CAPO V.
Tragedia Francese nel secolo XVIII.
Decadendo l’arte de’ Sofocli in Italia, e perdendosene le tracce nelle Spagne per l’intemperanza della scuola Lopense, mentre Cornelio e Racine l’ inalzavano in Francia sì presso al punto della perfezione, una folla di loro imitatori seguendogli sempre senza raggiugnergli ne ripetevano i difetti più che le bellezze negli ultimi lustri del secolo XVII e ne’ primi del XVIII. Racine singolarmente che avea scoperto il miglior cammino e prodotto l’Atalia, il capo d’opera della tragedia francese, senza avvilirla colla galanteria, avea cominciata un’ Ifigenia in Tauride, nel cui piano non entravano amori. Ma egli lasciò le occupazioni teatrali prima di depurarle del tutto, e la scena francese dopo di lui si riempì della morale dell’opera di Quinault27. Alcibiade (aggiugne l’istesso scrittore) Amestri, un Agnonide, il feroce Arminio, Amasi, un principe Persiano nell’Atenaide, prendono il tuono effemminato de’ romanzi di madamigella Scudery che dipingeva i borghiggiani di Parigi sotto il nome degli eroi dell’antichità. L’epoca de’ Virgilj, de’ Raffaelli, de’ Tassi, de’ Metastasj, de’ Pergolesi, suole essere seguita da una numerosa oscura prole della nojosa mediocrità. Ma la natura ha bisogno di riposo dopo aver prodotto un ingegno raro.
In tal periodo non per tanto qualche buon talento mostrò d’intendere l’arte della tragedia senza appressarsi a’ gran modelli. Giovanni Campistron nato nel 1656 e morto nel 1723 scrisse diverse tragedie, che non cedono per regolarità a quelle di Racine, esse furono anche bene accolte nella rappresentazione a riserba di Virginia e di Pompea le quali caddero; il suo Andronico ed il Tiridate restarono al teatro. Ma la lettura riposata è la pietra di paragone de’ drammi, ed essi non passano alla posterità quando mancano di stile, di lingua, di buona versificazione, d’interesse; ed in quelli di Campistron si desidera forza, calore, ed eleganza.
Diedero allora qualche passo nella poesia tragica Riouperoux autore di un’ Ipermestra: La Fosse che della Venezia salvata di Otwai formò il suo Manlio Capitolino trasportando agli antichi Romani il fatto recente della congiura di Bedmar contro Venezia, e che compose anche una Polissena tragedia regolare: La Grange Chancel nato nel 1678 e morto nel 1758 che scrisse varie tragedie in istile trascurato e debole con viluppo romanzesco e tralle altre un Amasi rappresentato nel 1701, argomento della Merope trasportato nell’Egitto, in cui anche regna la molle galanteria28.
A questa mollezza universale seminata nelle tragedie francesi volendo rimediare Longepierre compose una Elettra tutta sul gusto della greca tragedia, semplice, senza episodj, senza sfigurarne il tragico soggetto con un freddo intrigo amoroso. Ciò finì di corrompere il tragico teatro francese. Longepierre non lavorava con diligenza i suoi versi, non si elevava per lo stile, non conosceva il teatro francese, e la sua tragedia cadde ed annojò. I Francesi si confermarono nella credenza di esser passata la moda della greca semplicità, attribuendo al gusto di essa l’effetto della debolezza del Longepierre.
In tale stato trovavasi in Francia il tragico teatro, quando cominciarono a fiorire La Motte, Crebillon e Voltaire, ne’ quali ravvisiamo caratteristiche diverse, merito disuguale e difetti contrarj.
Antonio Houdard La Motte nato nel 1672 e morto nel 1731 era veramente uomo d’ ingegno, erudito, e non indegno di essere ricordato con lode; sebbene al dire di M. Palissot egli volle contraffare Omero, Anacreonte, Virgilio, La Fontaine e Quinault, come la scimia contraffà l’uomo, e sostituì al naturale e al delicato e al grazioso l’arte, il bello-spirito, ed il parlar gergone. Nelle quattro sue tragedie i Macabei, Romolo, Edipo, Inès de Castro, poco felicemente verseggiate e difettose nella lingua29, gl’ imparziali riconoscono merito ed interesse.
Osservasi ne’ Macabei una locuzione corrispondente al soggetto, sublime talora e ricca di nobili sentimenti, e lontana dalla generale affettazione di stile da’ Francesi adottata nelle tragedie. Le passioni son dipinte con vivacità; ma l’azione sembra difettosa. In fatti l’eccidio de’ Macabei che avviene nell’atto primo, eccita tanta commozione che fa comparire languido il rimanente. Salmonea modello certamente di virtù eroica è personaggio ozioso sino all’ atto quinto. La condotta della favola merita riprensione per certi racconti intempestivi, per qualche soliloquio puramente narrativo, e per la poca corrispondenza del tempo della rappresentanza con quello degli evenimenti.
Lo stile del Romolo si risente più della precedente del difetto generale delle tragedie francesi, cioè vi si scorge più copia delle stesse espressioni poetiche solite a praticarsi da’ Francesi e più lontane dalla natura. Non può riprendersi che Romolo venga dipinto come innamorato a differenza de’ suoi soldati che altro non cercano che una donna; ma al conte di Calepio sembra incredibile il di lui amore perchè nato tra’ continui dispregi di Ersilia. Più fondatamente però se ne riprende la maniera di amare. Tante lagrime, tanta sofferenza, tanta angoscia sembrano convenire più ad un innamorato francese del tempo di Artamene, che ad un Romolo eroe, guerriero, fervido, feroce. Non è poi verisimile che Tazio vegga di lontano scintillare i pugnali nel volersi trucidar Romolo, troppo spazio dovendo correre trallo sfoderarsi i ferri ed il trafiggerlo. Ersilia che nell’atto terzo dice da parte di avere scritto il biglietto, manifesta mancanza di arte nel poeta, ed oltre a ciò con poca verisimiglianza e ragione i versi ch’ella profferisce si sentono benissimo dagli spettatori, e non da Romolo.
Nel 1726 La Motte volle produrre un Edipo 30 per avventura non contento di quelli del Cornelio e del Voltaire. In effetto egli purga quest’argomento tanto dell’ episodio degli amori di Teseo e Dirce, alieni dall’avventura di Edipo, introdotto con mal consiglio dal padre del teatro francese, quanto di quello non meno eterogeneo della galanteria di Filottete che con rincrescimento si legge nell’Edipo del Voltaire. La Motte provvidamente corregge pur anco la favola greca dell’inverisimile ignoranza di Edipo intorno alle circostanze della morte di Laio. Egli però ne tolse ogni utilità col rendere Edipo pienamente innocente nell’ammazzamento del re di Tebe. Dividendo poi la riconoscenza rende meno maravigliosa la rivoluzione, ed incorre nel difetto del Voltaire. Nè anche si riconosce come vantaggioso alla favola il miglioramento de’ caratteri di Eteocle e Polinice contro l’idea lasciatacene dagli antichi. Qual pro da un cangiamento che mena il poeta a lottare colle opinioni radicate negli animi di chi ascolta, e per conseguenza a rendere poco interessante perchè non credibile la loro generosità verso del padre? Sarebbe lecito introdurre Achille dandogli costumi di Tersite, ovvero Ascanio o Astianatte che combattesse con Diomede o Ajace?
La più applaudita delle sue tragedie fu senza dubbio l’Inès de Castro mai sempre ben accolta dal pubblico; nè è da dubitarsi dell’ asserzione del suo autore che niuna tragedia dopo il Cid siasi rappresentata in Francia con più felice successo, avendosene un testimonio glorioso nell’ approvazione che ne diede M. de Fontenelle nel 1732 quando si volle imprimere, j’en ai jugé comme le public. Non saprei dire se La Motte nel comporla avesse avuto presente qualche modello in tale argomento; so però che oltre al poema di Camoens si maneggiò in Lisbona dal Ferreira, ed in Castiglia dal Bermudez e da Mexia de la Cerda, benchè al cospetto della Inès francese spariscano tutte le altre. Lo stile della Inès generalmente è migliore di quello del Romolo; ma essa non ha nè la versificazione, nè l’eleganza, nè la poesia, nè l’abbondanza, nè la grandezza, nè la delicatezza de’ sentimenti di Racine. Esposta questa tragedia alle critiche talvolta giuste, spesso maligne de’ semidotti e de’ follicularj invidiosi, ha non per tanto sempre trionfato su i teatri per le interessanti situazioni ben prese e ben collocate di sì patetico argomento. Oltre a ciò che suggerì all’autore la nota sventura d’Inès, egli ne ha renduta vie più lagrimevole la morte, facendo che ottenuta da Alfonso compunto la sospirata grazia ella si trovi impensatamente avvelenata. I plagiarj di professione copieranno questo colpo teatrale del veleno che impedisce il frutto dell’impetrata grazia, ma se non sanno preventivamente commuovere con situazioni e quadri vivaci, che cosa in fine essi si troveranno fralle mani? l’arida spoglia di un serpente che rinnovandosi la depone e si allontana. Riconosce il Calepio in questa favola pregi assai superiori alle sue imperfezioni: ma non lascia di notarvi certa mancanza d’unità d’interesse, che La Motte nelle sue prose ostentava. Alfonso ed Inès ne hanno uno particolare non pur diverso ma opposto che solo nel fine si ricongiunge. Contro il tragico artificio (dice ancora) le belle doti di Costanza distraggono alquanto dall’attenzione che debbesi a quelle d’Inès. Riprende altresì di sconvenevolezza ciò che dice la Reina nella scena quarta dell’atto primo, cioè che all’arrivo di Don Pietro in corte i di lui occhi distratti altro non vi cercavano che Inès; sembrandogli ciò poco verisimile in un marito possessore da più anni dell’oggetto amato. Ma quest’ultima censura avrà poco peso per chi rifletta che Don Pietro è un marito per ipotesi del poeta tuttavia fervido amante, il quale gode fra mille pericoli e sospetti il possesso dell’amata, ciò che dee mantener sempre viva la sua fiamma.
M. Crebillon nato in Digione l’anno 1674 e morto in Parigi nel 1762 è il primo tragico Francese che in questo secolo possa degnamente nominarsi dopo P. Cornelio e Racine. La sua maniera si distingue da quella dell’uno e dell’altro. Crebillon non eleva gli animi quanto Cornelio, non gl’ intenerisce quanto Racine; ma gli spaventa con certo terrore tragico assai più vero e con un forte colorito tutto suo. Lontano dalla grandezza del primo non meno che dalla delicatezza ed eleganza armoniosa del secondo, egli non cade però nè nell’enfatico di quello, nè nell’elegiaco di questo. La sua immaginazione piena di forza, di calore e di energia, ma talvolta troppo nera, lo scorge non di rado nell’aspro e nell’inelegante ed in certe costruzioni oscure, per non dirle barbare col Voltaire. Imita spesso i Greci, e se ne appropria molte bellezze; ma le sue favole assai più complicate delle più ravviluppate delle Greche, rendono talora difficile il rinvenirvi l’unità di azione; potrebbero ancora notarvisi varie allegorie, apostrofi, perifrasi poco proprie della scena e della passione. In compenso i suoi caratteri mi sembrano pennelleggiati con molta vivacità. Soprattutto è mirabile e veramente tragico quello di Radamisto nella tragedia che ne porta il nome: il suo Pirro è più grande ancora del Pirro della storia: grande, feroce, malvagio, ambizioso e politico profondo si manifesta maestrevolmente il suo Catilina, benchè non a torto da Federigo II re di Prussia in una lettera scritta a Voltaire nel febbrajo del 1749 venga tutta la tragedia ripresa per trovarvisi sfigurata la repubblica Romana ed il carattere di Catone e di Cicerone: Atreo, Tieste, Farasmane, Palamede sono dipinti con tutto il vigore.
Ciò che nell’Elettra riguarda la vendetta di Agamennone è trattato gravemente e con molta forza: ma quanto impertinenti son poi in tale argomento l’amor di Oreste, e quello di Elettra! Contrario è l’amor di Elettra all’idea del di lei carattere tramandatoci dagli antichi: intempestivo e senza connessione è quello di Oreste per la figliuola di Egisto.
Non per tanto l’Elettra e la Semiramide si reputano dal medesimo re di Prussia tragedie de toute beauté al pari del Radamisto. A noi, oltre a ciò che abbiamo detto dell’Elettra, non sembra la Semiramide una delle migliori tragedie del Crebillon. Belo in essa è un traditore senza discolpa enunciato come virtuoso. Egli, non sapendo se Ninia viva, machina la rovina della propria sorella, cui, mancando il di lei figliuolo, apparterrebbe il trono. Questa Semiramide poi mal rappresenta la maschile attività e il valore attribuito dalla storia alla famosa conquistatrice reina degli Assirj. A vista della manifesta ribellione de’ suoi ella dimostrasi così inetta, che non sa prendere verun partito per la propria salvezza.
Nel Serse si desidera ancora più decoro e più uguaglianza ne’ caratteri. Serse par che avvilisca il padre ed il monarca nell’ adoperarsi in pro di un figlio favorito per sedurre una principessa innamorata dell’altro figlio da lui non amato. Artaserse nella stessa favola è un carattere incerto, e più di uno lo reputerà stolto o maligno nel giudicar suo Fratello. Stolto o maligno parimente (contro l’intenzione dell’autore) sembra lo stesso Consiglio di Persia, che condanna Dario alla morte senza punto sospettare di Artabano, il quale per mille indizj risulta reo dell’ammazzamento di Serse al pari di Dario. Queste osservazioni non debbono gran fatto diminuire la meritata riputazione di ottimo tragico acquistata dal robusto Crebillon, che pure, come accenna il Voltaire, si vide tal volta in procinto di morir di fame31; possono però additarci la difficoltà di giugnere alla perfezione nella tragica poesia. L’ultima sua tragedia fu il Triumvirato che ha varj pregi, ma che si rende singolarmente degna di ammirazione per essere stata scritta trovandosi l’autore in età di anni ottantuno.
L’altro insigne tragico di cui può vantarsi la Francia nel nostro secolo, è il celebre Francesco Maria Arouet di Voltaire, la cui gloria niuno de’ suoi contemporanei sinora ha pareggiata, non che adombrata. Dee a lui il coturno non solo varie favole degne di mentovarsi al pari del Cinna, dell’Atalia e del Radamisto, ma una poetica piena di gusto e di giudizio, talora superiore a molte sue favole stesse, sparsa nelle sue opere multiplici e nell’edizione che fece del teatro di Cornelio. La prima direzione letteraria avuta da’ gesuiti Tournemine, Le Jay e Porée, l’amistà dell’ altro dottissimo gesuita Brumoy gl’ inspirarono l’amore della bella letteratura greca e romana; le opere del Crebillon, e gli applausi che ne riscoteva, gli diedero i primi impulsi ad entrare nella tragica carriera32. Non ancora avea letto l’Edipo di Cornelio33, contando appena nel 1718 anni diciannove della sua età34, quando scrisse e pubblicò il suo Edipo. Il pubblico l’accolse con applauso e si recitò quarantacinque volte di seguito, rappresentando il personaggio di Edipo il giovane Du Frene che poi divenne assai celebre attore, e quello di Giocasta la valorosa attrice Desmarés. Non ci curiamo di ripetere nojosamente o quanto l’autore scrisse in più lettere nel 1719 criticando l’Edipo di Sofocle, quello di Cornelio ed il proprio, o ciò che in una edizione del suo Edipo del 1729 scrisse contro M. de la Motte. Ci basti dire che Voltaire conservò molte bellezze della greca tragedia, che non seppe scansarne alcune durezze nella condotta della favola, e che l’amoroso episodio di Teseo e Dirce da lui stesso riconosciuto per inutile e freddo nell’Edipo del Cornelio, non bastò a fargli evitare l’antica galanteria di Filottete colla vecchia Giocasta.
La Marianna pubblicata nel 1723 ebbe alla prima un successo poco felice. Il famoso Michele Baron già vecchio che sostenne il carattere di Erode, Adriana le Couvreur insigne attrice che rappresentò quello di Marianna, le due persone che compresero tutta l’energia di una vivace rappresentazione naturale, e che insegnarono la prima volta in Francia l’arte di declamare senza la solita istrionica affettazione, non bastarono a farne soffrire sino alla fine la rappresentazione. L’uditorio ravvisò non so che di ridicolo nel veleno presentato a Marianna in una coppa. L’autore nel seguente anno cangiò questo genere di morte in quello con cui il Dolce in Italia fece morir questa reina, e la tragedia si rappresentò quaranta volte. Giambatista Rousseau fece allora anch’egli una Marianna, che fu l’origine della lunga contesa ch’ebbe con lui il Voltaire. La Marianna Volteriana non è senza difetti. Qualche durezza nella condotta dell’azione ci fa vedere in lui un’ arte non ancora perfezionata. La dichiarazione di amore fatta da Varo nella scena quarta dell’atto II con tanta poca grazia e fuor di tempo, cioè mentre la reina è in procinto di tutta abbandonarsi alla di lui fede, fa torto al carattere enunciato dell’uno e dell’altra. Innamora non per tanto ed interessa il magnanimo carattere di Marianna. La quarta scena dell’atto IV tra Erode e Marianna mostra egregiamente il bel contrasto degli affetti di uno sposo pieno di sospetti e di crudeltà ma sensibilissimo ed innamorato, e di una consorte la di cui virtù non si smentisce mai. La nobile e patetica preghiera che gli fa Marianna Prenez soin de mes fils &c., è maestrevolmente espressa. Viva e teatrale è parimente la scena seconda dell’atto V, in cui ella posta nel maggior rischio della sua vita sdegna di seguir Varo che vuol salvarla.
Giunio Bruto rappresentata la prima volta in Parigi nel 1730 fu composta in Londra e dedicata a milord Bolingbrooke. Gl’ Inglesi e gl’ Italiani la tradussero e rappresentarono; ma in Francia non ebbe felice successo sulle scene. L’azione vorrebbe essere meglio accreditata in qualche circostanza e si desidera spazio più verisimile agli eventi. Nella scena terza dell’atto V Bruto manda i Padri Coscritti e Valerio in Senato; ma nel corto intervallo, in cui si recitano quattordici versi, il Senato si è radunato, ha giudicati i ribelli, sono essi andati al supplicio, Tullia si è uccisa, Bruto è stato dichiarato giudice del figliuolo. L’incontro che ne segue sommamente tragico del colpevole Tito con Bruto, compie ogni aspettativa, vedendosi nella quinta scena dipinta egregiamente l’ umiliazione di Tito, e la severità di Bruto combattuta dalla paterna tenerezza. Tito confessa l’istante che l’ha perduto seguito da’ rimorsi vendicatori e cerca la morte, ma prostrato a’ suoi piedi gli domanda un amplesso. Ditemi (aggiugne) ditemi almeno, mio Figlio, Bruto non ti odia; basterà questa parola a rendermi la gloria e la virtù; si dirà che Tito morendo ebbe un vostro sguardo per mezzo de’ suoi rimorsi, che voi l’amavate ancora, che alla tomba egli portò la vostra stima. Questa preghiera lacera il cuore di Bruto. Oh Roma (egli esclama) oh patria! indi lo condanna e l’abbraccia35. Le poetiche di tutti i possibili Marmontel, i discorsi, le lettere, le infelici cartucce critiche meditate da’ pedanti nella loro povertà, non vagliono unite insieme quattro versi di questa scena.
Giva così il Voltaire avvicinandosi al Cornelio, al Racine, al Crebillon, mostrando però ne’ tratti del suo pennello una maniera a se particolare. Non gli manca alle occorrenze nè il sublime del creator del teatro francese, nè la seducente tenerezza del di lui elegante competitore, nè il maschio vigore tragico dell’autor dell’Atreo, e del Radamisto. Ma egli si fa distinguere per l’umanità, pel patetico, per la libertà che regna nelle sue tragedie36. Egli ancora colla dipintura de’ costumi e de’ riti religiosi delle straniere nazioni ha saputo animare e render nuovi i soliti contrasti delle passioni; e questa novità l’ ha preservato quasi sempre (sia ciò detto con pace de’ pedanti che asseriscono il contrario) dalla taccia imputata a’ suoi compatriotti di travestire tutti i personaggi alla francese. In fatti i Tartari e i Cinesi dell’Orfano della Cina, gli Arabi Musulmani e gl’ idolatri del Fanatismo, i Romani del Bruto e del Giulio Cesare, i Greci dell’ Oreste, si distinguono assai bene fra loro e da’ Parigini. Finalmente i suoi difetti medesimi sono diversi da quelli de’ lodati tragici. Non va nell’ampolloso del Cornelio, non nell’elegiaco del Racine, non nell’aspro e inelegante del Crebillon; ma cade nel brillante e nell’epico fuor di proposito.
La Morte di Giulio Cesare in tre atti divisa spogliata di ogni intrigo amoroso e piena di arditezze e di trasporti per la libertà fu composta dopo il 1730 e prima del 1735 quando s’impresse. Shakespear ed il duca di Buckingam in Londra, l’ab. Conti in Venezia, aveano maneggiato il medesimo argomento senza rassomigliarsi, ma ugualmente senza snervarlo con amori, come era avvenuto in Francia nel principio del secolo. Voltaire lo ricondusse alla natural dignità in parte seguendo in parte correggendo Shakespear, ma facendo Bruto ancor più feroce. Inimitabili sono le due scene di Bruto con Cesare cioè la quinta dell’atto II, in cui Cesare gli palesa di esser di lui padre, e la quarta del III, in cui Bruto supplica il padre a lasciar di regnare. Egli ha migliorato anche l’artificio della parlata di Antonio, facendo portare per ultimo colpo il corpo di Cesare in iscena, che il Shakespear con arte minore fa dimorare sempre alla vista del popolo Romano.
Zaira uscita alla luce nel 1732 fu scritta interamente in ventidue giorni, ed in un solo se ne concepì e dispose il piano. É la sola tragedia tenera composta da Voltaire, in cui (egli dice) bisognò accomodarsi a’ costumi correnti e cominciar tardi a parlar di amore. Ma quest’amore troppo sventurato contrasta mirabilmente coll’ onore, colla religione e colla patria in Zaira, e ne costituisce una persona tragica che lacera i cuori sensibili. Per l’oggetto morale che si cerca in ogni favola, sarebbe in questa la correzione delle passioni eccessive per mezzo dell’infelicità che le accompagna. Ma il conte di Calepio critico non volgare oppone non senza apparenza di ragione, che essendo Zaira uccisa appunto quando abbracciando la religione de’ suoi maggiori è disposta a rinunziare alla felicità che attendeva dalle sue nozze, sembra che la di lei morte non possa concepirsi come castigo della sua passione. Intanto questo quadro felice interessa, commuove, ottiene tutto l’effetto che si prefigge la tragedia. Non basterebbe adunque rispondere alla proposta censura, che non sarebbe questa la prima volta che si facciano giuste opposizioni a’ componimenti giustamente applauditi? Nondimeno la lettura riposata della tragedia toglie alla critica tutta la forza. Zaira è disposta a professare la religione Cristiana; ma non ha soggiogata la sua passione, non ha rinunziato ad ogni speranza. Il suo amore persiste in tutto il vigore. Io mi volgo piangendo a Dio (dice Zaira) ma, o Fatima, ben tosto les traits de ce que j’ aime
Se montrent dans mon ame entre le ciel & moi.
Ella non cerca che Orosmane. La medesima passione si manifesta in tutta la sua forza nell’atto V. Chiamata dal fratello col biglietto Zaira cerca ancor pretesti, e Fatima vuole irritarla contro dell’amante. Che mi ha egli fatto? ella ripiglia, e lo giustifica. Ecco intanto il suo disegno: vado ad ubbidire, vado a trovar Nerestano,
Mais dès que de Solyme il aura pu partir,J’ apprends à mon amant le secret de ma vie.
L’amore dunque in lei non è mai vinto, si oppone con ugual forza alla religione, ed il di lei gastigo può ammaestrare. In fatti lo stato del cuore di Zaira vien dipinto nelle parole di Nerestano e di Fatima nell’ultima scena. Ella offendeva il nostro Dio, dice il primo,
Et ce Dieu la punit d’avoir brûlé pour toi.
Ella (dice Fatima insultando Orosmane) si lusingava che Iddio forse vi avrebbe riuniti: oimè! a questo punto ella ingannava se stessa!
Tu balancois son Dieu dans son coeur allarmé.
Tutto ciò non mostra l’eccesso dell’invincibile sua passione? e contro quest’eccesso non si espone utilmente l’infelice fine di Zaira? Le altre opposizioni di negligenze, di poca verisimiglianza, d’inesattezze fatte a sì bella tragedia in Francia meritano indulgenza per li pregi che vi si ammirano, pel magnanimo carattere di Orosmane, pel sensibile e virtuoso di Zaira, pel nobile e generoso di Nerestano, per la dolce ed umana filosofia che vi serpeggia. Io non conosco un altro dramma francese che più felicemente ne’ tre ultimi atti vada al suo fine senza deviare e progressivamente aumentando l’interesse senza bisogno di veruno episodio e ricco delle sole tragiche situazioni che presenta l’argomento. Ella ha pure il merito di essere stata la prima a mostrare sulle scene francesi i fatti della nazione. Shakespear ha preparata la materia della Zaira colla tragedia di Othello. Un eccesso di amore forma l’azione dell’una e dell’ altra, la gelosia ne costituisce il nodo, ed un equivoco appresta ad entrambe lo scioglimento; Otello s’inganna con un fazzoletto, Orosmane con una lettera; l’uno e l’altro ammazza la sposa e poi si uccide. La Zaira piacque anche in Inghilterra quando vi si rappresentò tradotta da Hille. L’ attrice Ciber di anni diciotto sostenne con mirabile e colà non usitata naturalezza il carattere di Zaira; quello di Orosmane fu rappresentato da un gentiluomo e non da un attore di professione. In Italia tradotta dal conte Gasparo Gozzi si è recitata con applauso. Tradotta dopo il 1772 in Madrid ed in Aranjuez si recitò con universale ammirazione dalla celebre attrice Andaluzza Maria Vermejo.
Riscuoteva da circa due lustri gli applausi concordi della più culta Europa la Merope del marchese Maffei, quando Voltaire s’invogliò di tesserne una francese degna di parteciparne la gloria. Nel 1736 egli l’ avea già composta, ma si trattenne alcuni anni di pubblicarla, o per non farla comparire, mentre si applaudiva l’Amasi di M. La Grange, in cui sotto nomi differenti si trattava il medesimo soggetto, o per attendere che si rallentasse il trasporto che si avea per la Merope del Maffei. Comunque ciò sia egli si valse del migliore della tragedia italiana, ma cercò di accomodarla meglio al gusto francese togliendole l’aria di greca semplicità e naturalezza che vi serbò l’Italiano. Senza dubbio Voltaire ha talvolta sostenuti i caratteri con più dignità: ha dati sentimenti più gravi a’ personaggi: le bellezze de’ passi sono grandi e frequenti in tutta la tragedia: ha preparata benissimo la venuta di Egisto, prevenendo l’uditorio a suo favore: ha giustificato come tratto di politica il pensiero di Polifonte di fortificare la sua usurpazione col matrimonio di Merope: ha variata l’invenzione nell’atto IV e mantenuti in maggior commozione gli affetti, dipingendo Merope in angustia tale che è costretta dal timore a scoprire ella stessa il proprio figlio al tiranno. Ma la sana critica non lascia di desiderare nel bel componimento francese qualche altra perfezione. Voltaire non ha totalmente scansate nè le scene poco interessanti delle persone subalterne, nè i modi narrativi ne’ monologhi, come sono quelli di Narba e d’Ismenia nell’atto III, nè il parlar da parte usato nel calore del maggior pericolo, come fa lo stesso Narba ed altri ancora. Nell’ interessante scena quarta del medesimo atto III di Merope che crede vendicare in Egisto la morte del proprio figlio, sorge alcun dubbio che non lascia l’uditorio persuaso. Tu hai all’infelice mio figlio rapita quest’armatura, dice Merope. Questa? è mia, le dice Egisto. Merope allora tutta commossa meritamente ripiglia: Comment? Que dis-tu? Ed Egisto coll’ ingenuità che lo caratterizza, Je vous jure, le dice,
Par vous, par ce cher fils, par vos divins aïeux,Que mon père en mes mains mit ce don précieux.
Merope sempre più sconcertata:
Qui? ton père? en Elide? En quel trouble il me jette!Son nom? Parle: répons.
Se egli avesse detto che suo padre si chiamava Narba, siccome ella sperava di sentire, avrebbe in lui riconosciuto il suo Egisto. Ma egli dice che suo padre si chiama Policlete, e la reina torna a vedere ben lontane le sue speranze; e ciò sarebbe giusto. Ella però senza altro esame si abbandona alle prime furie, lo chiama mostro, perfido, lo fa trascinare presso la tomba di Cresfonte, e va per ferirlo. Ciò è senza ragione. La di lui candidezza che tutto confessa, dee almeno toglierle la sicurezza che esige la vendetta; tanto più che non si tratta solo di trucidare un innocente in vece di un reo, ma il figlio stesso in vece del suo uccisore. Se l’armatura apparteneva all’ucciso, l’ucciso è mio figlio (dir dovea Merope a se stessa): se all’uccisore, io trovo in lui mio figlio. Il nome che non combina, non basta a metterla nello stato di certezza della morte del figlio, potendovi essere diversi possibili, pe’ quali l’armatura può essere, com’ è, di Egisto, e colui che si chiama di lui padre aver preso un nome ignoto alla regina, com’ è in fatti. L’ uditorio dunque non può godere di sì interessante situazione, nè esser commosso quanto nel teatro greco e nella Merope del Maffei, per affrettar col desiderio la venuta del vecchio che impedisca l’ esecrando sacrificio di un figlio per mano della stessa madre che pensa vendicarlo. In tal tragedia non è solo questa madre che ragiona male, ragionando assai peggio Polifonte. Usurpatore scaltrito che col matrimonio di Merope procura di mettere un velo agli occhi de’ popoli, non si smentisce apertamente e si dimostra inetto e stupido nel voler ch’ella passi nel tempio insieme col figlio per costringerla alle abborrite nozze col farla temere per la di lui vita,
Voila mon fils, Madame, où voila ma victime?
Egisto non ambiguamente ha manifestato il suo odio verso di lui. Barbaro, tiranno, l’ha chiamato nella seconda scena dell’atto IV. Va, gli ha detto quando ha saputo di esser figlio di Merope,
Va je me crois son fils, mes preuves sont ses larmes,Mes sentimens, mon coeur par la gloire animé,Mon bras qui t’eût puni, s’il n’était desarmé.
Un carattere così eroico, franco, temerario agli occhi suoi, non dovea far tutto temere al sospettoso Polifonte? Stravagante, e senza utilità pel tiranno mi sembra la seconda scena dell’atto V, in cui egli vien fuori unicamente per dire all’ardito eroe: vieni a piè dell’altare
Me jurer à genoux un hommage éternel.
Egisto risponde da discendente di Alcide: rendimi il ferro, e ti risponderò, e conoscerai
Qui de nous deux, perfide, est l’esclave ou le maître.
Ma Polifonte dovea dopo ciò persistere nel matto suo disegno? dovea conchiudere: t’aspetto all’altare,
Viens recevoir la mort, où jurer d’obeïr?
Egisto anderà al tempio, ma come? Incatenato, o libero? Non incatenato, altrimente non avrebbe potuto, come indi avviene, avventarsi al tiranno. Ma se libero, Polifonte non dovea temere d’un giovane sì intraprendente che senz’armi ancora l’ha insultato? Incatenato poi o libero non dovea egli temere ancora che la di lui presenza commovesse un popolo così affezionato alla famiglia di Cresfonte? Alcuna di tali riflessioni non isfuggì al dotto Calepio, e e mal grado della di lui parzialità per la Merope Volteriana non potè lasciar di dire che nel miglior punto della passione rimane una fantasima, una chimera. Ciò dovettero vedere eziandio i Parigini allorchè si rappresentò, giacchè sappiamo da una critica che ne uscì subito, che l’atto quinto punto non piacque. Se queste riflessioni imparziali parranno ben fondate, veggano certi eleganti ma ciechi panegiristi de’ drammatici Francesi qual vantaggio essi rechino alle belle arti e alla gioventù coprendo di fiori i loro difetti.
L’epoca della pubblicazione e rappresentazione del Fanatismo o Maometto è dopo il 1740, benchè in una edizione del 1743 si dica composta sin dal 1736 e mandata allora al principe reale poi re di Prussia Federico II. Tanto intorno a tal tragedia disse lo stesso autore nelle sue prose, or parlando al nominato sovrano or sotto il nome di altri più volte sino al 1743; e tanto con varia critica ne favellarono i giornalisti di Francia, e con maestria l’ab. Cesarotti, ed altri eruditi esteri ed Italiani, che certi sedicenti profondi pensatori (i quali non per tanto galleggiano come cortecce di sughero in ogni materia), quando non vogliano ripetere al loro solito senza citare, non saprei che cosa potranno dir su di essa, come millantano, in vantaggio dell’arte drammatica. Noi seguendo il nostro costume quello ne diremo che possa darne la più adeguata idea, non pensando servilmente con gli altrui pensieri, nè vendendogli per nostri quando ci sembrino giusti.
Il Maometto tralle tragedie è quello, che fu tralle commedie il Tartuffo, cioè un capo d’opera ammirato per sentimento dagl’ imparziali, e screditato e proibito per cabala degl’ impostori, per gelosia di mestiere e per naturale malignità de’ follicularj. Voltaire che in simili opere spendeva talora pochi giorni, si occupò a perfezionarlo intorno a sei anni. Egli riuscì a farne un’ opera eccellente da tenere forse il primato tralle sue tragedie, colla copia delle idee nuove ed ardite, colla pompa dello stile, colle immagini nobili e tratte sempre dal soggetto, colle situazioni maravigliose che portano il terrore tragico al più alto punto, coll’ interesse sostenuto che aumenta di scena in iscena, coll’ unione in un gran quadro ottimamente combinata di caratteri robusti animati colla forza del pennello di Polidoro e colla copia spiritosa del Tintoretto. Egli è vero che nella condotta dell’ azione si desidera qualche volta più verisimiglianza: che non sempre apparisce dove passino alcune scene: che l’unità del luogo non vi si osserva: che l’azione procede con certa lentezza nell’atto II: che i personaggi talora entrano in iscena non per necessità ma per comodo del poeta37. Ma molte scene inimitabili invitano i più schivi a leggere ed ascoltare il Maometto. Tali sembrano con ispezialità le seguenti: la quarta dell’atto I di Zopiro ed Omar in cui si disviluppano i caratteri e si prepara egregiamente la venuta di Maometto; la quinta dell’atto II sommamente maestrevole onde riceve le ultime fine pennellate il di lui ritratto, facendo che egli col suo gran nemico deponga la maschera e manifesti i suoi grandi disegni, e lo chiami a parte dell’impero mostrandogli la necessità che non gli permette altro partito; quelle dell’ atto IV di Zopiro con Seide e Palmira e singolarmente la quinta della riconoscenza, la quale se non è nuova, almeno avviene in una situazione ben patetica e non usitata; e finalmente l’interessante terribile scioglimento che rende sempre più detestabile il carattere del ben dipinto impostore.
Ma coloro che vedevano nel Maometto mille difetti mentre i Parigini si affollavano ad ascoltarlo, imputarongli singolarmente che fosse una pericolosa e scandalosa rappresentazione quella di uno scellerato felice e trionfante a spese della virtù disgraziata. Voltaire stesso soddisfece a questa censura, mostrando che la passione amorosa gareggia in Maometto colla sua ambizione, e che la perdita di Palmira ed i rimorsi che in lui si svegliano alla vista del di lei sangue, danno a vedere al popolo lo spettacolo di un uomo potentissimo e non pertanto infelicissimo. Noi osiamo aggiugnere qualche cosa alla stessa di lui difesa. Perchè si cerca che lo scellerato rimanga punito sulla scena? Certamente per ricavarsene un frutto morale da far detestare il vizio ed amar la virtù. Ma l’autore del Maometto si prefigge d’ inspirare tutto l’abborrimento pel fanatismo, il quale abusa della religione e toglie l’orrore a’ più atroci delitti in pregiudizio della virtù. Il frutto morale dunque di questa tragedia è manifesto essere il prevenire gl’ incauti contro l’illusione della superstizione; e per conseguenza la di lei erappresentanza lungi dall’ essere scandalosa pericolosa, diviene istruttiva ed utile alla società.
L’Alzira una delle migliori tragedie del Voltaire composta e rappresentata dopo del Maometto era stata dedicata alla celebre marchesa du Chatelet autrice delle Instituzioni di Fisica secondo la filosofia di Leibnitz, e della traduzione de’ Principj di Newton, la quale terminò di vivere in agosto del 1749. In sì bel contrasto de’ costumi Americani ed Europei l’autore si prefisse il più bel fine a cui siesi elevata la tragedia, cioè mostrare quanto la forza della virtù della religione Cristiana che consiste nel perdonare ed amare l’inimico, sovrasti a tutte le virtù del gentilesimo. Quest’eroismo Cristiano trionfa nel perdono che dà il moribondo Gusmano all’idolatra che l’ha ferito a morte. Questo disegno non può abbastanza lodarsi; ma il conte di Calepio stima che Voltaire non ebbe questo disegno prima di comporla, giacchè ne prese il titolo da Alzira e non da Gusmano. A me però non sembra che il titolo di Alzira cangi la veduta segnalata dall’autore. Alzira è l’ anima e la sorgente dell’azione eroica di Gusmano; Alzira ama vivamente e mette in contrasto ed attività l’amore di Zamoro e di Gusmano; Alzira senza volerlo muove Zamoro a danni del suo rivale; Alzira dà il più vivace colore ed il carattere di sublimità all’eroismo Cristiano di Gusmano, perchè s’ei non l’amasse sì altamente, il concederla al rivale sarebbe un’ azione non molto straordinaria; Alzira dunque porta giustamente il titolo di questa favola.
Sempre ne’ piani delle favole del Voltaire si desidera che ne sieno le circostanze più verisimilmente accreditate, sempre si vorrebbe che l’autore si occultasse meglio ne’ sentimenti de’ personaggi; ma sempre in compenso vi trionfano l’umanità, l’orrore al vizio, l’amore della virtù. Alzira, Zamoro, Gusmano ed Alvaro sono personaggi che non si rassomigliano ne’ costumi, nelle debolezze e nella grandezza d’animo; ma sono ugualmente dipinti colla tragica espressione di Raffaello e col vivace colorito di Tiziano. Quella maravigliosa opposizione di sentimenti che anima le più semplici favole, spicca soprattutto negli affetti di Zamoro e di Alzira. Quel contrasto di gioja e di dolore che passa nell’animo di Alzira al ritorno di Zamoro creduto morto, rende eccellente la scena quarta dell’atto III:
Alz.
O jours! o doux momens d’horreur empoisonnés!Cher & fatal objet de douleur & de joïe,Ah Zamore, en quel tems faut il que je te voie.Zam.
Tu gémis & me vois?
Le Cristiane espressioni piene di nobiltà e grandezza del moribondo Gusmano meriterebbero di essere quì trascritte, ma ci contenteremo di un sol frammento rapportandolo colla bellissima traduzione ancora inedita dell’ elegantissimo P. M. Giuseppe Maria Pagnini. Ravvisa, dice Gusmano a Zamoro
De’ Numi che adoriam la differenza;I tuoi han comandata a te la strageE la vendetta, il mio, poichè il tuo braccioVibrommi il colpo micidial, m’imponeCh’io ti compianga e ti perdoni.Alv.
Ah figlio,La tua virtude al tuo coraggio è pari.Alz.
Qual cangiamento, eterno Dio, qual nuovoSorprendente linguaggio!Zam.
E che, vorrestiForzar me stesso al pentimento?Gus.
Io voglioAnche di più: forzar ti vo’ ad amarmi.Alzira insino ad or non è vissutaChe sventurata per le mie fierezze,Pel maritaggio mio. La moribondaMia man fralle tue braccia or la ripone,Vivete senza odiarmi.
La Semiramide rappresentata nel 1748 non ismentisce la forza e la maestà dello stile di Voltaire, e le situazioni tragiche vi si veggono animate dalla pompa della decorazione. Tutta l’azione però è fondata sull’apparizione dell’ombra del re Nino intento a vendicarsi di Semiramide per mano di Ninia suo figliuolo che ignoto a se stesso vive sotto il nome di Arsace. Questa machina prediletta del teatro spagnuolo e dell’inglese, mi sembra nella tragedia francese meno artificiosa38 dell’ombra di Dario ne’ Persi di Eschilo. Il poeta greco la rende interessante per la Persia e per la Grecia; per la Persia coll’ insinuare per bene del pubblico sentimenti di pace al suo successore, e per la Grecia col mettere con bell’ arte le lodi de’ Greci in bocca dello stesso suo nemico. Ma l’ ombra di Nino non ha altro oggetto che la vendetta di un delitto occulto, utile oggetto veramente all’istruzione dello spettatore, ma inferiore a fronte dell’interesse politico della tragedia nazionale di Eschilo. Soffre poi l’ombra di Nino molte e rilevanti opposizioni. In prima un’ ombra che apparisce nel più chiaro giorno alla presenza de’ principi, de’ satrapi, de’ maghi e de’ guerrieri della nazione, riesce così poco credibile al nostro tempo, che lascia un gran vuoto nell’animo dello spettatore e non produce l’effetto tragico. II Manca di certa nota di terribile che simili apparizioni ricevono dalla solitudine e dalle tenebre che l’accreditano presso il volgo, e contribuiscono a far nascere o ad aumentare i rimorsi degli scellerati. III Essa distrugge le speranze de’ penitenti, vale a dire di quasi tutti gli uomini; perchè una vendetta atroce che si avvera dopo tanti pentimenti, scoraggia senza riscatto tutti coloro che hanno perduta l’innocenza; e nell’Olimpia dice acconciamente l’istesso Voltarre,
Hélas! tous les humains ont besoin de clemence . . .Dieu fit du repentir la vertu des mortels.
IV Che atrocità! Gli dei che vogliono vendicare la morte di Nino, ne ordinano l’espiazione con un parricidio? Il Gran Sacerdote enunciato come santo, intero, virtuoso, anima Ninia a passare il seno di una Madre? Si dice, è vero,
Au sacrificateur on cache la victime,
ma intanto Ninia sa che la Madre è la rea, Nino l’accusa e vuol vendetta, ed invita il figlio alla sua tomba; or questi dee sapere qual sarà la vittima. Ma se Ninia può ignorarlo, non l’ignora il Gran Sacerdote, ed approva il parricidio come un’ azione lodevole e dal cielo desiderata, e dice dopo il fatto
Le ciel est Jatisfait; la vengeance est comblée.
Che empio Sacerdote! Qual è maggiore scelleraggine, fare avvelenare un marito, o condurre un figlio a trucidare sua Madre? Si dirà che si vuole impedire un incesto; ma Semiramide non conosce Arsace per suo figlio, ed Arsace è virtuoso ed innamorato di un’ altra; or non bastava di far loro sapere l’arcano? Il poeta si è perduto nel suo piano, e dà la più atroce idea della divinità. V Tutte le situazioni tragiche non hanno un solido fondamento. Qual sicurezza ha Ninia del delitto della Madre? La lettera di Nino moribondo a Fradate, non dice altro se non che io muojo avvelenato, e soggiugne ma criminelle epouse senza addurne indizio nè pruova. Lascio poi che manca nelle circostanze dell’azione cert’arte che l’accrediti. Meglio combinata col mausoleo si vorrebbe nella scena sesta dell’atto terzo la sala dell’assemblea nazionale. Soprattutto dovrebbe mostrarsi evidente la necessità che obbliga Semiramide ad entrare nel mausoleo. Non ha ella altri mezzi più certi e più efficaci per liberare il figlio e punire Assur? L’evento tragico che ne segue, per non essere ben fondato, non persuade e non produce tutto l’ effetto. Lo sforzo dell’ingegno consiste nel ben concatenare i pensieri co’ fatti in guisa che gli eventi sembrino fatali, e facciano pensare allo spettatore, che posto egli in quella situazione si appiglierebbe all’ istesso partito e soggiacerebbe a quel medesimo infortunio. Ultimamente Assur dice a Ninia al comparire Semiramide spirante,
Regarde ce tombeau, contemple ton ouvrage;
ma come ha egli saputo ciò che si è passato dentro del mausoleo? come sa egli che la reina muore per mano di Ninia?
Voltaire che avea ricavate le precedenti favole dal Dolce, dal Shakespear, dal Conti, dal Maffei, pensò all’argomento della Semiramide o per la celebre tragedia del Manfredi, o almeno per l’ Astrato di Quinault e per la Semiramide del Metastasio e del Crebillon ch’egli in una epistola a mad. di Pompadur chiamò suo maestro. Quest’ultimo scrittore col Triumvirato, coll’ Elettra, coll’ Atreo apprestò ancora la materia alla di lui Roma salvata, recitata nel 1752, all’Oreste, a’ Pelopidi. Trasse anche Voltaire gli Sciti dall’Arminio indi intitolato i Figli de’ Cheruschi. Venne da una novella spagnuola la sua Zulima, i cui due ultimi atti deludono le speranze che fanno nascere i precedenti. L’Orfano della China rappresentata nel 1755 non è la stessa azione dell’Eroe Cinese del Metastasio, ma a quest’opera si rassomiglia per l’ eroico carattere di Zamti. L’Olimpia in cui trovansi scene interessanti, venne dalla Cassandra di M. La Calprenede.
Scrisse anche l’autore dell’Erriade i Guebri, Erifile il cui piano gli costò moltissimo senza recargli moltissimo applauso, le Leggi di Minos ove campeggiano le sue vedute filosofiche senza interessare abbastanza sulla scena, Ericia ossia la Vestale, Artemira disapprovata dal medesimo autore, Adelaide ed il Duca di Foix tragedie mediocri di fatti nazionali, e Tancredi, intrigo condotto con poco verisimili reticenze, ed in cui una parola di più scioglierebbe gli equivoci e torrebbe Tancredi di angustia. Poteva essere una cautela, benchè inutile, il tacere che fa Amenaide il nome di Tancredi nel biglietto che la rende colpevole; ma la dichiarazione interrotta dallo svenimento, indi dal ringraziamento che Tancredi non vuole ascoltare, lascia il lettore poco soddisfatto. Argiro troppo poco si sforza di sapere con distinzione l’apparente delitto della figlia; ella mal si difende; i Giudici non mostrano la convizione del delitto. Sono però squarci vigorosi i seguenti. La parlata di Orbassan nella prima scena pieno di nobile indignazione per vedere la Sicilia in preda all’ avarizia, alla ferocia e alla rapacità degli Arabi, de’ Greci, de’ Francesi e de’ Germani, ha certo che di grande:
Grecs, Arabes, Français, Germains, tout nous dévore:Et nos champs malheureux par leur fécondité,Appellent l’avarice & la rapacitéDes brigands du Midi, du Nord & de l’ Aurore.
Nobile e propria de’ tempi della cavalleria è pure il bell’ orgoglio di Amenaide nella scena quinta dell’atto IV, Lui me croire coupable! . . . . Il devoit me connoître &c. Ma sopra ogni altra cosa l’ultima scena è delicatamente toccata co’ più patetici colori nella morte dell’eroe.
L’ab. Sabatier des Castres nel libro de’ Tre Secoli decide che Alzira, Maometto, Merope e Zaira non sono comparabili con Cinna, con gli Orazj, con Poliuto e Rodoguna. Questa decisione magistrale punto non ci trattiene dall’affermare che tralle migliori del Cornelio e del Racine possono senza svantaggio comparire queste cinque Volteriane, Alzira, Maometto, Zaira, la Morte di Cesare, Bruto. Dopo di queste meritano il titolo di buone, Merope, Marianna, Roma salvata, Oreste, Edipo, l’Orfano Cinese, Semiramide, Tancredi, Olimpia. Tutte le altre costituiscono a’ nostri sguardi una terza classe di tragedie meno perfette e vigorose, sebbene vi si veggano varj tratti del suo pennello maestrevole. Noi non abbiamo dissimulati alcuni difetti delle migliori sue favole, affinchè la gioventù non creda di trarre da sì ricca miniera sempre oro puro; ma tralasciamo di spaziarci sulle altre più abbondanti di difetti che di bellezze. Il sagace osservatore manifesta con diletto le bellezze, lasciando alla critica comunale l’enumerazione de’ difetti. Anche i fanciulli sanno notare la mano con sei dita in una figura di Raffaele, ma il tragico del suo pennello, l’espressione inimitabile, la maestosa semplicità, la correzione del disegno, la verità del colorito, la vaghezza del chiaroscuro, non si sentono da chi non conosce l’arte. “Tutti coloro (diceva l’istesso Voltaire) che si vogliono far giudici degli autori, sogliono su di essi scriver volumi; io vorrei piuttosto due pagine sole che ce ne additassero le bellezze”.
Poche altre tragedie di questo secolo sono da riporsi tralle bene accolte in teatro, e pochissime tralle applaudite con giustizia. Voltaire sostenne l’ onore di Melpomene sulla Senna, a dispetto del cicaleccio de’ famelici inpudenti gazettieri pronti a sparger menzogne e tratti maligni sulle opere acclamate di coloro che non sono nel numero de’ loro benefattori. Una folla di bastardi Volteriani scimieschi apportarono su quelle scene la decadenza, ed il gusto inglese ne accelerò la ruina, coprendole di mostruosità, di orrori, di ombre, di sepolcri e di claustrali disperati, che in vece di toccare il cuore spaventano e fanno inorridire.
La Grange-Chancel nato nel 1678 e morto nel 1758 molte tragedie scrisse in istile trascurato e debole con viluppo romanzesco, ma non si sostenne che l’ Amasi che è l’argomento della Merope. Guymond de la Touche nato nel 1729 e morto nel 1760 compose una Ifigenia in Tauride che rimase al teatro a cagione di alcune situazioni interessanti; ma che perde di credito nella lettura per lo stile duro e scorretto. Il maestro della Poetica Francese M. de Marmontel più volte si provò a calzare il coturno. Nel Dionigi sua prima tragedia, secondo l’espressione di M. Palissot, non tutti ravvisarono in lui la mancanza di gusto, e que’ difetti che gli furono poscia rimproverati, e singolarmente la versificazione dura e ampollosa, le massime sparse a piena mano e senza scelta, le frequenti declamazioni sostituite alla passione. Nel suo Aristomene comparvero tali difetti più manifestamente; Cleopatra si tenne per inferiore alle precedenti, e gli Eraclidi molto più. Così quest’enciclopedista, al contrario di ogni altro scrittore, perdeva coll’ esercizio; e forse disingannato al fine abbandonò un genere a’ suoi talenti inaccessibile. Le Miére Parigino, il quale, secondo Palissot, è a Marmontel quel che Campistron è a Racine, ha prodotto Idomeneo, Tereo, la Vedova del Malabar, Guglielmo Tell, Artaserse, Ipermestra e Barnevel tragedie non meno dure e secche di quello che fu la Pucelle di Chapelain39. M. Saurin cominciò la carriera tragica coll’ Amenofi e con Bianca e Guiscardo, le quali rimasero presto dimenticate, essendo scritte in istile duro, inesatto, prosaico. Nel suo Spartaco verseggiato nella stessa guisa si osserva qualche tratto robusto, benchè vi si trovino tutti i personaggi a Spartaco sacrificati. M. de la Harpe produsse alla prima la tragedia di Warvick che a’ suoi fautori dava grandi speranze; ma l’ istesso Palissot, che all’apparenza mostra esserne uno, conviene che il rimanente delle sue produzioni drammatiche non corrispose a’ voti degli amici. Pharamond, Timoleon, Gustave e Melanie religiosa disperata videro appena la luce e sparvero. Non furono più felici nè Coriolano in cui anche si notano gli accidenti accumulati in un giorno senza verisimiglianza, nè il Filottete pubblicata nel 1786 imitata dalla tragedia di Sofocle quasi rivenendo dalle passate stranezze sulle orme de’ Greci che si vogliono usciti di moda. M. Colardeau morto da non molti anni, il quale a qualche dono naturale non accoppiò nè studio nè travaglio, scrisse due tragedie Astarbé e Calisto, delle quali durano ancora i nomi. M. Savigny ha composto la Morte di Socrate che è piuttosto un panegirico di questo Ateniese che una tragedia. Scrisse anche Irza superiore alle tragedie di Colardeau; ma se ne riprende la versificazione poco armonica, e l’ineguaglianza e la turgidezza dello stile. M. Ducis ha scritti in francese l’Hamlet, Giulietta e Romeo ed il Re Lear del Shakespear. Anche M. Le Tourneur ne ha trascritte alcune poco fedelmente. Alcuni altri si sono rivolti alla Grecia come la Harpe, e M. Rochefort ha fatta un’ Elettra diversa da quella del Crebillon e dall’Oreste del Voltaire, seguendo Sofocle. M. Dupuis ha tradotto il teatro di questo Greco, e M. Prevost quello di Euripide. Lasciamo di parlar punto nè poco di Nadal, le Blanc, Pavin ed altri obbliati dalla nazione stessa.
Qualche favola tragica meno negletta han no pubblicato mad. du Bocage, la Place, la Noue, Poinsinet de Sivry, Pompignan e Piron. Mad. du Bocage produsse le Amazoni che si trova colle di lei opere impresse in Parigi nel 1788. La Place ha tradotto molte favole inglesi, ed ha composto Jeanne d’Angleterre, e Adéle de Ponthieu. La sua Venezia salvata riuscì molto sulle scene e vi rimase. Il commediante La Noue morto nel 1761 scrisse il Maometto II che rimase al teatro, e Voltaire gl’indirizzò un madrigale in occasione del suo Maometto.
Poinsinet nato in Parigi nel 1735 scrittore erudito, che ha tradotti varj poeti Greci e specialmente Aristofane senza averne conservato il calore ed il sale, secondo che affermano i giornalisti di Buglione, diede al teatro la Briseida rappresentata con applauso, nella quale racchiuse il piano dell’Iliade e si valse di qualche ornamento Omerico. Pubblicò poi un Ajace reputata inferiore alla prima. Palissot ne commenda lo studio d’imitare la nobile semplicità del Racine. Il marchese Le Franc de Pompignan nato a Montalbano nel 1709 si esercitò in più di un genere, ed oltre alla traduzione del Prometeo di Eschilo, ha composto una Didone togliendone le situazioni da quella di Metastasio40, ed una Zoraide, che Voltaire pur mette in ridicolo; ma Palissot loda la versificazione di questo scrittore.
Rimane a parlare di un altro tragico Parigino de’ nostri giorni, cioè di M. de Belloy morto nel 1775. Benchè privo egli si dimostri di certe qualità che enunciano l’uomo di gusto e d’ingegno, come altresì di ogni conoscenza dell’eroismo e del patetico vero, di naturalezza ed eleganza di stile e di armonia di versificazione, con tutto ciò il di lui Assedio di Calais e Gabriela di Vergy ebbero una riuscita invidiabile sul teatro, e non se ne scorsero tutti i difetti se non alla lettura. Lo spettatore fu indulgentissimo verso questi argomenti domestici ne’ quali a tutto andare si piaggia la nazione. L’adulatore non manca mai di colpire coll’ adulato di buona fede. Ma perchè egli si arroga la gloria di essere stato il primo a recar sulla scena i fatti nazionali? e tutti i compatriotti perchè gliel’ accordarono? Di grazia che altro rappresentano i Cinesi da tanti secoli? Che rappresentarono i Greci se non gli evenimenti della loro storia? Che i Latini stessi nello Scipione di Ennio, nelle Ottavie di Mecenate e di Seneca? Che gl’ Italiani ne’ Piccinini, negli Ezzelini, negli Ugolini &c.? Che gl’ Inglesi e gli Spagnuoli in quasi tutte le loro favole? Tra’ medesimi Francesi fu egli forse il primo ad aprire questo sentiero? Voltaire non l’avea preceduto colla Zaira, col Tancredi, col Duca di Foix, con Adelaide di Guesclin? Questo prurito di primeggiare in un modo o in un altro, quanti non abbacina! Belloy talmente si appropriò questa gloria che nella prefazione al suo Gastone e Bajardo se ne pavoneggia fino all’estrema noja.
Ma che diremo di quest’altra tragedia parimente di argomento nazionale scritta in istile duro, stentato, e carico di puerilità? Che Belloy avea nelle prime esauriti i suoi tesori, e che non seppe idear quest’altra senza ripetersi? Sarebbe pure il minor male. Egli vi cade in assurdi manifesti, non vi guarda verisimiglianza, vi accumula alla rinfusa eventi pieni d’ incoerenza, tradisce la storia, oltraggia e calunnia le nazioni straniere, e disonora in certo modo la propria colle sue impudenti menzogne. Gli eroi stessi suoi paesani diventano sotto la di lui penna dispregevoli e piccioli. L’Orazio Coclite della Francia, il famoso Bajardo detto il Cavaliere senza paura e senza taccia, sì grande nella storia, nella tragedia apparisce vano, millantatore, meschino. Che relazione hanno poi colla congiura de’ Francesi gli amori non tragici di Gastone e di Bajardo e di Altamoro verso una Bresciana? Influiscono forse all’azione, o servono solo a renderla pesante e ad arrestarne la rapidezza? Chi può veder senza nausea un uffiziale come Bajardo mandare un biglietto di disfida al suo generale sul punto di darsi una battaglia, ed il generale accettarla preferendo un litigio privato alla causa del sovrano? Chi leggerà senza ridere la tagliacantonata del Bajardo del Belloy che vuole impaurire Gastone,
Si vous sçaviez le sort de mon premier rival!
o la graziosa antitesi di Gastone che abbraccia il rivale e sfodera la spada
Embrassez un ami . . . . combattez un rival?
Non si comporta eroicamente Bajardo umiliato chiamando con tanto fasto ed apparecchio i Francesi ad ammirarlo? Egli dice in prosa rimata:
Contemplez de Bajard l’abaissement auguste,Voyez comme il rempli le devoir noble & justeQue l’honneur véritable impose à la valeur,Et comment un Heros se punit d’une erreur.
Che meschinità! Bajardo chiama augusta la propria umiliazione? Bajardo dà a se stesso il titolo di eroe? Si vede che l’anima di Belloy era ben poco eroica, se prestava tali bassezze a’ personaggi che voleva dipingere come eroi. Non è meno inconsideratamente delineato il carattere del Duca di Urbino enunciato come virtuoso, ma che intanto sin dall’atto primo non ignora i tradimenti orditi da Altamoro e Avogaro, e pur gli dissimula, e poi nell’atto quinto, parlandogliene Bajardo, egli falsamente risponde aver lui sempre sdegnato di comprenderne i secreti. É virtù questa falsità? L’autore che aspirava alla gloria di tragico, avea ben false idee dell’eroismo e della virtù. Ma se egli travide nel dipingere gli eroi ed i virtuosi, non si mostrò più abile in far operare due bassi traditori determinati. Essi vogliono proditoriamente dar la morte a Gastone e a Bajardo; ma intanto uomini sì scellerati non sanno prevalersi delle occasioni trovandosi a quelli dappresso e senza testimonj. V’è giudizio in tale condotta? Essi attendono l’esito di una mina, di cui si parla sin dall’atto I, da scoppiare nel V. Infallibile, al lor credere, è la riuscita di questa mina; or perchè non attenderne l’evento sicuro? perchè disporre senza bisogno che uno di essi truciderà Bajardo e l’altro Gastone? Questa mina poi fu veramente una scelleratezza meditata da Avogadro? In niun conto. L’ho tolta (dice Belloy) da altre congiure. Perchè dunque mentisce dicendo di aver presi i fatti dalla storia nazionale? Dica piuttosto di prendergli dal fondo de’ suoi ghiribizzi e dallo spirito di menzogna che lo predomina. Un disertore Francese poi, che piove dal cielo nell’atto V, scopre la congiura; ed a chi s’indirizza? forse a’ generali Francesi? Non già, ma ad Eufemia figlia del principale congiurato. V’ha in ciò punto di senso comune? Che si dirà poi di quella specie di contradanza che fanno nell’atto IV Gastone, Avogaro ed Eufemia? É una situazione maneggiata con gravità tragica o almeno con intelligenza e pratica della scena41?
Noi abbiamo accennato queste poche cose senza curarci dal rimanente deriso dal nominato giornalista, il quale ne additò anche molte espressioni false, gigantesche e puerili. É piacevole p. e. questa di Bajardo ferito che vuol tornare alla pugna e dice a’ soldati, Mort je puis vous guider, morto ancora posso condurvi; e quest’altra, in cui scoppiata la mina si dice di Avogaro e del Disertore morti entrambi nel sotterraneo,
L’un & l’autre à la fois loin du palais en poudre,Ont vu leur corps épars emportés par la foudre.
Saprà il Belloy in qual maniera due uomini videro i loro corpi stessi sparsi e trasportati dal fulmine. Rapportiamci dunque sugli altri di lui difetti nè piccioli nè pochi come poeta a ciò che ne dissero i Francesi stessi, e diamo qualche sguardo a’ di lui maligni errori come storico. La sua favola è posta in mezzo a due baluardi istorici, cioè a una prefazione e ad alcune note nel fine. Nell’una e nelle altre egli pretende giustificare le nere calunnie da lui seminate contro del conte Luigi Avogadro di Brescia, del principe d’ Altamura Napoletano, del marchese di Pescara, del pontefice Giulio II e di tutta la nazione Italiana.
Il tragico storico (che non è nè storico nè tragico) denigra la fama dell’ Avogadro formandone un basso traditore e un mezzano della propria figliuola, e con documenti istorici che alla storia contraddicono, pretende avvalorare le sue maligne asserzioni. Avogadro secondo lui è un ribelle. Ma è ciò vero? Avogadro era Bresciano suddito de’ Veneziani, perchè Brescia sin dal 1426 si era data alla repubblica, per le oppressioni che soffriva sotto Filippo Visconti, a cui sempre ricorse invano42. Ne tennero i Veneziani il governo sino al 150943. Luigi XII pretensore del ducato di Milano muove a conquistarlo, riporta la vittoria di Ghiara d’Adda, e Brescia atterrita gli si rende. Vi entrano i Francesi allora incapaci di disciplina e di cattivarsi la benevolenza de’ popoli, abusano del potere, insolentiscono e diventano al solito, come dice il Muratori, gravosi anche agli amici per la loro arroganza e insolenza, massimamente verso le donne, e quasi tutti i cittadini che non potevano più soffrire, al dir del cardinal Bembo, desiderano tornare sotto il dominio della repubblica. Il conte Luigi viene particolarmente oltraggiato nella persona di un figliuolo dal figliuolo di Gambara natogli di una Francese, implora la giustizia de’ nuovi padroni della città, non è ascoltato. I mali pubblici e le private offese fanno che si rivolga alla repubblica e prometta di aprire alle di lei truppe la porta delle Pile. Rientrano i Veneziani in Brescia. Or non si può con fondamento ribattere la taccia di ribelle che gli s’imputa? Furono ribelli gli Spagnuoli che per sette secoli combatterono contro de’ Mori per iscuoterne il giogo? Ma sia pure l’ Avogadro un ribelle, cioè un suddito oppresso che non ha la virtù della tolleranza, e che disperando di ottener giustizia dal nuovo signore, si ricovera sotto la protezione dell’antico. È però la stessa cosa essere in questa forma ribelle, che scellerato, ruffiano della figliuola, traditore di Bajardo e Gastone, e vile, basso, assassino? Questo Avogadro dipinto sì neramente è figlio legittimo di Belloy, non della storia. Le scelleraggini, le infamie, gli assassinamenti, le frodi nacquero dal capo di questo tragico come Minerva da quello di Giove. Nè Avogadro fu un lâche che fuggì quando dovea morir combattendo. Non sono mai fuggiti i Francesi? Non fuggirono con Carlo VIII abbandonando precipitosamente un regno? Non fuggì il Cavaliere senza paura dopo la giornata des Eperons sorpreso dagl’ Inglesi, e poi non si rendè prigioniero? Non fuggirono i Francesi sopraffatti in Brescia e si raccolsero nel castello? Non sempre la ritirata è viltà, lâcheté, mancanza di valore; ed Avogadro diede del suo coraggio non dubbie pruove entrando a viva forza intrepidamente per la porta mentovata. Or è giusto calunniare sul teatro? E’ questo il bell’ esempio da proporsi a’ nazionali per tirar tragedie dalla storia patria?
Non fu Avogadro un traditore, un infame, un assassino, ma semplicemente un nemico de’ Francesi da’ quali tentò liberar la patria oppressa. Adunque la crudeltà che usò con lui Gaston de Foix, sembra inescusabile. Belloy calunniandolo attribuisce ad un immaginario suo tradimento la morte che gli fu data se non per natural crudeltà, almeno per ragion di stato. “Tutto l’esercito (dicesi dell’ esecuzione dell’Avogadro in una Lettera istorica su di Gastone44) chiedeva ad alta voce il supplicio di lui e del figliuolo . . . Invano per fuggir l’ignominiosa morte essi rappresentavano di esser nati sudditi de’ Veneziani . . . Si ascoltò la politica e non la giustizia.” Soprattutto (si aggiugne) veniva compianto il figliuolo, la cui giovanezza, le virtù, il valore ammirato dallo stesso Gastone meritavano sorte migliore. Egli punto non era reo, avendo soltanto seguito la natura e il suo dovere”. Si descrive in seguito con tratti compassionevoli la gara del padre e del figliuolo per morir prima, ed il dolore del popolo intenerito. “A questo spettacolo (dicesi in fine) il duca di Nemours che sentiva commuoversi e credeva necessario il rigore, fe un segno e le due teste caddero a’ piedi suoi. Fu ciò un’ ombra che si mischiò al lustro del trionfo; ma i Francesi non videro che il trionfo”. Se Belloy per natura e per istudio fosse stato disposto alla tragedia, non avrebbe cercato di approfittarsi di questo tratto istorico proprio del coturno narrato da un suo nazionale? Ma Belloy intento a calunniare la nazione Italiana si sdegna contro l’autore delle Vite degli uomini illustri, perchè volle rendere interessanti il traditore Avogadro e suo figlio. Egli poi si accinge a discutere il fatto con esattezza, e l’esattezza consiste in osservare che ciò non si dica dallo storico della vita di Bajardo, dando tutto il peso di una pruova istorica ad un’ argomento negativo. Osserva in seguito che Du-Bos varia dal primo racconto in qualche circostanza dicendo che i due figli di Avogadro furono giustiziati alcuni giorni dopo; ed anche di ciò vuol dubitare il Belloy per questa gran ragione che non sa d’ où il emprunte ce recit. Ma se egli dubitava di quanto ignorava, di che non dovè egli dubitar vivendo! Du-Bos che ignorava molto meno di lui della storia, narrò ciò che si trova dagli storici riferito45.
Volle poi il Belloy dare un complice all’Avogadro, e donde il prese? La storia gli avrebbe suggerito qualche Bresciano, se l’avesse saputa46; ma egli lo scelse tra’ Napolitani. A quale oggetto? Per non lasciare veruna specie di calunnia intentata. E da qual classe di Napolitani il tolse? Dalla più ragguardevole. L’assassino, l’infame, il poltrone Altemoro della tragedia si dice essere il principe d’Altamura Napoletano. Questo personaggio, dice il tragico meschino e lo storico impostore, est de mon invention pour ce qui concerne le rang & les titres. È pur questo un bel modo di comporre tragedie nazionali, valersi di un nome illustre per denigrarlo e per vestirne un figlio infame del capo di Belloy! E che direbbero i suoi compatriotti se si mettesse sulla scena un ladrone infame col nome di qualche principe del real sangue di Francia?47
È in oltre precetto di poetica nelle tragedie nazionali il dir grosse villanie all’imperador Massimiliano, a Ferdinando il Cattolico, al marchese di Pescara? E qual parte ebbe questo Scipione della storia moderna nelle furbesche trame uscite dal capo di Belloy? Di qual diritto poi questo picciolo scarabocchiatore di carta osò nel suo garbuglio tragico trattare il pontefice Giulio II colla maggiore indegnità, come mostro, come carnefice? Essendo amico della Francia avea quel pontefice desiderato che il famoso Bajardo accettasse, come era costume a que’ tempi, il comando delle sue truppe. Sia questo un fatto tres-vrai, come dice il Belloy. Ma ciò è una cosa stessa col dipingere Giulio come subornatore di Bajardo esortandolo a tradire il suo re mentre egli era in arme contro la Francia? E ciò appunto gl’ imputa Belloy, facendo dire dal Duca di Urbino al Bajardo
on peut sans effroi,Pour servir Rome & Jule, abbandonner son Roi.
Qual fu poi in sostanza per rapporto a’ Francesi la reità di quel papa in quella guerra? Il proteggere la libertà Italiana. Temè in prima che le potesse nuocere la potenza e l’ambizione de’ Veneziani, e formò contro di loro la formidabil lega; vide poscia quanto più pericolosi nemici di tal libertà fossero i Francesi, e si distaccò da loro. Come principe e come politico chi può rimproverargli l’amore del suo paese?
Ultimamente nella prefazione il Belloy imputa agl’ Italiani generalmente “un raffinamento di perfidia e di crudeltà, che ci fa credere (aggiugne) oggi ancora che la vendetta sia più ingegnosa e più implacabile in Italia che altrove”. Qual impudenza! E chi più del Belloy ingegnoso in immaginar vendette atroci? E non è egli l’autore di Gabriela di Vergy? Non è Francese il suo Fajele ed il più implacabile, il più vendicativo, il più inumano, che vince i Selvaggi e i Cannibali più accaniti e dà a mangiar per vendetta i cuori umani? E chi ha imbrattate le moderne scene francesi di maggiori atrocità? La candeur Française (prosiegue) était toujours trompée, & dédegnait souvent de punir. Il ciel conservi a’ suoi compatriotti codesto candore e la natural generosità; ma la stomachevole vanità di Belloy ci obbliga a dire che i Francesi di que’ tempi non diedero molte pruove di candidezza ed umanità ne’ luoghi dove fecero la guerra e dove dimorarono. Poco disdegnarono di punire nella presa di Brescia48. Poco candidamente si condussero i Francesi nell’isola di Sicilia, e diedero motivo a quel famoso Vespro conseguenza di una lunga tolleranza. Poco umanamente trattarono cogli abitanti di Castellaneto, spogliandoli e tentando le loro donne; e quando quel popolo si diede agli Spagnuoli ed imprigionò que’ Francesi, qual fu l’implacabile vendetta Italiana? Gli tolsero le armi e gli diedero agli Spagnuoli a condizione che gli rimandassero al campo Francese. Ma lasciamo le istorie, le note e le prefazioni del Belloy, e conchiudiamo che delle sue tragedie l’ Assedio di Calais, Gastone e Bajardo, Zemira, Don Pietro il crudele e Gabriela di Vergy già più non rimangono che i nomi, mancando loro la nota del genio, l’armonia della versificazione, la correzione del linguaggio e la forza, la bellezza ed ogni altra dote dello stile.