oggetti l’interesse, e non determina la compassione ad uno scopo principale per serbar l’unità dell’azione e del protagonista. Un poco più di filosofia gl’ insegnerebbe l’arte usata da’ tragici della Grecia nelle Trojane, nelle Fenicie, negli Eraclidi, nelle Supplici, ne’ Persi, nelle quali favole essi presero un oggetto principale per iscopo collocando quasi in lontananza il rimanente o serbandolo ad un coro. Lo spirito umano nella mescolanza delle tinte e de’ suoni non meno che nella moltiplicità mal graduata delle stragi rimane, diciam così, ottuso, rintuzzato, privo di sensibilità; là dove la tragedia esige energia ed elasticità per eccitar la commiserazione e conservar la sua natura e non convertirsi in flebile elegia o lugubre epicedio. Circa poi le declamazioni dice il protettor dell’Ayala che il Signorelli dovea farsi bien cargo della situazione de’ Numantini. Ma egli stesso no se ha hecho bien cargo di ciò che io dissi e ripeto, cioè che esse converrebbero a’ Numantini usate a tempo e parcamente, la qual cosa vuol dire in volgare che esse sono proprie di un popolo irritato contro Roma, ma non dovrebbero occupare il luogo dell’azione che è l’essenza del dramma; non risentire l’affettazione ma discendere naturalmente dalle situazioni; non essere come son quasi tutte una pretta borra intempestiva. Noi dimostreremmo subito e pienamente tutto ciò con imprimere l’intera analisi già scritta della Numanzia; ma ce ne distoglie lo spiacevole annunzio della morte dell’erudito autore; e ci saremmo contentati del semplice primo giudizio moderato che ne demmo senza gli stimoli del cattivo avvocato bibliografo. A lui dunque s’imputi se per renderlo avveduto del suo torto ne aggiugneremo alcuni tratti.

L’atto I è composto di due principali lunghissime scene. Nella prima s’imita l’apertura e l’oracolo dell’Edipo tiranno mostrandosi il popolo supplice all’ara del nume Endobelico e narrandosi con inutili circostanze un oracolo di Ercole Gaditano dato 14 anni innanzi, che però in niun modo si appressa alle bellezze del greco oracolo, essendone la rancida risposta nè semplice, nè interessante, nè necessaria all’azione. Terma sacerdotessa dipinge a lungo quel che tutti sanno, cioè la strage che fa la fame ne’ Numantini ridotti, mancate l’erbe e le foglie stesse degli alberi, a cibarsi di cadaveri. A questa lugubre scena ne segue una amorosa di sette pagine di Olvia ed Aluro che conchiude l’atto. Giudichi il leggitore se in tale argomento siasi convenevolmente inserito un languido amore subalterno che contrasta coll’immagine di un popolo che stà morendo di fame. E pur non è il peggior male un amor sì impertinente. Olvia innamorata vicina a morir di fame insieme coll’ amante e con tutti, di che si occupa singolarmente in questa scena? forse del prossimo esterminio della patria? no: ella pensa a vendicare certo suo fratello col sangue dell’uccisore che non sa chi sia. Ella poi mostrasi sorpresa da un nuovo doloroso pensiero. Aluro amante sì paziente vuol saperne la cagione, ed ella dopo di aver posto in contrasto l’amore ch’egli ha per lei con quello della patria, dopo di aver tenuto sulle spine l’ ascoltatore per altri ottanta versi, gli dice: senti la tua pena e la mia angustia; Giugurta . . ma viene Megara frettoloso, te lo dirò da poi; e finisce l’atto così, senza che niuno nè frettoloso nè a bell’ agio venga fuori. Essi partono; ma andranno uniti o disgiunti? se uniti non diranno più una parola di ciò che hanno incominciato? Ma non dubiti lo spettatore che Olvia dica altrove l’ arcano ad Aluro: il poeta ricondurrà l’una e l’altro nel medesimo luogo nel medesimo punto del loro discorso; ma bisogna attendere che passi tutto l’atto II. Notisi intanto che questa è una delle scene patetiche in cui Olvia delibera e risolve il sacrificio del suo amore, la quale ha riscosse tante lodi dal precitato bibliografo.

L’atto II incomincia con una scena della medesima Olvia con Aluro, e poi viene Megara, come si è detto nell’atto I; ma se quegli amanti non sono rimasti alla vista dello spettatore come Prometeo attaccato al Caucaso, essi, come partirono senza perchè, senza perchè son tornati. L’autore fa venire l’Affricano Giugurta come ambasciadore de’ Romani per la ragione ch’ egli è imparziale. Ma quest’imparziale che però milita tra’ Romani con diecimila soldati e venti elefanti, viene a consegnare il console Cajo Ostilio rimesso dal Senato; e per dare un’ altra pruova d’ imparzialità tradisce i Romani, e consiglia i Numantini a non accettarne la vile soddisfazione. Il leggitore sin dal principio scorgerà in questa favola una serie di minuti fatti spogliati della necessaria dipendenza che risveglia e sostiene l’ attenzione guidandola ad un oggetto grande. Il resto dell’atto s’impiega a proporsi qualche mezzo da cacciar la fame. Non vi sono più cadaveri, e si pensa a tirare a sorte tra’ vivi chi debba morire per alimento de’ superstiti. Si propone ancora che si ammazzino i vecchi per prolongar la vita de’ giovani. Un popolo ridotto nell’atto II a tanta estremità mostrerà nel proseguimento quel necessario progressivo incremento dell’azione? Il poeta ha bisogno di Megara in tale occasione, e lo fa tornare. Egli vuol essere incluso nella sortizione, cui resiste Dulcidio per questa ragione: perchè tocca solo a Roma il discacciar per politica i suoi Tarquinj. Questo pensiero eterogeneo aumenta o agghiaccia il patetico espediente proposto? Dovea il buon sacerdote risalir col pensiero sino a’ Tarquinj? V’è analogia tra Megara capo e difensore amato di Numanzia, per la quale vuol morire, con Tarquinio re tiranno, oppressore, abborrito dal suo popolo? Dicaci il sig. bibliografo: quì è forse la situazione de’ Numantini che eccita Dulcidio a declamar contro i Romani, ovvero è questa una scappata del poeta che vuol comparire tra’ personaggi?

Eccoci all atto III in cui Olvia viene con Aluro a soddisfare alla promessa fattaci nell’atto I e rimasta sospesa sino a questo punto. Essi trattengonsi in tre soli versi sulla picciola bagattella del tirarsi a sorte chi dee morire, dovendosi occupare per cinque intere pagine in un più grave affare. Olvia dunque palesa al suo idolatrado Aluro che Giugurta preso di lei promette di passare in Numanzia colle sue schiere, purchè ella l’accetti per isposo; e gli chiede consiglio su di ciò. Questa situazione rimane priva dell’usato effetto di simili dolorose alternative per essere mal combinata. I Olvia può disporre di se stessa senza intelligenza del fratello capo della repubblica? può ammettere dentro la città diecimila stranieri senza saputa del principe? II Olvia ha considerato che diecimila persone vogliono mangiare, e che Numanzia manca pur di cadaveri da ripartire co’ nuovi socj? III Olvia ignora che oggi la salute della patria non dipende dal minorar le forze nemiche, ma dal provveder di nutrimento i Numantini? ignora che le utili conseguenze dello scemamento degli assalitori sono assai più lente de’ funesti rapidi progressi della fame? IV Olvia è sicura poi che tal diserzione sia sincera e che non possa essere uno stratagemma? è sicura in oltre che la salute della patria dipenda da Giugurta ancorchè fido? e che altro spererebbe Olvia se avesse pattuito collo stesso Scipione? Anche questa scena fondata in ipotesi tutte false e mancante d’interesse e di grazia sembrò pregevole al bibliografo encomiatore. Stanno poi in essa assai bene ed accomodate allo stato de’ Numantini ridotti a mangiarsi l’un l’altro le care espressioni di Aluro: addio, Olvia, col tuo nuovo amante vivi felice (morendo di fame?) e le risposte della savia e tenera Olvia. Dulcidio annunzia al figlio Aluro che dee morire essendo il di lui nome uscito dall’urna. Piange con lui per due pagine intere, dopo le quali si ricorda di dire che vuol morire in di lui vece. Gareggiano su di ciò; ma tutto dee sospendersi, perchè Scipione viene a trattar di pace. La fame Numantina discretamente vi si accomoda. Scipione senza ostaggi da pessimo capitano mettendo a rischio la sorte dell’armata e la speranza di Roma viene a parlare in mezzo a’ nemici disperati i quali incolpano i Romani di tradita fede. In questa conferenza tutta declamatoria Scipione soffre con indicibil bassezza le ingiurie del Numantino, e questi insolentisce quasi altro oggetto non avesse che d’irritar gli assalitori. E questa scena inutile e cattiva viene anche prescelta come eccellente dal savio bibliografo.

Nell’atto IV quando dovrebbe l’azione accelerare il suo moto mirando al fine, si vede tornare indietro, e si consumano tre lunghe scene a ricordare ed esagerare un antico tradimento fatto da Galba a’ Numantini, facendosi divota commemorazione delle ossa sacrosante reliquie venerabili di Spagnuoli assassinati. Può lodarsi simile distribuzione di materiali? Megara partendo dice ad Olvia, observa esta parte, ella resta a far l’uffizio di sentinella, e Giugurta la vede sola e viene a parlarle; di maniera che i nemici colla facilità di un attore che esce al proscenio potevano penetrar fra’ Numantini. Or chi non ne conchiuderà che erano due inettissimi generali Megara che sì male guardavasi dalle sorprese, e Scipione che non sapeva approfittarsi delle negligenze? Incongruente è pure l’abboccamento di Giugurta con Olvia. Ella le dice che passi co’ suoi a Numanzia, mentre ella l’attenderà presso di un sepolcro che si eleva più degli altri, e gliel’ addita. Sì, sì (ripiglia lo stupido Giugurta) colui che vi giace fu da me ucciso, e perchè spirando ti chiamava in soccorso, io m’innamorai di te. Balza agli occhi l’inezia dell’origine del suo innamoramento e la balordaggine di vantarsi di un fatto che poteva averla offesa. Olvia sdegnata lo discaccia, indi vuol che impugni la spada; egli fa a suo modo e parte. Un andare e venire de’ personaggi senza perchè empie le scene 6, 7 ed 8. Terma dà avviso a Dulcidio che Olvia se disfraza (si traveste); Dulcidio la vede venire e la conosce subito. Ella viene con algun disfraz (che si lascia al discreto lettore) e va esclamando, o cenizas infaustas (o ceneri infauste) colla stessa grazia della Tomiri di Quinault che va cercando per terra ses tablettes. Dulcidio l’esorta a sposar Giugurta per corrispondere a un tempo

À amante, à patria, al padre i al hermano

verso eccellente per grazia, per numero e per regolarità, come ognun sente. Olvia dopo un contrasto inutile di cinque pagine, in cui Dulcidio la chiama boja della patria e ramo indegno della sua stirpe, si rende, e gli dà la propria spada da mandarsi a Giugurta per segno di pace, geroglifico veramente mal sicuro, ma che l’ Affricano riconoscerà subito essere di Olvia per compiacere al poeta. Dulcidio è il più savio sacerdote del mondo; egli ha persuasa Olvia, ha spedito un soldato a Giugurta senza saputa del generale, si è trattenuto sull’affare per cinque pagine, ed al fine si ricorda di domandare ad Olvia, se Megara sappia nulla del trattato. No, ella risponde, ho taciuto per timore e per vergogna, perchè (notisi il di lei sapere politico) chi comanda ama di veder eseguite certe cose che sapute prima egli non permetterebbe che si tentassero. Da tale ragione rimane persuaso il dolce Dulcidio.

Annotta nell’atto V, e Giugurta al solito va e viene liberamente dal campo Romano al Numantino senza che Megara abbia mai saputo prevedere simili visite nemiche. Olvia viene parlando sola a voce alta, perchè l’ode lo spettatore e Giugurta che dice

Olvia es, i su espada me asegura.

Viene anche Terma, e più fina, a dispetto della notte e della mascherata di Olvia e senza udirne la voce, la raffigura e la rimprovera. Giugurta poi che avea udito Olvia che parlava sola, ora non ode più ciò che dicono l’una e l’altra. Terma vuol sapere in ogni conto i disegni della sorella, e questa che gli ha comunicati a Dulcidio e ad Aluro ed ha fidata la sua spada al soldato, si guarda gelosamente della sorella. Giugurta si ritira nè per altro motivo se non perchè Olvia dee dire a Terma una inutile bugia. Le dice dunque che si è travestita per uccidere Giugurta. Stando altercando esce Aluro in tempo che Terma dice, refrena tu furor, ed egli ciò udendo dice, questa che parla è Olvia, certamente questo è inganno di Giugurta. Aluro non distingue la voce della propria innamorata da quella di Terma, due persone a lui sì note? Due voci femminili poi senza veruna circostanza possono svegliargli l’idea di un nemico che a quell’ora dovrebbe essere nel campo de’ Romani? Viene per quarto Dulcidio, e benchè di notte riconosce Aluro, che pur avea confuso un Affricano con la sua innamorata. Megara ti attende, dice Dulcidio al figlio, e questi differisce di obedire per ammazzar prima Giugurta. Parte Dulcidio, e seguitando le donne a contrastare, Terma dice, Numantinos; ed Aluro seguita a crederla Olvia, e ferisce l’altra da lui mattamente creduta Giugurta. Olvia ferita grida, ai de mi; non importa; Aluro non dee conoscerla per altri che pel traditore Giugurta. Torna Dulcidio con fiaccola accesa, ed Olvia spira mentendo con dire ch’ella amava Giugurta, quando lo spettatore sa ch’ella amava Aluro, e l’autore ne ha condotto sì destramente il carattere e l’ affetto, che il di lei sangue non muove veruna compassione tragica. Se questi garbugli notturni, questi languidi amori e questa mascherata stieno bene colla distruzione di Numanzia, se ne lascia al leggitore il giudizio. Seguitando apparentemente la notte Megara che ha saputa la disfatta de’ Luziani ausiliarj e la debolezza de’ Vasei che si sono dati a’ Romani, chiama al campo di Scipione come alla porta di una casa vicina. Gli risponde un soldato, cui egli dice: giacchè la tenda di Scipione stà vicina (verisimilmente nè la notte nè le trincere gliene impedivano la veduta), ditegli che vo’ parlargli. Che pretendi, Numantino? dice Scipione affacciandosi. Megara lo riconosce subito alla voce, quando gli altri suoi parenti e seguaci di orecchio più duro non hanno saputo distinguere le voci delle di lui sorelle. Domanda o che gli assalti o che mandi le legioni a trucidarli. A questa richiesta senza sale Scipione risponde, spada o catena, gettandogli l’una e l’altra. Ma i Numantini determinati a morire abbisognano del consenso di Scipione? Non possono essi stessi assaltar le trincere e morir nell’impresa? I valorosi Numantini della storia riescono nella tragedia inetti, cicaloni, insensati. Risolvono al fine di uccidersi fra loro, e poi si vede il tempio e la città incendiata. Mentre Numanzia arde, Megara predica recitando più di cento versi or declamando sulle discordie della Spagna, ora esitando nel voler dar morte ad un suo figliuolo che non prima di allora comparisce e va a precipitarsi nelle fiamme, come fa lo stesso Megara ma non prima di aver recitati altri cinquanta versi. Così termina la tragedia di Numanzia distrutta, il cui piano tessuto per quattro atti e mezzo di episodj mal connessi e di freddi amori sconvenevoli e intempestivi abbiamo voluto esporre agli occhi imparziali del pubblico. Vedrà per se questo supremo giudice, se nel 1777 siasene portato un moderato giudizio, e se dovea rincrescere al moderno bibliografo. Vedrà ancora se alla Numanzia dell’Ayala convenga ciò che ne disse il sig. Andres, cui piacque di collocarla in ugual grado col Sancho del Cadalso con manifesto scapito di quest’ultimo, e di assicurare di non esser priva di calore e di spirito tragico.

Don Giovanni Giuseppe Lopez de Sedano compilatore del Parnaso Español accrebbe le tragedie del nostro tempo colla sua Jahel in versi sciolti in cinque atti, là dove la morte di Sisara appena darebbe materia a un oratorio di due parti. Quindi nasce la mancanza di azione e d’intreccio, e quella serie di lunghe dicerie e de’ sermoni di Debora. Non manca di regolarità e di qualche tratto lodevole: ma vi si desidera calore ed interesse. La maggior parte de’ personaggi introdotti, e segnatamente Haber e Barach, sono oziosi. Lo stile è diffuso, compassato, pesante, e sparso nel tempo stesso di formole famigliari e poco gravi, come questa della prima scena

Romper de mi silencio la clausura,

e quest’altre

Basto à quedar solvente de mi cargo,
Y aùn tal vez accreedor à gracias tuyas.

Lascio poi che tal favola non ha verun carattere, non eccitando nè compassione, nè terrore, nè ammirazione.

Era inedita nel 1777 la Raquel tragedia di Vincenzo Garcia de la Huerta, ma s’impresse in Barcellona e in Madrid nel 1778. La Raquel (ci dice l’editore di Madrid) si compose quando uscirono la Lucrecia, la Hormesinda e le altre già riferite; dal che si vede che l’autore tardò a pubblicarla quindici anni in circa. Rileva di più l’editore, che se i Franzesi dividendo le favole in cinque atti hanno la libertà di abbandonar quattro volte la scena, l’autore della Rachele privandosi spontaneamente di sì comodo sussidio riduce a un atto la sua, perchè quantunque divisa in tre giornate, nè vi s’interrompe l’azione, nè da una giornata all’altra s’interpone tempo, la qual volontaria legge impostasi dal poeta, dà un singular merito à su obra. Conchiude l’editore che il piano della Rachele è pur sistema particolare del poeta, persuaso che ammaestra più e corregge meglio i costumi e diletta maggiormente il gastigo del vizio ed il premio della virtù, che la compassione. Sappiamo in oltre per mezzo del medesimo editore, che si rappresentò repetidas veces, e che ne corsero manoscritte più di duemila copie per America, Spagna, Francia, Italia, Portogallo5. Che che sia di ciò in Madrid si rappresentò solo quindici anni dopo che fu scritta, sostenendo la parte di Rachele la sensibile attrice Pepita Huerta morta nell’ottobre del 1779 nell’acerba età di anni 21 in circa; ma recitatasi appena due volte fu per ordine proibita. A chi non ne avesse veduta alcuna copia delle duemila che se ne sparsero per li due mondi, non increscerà di vederne quì il più breve estratto che si possa. L’ argomento e la condotta a un di presso è la stessa della Judia de Toledo del poeta Diamante da noi mentovata nel tomo IV, cioè la morte data da’ Castigliani a una Ebrea Toledana, di cui il re Alfonso VIII visse per sette anni ciecamente innamorato.

Giornata I. Apresi con un dialogo di Garceran Manrique ed Hernan Garcia, dicendosi che Toledo è in festa, perchè compie quel dì il decennio da che Alfonso VIII tornò da Palestina dopo aver dalle forze del Saladino tolto il Sepolcro di Cristo perduto dal francese Lusignano. Non so se ciò dica l’autore come storico o come poeta. So che nella terza crociata Riccardo re d’Inghilterra detto Cuordilione, e Filippo Augusto re di Francia, e Corrado marchese di Monferrato fecero guerra al Saladino soldano di Egitto e di Siria per ricuperar Gerusalemme tolta da questo Saracino nel 1187 a Guido Lusignano. So di più che nella difesa di Tiro si segnalò l’Italiano Corrado e distrusse due eserciti del Saladino, e co’ nominati re fece maraviglie nell’assedio di Acra o Tolemajde che venne in lor potere6; e che poi si accordarono col soldano, restando a Lusignano il titolo di re di Gerusalemme da passar dopo la di lui morte al prode Corrado. Ma in ciò altri non ebbe parte, e molto meno Alfonso VIII occupato sin da’ suoi più teneri anni al riacquisto delle terre Castigliane, tutte le operazioni in Terra Santa non avendo allora passato oltre del 1192, quando il re Filippo tornò in Francia, e il marchese di Monferrato fu assassinato in Tiro7. So ancora che il Saladino seguitò a possedere Gerusalemme col Sepolcro e colla maggior parte di quel regno, nè i Cristiani lo molestarono, finchè non vi andò Federigo II imperadore di origine Suevo, di nascita Italiano, e re di Sicilia e di Gerusalemme sin dal 1225, quando ne acquistò le ragioni per cessione di Giovanni di Brenna padre di Jolanta da lui sposata che era figlia ed erede di Maria primogenita d’Isabella figliuola di Amorico re di Gerusalemme8. Fu quest’imperadore e re di Napoli e di Sicilia che nel 1228 passò in Terra Santa, guerreggiò, conquistò il regno di Gerusalemme, ed aprì il Santo Sepolcro alla devozione de’ Cristiani; benchè per accordo fatto col Saladino fusse lasciato in mano de’ Saracini colà avvezzi ad orare senza escludersene i Cristiani9. So che a tale spedizione accorsero molte migliaja di fedeli dalla Francia, dalla Baviera, dalla Turingia, e spezialmente dall’Inghilterra, donde, secondo il medesimo abate Uspergense, ne vennero ben sessantamila. Ma niuno de’ citati cronisti ci dice che Alfonso VIII vi fusse andato con gli altri. Era egli troppo angustiato dentro di casa, e spogliato da’ Mori di Spagna e da quattro re Cristiani, cioè di Leone, di Portogallo, di Aragona e di Navarra. Ora se tutto ciò è storia non contrastata, perchè il sig. Huerta individuo dell’Accademia dell’Istoria afferma che Alfonso guerreggiò in Palestina e conquistò Gerusalemme e ’l Sepolcro? Non è questa una menzogna garrafal? Dirà che in una tragedia egli è poeta e non istorico. Ma niuno ignora che nelle circostanze istoriche delle persone introdotte e de’ fatti noti e sicuri il poeta non ha la libertà di mentire grossolanamente ingannando il popolo, benchè gli si permetta qualche discreto anacronismo. Omero non avrebbe decorato col reame di Persia l’Itacese Ulisse. Virgilio potè in tanta antichità avvicinare Didone ed Enea (quando anche non fossero stati quasi contemporanei, siccome dottamente ha preso a dimostrare il chiar. Andres); ma sarebbe stato incolpato d’ignoranza facendo quel pio Trojano padrone della Betica, o quella fondatrice di Cartagine regina di Numanzia o di Sagunto. Sofocle ridicolosamente avrebbe enunciato Edipo tiranno di Tebe come conquistatore de’ Turdetani o de’ Cantabri. Huerta ha commesso quest’ errore madornale perchè il poeta Diamante sua fida scorta vi era caduto prima.

Manrique aggiugne che Alfonso sette anni prima vinse i Saracini nella battaglia data en las Navas di Tolosa tra Sierra-Morena e Guadalquivir, la quale però fu posteriore alla morte di Rachele. Ciò potrebbe comportarsi, se per rendere cospicuo il carattere di Alfonso la storia non ci additasse altre sue splendi de vittorie riportate prima del suo innamoramento. In somma in tutta la scena Manrique conta false vittorie e Garcia gliele mena buone, sol che questi si lagna che sia il re divenuto schiavo di Rachele ed il popolo sacrificato,

De esa ramera 10 vil à la codicia.

I medesimi errori di storia ripete nella scena 2 Garcia a Rachele, la quale accoglie con fasto le adulazioni di Manrique e manifesta avversione per Garcia. Egli ne sprezza le minacce, dicendo che i suoi pari

Aquellos que en sangrientos caracteres
de heridas por su nombre recebidas
Ilevan la executoria de sus hechos
sobre el noble papel del pecho escrita.

In prima i Castigliani che in prosa ancora schivano con senno la vicinanza delle cadenze simili delle voci, udiranno con nausea il cattivo suono d’un verso sciolto rimato nel mezzo, come è il secondo, che con heridas recibidas diventa verso leonino. Di poi que’ caratteri sanguigni e quella carta di nobiltà scritta nel foglio del petto è un contrabando Gongoresco ridicolo nel secolo XVIII ed assai più nel genere drammatico11. Rachele resta con Ruben fremendo, e viene Alfonso irritato per le voci sediziose del popolo minacciando,

Tiemble Castilla, España, Europa, el Orbe,

e parte senza dar retta a Rachele che resta con Ruben in una seconda inutile sessione. Si vanno distinguendo le voci che cercano la morte di Rachele, la quale fugge all’avviso di Manrique. Alfonso che va e viene in quella sala senza sapersi perchè, torna frettoloso, intende che Garcia conduce i sollevati, e si sdegna e dice,

   su garganta
El hilo probarà de mi cuchilla
centella de las nubes desprendida.

Una spada figuratamente può chiamarsi fulmine per esagerarne i rapidi funesti effetti; ma aggiugnere che questo fulmine, cioè questa spada siasi spiccata dalle nubi, è falsità di sentenza e maniera Gongoresca. Garcia si presenta al re, e gli dimostra che coloro che chiedono la morte di Rachele sono i più leali vassalli, quelli che l’accompagnarono in Palestina, che lo coronarono re di Gerusalemme (Alfonso ben poteva dargli una solenne mentita), che insieme con lui in Alarcos furono terrore degl’ immensi squadroni Affricani. Veramente nè anche le battaglie date in Alarcos si nominano con tutto il senno, perchè quivi appunto Alfonso superiore di truppe, d’esperienza e di valore fu pur da’ Mori sconfitto, e restò in loro balìa il regno di Toledo12. Alfonso ravveduto a queste ragioni pronunzia il bando di Rachele e degli Ebrei. Ma per togliere al di lui cangiamento un’ aria di volubilità, non conveniva manifestar l’interna pugna della sua ragione con una passione eccessiva di sette anni di durata? Rachele cui è già nota la sua disgrazia ed è stata chiamata, ambiziosa e amante viene a tentar di commuoverlo. L’ha egli chiamata (gli dice) per darla in potere de’ sollevati? Lagnasi il re di tali parole, e le dice che l’esilia per salvarle la vita. Ella vuol riaccendere la di lui collera, e l’incoraggia a resistere a’ ribelli. Io stessa, aggiugne, gli affronterò. Ciò poteva bastare; ma Huerta la fa continuare con una tirata istrionica di primera dama:

Pues si enciendo la colera en mi pecho,
si el hierro empuño, si el arnès embrazo,
Semiramis segunda oy en Toledo
à tus pies postrarè quantos osados,
quantos rebeldes, quantos alevosos
aliento dàn al sedicioso vando.

Convengono queste inutili tagliacantonate alla molle ramera Rachele dipinta in tutta la tragedia timidissima nelle avversità?

Giornata II. Esce Rachele piangendo con Ruben. Intanto frall’intervallo degli atti che cosa è avvenuta? Nulla? L’azione si è riposata? Ciò sarebbe contro la giudiziosa pratica de’ nostri tempi. Oggi si esige che l’azione inevitabilmente si avanzi al suo fine o in iscena o fuori di essa. Diceva l’ editore che l’azione della Rachele è tutta alla vista. Ma Rachele che esce di nuovo con Ruben, fa supporre che la di lei disperazione, il suo pianto, l’accingersi alla dolorosa partenza, abbiano empito il vuoto degli atti. Or ciò essendo l’editore, ossia l’autore sotto il di lui nome, invano si millantò d’aver fatta una tragedia più artifiziosa di ogni altra francese, perchè per questa parte (e non è poco) essa nè migliora nè peggiora il metodo degli antichi e de’ moderni. Ruben la consiglia ad impiegare tutto l’artificio di un pianto insidioso per vincere il re; ma ella già poco spera nelle proprie lagrime. Altra volta, ella dice, avrebbe per esse dichiarata la guerra a chi che sia; e ciò non va male: ma soggiugne, che avrebbe fatto retrocedere il Tago verso la sorgente, e convertita la notte in giorno, le quali sono espressioni appena ammesse nel genere lirico, e false sulla scena, fantastiche e contrarie alla verità, all’affetto ed allo stato di Rachele. Anche Ruben si diverte con una enumerazione lirica delle perle di Oriente, dell’oro dell’ Arabia, delle sete del Catai, delle porpore di Tiro, degli odori Sabei, de’ tapeti di Turchia, delle tele di Persia, e in fine aggiugne,

quanto oro encierra en sus abismos
el bondo mar, y quanta plata, cuentan,
sudaron los famosos Pirineos
quando Vulcano liquidò sus venas.

Con minore sfoggio il medesimo pensiero produrrebbe migliore effetto, e sarebbe più proprio di chi vuol persuadere. Ma quel sudore d’argento de’ Pirenei, mentre vulcano ne rende liquide le vene, è alchimia del passato secolo. I Pirenei non sudano argento se non in bocca degli Huerta come sudarono una volta i fuochi in un sonetto italiano13. Il popolo è sedato; ma il re per cautela ha ordinato a un campo di duemila cavalli e cento bandiere che marciavano verso Cuenca, a tornare a Toledo per fortificare la Rocca di San Cervantes. Questi ordini, queste marce quando si sono eseguite? Dopo che il re ha disposto il bando di Rachele verso la fine dell’atto I. Ordini a un campo di dodicimila soldati, sua marcia verso Toledo, presidio introdotto nella fortezza, esigono tempo, e due scenette non bastano per tali esecuzioni. Adunque anche nell’intervallo degli atti è passata questa importante parte dell’azione, ed essa non è tutta alla vista, come si gloriava l’autore senza utilità e senza verità. Alfonso riposando su tali disposizioni riflette sulla condizione infelice de’ principi, valendosi di alcuni pensieri Oraziani, O fortuna invidiable del villano &c., ornamento tutto lirico, impertinente in bocca di un appassionato e ridondante, comparandovisi oziosamente la vita rustica colla reale per cinquantotto versi14. Viene Rachele piangendo, ed Alfonso dice: Raquel llora! mucho de ti recelo valor mio. Anderebbe bene questo suo dubbio di non poter resistere, se Rachele non avesse pianto un’ altra volta nell’atto I senza aver nulla ottenuto. Rachele viene a fare l’ultima pruova del potere del suo pianto. Alfonso però, come se non l’avesse mai veduta piangere, si maraviglia dell’ardore straordinario che in lui produce:

quando se ha visto,
sino en mi daño tan extraño exemplo?
fenomeno tan raro y peregrino?

Non si capisce come possa dirsi fenomeno rarissimo e pellegrino l’ardore che in lui cagiona il pianto di Rachele. Huerta poi che ha verseggiato tutto il tempo della sua vita, non si accorgeva de’ versi leonini che gli scappavano di tempo in tempo, come è il secondo di questi tre pel daño tan extraño. Egli al fine mal grado delle di lei lagrime conferma che parta; ma tosto ripiglia: che ho io profferito? posso pensarlo? posso consentirlo? Perchè no (potrebbe dirgli lo spettatore) se poche ore prima l’avete eseguito senza tanto dolore? La scena dell’atto I rende incostante il carattere di Alfonso, e scema la verità ed il patetico di quest’altra. Rachele stessa non può dissimularlo, e gli dice: non ordinaste voi stesso il mio esiglio? É vero, dice Alfonso, ma ne fu cagione la paura che io ebbi, temor lo hizo. Questa ingenua confessione del timoroso Alfonso potrebbe far ridere chi si ricordasse delle di lui speciose minacce dell’atto I,

Tiemble Castilla, España, Europa, el Orbe.

In somma il carattere di Alfonso è picciolo ed inconcludente, ed il poeta Diamante ne fece una dipintura più uguale. Dopo ciò Rachele affetta desiderio di partire, ed il re si ostina a farla trattenere, perdona agli Ebrei, vuol pure, ch’ella governi per lui, e colla maggior gravità di sovrano impone alla guardia che a lei obedisca, e la colloca sul trono. Rachele ammette al bacio della mano i Castigliani trattandogli con sommo orgoglio; essi si maravigliano della leggerezza di Alfonso, e non hanno torto, giacchè ora minaccia ora teme, ora ordina ora si pente, e non è mai lo stesso.

Giornata III. I medesimi personaggi escono con altri sollevati della scena ultima dell’atto precedente. Or perchè entrare per uscir di nuovo? Se per unirsi in maggior numero e deliberare, dunque nell’intervallo degli atti si è fatto qualche altra cosa che non si vede in iscena, a dispetto della jattanzia dell’autore che si arrogava un merito esclusivo. Se poi nulla si fa nel vuoto degli atti, cade Huerta ancora nel ridevole difetto di lasciar l’azione interrotta, che abbiamo notata in Ayala patrocinato dal Sampere y Guarinos. È però assai piacevol cosa il vedere nella stessa regia sala di udienza in faccia al trono raccorsi i congiurati, machinare, altercare, schiamazzare, cacciar le spade e gridar muera muera, senza che vi sia almeno un domestico del partito del re o di Rachele che gli ascolti o gli osservi. Essi partono ad istanza di Garcia che ne ottiene che si differisca l’eccidio di Rachele fine a che il re vada alla caccia. Manrique fa sapere a Garcia che Rachele l’esilia da Toledo, al che egli risponde magnanimamente. L’autore fa nascere per incidente un contrasto fra loro, e Garcia rimprovera a Manrique varj tradimenti fatti da i Lara e da i Castro, la qual cosa non essendo di pura necessità pel suo argomento, gli fu imputata ad astio o ad altra occulta cagione. Rachele viene un’ altra volta piangendo perchè il re vuole andare alla caccia ad onta de i di lei pericoli. Alfonso sì innamorato e non ignaro del tumulto de’ suoi, di cui ebbe egli stesso tanta paura, l’abbandona per sì lieve motivo? L’autore è caduto in quest’altro inconveniente per seguire anche quì il Diamante. La caccia però nel dramma di costui, che non si limita a un giorno, ma che abbraccia sette anni, non è ripiego inverisimile, là dove nella favola dell’Huerta il re s’invoglia di andare alla caccia poche ore dopo che il popolo ha chiesta la morte di Rachele, quel popolo ch’egli ha mortificato con farla sedere sul trono e con rivocare il bando degli Ebrei. Ed in che si fida? Ne’ soldati entrati in Toledo? E non dee almeno sospettare che i nobili vantati da Garcia possano aver fra essi qualche aderenza? Le lagrime di Rachele, cagione poco fa di fenomeni rari e pellegrini, riescono questa volta infruttuose; egli va alla caccia. Rachele tosto si consola, si asside un’ altra volta sul trono, parla de’ pubblici affari, decreta, e fa quello stesso ch’ella un secolo prima avea fatto nella Judia de Toledo del Diamante. Mentre pensa a far troncar la testa a Garcia, viene interrotta da’ nuovi schiamazzi de’ Castigliani. Chiama la guardia che l’ha abbandonata, si volge a Manrique che si ritira per cercare il re, s’indirizza a Ruben che le dà un freddo consiglio e parte. Queste circostanze esigerebbero un discorso rapido e cocente e non quello alquanto freddo contenuto ne’ 24 versi ch’ella recita, per gli quali si richiede più tempo che non dovrebbero darle i Castigliani irritati e non trattenuti da veruno ostacolo. L’azione si rallenta ancora per trenta versi che recita Garcia prima di offerirle di farla uscire per una porta secreta. Questo punto dell’azione richiedea più moto che parole. Rachele non l’accetta, ed i congiurati tornano a venire colle spade alla mano e vanno in traccia di lei. Garcia vorrebbe pur liberarla e trattenerli, ma vedendo Ruben si ferma per rimproverargli con molte parole i perversi consigli dati a Rachele. N’era questo il tempo? L’azione corre, vola, e non permette indugio veruno; ed è più rapida nella Judia del Diamante. Ruben si nasconde dietro del trono, Rachele vuol far lo stesso e trovandovi Ruben gli rinfaccia i pravi suoi consigli. Giungono i Castigliani, e Rachele si fa loro incontro, dicendo:

Traidores .. mas que digo? envano animo!
Nobleza de este reyno, asi la diestra
armais con tanto obbrobrio de la fama
contra mi vida?

Questo tratto è copiato benchè male dal poema Raquel inserito anche nel Parnaso Español. Luis de Ulloa autore del poema dice così:

Traidores, fue decirles, y turbada
viendo cerca del pecho las cuchillas,
mudò la voz, y dijo, caballeros,
asi infamais los inclitos aceros?

Ognuno si accorge di essersi tal pensiero peggiorato dal copiatore Huerta. Nel poema si concepisce ma non si pronunzia la voce traidores, e con ciò si lascia luogo alla preghiera: nella tragedia l’ingiuria è scoccata e la correzione giunge tardi. Nel poema Rachele vuol dire che ferendola essi macchiano i loro acciari col sangue di una femmina: nella tragedia si chiama obbrobriosa l’ azione di armarsi contro della di lei vita, ritrattando così la correzione e rimproverando loro la ribellione, la qual cosa rende inutile la preghiera. Inclitos aceros nel poema contiene una lusinga che nobilita la condizione de’ congiurati, il che non esprime la diestra detto nudamente nella tragedia. Finalmente la stessa energica concisione dell’originale nelle parole

Asi infamais los inclitos aceros,

si snerva nella tragedia distendendosene il pensiero in due versi e mezzo. Mentre Fañez pensa a fare uccidere Rachele, Ruben fra tanti robusti armati solo, debole e vile cava un pugnale (come dice) per difendersi, e Fañez per non far macchiare le spade de’ compagni nel sangue di una femmina, impone all’Ebreo di ucciderla promettendo a lui la vita. Ruben non si fa pregare, e la ferisce. I Castigliani si ritirano; ma Ruben non seguita coloro che possono salvargli la vita promessagli; e perchè mai rimane colà insensatamente col pugnale alla mano? Rachele moribonda chiama Alfonso che giugne, ed ella spirando gli dice che la plebe sollevata l’ha condannata a morire, e che Ruben l’ha ferita. Alfonso recita un lamento di 25 versi; Ruben si sente accusare, vede il furore del re, ascolta i di lui versi, e non fugge. Chi vide rappresentar la tragedia mi assicurò che il pubblico si stomacò di vedere quell’insipida figura rimasta sì lungo tempo col pugnale alla mano. E dovea così avvenire. Il poeta volea farlo morire, e non seppe trattenerlo in iscena con verisimiglianza. Alfonso alfine se ne avvede, gli strappa il pugnale, e macchia la sua mano reale del sangue vile di quell’ebreo. Alfonso nella conchiusione procede in conseguenza del carattere datogli dal poeta, e le prime sue riferite incostanze non sono smentite dalle ultime. Egli incomincia dal fare l’ uffizio del carnefice nella persona di Ruben; ma, benchè prima alla sola idea che Rachele dovea allontanarsi avea voluto che un vassallo gli togliesse la vita, ora alla vista del sangue e del cadavere di Rachele caldo ancora, repentinamente acquista dominio sulla sua disperazione, ed ammette in quel medesimo punto gli uccisori alla sua presenza e gli perdona, contentandosi di dire che serva loro di pena

contemplar lo horroroso de la bazaña.

Così termina questa tragedia del sig. Huerta lavoro di quindici anni.

L’autore nella morte e nel carattere di Rachele non ha alterata la storia (benchè in tanti altri fatti l’abbia senza necessità falsificata) perchè era persuaso che corregge meglia i costumi il gastigo del vizio ed il premio della virtù. Qui di premio di virtù non si favella, se l’autore non istimasse virtu la ribellione. Si tratta solo del gastigo del vizio. Rachele enunciata come prostituta, ramera, avara, ambiziosa, dannevole allo stato, merita la morte; nè può eccitare la compassione tragica, ma quella soltanto che detta l’umanità per gli rei che vanno al patibolo. Per convenire alla tragedia si dovea rendere meno odiosa senza lasciarla impunita. Questa è la differenza che passa tra una vera esecuzione di giustizia ed un evento esposto sulla scena tragica. L’esecuzione reale lascia il fatto com’ è: la teatrale l’accomoda al fine. Il poeta dee maneggiarlo in guisa che il personaggio destinato a commuovere si renda degno di pietà, affetto ammesso come naturale all’uomo ed opportuno a metter l’animo in agitazione per disporlo a ricevere l’ammaestramento che è l’oggetto morale della poesia. Rachele (eccetto la gioventù e la bellezza) non ha qualità veruna che faccia sospirare per la di lei morte. Il Diamante in questa medesima guisa dipinse la sua Rachele, ed il sig. Huerta calcandone le orme si diede un vanto non vero dicendo esser tal piano un suo sistema particolare. Aggiugnerò che la Rachele del Diamante desta più della moderna la tragica compassione, perchè, oltre a’ nominati motivi della gioventù e della bellezza, Diamante pose accanto a Rachele nel fatale istante il canuto suo padre, il quale maltrattato da’ sollevati ne aumenta l’infelicità, e la rende più compassionevole. Non solo dunque la Rachele del sig. Huerta manca d’invenzione, perchè ne prese la traccia tutta dal Diamante15, ma anche cede alla Judia de Toledo per tale arte adoperata nella di lei morte e per l’ uguaglianza del carattere di Alfonso. In ricompensa di quanto Huerta ha tolto al Diamante egli ha stimato di escludere la Judia de Toledo dalla collezione che finalmente ha eseguita del Teatro Spagnuolo 16. La superiorità della Raquel moderna sopra l’antica consiste nella versificazione che non è senza dolcezza, nello stile eccetto ne’ passi dove degenera in gongoresco, e nella regolarità che però si trova ancora nelle riferite tragedie di Montiano, di Cadahalso, di Moratin, di Ayala, di Sedano ec.17.

Il sig. Huerta ha voluto ancora rifare la Venganza de Agamemnon del maestro Perez de Oliva che era in prosa, scrivendola sul gusto del Bermudez con ottave, odi, stanze e con ogni sorte di versi rimati, ed anche con assonanti. Egli nell’azione dietro del Perez seguita Sofocle facendo riconoscere Oreste per mezzo dell’anello. L’autore in una nota coll’ usata sua modestia si vantava di correggere Sofocle per far che quedase con menos impropriedades, cioè che rimanesse spoglio della maggior parte delle improprietà. Per conseguirlo bisognava in prima ch’egli sapesse quali improprietà appartenessero a Sofocle e quali a’ suoi traduttori; di poi ch’egli avesse giuste idee delle proprietà convenienti al greco argomento che prese a rimpastare. Egli in prima tratto tratto ingigantisce le idee semplici, naturali e patetiche dell’originale: ne perde le bellezze del coro senza rimpiazzarle in verun modo: rende la favola pesante colla nojosa lunghezza de’ ragionamenti: per troncarne le improprietà rimoderna alcune usanze e ne aggiugne altre nuove inescusabili. Che utile cambiamento è quello d’ introdurre una cassa capace di un cadavere intero da portarsi sugli omeri de’ Greci alla guisa de’ becchini, invece di lasciarvi l’urna antica che conteneva le ceneri di un estinto, e che poteva portarsi in mano, come rilevasi da Aulo Gellio nel parlar di Polo e dall’istesso Sofocle18? Che miglioramento è quest’ altro di far che nasca in iscena e si proponga da Cillenio il pensiero di fingere l’arca che ha da contenere un peso proporzionato ad un corpo morto, quando Sofocle provvidamente suppone questi preparativi già fatti prima di capitare Oreste coll’ ajo in Micene? Perchè non imitare la vivacità dell’ originale nella riconoscenza di Oreste in vece di raffreddarla con fanciulleschi enigmi? Chi sei? dice l’Elettra dell’ Huerta; ed il di lui Oreste risponde a maniera di oracolo,

Un hombre soy que en su sepulcro sulca los mares de fortuna.

Così si sarebbe spiegato Gongora nel colmo del delirio, e così si è spiegato il di lui ammiratore Huerta, il quale apparentemente fece il cambiamento dell’urna in atahud per mettere in bocca di Oreste l’ indovinello, io sono un uomo che nel mio sepolcro solco i mari della fortuna. Sofocle poi si era guardato dall’avventurare in faccia all’uditorio Clitennestra moribonda; ed il sig. Huerta ve la spinge senza perchè, e fa che declami sola venti versi, e poi se ne torni dentro ancor senza perchè. Ora quando in argomenti sì rancidi e trattati bene da più centinaja di poeti non si sanno combinar nuove situazioni patetiche che formino quadri terribili alla maniera de’ Michelangeli, quando si hanno da riprodurre con nuovi spropositi, perchè esporsi a far di se spettacolo col paragone? Huerta ha pur tradotta la Zaira che noi non abbiamo letta; e ci auguriamo ch’egli ne abbia tolte le improprietà meglio che non ha fatto nell’Agamennone di Sofocle19.

Si sono in Madrid composte altre tragedie ma non rappresentate. Don Lorenzo de Villaroel marchese di Palacios pubblicò Ana Bolena ed il Conde Don Garcia de Castilla lodate dal sig. Huerta, ma da me non lette a cagione del mio passaggio in Italia. Eranvi pure rimaste inedite il Pelagio. l’Eumenidi, i Due Gusmani. Altre ne pubblicarono Bazo, Quadrado, Guerrero, Sedano, Ibañez derise al pari del Paolino de Anorbe y Corregel e della Briseida musicale di Don Ramòn la Cruz20.

Qualche traduzione delle tragedie francesi uscì dopo il Cinna del Pizzarro Piccolomini. L’Atalia del Racine tanto spregiata dal sig. Huerta fu ottimamente tradotta da Don Eugenio Llaguno y Amirola e pubblicata nel 1754 verseggiata in endecasillabi sciolti interrotti da qualche rima arbitraria. Un’ altra Atalia uscì in Portogallo col nome di Candido Lusitano, sotto di cui si occultò in più opere pubblicate nel 1758 il dotto P. Freire prete dell’Oratorio, premettendovi un’ erudita dissertazione in cui additò le bellezze di quell’originale che Huerta stimava componimento cattivo di un imbecille. Pietro de Guzman duca di Medina Sidonia mancato nel 1778 pubblicò nel 1768 una buona versione dell’Ifigenia del medesimo Racine che per Huerta è così dozzinal poeta; e nel 1776 fece imprimere la sua versione del Fernando Cortes di Alessio Piron.

Rimane a parlare di tre esgesuiti spagnuoli tra noi traspiantati, i quali hanno speso onoratamente il loro ozio in comporre tragedie in italiano, cioè dell’ab. Don Giovanni Colomès Catalano, Don Emmanuele Lassala Valenziano e Don Pietro Garcia de la Huerta fratello dell’autore della Raquel.

Il sig. Colomes nel 1779 pubblicò in Bologna il suo Marzio Coriolano, argomento trattato senza regolarità dal Shakespear e dal Calderòn, e languidamente da altri. Non è tanto la sterilità che lo renda scabroso a maneggiarsi, quanto l’impossibilità di combinare verisimilmente in un giorno e in un luogo la strettezza di Roma assediata da’ Volsci, e l’ angustia di Marzio combattuto dalla vendetta e dalla madre. Chi vuole spaziarsi sullo stato di Roma, è costretto a rendere Marzio invisibile, come fece nella sua tragedia il nostro Cavazzoni Zanotti. Chi vuol trattare dell’inflessibilità di Marzio espugnata da Vetturia, troverà sterile la materia per cinque atti. Non so però perchè non si è cercato di trattare in soli tre atti il contrasto dell’amor filiale e della vendetta nel cuor di Marzio, colla funesta vittoria del primo che cagiona la di lui morte. Il Colomès ha unito lo stato di Roma, la vittoria di Vetturia, la morte di Coriolano, ma ne riduce l’azione ne’ contorni di Roma ora nel campo Marzio, or nel tempio di Marte, or nel campo de’ Volsci, e tutta la restringe con qualche violenza nel tempo prescritto dal verisimile. Essa incomincia da un punto lontano, trattenendosi i Romani ne’ Comizj senza punto sapere dell’invasione de’ Volsci, i quali hanno già espugnata Lavinio, cacciati i coloni Romani da Circe, Trebbia, Vitellia e Polusca, dilatati i proprj confini sino al Tebro. Si restringono poi troppe cose in un giorno, dovendosi fare accampare i Volsci, dar luogo a una tregua, superare il Gianicolo, tramarsi una congiura contro Marzio dichiarato dittatore, rompersi la tregua, venirsi a un altro fatto d’armi, allestirsi barche e legni per passare il Tevere, farsi due abboccamenti colla madre, una zuffa nel campo Volsco, seguir la morte di Tullo, la sortita de’ Romani, la fuga de’ Volsci, l’uccisione di Coriolano. Contuttociò lodevolissimi sono gli sforzi dell’autore per averla scritta con felicità in un linguaggio straniero. E chi oserebbe far motto di qualche squarcio prosaico, di alcun verso duro, di sentimenti spiegati men precisamente? Questo è il caso in cui l’indulgenza è giustizia. Accennerò anzi con piacere qualche tratto pregevole. Nell’atto I si nota una felice imitazione di un pensiero del Metastasio. Zenobia dice,

salvami entrambi,
Se pur vuoi ch’io ti debba il mio riposo,
E se entrambi non puoi, salva il mio sposo.

Vetturia nel Marzio dice,

Ad una madre
Tu ridona il sostegno, e con la patria,
Se puoi, lo riconcilia; ma rammenta,
Che di Roma sei padre. Salva entrambi,
Ma se il figlio non puoi, Roma almen salva.

Patetico è il discorso del sacerdote nell’atto III: felice l’immagine che Volunnia rappresenta a Marzio di se stesso posseduto da’ rimorsi nel caso che trionfasse di Roma: grave la seconda scena dell’atto V, in cui Vetturia espugna la durezza del figlio: buone imitazioni del Tasso si scorgono nella scena 6 descrivendosi la rotta de’ Volsci: interessante in fine l’ultima scena per la morte di Coriolano.

Del medesimo sig. Colomès è l’Agnese di Castro uscita in Livorno nel 1781. La Castro del Ferreira, come ha già osservato il leggitore, copiata poi dal Bermudez e peggiorata21, è la sorgente delle Agnesi posteriori. La Cerda ed altri Spagnuoli la trasformarono in un mostro tragicomico. La Motte ne fece la felice sua Inès. Apostolo Zeno trasferendola ad un’ altra nazione ne compose il melodramma Mitridate. Più felicemente si allontanò dalle altrui vestigia il Metastasio nel Demofoonte, il quale mette capo ancor più nell’Edipo di Sofocle e nella Semiramide del Manfredi, che nella Inès. Il sig. Colomès ha seguita l’Inès del La Motte nelle principali situazioni e nello scioglimento, benchè non lasci nobilmente di rendere giustizia alla bella produzione del Cesareo Poeta. La sostanza dell’Inès e dell’Agnese è la stessa, variando solo in alcune circostanze. Ciocchè nella tragedia del La Motte opera la regina, viene in questa del Colomès eseguito dal siniscalco del regno; ma i motivi che agitano la regina sono assai più attivi, perchè concernono direttamente la persona di Agnese per cui viene rifiutata la propria figlia; là dove l’odio di Alvaro è contro Ferdinando, e non contro la di lui sorella. La parola data da Alfonso al re di Castiglia cagiona in ambedue i drammi il pericolo di Agnese e la ribellione del principe. Ma il carattere di Alfonso nella favola francese è di un padre sensibile che ama il valore del figliuolo, benchè sia disposto a punirlo, nè il Poeta Cesareo ha calcato diverso sentiero nel Demofoonte; là dove il Colomès fa nascere perturbazioni meno tragiche col formare il suo Alfonso severissimo per natura, poco sensibile agli affetti di padre e prevenuto contro del figlio. Il secreto delle nozze occulte svelato al re forma una scena interessante dell’atto V dell’uno e dell’altro dramma. Ma nel francese fa un effetto più grande, perchè l’arcano si è conservato solo tra il principe e la consorte, e bisogna dire a gloria di Metastasio che è maggiore ancora nel Demofoonte, perchè la sola necessità lo strappa dalla bocca di Timante per salvar Dircea dal sacrifizio. Nel dramma del Colomès però in prima non è sì pressante la necessità di svelare il secreto alla regina sin dal principio, e poi ne restano di mano in mano instruiti molti personaggi. Nel dramma francese al racconto d’Inès il re si commuove, la perdona, la riconosce per moglie del principe e abbraccia i nipoti; ed il sig. Colomès si è bene approfittato di questa bella scena. Il veleno apprestato ad Agnese dalla regina, il quale rende inutile il perdono da lei ottenuto, e le toglie la vita, è ritrovato dell’autor francese, che gli è stato rubato da più moderni tragici dozzinali, ma che non parmi ch’ egli dovesse a veruno nè gli è stato suggerito dalla storia della Castro. Era dunque più bello che il Colomès dopo di averlo trascritto lo riconoscesse dal sig. La Motte, che dire con poca gratitudine che per necessità dell’azione ha dovuto incontrarsi con lui. Una nobile ingenuità avrebbe accresciuto il di lui merito di aver abbellito questo colpo con nuove acconce espressioni. La stessa istorica imparzialità che ci obbliga a tal confronto, ci fa dire che il Colomès ha prestato a quest’argomento nuove bellezze. Tale ci sembra la voce sparsa ad arte dal falso Alvaro della finta morte del re, per leggere nell’animo del principe, e per assicurarsi che Agnese sia da lui amata. Per lo stile lascia rare volte di esser grave, ed il patetico n’è ben sostenuto, e con passi armoniosi e robusti compensa certe espressioni che parranno intralciate, più prosaiche e meno precise e vibrate. Debbo pur anco far notare che la ricchezza, l’energia e la maestà della lingua italiana e le maniere usate da’ nostri gran poeti, danno all’Agnese un certo che di più grande che manca al cattivo verseggiatore La Motte. Pieno di poetica vivacità non iscompagnata dalla passione è il racconto che fa Agnese alla regina nell’atto II: quanto la stessa Agnese dice nell’atto V è parimente espresso con verità ed affetto: chiama l’attenzione la di lei parlata al re quando scusa il principe. In somma il sig. Colomès con iscelta più felice in questa seconda tragedia ha data al teatro un’ Agnese non indegna degli sguardi degli eruditi, e la Spagna dovrebbe gloriarsene come la più regolare ed appassionata uscita da un suo figlio, e desiderare che fosse stata scritta in castigliano. Si rileva da una lettera dell’autore al sig. Pignatelli ch’egli avrebbe accompagnata l’Agnese con altre due tragedie, se la sua salute gli avesse permesso di aggiugnere l’ultima lima al suo lavoro.

Uscì nel 1779 in Bologna l’Ifigenia in Aulide dell’ab. Lassala, che nel dedicarla alla contessa Caprara descrive l’invenzione del pittore Timante di dipingere Agamennone col volto coperto. Ma Timante posteriore a Polignoto che fioriva verso l’olimpiade XC, non fu l’ inventore di tal ripiego che appartiene all’istesso Euripide nato l’anno primo dell’olimp. LXXV22. Nocque al sig. Lassala la scelta di un argomento incapace di migliorarsi dopo di Euripide e Racine, i quali a’ posteri non lasciarono se non l’alternativa o di copiarli o di traviare. Egli debbe a questi originali la semplicità, l’orditura, lo scioglimento e le situazioni principali dell’azione. Sarebbe a desiderare che vi si fosse anche attenuto in certi passi. Il carattere di Menelao che pur nel Greco autore sembra in certo modo incostante, nel Lassala comparisce ancor più difettoso. In prima egli è inoperoso: si esprime con bassezza e villania col fratello: nel cangiamento che fa si dimostra stravagante, incongruente ed opposto a’ suoi interessi. Il tragico Greco compensò il difetto accennato prestando al suo Menelao discorsi lontani da’ colori usati dal suo imitatore Valenziano. Con più senno egli ad esempio del Francese si sarebbe dipartito dal Greco nello scioglimento, invece di adottarne la machina a’ nostri tempi non credibile. Si allontana poi il Lassala dall’uno e dall’altro tragico nell’oziosa scena 2 dell’atto II, in cui Achille con gli occhi bassi dice alle principesse che gode del loro arrivo e che non può trattenersi e parte. Sconcio e intempestivo e mal espresso e falso è il seguente pensiero di Agamennone:

Nel cristallo stesso
Dinanzi a cui ordinando il crine sparso
L’arte accrescea a sua beltà ornamento,
Cercherò almen di te la fida immago
Impressa un dì, ma fuggitiva altrove
Sarà disparsa, e cancellata ovunque
Esser solea.

Delicatezza e proprietà si desidera anche nell’atto III nella scena di Clitennestra ed Achille. Lo stile manca di precisione, di forza e di sublimità, lussureggia, ed enerva i sentimenti distendendoli. La frequente e non variata spezzatura del verso ne toglie ogni armonia. La locuzione è prosaica talmente che scrivendosi seguitamente non vi si distinguerebbero i versi. Circa la lingua tutto si dee perdonare a uno straniero che si studia di coltivar quella del paese ove abita. Non per tanto si trova espresso con passione e felicità ciò che nell’atto IV dice Ifigenia al padre tratto dal greco, e ciò ch’ella dice ancora nella conchiusione della 7 scena dell’atto V.

Don Pedro Garcia de la Huerta non ha preso a tradurre o imitare favole straniere, ma pieno dello spirito del fratello volle recare al nostro idioma in versi sciolti la di lui Raquel, come egli dice,

Per la gloria di dare all’un germano
Dell’altro un segno di verace amore.

Egli, ad eccezione di aver soppresse le millanterie stomachevoli della prefazione dell’edizione matritense della Raquel, e rettificata alcuna delle varie espressioni false e gongoresche che vi sono, servendo al dovere di fedel traduttore non ha nella sua copia nè alterata la traccia della favola originale, nè renduti meno ineguali e più congruenti i caratteri, nè dato più fondamento alla compassione tragica, nè corretti gli errori di storia, nè tutte castigate le intemperanze dello stile23.