CAPO II.
Tragedie di Pietro Cornelio, di Racine e di
altri del XVII secolo.
Pietro Cornelio nato in Roano nel 1606, il quale sin dal 1625 colla sua Melite cominciò a prendere superiorità su i contemporanei, e le cui prime sette commedie, benchè sì difettose, promettevano un ingegno non volgare che giva formandosi, prese in prima a purgar la scena nazionale dalle indecenze, indi ad ammettere la contrastata regolarità, e a cercar la nobiltà nello stile co’ precetti e col proprio esempio. Il primo saggio che fe delle sue forze nel tragico aringo, fu la Medea. Egli amava con predilezione Lucano e Seneca, e nelle di loro opere attinse non meno l’amor del sublime che l’impeto e la foga che il trasportava al pari de’ suoi modelli nell’enfatico e nell’ ampolloso. Il sublime Moi di tal tragedia tirò verso Cornelio gli sguardi della Francia, ed oscurò i drammi tutti de’ contemporanei.
Appresso ad impulso di certo M. Chalons segretario della regina Maria de’ Medici ritirato a Roano, diessi a leggere le commedie spagnuole, e colpito dall’argomento del Cid di Guglielmo di Castro uno de’ mediocri drammatici della Spagna, ne formò una tragedia. Non fu questa la prima nè di Cornelio, perchè la Medea l’avea preceduta, nè del moderno teatro, come afferma l’ab. Andres3, perchè la Sofonisba fu la prima in Francia nel XVII, come in Italia era stata nel XVI secolo. Ben fu però la tragedia del Cid la più fortunata, e quella onde l’autore divenne lo scopo dell’ammirazione e dell’invidia. Tutta l’azione appartiene alla commedia spagnuola, onde principalmente fu tolta la scena nella quale nel tempo stesso implorano dal sovrano Chimene giustizia, ed il padre di Rodrigo pietà; quella di Rodrigo e Chimene, quando parlando questa con Elvira, l’amante ascolta in disparte nascosto; quella del contrasto del dovere di figlia colla passione amorosa in Chimene, e della vendetta dell’ingiuria paterna coll’ amore per Chimene in Rodrigo. Egli è vero che Cornelio trasportando il fatto a Siviglia commise un anacronismo, trovandosi Siviglia al tempo del Cid in potere de’ Mori e non de’ Cristiani (che è il grande errore che esultando insolentemente al solito vi notò il fu Garcia de la Huerta); vero è parimente che Scudery e l’Accademia Francese la censurarono per varj difetti con fondamento, anche per aderire al cardinal de Richelieu che volea deprimerla non avendo potuto farla passar per sua; ma il Cid è uno di que’ felici frutti del genio che s’invidiano e si criticano più facilmente che non s’imitano.
La parte che il lodato cardinale ebbe a qualche componimento scenico, alcuni piani che ne distribuiva a Desmaret, Boisrobert, Colletet ed altri, i soccorsi che ne tiravano tanti letterati, la guerra ch’egli faceva al Cid, ed i beneficj che in compenso versava sull’autore, tutto ciò, dico, contribuì a fomentare e a raffinar il gusto in Francia. Cornelio perseguitato e premiato per le critiche e per le largizioni diede opera con ogni sforzo ad elevarsi sempre più su i drammatici di quel tempo. Egli impose silenzio agl’ invidiosi e a i pedanti con gli Orazj, col Cinna e col Poliuto.
Nel trattare il fatto degli Orazj egli prese migliore scorta, o che ne dovesse a dirittura all’Orazia dell’ Aretino l’argomento, o che lo togliesse dall’imitazione di questa tragedia italiana fattane venticinque anni dopo da Pietro de Laudun Degaliers. L’ artificiosa traccia dell’azione, la vivacità de’ caratteri, la forza delle passioni episodiche, rendono la tragedia degli Orazj di gran lunga superiore al Cid, e vincono anche per questi pregi la lodata Orazia dell’Aretino. Così avesse Cornelio seguito questo modello italiano nel più importante punto, cioè nell’ interessar l’uditorio a favore del vincitore Orazio. Ma egli attese a render più degne di compassione Sabina e Camilla; per la qual cosa, secondo il Calepio, i primi tre atti riescono passionatissimi, e gli ultimi freddi ed inutili. Si vorrebbe ancora ravvisare in que’ primi Romani che dipinge rassomiglianza minore co’ moderni cortigiani Francesi. Non per tanto l’ elevatezza dell’anima del poeta si scorge in diversi tratti. In quel fiero e nobile qu’ il mourut del vecchio Orazio sfolgoreggia il sublime di tutto il suo lume.
E chi oggi ignora i rari pregi del Cinna? Qual ampio campo aprì Cornelio al moderno coturno col grande oggetto politico dell’abdicazione dell’imperio nella scena in cui Augusto chiede su di ciò il parere di que’ medesimi cortigiani che stanno congiurando contro di lui! Nella seduzione di Emilia, nella congiura di Cinna e nel perdono di Augusto, qual saggio ingegnoso misto di grandi passioni private congiunte alla pubblica sorte, in che è posto il carattere della vera tragedia! La nobiltà ed il patetico che respirano le parole di Augusto nell’ abboccamento con Cinna, formeranno sempre l’elogio del gran Cornelio:
Tu t’en souviens, Cinna, tant d’heur, & tant de gloireNe peuvent pas si tôt sortir de ta memoire.Mais ce qu’on ne pourroit jamais s’imaginer,Cinna, tu t’en souviens, & veux m’assassiner! (Not. I)
Egli è vero che nè tragico timore nè compassione desta il pericolo di un traditore senza scusa qual è Cinna, che al proprio dovere verso un sovrano e un benefattore contrappone la semplice compiacenza per una donna. Nondimeno questo vero effetto della tragedia che in tal favola in niun conto si produce, vien compensato dal nobil perdono di Augusto quanto meno atteso tanto più accetto. Si sono renduti assai memorabili pel pubblico plauso e per le lagrime del gran Condè i versi dell’ultima scena (Nota II):
Je suis maître de moi comme de l’univers,Je le suis, je veux l’être. O siècles, o memoires,Conservez à jamais ma derniere victoire . . .Soyons amis, Cinna, c’est moi qui t’en convie.
Benchè le rappresentanze de’ martiri Cristiani sieno poco atte ad eccitar la tragica compassione, per esser la loro morte un vero trionfo che non ci lascia luogo a dolere, pure il Poliuto col nobile carattere del protagonista e coll’ amore che ha quest’eroe per la sposa Paolina, ch’egli fa servire a i doveri della religione abbracciata, è una tragedia che chiama l’attenzione. Vago in essa è pur anco il colorito degli affetti episodici della virtuosa e sensibile Paolina e dell’appassionato e nobile Severo.
Pregiavasi Cornelio d’aver nel suo Pompeo procurato di far sentire ne’ pensieri e nelle frasi il genio del suo Lucano, e quindi di essersi sollevato più che nelle altre sue favole. Ma gli ornamenti e le figure epiche e liriche, come niuno più ignora, riescono troppo impertinenti nella poesia tragica. I critici giudiziosi riprendono nel Pompeo molte espressioni nella descrizione degli effetti della strage di Farsaglia, e varj concetti affettati del racconto di Acoreo dell’ammazzamento di Pompeo e del presente fatto a Cesare della di lui testa. Pur vi si scorgono alcuni tratti sublimi che non debbono nascondersi alla gioventù. Tale a me sembra l’immagine contenuta in queste parole:
Il s’avance au trèpasAvec le même front qu’ il donnoit des états.
Patetica e nobile è pur l’apostrofe di Cesare alla vista dell’urna delle ceneri di Pompeo:
Restes d’un demidieu, dont à peine je puisEgaler le gran nom, tout vainqueur que je suis.
L’altre tragedie reputate degne del gran Cornelio sono il Nicomede, il Sertorio, la Rodoguna. Presentò nella prima la magnanimità nel punto più vistoso. Nel Sertorio si prefisse di mostrare un modello di politica e di perizia militare, e vi si nota più di un tratto nobile, come questo,
Rome n’est plus dans Rome, elle est toute où je suis,
che forse ebbe presente Metastasio facendo dire a Catone
Son Roma i fidi miei, Roma son io.
Con predilezione amava Cornelio la Rodoguna come la migliore delle sue favole; ed i critici Francesi singolarmente ne pregiarono l’atto quinto. Ma l’eccessiva crudeltà di Cleopatra, che qual altra Medea trucida Seleuco suo figlio e perseguita gli altri, fa fremere lo spettatore ed irrita l’ indignazione.
Poca mercede usarono i Francesi e singolarmente il Voltaire alle altre di lui tragedie. Eraclio, Pertarite, Teodora, Edipo, Berenice, Otone, Sofonisba, Pulcheria, Agesilao, Sancio, Attila, il Vello d’ oro, tutte, mal grado di varie scene eccellenti che vi s’ incontrano, furono reputate mediocri, ed insieme colla Medea caddero nel rappresentarsi, nè i posteri ne ristabilirono il credito4. Cornelio che dopo aver cessato di scrivere pel teatro pur vi era stato indotto un’ altra volta, al fine da buon senno nel 1675 dopo la rappresentazione del Surena, che non fa scorno alla vigorosa vecchiezza di sì gran tragico, rinunziò alla poesia drammatica.
Questo padre e legislatore del teatro francese morto nel 1684 in Parigi merita di studiarsi da chi voglia coltivar la tragica poesia. “Non è così facile (disse di lui con verità M. Racine) trovare un poeta che abbia posseduti tanti talenti, l’arte, la forza, il discernimento, l’ingegno”. “Non sarà mai abbastanza ammirata (aggiugneva) la nobiltà, l’economia negli argomenti, la veemenza nelle passioni, la gravità ne’ sentimenti, la dignità e la prodigiosa varietà ne’ caratteri”. Dotato d’ingegno straordinario e soccorso dalla lettura degli antichi mostrò sulla scena la ragione accompagnata da tutta la pompa e da tutti gli ornamenti de’ quali è capace la lingua francese. In tutti gli oggetti egli spande la propria sensibilità: riscalda ed avviva la stessa politica, come fece specialmente nel Sertorio e nell’Attila: con un tratto di pennello imprime in chi legge o ascolta la più sublime idea. Palissot ebbe ragione di così dire: “Per mezzo degli stessi capi d’opera di Cornelio abbiamo noi imparato a conoscere l’ esagerata mediocrità degli ultimi suoi drammi; e pure i più deboli di essi potrebbero passar per eccellenti oggi che ci troviamo sì bisognosi”. Ingegno raro tutte in se raccolse le più rilevanti doti della poesia tragica, il tenero, il patetico, il terribile, il grande, il sublime. Elevandosi all’ eroismo più eccelso, eleva e tira seco gli animi tutti. Si è già detto ch’ egli è un’ aquila, che si solleva sopra le nubi mirando il sole senza prender cura de’ baleni che si accendono e de’ fulmini che strisciano per l’ atmosfera.
Ma perchè la gioventù non creda che tutto nel di lui stile sia oro puro, vuolsi avvertire ch’egli pur troppo pagò il tributo al mal gusto delle arguzie viziose che dominava sotto il regno di Luigi XIII e nel principio di quello di Luigi XIV. Troppo abbonda di dialoghi romanzeschi, di monologhi ristucchevoli, e di pensieri che oltrepassando i giusti limiti del sublime, cadono nella durezza di certa popolarità ricercata e strana. Per avviso dello stesso suo compatriotto Giambatista Rousseau egli invece di esprimere negli amanti il carattere dell’amore, ha in essi dipinto il proprio, trasformandoli per lo più in avvocati, in sofisti, in declamatori e qualche volta in teologi (Nota III). Ma Voltaire che poche volte si mostrò indulgente verso il gran Cornelio, colse nel segno affermando che “il di lui ingegno tutto ha creato in Francia, dove prima di lui niuno sapeva pensar con forza, ed esprimersi con nobiltà; appartenendo i suoi difetti al secolo in cui fiorì, e le bellezze unicamente al suo ingegno”.
Nel medesimo anno 1666 quando si rappresentò l’Agesilao di Cornelio, comparve sulle scene l’Alessandro di Giovanni Racine nobile e giovane poeta, da cui cominciò una specie di tragedia quasi novella. Nelle tragedie di Cornelio grandeggia la virtù, e l’eroismo vi si tratta con una sublimità che riscuote ammirazione, ma vi si accoppiano certi amori per lo più subalterni che riescono freddi e poco tragici. In quelle di Racine trionfa un amor tenero, semplice, vero, vivace, forse non sempre proprio per la grandezza del coturno, perchè non sempre principale e furioso, ma sempre idoneo a commuovere. Il felice pennello di Racine con grazia e diligenza al vivo e maestrevolmente ritrae la delicatezza delle anime sensibili. La gioventù, e specialmente le donne pieghevoli alla tenerezza, poco intendono, e poco prendono interesse, p. e., nelle vedute politiche d’un tiranno, nell’ambizione d’ un conquistatore, nel patriotismo eroico di un Romano o d’un Greco. Ma subito prestano l’attenzione a ciò che rassomiglia a quel che sentono in se stesse, e vanno agevolmente seguitando il poeta nelle commozioni che disviluppa, e ne favellano con vivacità e conoscimento. Qual giovanetta posta nelle circostanze di Ermione non vi farà le medesime richieste?
Mais as-tu bien, Cléone, observé son visage?Goûte-t-il des plaisirs tranquilles & parfaits?N’a-t-il point detourné ses yeux vers le palais?Dis-moi, ne t’es tu point presentée à sa vüe?L’ingrat a-t-il rougi lorsqu’il t’a reconnüe? &c.
Tutte le donne possono comprendere senza stento la dolorosa divisione di Tito e Berenice; parrà loro di trovarsi nel caso; al pari di quella tenera regina si sentiranno penetrate da quest’espressioni:
Je n’écoute plus rien, & pour jamais adieu . . .Pour jamais! . . . Ah Seigneur, songez-vous en vous mêmeCombien ce mot cruel est affreux quand on aime?
Siffatte analisi delicate della tenerezza, o se vuol dirsi alla francese, del sentimento, anche senza tanti pregi che adornano le di lui favole, avrebbero bastato a farle riuscire in Francia e nella corte di Luigi XIV che respirava per tutto amoreggiamenti anco in mezzo alle spedizioni militari. Ma Racine al tenero, al seducente accoppiò il merito di una versificazione mirabilmente fluida e armoniosa, correzione, leggiadria, e nobiltà di stile, ed un’ eloquenza sempre uguale, ch’è la divisa dell’ immortalità onde si distinguono i poeti grandi da’ volgari. ( Nota IV )
In quel secolo per la Francia fortunatissimo forse la poesia francese pervenne alla possibile venustà per le favole di Racine e per li componimenti di Boileau; ma il drammatico ebbe sopra il legislatore di quel Parnasso il vantaggio del raro dono della grazia, che la natura concede a’ suoi più cari allievi, agli Apelli, ai Raffaelli, ai Correggi, ai Pergolesi, ai Racini, ai Metastasii.
Tralle tragedie di Racine senza dubbio più giudiziosamente combinate, meglio graduate, e più perfette di quelle di P. Cornelio, per avviso de’ più scorti critici, trionfano l’Ifigenia rappresentata nel 1675, in cui con singolar diletto da chi non ignora il tragico tesoro greco si ammirano tante bellezze di Euripide, malgrado dell’ evenimento di Erifile che muore in vece di Ifigenia senza destar pietà, trovando lo spettatore disposto unicamente a compiangere la figliuola d’ Agamennone; l’Atalia uscita nel 1691, ove il poeta s’ innalza e grandeggia imitando alcuna volta il linguaggio de’ profeti; il Britannico rappresentato nel 1670, in cui si eccita il tragico terrore per le crudeltà di un mostro di tirannia nascente in Nerone, e di passaggio s’insegna a’ principi ad astenersi da certi esercizj disdicevoli alla maestà; e la Fedra comparsa sulle scene nel 1677, la quale per tanti pregi contenderebbe a tutte il primato senza il freddo inutile innamoramento d’Ippolito ed Aricia5. In fatti questa galanteria, per dirla alla francese, sconvenevole al carattere d’Ippolito, e fredda a fronte del tragico e disperato amor di Fedra, non si approvò nè da’ contemporanei nè da’ posteri; benchè il dotto e giudizioso M. Le Batteux quasi per gentilezza volle discolparne Racine con dire che lo stesso Euripide posto nelle medesime circostanze del tragico Francese, non l’avrebbe rifiutato. Certo è che anche Luigi Racine disapprovò quegli amori episodici, e disse del padre, che “dovea esser meno compiacente pel di lui secolo, e non introdurre un amor galante in un argomento in cui l’ amor tragico dee regnar solo”. E quest’unico difetto trovava nella Fedra Arnaldo d’Antilly, il quale confessò che senza tale galanteria la Fedra (che fece fuggire dal teatro Parigino il dilicato Huerta) nulla conteneva che non conducesse alla correzione de’ costumi.
Adunque (dirà taluno) bandiremo l’amore dalle tragedie? Io non so per qual gotica stranezza di gusto i critici pedanti rendono problematiche le verità più manifeste. L’amore è una delle più attive passioni umane, e può al pari di ogni altra contribuire ad eccitar la compassione e ’l terrore per correggere e dilettare. E chi può dubitarne? Muovasi un Polifonte per ambizione all’esterminio di qualche famiglia legittimamente sovrana, o apporti un Paride per la cieca sua passione per un’ Elena le fiamme nella sua patria, un ingegno grande saprà usar con arte di entrambe queste furiose passioni per destar le vere commozioni tragiche. Ma se quel Polifonte e quel Paride prendono il linguaggio de’ Celadoni, e si trasformano in pretti signorotti Francesi, diventeranno personaggi comici malinconici, e i loro amori si rigetteranno dal coturno. L’amore (è stato detto mille volte) perchè sia tragico vuol esser forte, impetuoso, disperato, dominante; e se è mediocre ed episodico, qual è quello d’ Ippolito, di Antioco, di Sifare e di Farace presso Racine, di Teseo, di Eraclio e di altri personaggi in Cornelio, della maggior parte de’ personaggi di Quinault, di Filottete in Voltaire, di Porzia e Marzia e Marco e Porzio e Sempronio e Giuba in Addisson, allora un amor simile è semplice galanterìa famigliare da bandirsi dalla vera tragedia. Ippolito innamorato d’Aricia nulla ha di tragico; ma Fedra innamorata d’ Ippolito figliuolo del di lei consorte, perturba ed atterrisce, e commovendo diletta ed ammaestra. Tragica è la situazione di Fedra:
Je sai mes perfidies,Oenone, & ne suis point de ces femmes hardies,Qui, goûtant dans le crime une tranquille paix,Ont sçu se faire un front qui ne rougi jamais?Je connois mes fureurs, je les rappelle toutes.Il me semble deja, que ces murs, que es voutesVont prendre la parole, & prets à m’ accuserAttendent mon epoux, pour le desabuser.Mourons . . .
E nell’atto IV:
Moi jalouse? & Thésée est celui que j’implore?Mon epoux est vivant, & moi je brûle encore?Pour qui? quel est le coeur où prétendent mes voeux?Chaque mot sur mon front fait dresser mes cheveux.
Funesti eziandio, disperati, tragici sono gli amori di Torrismondo e di Alvida nel Tasso; di Semiramide, di Nino e Dircea nel Manfredi; di Mustafà e Despina nel Bonarelli; di Bibli nella tragedia del Campi.
Al contrario sparisce ogni idea tragica allorchè Cesare presso Cornelio dice d’aver combattuto con Pompeo ne’ campi di Farsaglia per gli begli occhi di madama Cleopatra, espressione degna di un marchesino Francese. Freddo è pure il complimento di Eraclio agli occhi tutti divini di Eudossa, e la protesta ch’egli fa di aspirare al trono unicamente per la sete che ha di farne parte alla sua bella. Nel Sertorio si confonde l’idea del gran capitano e del gran politico, colla poco grave immagine di un vecchio visconte o colonnello Francese innamorato. La Sofonisba di Mairet, anco per testimonio di Saint Evremond, ci nasconde affatto la magnanima figliuola di Asdrubale, manifestando solo una coquette ordinaria. Tomiri che nella Morte di Ciro di Quinault va cercando sul teatro ses tablettes perdute, fu ben meritevole della derisione di Desprèaux. Non si domandi dunque se l’amore possa entrar nelle tragedie come ogni altra eccessiva passione; ma si bene, qual sia l’amore che le degradi, e che indebolisca quasi tutte le tragedie francesi.
Racine nelle sue belle favole non sempre si appressa alla perfezione, benchè sempre sia nobile, elegante, armonioso e saggio. Nulla più lontano dal carattere del vincitor di Dario e dalla tragica gravità quanto il di lui Alessandro che sembra uno degli eroi da romanzo. La Tebaide, per valermi delle parole di Pietro da Calepio, scopre anche la gioventù del poeta. Si vede nella Berenice tutto ad un tempo la delicatezza del suo pennello, e la natural pendenza del suo genio al molle e all’elegiaco. L’Oreste da lui dipinto nell’Andromaca, la cui rappresentanza costò la vita al commediante Montfleury, rimane inferiore alla dipintura fattane dagli antichi. Nel Mitridate la compassione è più per Monima che pel protagonista, il quale poco più del nome ritiene di quell’ irreconciliabil nemico de’ Romani, e si vale di un’ astuzia poco tragica per iscoprir gli affetti di Monima. Mai non si ripeterà abbastanza che la tragedia quando rappresenti un’ azione rinchiusa in una famiglia, benchè reale, senza mostrare un necessario incatenamento degli affetti de’ personaggi coll’ interesse dello stato, e quando singolarmente si aggiri su di amorosi interessi, simil tragedia, dico, rimarrà sempre nella classe delle favole malinconiche poco degne di Melpomene. Così Racine, tuttochè mirabile per tanti pregi, non ci obbliga a fare una piena eccezione alle tragedie francesi, che quasi tutte sono un tessuto d’interessi proprj del socco trattati con tetra gravità. Dupin non a torto conchiudeva così: “Le nostre tragedie le più gravi altro non sono che commedie sollevate”. Dacier fralle altre critiche fatte alle tragedie nazionali, diceva: “Noi abbiamo tragedie, la cui costituzione è sì comica, che, per farne una vera commedia, basterebbe cangiarne i tomi”. E Voltaire diceva ancora: “Non v’ha cosa più insipida, più volgare, più spiacevole del linguaggio amoroso che ha disonorato il teatro francese. Io già non parlo dell’amore energico, furioso, terribile che ben conviene alla vera tragedia; parlo . . . degli amori proprj dell’idilio e della commedia anzichè della tragedia”.
Circa lo stile di esse, senza derogare ai pregi inimitabili di P. Cornelio e di Racine e di altri del corrente secolo, vengono in generale tacciati i tragici francesi, e singolarmente il Cornelio, dal marchese Maffei, dal Muratori, dal Gravina, dal Calepio, di certo lambiccamento di pensieri, di concetti ricercati e tal volta falsi, di tropi profusi e ripetuti sino alla noja, di espressioni affettate, di figure sconvenevoli alla drammatica. A ciò che chiamasi poesia fra’ Greci ed Italiani, trovasi ne’ drammi francesi sostituito certo parlar poetico particolare. I vizj, le virtù ed anche gli attributi accidentali nelle loro favole (nota il Colepio) diventano le persone agenti. L’odio giura, vede, teme; il furore si lascia disarmare; la virtù trema; l’ira chiama; l’ amicizia e la gloria arrossiscono. I segni si usano per le cose, come i troni, le corone, gli scettri, gli allori, le catene. Non v’ha scena in cui non s’incontri tempesta per avversità, abisso per oppressione, fulmine per castigo, sacrificio per sofferenza ecc. Sono, è vero, tali figure ammesse ancora nella poesia de’ Greci e degl’ Italiani; ma da’ drammatici francesi usansi con tal frequenza e di rado variate colla mescolanza di altre formole poetiche non disdicevoli alla scena, che partoriscono noja e rincrescimento.
Simili maniere abbondano anco nelle tragedie del Racine, ma ecco in che egli si distingue da’ tragici volgari. In questi quel perpetuo tessuto di astratti che diventano persone, e la ripetizione de’ medesimi tropi forma l’unico fondo del loro stile; ma Racine le accompagna con altre maniere poetiche calcando da gran poeta le tracce degli antichi tragici che studiava e si proponeva per modelli e per censori6. Non è perciò maraviglia che avesse portato a così alto punto l’espressione, l’eleganza, l’armonia e la vaghezza dello stile ed il patetico. Talvolta gli si notarono alcune trasposizioni inusitate, e certe maniere non sempre limpide, di che giudichino i nazionali. Certo è però che specialmente nell’Alessandro e ne’ Fratelli nemici, si osservano molti concetti ricercati, il dolore espresso con troppo studio, varj contrapposti non proprj della scena, qualche sentimento freddo e qualche immagine superflua. Più rari sono questi difetti nelle altre sue favole, benchè alcuno se ne rinvenga ancora nel Mitridate, nell’ Andromaca e nell’Ifigenia. Nella Fedra più che la soverchia pompa del racconto di Teramene da ognuno osservata, ferisce il gusto e il buon senno il sentire con figure intempestive e con improprj e falsi pensieri, che il cielo guarda con orrore il mostro marino, la terra n’è scossa, l’aria infettata, e le onde che lo condussero alla riva, rinculano spaventate. Ma senza tali nei Racine che studiava sì felicemente il cuore dell’uomo e la poesia originale de’ Greci, Racine che possedeva il rarissimo dono dello stile e della grazia, che avrebbe mai lasciato alla gloria della posterità?
In simil guisa declinando il passato secolo pose in Francia il suo seggio una specie di tragedia inferiore alla greca per energica semplicità, per naturalezza e per apparato, ma certamente da essa diversa per disegno e per ordigni, forse più nobile per li costumi, e fondata su di un principio novello. I Greci che nella poesia ravvisarono l’amore per l’aspetto del piacer de’ sensi, non l’ammisero nella tragedia come non convenevole. I moderni sulla scorta del Petrarca attinsero nella filosofia Platonica una più nobile idea dell’amore, e ne arricchirono la poesia, e quindi così purificato passò alle scene. Il gran tragico francese P. Cornelio non mai se ne valse come oggetto principale; e fu Racine il primo a introdurlo nella tragedia con decenza e delicatezza; e quindi dee dirsi che da lui cominciasse la scena tragica ad avere un carattere tutto suo. Adunque la tragedia greca e la francese in un medesimo genere di poesia presentano due spezie sì differenti, che giudicar dell’una col rapportarla all’altra è veder le cose abbagliate, e quali d’alto mare veggonsi le terre che pajono un groppo di azzurre nuvolette7.
Mentre i due lodati gran tragici fondavano la tragedia nel lor paese ora seguendo i Greci, gl’ Italiani e gli Spagnuoli, or discostandosene, fuvvi ancora qualche altro scrittore che vi si occupò con applauso. Nell’inverno in cui si rappresentò il Cid, comparve la Marianna di Tristano, nella quale declamò con tal vigore il commediante Mondori che vi perdè la vita. Voltaire la rammenta con disprezzo mal grado di essersi continuata a rappresentare per più di cento anni. Ludovico Dolce, come accennammo, servì d’esempio a’ Francesi ed agli Spagnuoli nel portar sulla scena questo argomento.
Tommaso Cornelio fratello di Pietro minore d’intorno a venticinque anni, compose ancora varie tragedie fortunate. La sua Arianna si rappresentò nel 1672 nel tempo stesso che si recitava il Bajazzette di Racine tragedia di gran lunga superiore alla favola del giovane Cornelio; ma questa fu sommamente applaudita, e si è ripetuta sino a’ nostri tempi, tuttochè soggiaccia al difetto generale di aggirarsi sugl’ intrighi amorosi proprj di una commedia. L’autore spese in comporla quaranta giorni; ma il tempo si consuma nel maneggio della lima sullo stile, ed è quello che manca all’Arianna. Trasse T. Cornelio il suo Conte d’Essex dalla commedia spagnuola del Coello Dar la vida por su Dama; ma rendendola più regolare ne peggiorò il carattere dell’Essex. Il di lui Timocrate (componimento cattivo, carico d’accidenti romanzeschi e poco verisimili, e mal verseggiato) fu dal pubblico tante volte richiesto e tante si ripetè, che i commedianti infastiditi dopo ottanta recite chiesero in grazia di rappresentare altri drammi. Tommaso con più debolezza di stile e con minore ingegno del fratello merita ancor la stima de’ nazionali per essere stato più del fratello gastigato nell’uso delle arguzie viziose, per la scelta degli argomenti, per la vasta letteratura ond’era ornato, e per la purezza con cui parlava la propria lingua. Sotto di Pietro (pronunziò Voltaire) Tommaso al suo tempo era il solo degno di essere il primo, eccettuandone Racine cui niuno de’ contemporanei fu comparabile.
Cirano di Bergerac nato nel Perigord nel 1620 e morto nel 1655 fece una tragedia della morte di Agrippina, e nel personaggio di Sejano diede il primo esempio delle massime ardite usate poscia da’ moderni tragici della Francia con tal frequenza ed intemperanza, che, al dir di M. Palissot, ne sono essi divenuti ridicoli; or che diremo di certi ultimi Italiani che hanno portato al colmo questo difetto?
Filippo Quinault nato in Parigi nel 1634 e morto nel 1688, oltre alle opere musicali e alle commedie, delle quali parleremo appresso, compose otto tragicommedie e quattro tragedie. Tralle prime riscosse particolari applausi Agrippa re d’Alba, ovvero il Falso Tiberino, rappresentata nel 1660 per due mesi continui e rimasta su quelle scene. Piacquero anche Amalasunta e le altre, ad eccezione del Fantôme amoureux tolta dalla commedia spagnuola El Galàn Fantasma, la quale cangiando linguaggio non migliorò di vivacità ne’ colpi di teatro8. Le tragedie sono: la Morte di Ciro uscita nel 1656, in cui si veggono stranamente avviliti i caratteri del gran Ciro, degli Sciti e della loro regina Tomiri, oltre a’ difetti d’arte e di verisimiglianza nelle situazioni e ne’ consigli; Astrato re di Tiro rappresentata per tre mesi nel 1663 e rimasta al teatro malgrado de’ motteggi di Boileau; Bellerofonte tragedia fischiata nel 1665 senza esser peggiore delle altre; e Pausania uscita nel 1666 che ebbe miglior fortuna. Invano si rileverebbe l’effemminatezza dello stile, la mancanza di verità nelle situazioni, l’inverisimiglianza de’ colpi, l’ineguaglianza de’ caratteri, ed altri difetti di queste favole che si ascoltarono per qualche anno e sparvero senza ritorno. Quinault non fu letterato9, non sapeva la storia, non avea studiato il genio e i costumi delle nazioni; non ebbe altra scorta che il proprio ingegno e l’immaginazione. Faceva versi ben torniti, ma non mostrò di esser nato per la poesia tragica. Nelle sue tragedie, come osservò Saint Evremond, si cerca sovente il dolore, e vi si trova solo certa tenerezza per lo più intempestiva che degenera in mollezza. Fu segno a’ morsi satirici di Boileau amico di Racine e degli antichi, e fu lodato da Perrault emulo di Boileau e adulatore de’ moderni. Anche Pradon cattivo scrittore di varie tragedie spesso rappresentate con affluenza di spettatori, prese contro il medesimo satirico Francese la difesa di Quinault.
Duchè ajutante di camera di Luigi XIV ebbe l’onore di comporre alcune tragedie sacre pel teatro della sala di mad. di Maintenon, le quali si recitarono dalla duchessa di Borgogna e dal duca d’Orleans col famoso commediante Baron che le dirigeva. Egli si valse di argomenti tratti dal Testamento Vecchio. Il suo Gionata e l’Assalonne non hanno veruna digressione amorosa che le deturpi, in ciò preferendo con senno l’esempio della sola Atalia di Racine a tutto il teatro tragico francese. Non pertanto Achinoa moglie di Saulle colle due sue figliuole introdotte nel Gionata, e Maaca e Tamar nell’Assalonne, sono persone oziose, inutili a quelle azioni. Viene egli ripreso eziandio per aver nell’Assalonne alterata la storia sacra, facendolo penitente per renderlo atto a muovere la compassione. Ma si loda con ragione l’ elezione ch’egli seppe fare de’ principali personaggi proprj ad eccitar la pietà tragica. Anche l’ab. Gênet compose alcune altre tragedie rappresentate dalla duchessa du Maine colle sue dame.
Si composero parimente varie sacre tragedie latine. Le più note sono quelle del celebre Dionigi Petavio, di cui s’impresse in Parigi nel 1620 il Sisara, e quattro anni dopo l’Usthazane, ovvero i Martiri Persiani con altre. Nel medesimo anno 1620 uscirono alla luce la Solima e la Santa Felicita di Niccolò Causin. Si pubblicarono nel 1695 anche in Parigi le quattro tragedie di Francesco Le Jay, cioè il Giuseppe riconoscente i fratelli, il Giuseppe venduto, il Giuseppe Prefetto in Egitto, il Daniele.