(1789) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome IV « LIBRO VI. Storia drammatica del XVII secolo. — CAPO IV. Teatro Spagnuolo. » pp. 196-285
/ 1560
(1789) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome IV « LIBRO VI. Storia drammatica del XVII secolo. — CAPO IV. Teatro Spagnuolo. » pp. 196-285

CAPO IV.
Teatro Spagnuolo.

Che influiscano potentemente sull’eloquenza i modelli che prendonsi ad imitare, oltre all’avvertimento di Orazio che inculcava lo studio ostinato de’ Greci esemplari, vien comprovato per la storia in ogni nazione e singolarmente nella Spagnuola. Gli abitatori delle felici contrade di quella penisola dotati per natura d’ingegno acre, vivo, pespicace ed atto ad ogni impresa, e possedendo una lingua figlia generosa di bella madre, ricca, espressiva, maestosa, pieghevole, armoniosa e nobile, doveano fuor di dubbio segnalarsi nelle amene lettere, tosto che ne’ buoni esemplari fosse loro additata quella forma del Bello che il Gusto inspira ed alimenta negli animi gentili. Una lingua nascente non sempre imbatte alla prima a scegliere la versificazione più armonica e più acconcia a ricever le forme leggiadre che gli antichi seppero ricavar dalla bella natura. Gli Spagnuoli ne’ tre secoli che precedettero il XVI conobbero in qualche modo i Latini e formaronsi alcuni metri nazionali come Alessandrini di diverso numero di sillabe detti fra loro di arte maggiore, e redondiglie, decime, quintiglie ed endecce. Dir però non saprei quando essi avrebbero trasportate nel loro volgare le antiche bellezze, se più lungamente persistevano ad usare la propria versificazione. Giovanni Boscano non prestò picciolo servizio alla nazione col porre in pratica il consiglio del nostro Andrea Navagero d’introdurre nella poesia Castigliana la tessitura de’ metri Italiani. Con ciò egli non venne solo a mostrare il mecanismo di una versificazione straniera, come taluno si diede buonamente a credere. La necessità di apprendere l’artifizio e il portamento del nostro sonetto, della canzone, dell’ottava, della terzina, rendè loro famigliare la lettura di Dante, Petrarca, Sannazzaro, Ariosto e Bembo, ed in quel puro fuoco che spirano tali scrittori si riscaldarono i Garcilassi, gli Errera, gli Argensola ed altri valorosi poeti Spagnuoli del secolo XVI.

Ma perchè nella drammatica non valse un tale esempio? Forse perchè l’antica severa tragedia quivi originalmente si amò ben poco, e la commedia Italiana non si confaceva gran fatto a’ patrii costumi del cielo Ispano. Forse ciò avvenne ancora perchè i primi traduttori Spagnuoli delle antiche favole non ne diedero una idea capace d’invitare all’imitazione. Forse la novità tentata dal commediante Naarro coll’ introduzione di battaglie, assedj, duelli, dovette allettare assai più una bellicosa nazione; e quindi determinare i Vega, i Gastro, i Mira de Mescua ecc. a ritrarre i costumi e gli evenimenti delle cronache nazionali. Forse lo spirito stesso di cavalleria e l’amor delle avventure strane che spinse Cervantes a motteggiarne nel Don Quixote, rendeva alla nazione accetto un teatro che n’era pieno. Forse tutte queste cagioni unite insieme contribuirono a dare a quelle scene un carattere particolare.

I nominati autori Spagnuoli, de’ quali molti fiorirono anche sotto Filippo III, scorrendo con piede ardito per ogni parte del Parnasso, osarono calcar nella scenica un nuovo sentiero, e l’intemperanza e la soverchia fiducia gli menò sovente fuori di strada, a somiglianza di un fogoso destriero che trascorrendo a salti per iscoscesi dirupi urta, rovescia, calpesta quanto incontra, e finisce la carriera in un precipizio. L’amor di novità sedusse i contemporanei e i successori, aperse il campo alla foga della fantasia, e sursero i Gongora e i Gongoreschi.

Luigi di Gongora e Argote Cordovese nato nel 1561 e morto nel 1627 sortì dalla natura vivacità, robustezza, energia, ma nella lirica battè il sentiero delle stranezze, dipartendosi dalla gentilezza e verità di Garcilasso e degli Argensola101. Coltivò ancora la drammatica, e scrisse las Firmezas de Isabela commedia, el Doctor Carlino commedia, e una favola Venatoria, le quali lasciò imperfette. Tutte le ciance e i traslati aggruppati del Polifemo e delle Solitudini si trovano nell’Isabella ma con maggior delirio, perchè in questa parlano in proprio nome le persone introdotte e non il poeta. Un personaggio chiama la morte alcalde de huesso; un altro parlando di un vecchio canuto chiama i di lui capegli raggi pettinati del sole della prudenza, e fila da cui pendono (come dalle pergamene de’ privilegj) i suggelli dell’esperienza, e carte bianche della storia, in cui la penna della memoria scrive con inchiostro d’argento; altrove la citta di Toledo è chiamata turbante di lavoro Africano, a cui il Tago serve di benda di mosellina bianca listata d’oro. In somma in ogni personaggio traspare tutto Gongora allorchè delira. Ne tralascio le buffonerie frammischiate alle cose sacre: l’infelice esposizione della favola, non avendo saputo introdurla se non con fare che il buffone in 160 versi ne racconti a se stesso i fatti che la precedono: la meschinità e improprietà dell’intreccio, l’insipidezza, la multiplicità delle azioni, l’irregolarità e la mancanza d’interesse. Del Dottor Carlino non si ha che il primo atto e buona parte del secondo. Questa favola è più comica, e sebbene la solita pedanteria vi si trovi seminata da per tutto, non vi è però gettata col carro come nell’ altra. Ma quello che ci fa godere dell’essere rimasta imperfetta si è l’ oscenità de’ fatti che vi si maneggiano con isfacciataggine da bordello. Carlino è un medicastro imbroglione ruffiano che professa tal mestiere senza verun rimorso; ed ha per compagna una Casilda civetta scaltrita che servegli di zimbello. Egli maneggia diversi intrighi amorosi, e specialmente uno di certo Gerardo con una Lucrezia maritata che traffica vergognosamente per compiacerlo a prezzo di cento scudi. L’innamorato chiede in prestito tal denaro al marito, lo dà alla donna, indi dice al prestatore di aver restituito il danaro alla consorte. Questa novella copiata dal Boccaccio è più dispiacevole posta alla vista sulle scene che nella lettura. Da questa favola del Gongora si vede che la commedia Spagnuola non è sempre sì onesta matrona qual se l’immaginava l’innocente Lampillas. La nominata Venatoria è appena incominciata, e mostra che altro non sarebbe divenuta che una copia delle pastorali Italiane; perchè il prologo fatto da Cupido imita in parte quello dell’Aminta, e nelle due sole scene che lo seguono si narra l’avventura del bacio dato da Mirtillo del Guarini ad Amarilli col pretesto di esser guarito della puntura dell’ ape.

Composero anche pel teatro sotto Filippo III gli autori che soggiungo. Contemporaneo di Gongora fu Giovanni de Tasis y Peralta Conte II di Villamediana poeta distinto per la nascita, per le avventure e per la morte, essendo stato una notte in Madrid nella propria carrozza ucciso da braccio sconosciuto mosso, come si esprime Gongora, da impulso soberano. Tralle di lui opere poetiche impresse in Saragozza nel 1629 si legge la Gloria de Niquea recitata dalla regina colle sue dame, dove intervengono pastori, deità, il Tago ed il mese d’aprile. Cristoforo Suarez de Figueroa giureconsulto si distinse colla traduzione del Pastor fido impressa in Valenza nel 1609; ed il Sivigliano Giovanni Jauregui buon pittore e poeta emulo di Quevedo e di Gongora impresse in Roma la bella sua versione dell’ Aminta nel 1607, ed in Siviglia con nuova cura nel 1618. Non furono così accette ed applaudite le altre sue commedie. Naturale di Siviglia fu ancora Feliciana Henriquez de Guzman che compose los Jardines y Campos Sabeos tragicommedia, cui poscia ne aggiunse un’ altra del medesimo titolo, le quali s’impressero in Coimbra nel 1624. Bernarda Ferreira de la Cerda Portoghesa versata nelle matematiche e nella musica compose diverse commedie alla maniera allora dominante senza regolarità ed in istile lirico troppo ricercato, le quali si trovano nel II tomo delle di lei opere. Simone Machado anche Portoghese poeta rinomato scrisse quattro commedie impresse in Lisbona, cioè due sull’Assedio di Diu, e due sulla Pastorella Alfea. Scrissero ancora commedie verso la fine del regno di Filippo III e principio del seguente due Castigliani Antonio Hurtado de Mendoza ed Alfonso de Salas Barbadillo. Ma di questi ed altri Portoghesi e Castigliani che tralasciamo, non essendo state le sceniche produzioni nè per numero nè per fortuna, nè per eccellenza degne dell’altrui curiosità, rimasero sepolte ed obbliate universalmente sopraffatte dalla celebrità di quelle che si composero sotto Filippo IV.

Questo monarca che guerreggiò con varia fortuna, specialmente con Anna di Austria sua sorella come regina di Francia e madre di Luigi XIV, che espulse un popolo di Mori Spagnuoli, e che nutrì ne’ vassalli senza trarne vantaggio l’indole bellica ed il germe della decadenza nazionale, fu poeta e bell’ ingegno egli stesso102 e nel proteggere le lettere moltiplicò i begl’ ingegni senza migliorare il gusto. Gli spettacoli scenici ch’egli amò con predilezione, fiorirono sotto di lui a tal segno, che il Vega, il Calderon, il Solis, il Moreto si ’lessero e si tradussero da’ Francesi che cominciavano a sorgere, e dagl’ Italiani che andavano decadendo. Vuolsi che avesse egli stesso composta qualche commedia pubblicata con altro nome o con quello anonimo di un Ingenio secondo l’uso Spagnuolo. E’ tradizione poco contrastata che frutto della penna di Filippo IV fu il Conde de Essex conosciuta col titolo Dar la vida por su Dama, la qual commedia non cede a veruna nè per l’irregolarità, nè per le stranezze dello stile, benchè i caratteri vi sieno dipinti con forza. Quando anche Filippo non ne avesse dato che il solo piano, come molti stimano, essa merita di conoscersi originalmente sì in grazia del coronato inventore, che per la commedia stessa la quale da un secolo e mezzo quasi ogni anno si rappresenta in Madrid. L’argomento è la privanza di quel conte presso la regina Elisabetta d’Inghilterra, e la morte da lei ordinatane e pianta.

Giornata I. Bianca amante del conte e fiera nemica occulta d’Elisabetta ne trama la morte introducendo di notte alcuni congiurati in una propria casa di campagna dove trovasi a diporto la regina. Il conte che veniva a veder Bianca, giugne opportunamente a salvar la regina, la quale coperta d’una mascheretta grata al suo liberatore gli dà una banda, che a que’ tempi si reputava un favore e una prova d’inclinazione della dama verso il cavaliere che la ricevea. Si dividono scambievolmente obbligati senza conoscersi. Perchè sappia lo spettatore in qual guisa fu la regina assalita e difesa, il conte lo narra a Cosimo suo servidore fatto a tal fine rimanere indietro dal poeta. Questa sorte di racconti divenuti essenziali delle commedie Spagnuole, diconsi relaciones; ed in esse l’autore arzigogola senza freno sfoggiando in descrizioni ampollose ed in concetti falsi e puerili, e l’attore seguendo i delirj della poesia con gesti di scimie delle mani, de’ piedi, degli occhi, del corpo tutto103, va dipingendo, non già lo spirito del sentimento e della passione, ma le parole delle metafore insolenti accompagnandone ciascuna con un gesto che le indichi. Di maniera che ho veduto io stesso l’attore tutto grondante di sudore per lo studio che pone ad imitare i movimenti del becco, delle ali, degli artigli di un uccello di rapina, il serpeggiar di un ruscello, lo strisciar della serpe, il corvettar del cavallo, ed il guizzar del pesce. Il conte vuol riferire che entrò nel giardino, trovò una dama mascherata che si bagnava, cui fu tirato un colpo di pistola, e che la difese dalle spade degli assalitori, e ne ricevè una banda. In ciò si spendono ben centoventicinque versi, ne’ quali entra una scarsa vena del Tamigi che si fa un salasso di neve, una folta chioma arruffata di un boschetto pettinata dal vento con difficoltà, l’incertezza del conte in discernere, se le gambe della dama che si bagnava correvano sciolte in acqua, o se l’acqua congelata formava le di lei gambe, come ancora il bere ch’ella fece dell’acqua colla propria mano, per la quale azione il conte si spaventò temendo non si bevesse parte della mano. Dopo queste scipitezze allora assai di moda parte il conte col servo, cangia la scena, e l’azione passa in città. Essex viene a veder Bianca, la quale piena della mal riuscita impresa ne parla all’amante con tutto l’impeto di una cieca vendetta, e con tutta l’efficacia dell’amore tenta di tirarlo al suo partito. Il conte seco stesso detesta il tradimento, e risolve la distruzione de’ congiurati; ma per manifestar questo pensiero recita a parte quarantasei versi, mentre Bianca attende la risposta. In fine a lei si volge, e si determina ad invitare con una breve lettera i congiurati a Londra, mostrandosi risoluto a dar la morte alla regina. Nell’incontrarsi col conte Elisabetta si avvede dalla banda di doverle la vita, oltre alla potente inclinazione che glielo raccomanda. Essex da’ moti del di lei volto si accorge esser ella la donatrice della banda. Elisabetta si fa dall’amore abbassare sino al vassallo; egli inalza a lei le sue speranze; l’uno e l’ altro frena la lingua che vuol trascorrere. Con un discorso interrotto mostrano i loro interni movimenti; pugna nell’una l’amore colla maestà, nell’altro la speranza di una fortuna brillante colla condizione di suddito.

Giornata II. Interessante è il secondo incontro della regina tiranneggiata dal fasto e rapita dalla propria debolezza, e del conte combattuto dall’ amore di Bianca e dalla speranza del possesso di una bella regina. Ma questo punto dell’azione viene dal poeta raffreddato colle pedanterie. Si sente cantare questa redondiglia:

Si acaso mis desvarios
llegaren à tus umbrales,
la lastima de ser males
quite el horror de ser mios.

Il conte prende l’occasione di scoprirsi amante della regina, parlandole sotto il no me di Laura e glossando questi versi. La regina riprende la timidezza dell’amante che si discolpa col rispetto; entrambi fanno pompa di acutezze là dove era da svilupparsi una tenerezza contrastata. Il conte recita anche un sonetto, la cui sostanza è l’insinuare il tacere; la regina con un altro sonetto obbligato alle stesse rime sostiene come più opportuno il parlare. Ognuno vede la stravaganza del secolo che convertiva i personaggi in poeti improvvisatori. Senza tali insipidezze l’azione da questo punto diverrebbe assai interessante e vivace. Il conte animato in tal guisa è in procinto di scoprirsi amante, quando comparisce Bianca colla banda posta che ha ricevuta dal servo del conte. La regina l’ osserva, si agita, dà ordini, gli rivoca, non vede che la sua gelosia. Partita Bianca, il conte comincia a dichiararsi; ma Elisabetta furiosa rivestendosi di tutto il terrore della sovranità irritata, “a me, temerario (gli dice interrompendolo) a me! mi conosci? sai chi sono? lo rammenti? Parti, allontanati, nè mai più ardire d’entrar nella reggia; non so come in questo punto non so recidere quel capo che nutrì pensieri cotanto audaci. (Oh grandezza tu sforzi il labbro a parlar contro del cuore!)”. Parte l’una colerica e gelosa, l’altro abbattuto e stordito. Bianca intanto si appiglia al partito di palesare alla regina tutta la storia de’ suoi amori col conte, implorando il favore della sovrana perchè le diventi sposo. Ma Elisabetta che dal suo racconto ha bevuto tanto veleno, trasportata le favella come una regina gelosa che senza confessarlo ne inspira tutto il terrore. Tradurremo questo squarcio nel quale la passione non è molto tradita dallo stile. Bianca dal suo racconto vuol conchiudere che il conte è suo sposo, e la regina ripiglia:

Come tuo sposo? (Io fremo, io più non vedo!)

Bian.

Come mio sposo? (o ciel che intendo!)

Reg.

Indegna,
Folle, debol . . .

Bian.

Regina!

Reg.

A un uom perverso
Di te obbliata, a un traditor ti rendi?

Bian.

Confusa io son!

Reg.

Sì l’onor tuo calpesti?
E alla presenza mia svelar non temi
Che il Conte adori?

Bian.

Io non credei cotanto
Oltraggiar la maestà, se il Conte . .

Reg.

O amore!
Io deliro. ) Il mio sdegno, o Bianca, è zelo
Del tuo decoro.

Bian.

E gelosia rassembra 104.

Reg.

Io! . . . Gelosa io non son: mi offende il dubbio.
Ma di un vassallo pur fingi un momento
Presa chi regna, se contender seco
Alma nata a servirla ardisse indegna,
Se amasse il Conte . . . . amar? che amar! mirarlo
Se ardisse solo, o cosa ancor che meno
Del mirarlo importasse, parti, o donna,
Ch’io non saprei co’ denti, colle mani,
Co’ detti ancor, col fiato, con gli sguardi
Trarle le indegne luci, il sangue berne,
Strapparle il cor, incenerir l’audace?
(Ah! di me mi scordai!) Bianca, to gelosa
Mi finsi, e finta ancor la gelosia
L’ira in me risvegliò . . . Delirio strano!
Odimi attenta. Dal mio finto sdegno
Impara, o Bianca, ove tal caso avvenga,
(Ne soffra anche il tuo onor; che l’onor tuo
E nulla ove son io) la tua sovrana
A non sdegnar; ov’ella volga il guardo,
Non mirar tu: mai non amar chi ell’ ami.
Non mi render gelosa; che se finta
Sì terribile è l’ira in regio petto,
Pensa tu qual saria, se fosse vera.
L’onore ancora avventurar dovessi,
Pensa a qual rischio la tua vita esponi.
Specchiati in questa immagine del vero,
E ingelosir chi tutto può, paventa.

Così la lascia. Bianca rabbiosa, ingelosita anch’essa, oltraggiata, giura vendicarsi colle proprie mani. La regina tralle cure del regno e dell’amore si addormenta. Bianca esce con una pistola alla mano che porta il nome del Conte; questi sopraggiugne e l’osserva maravigliato. Bianca si accinge a tirare; il conte la trattiene prendendo la pistola. Nel contrasto esce il colpo: la regina si sveglia: accorrono i cortigiani. Dubita la regina: non sa qual de’ due sia il reo e quale il suo liberatore. Il conte, nelle cui mani è rimasta la pistola, nega che Bianca abbia tentato quell’eccesso. Sei tu dunque il traditore? ripiglia la regina. Nol so, risponde il conte. L’uno e l’altra è arrestato.

Giornata III. Essex è convinto dagl’ indizj evidenti di alto tradimento; egli per sua difesa altro non dice che di essere innocente; è condannato a perdere la testa. Il conte prima di morire chiede di parlare a Bianca; gli è negato; altro non potendo le scrive una lettera, incaricando al servo di consegnarla poichè egli sarà morto. Ma la regina che ha sottoscritta la sentenza per soddisfare in pubblico alla giustizia, pensa a liberarlo privatamente dalla morte per compensarlo della vita che le ha salvato. Entra a tal fine nella prigione colla mascheretta e coll’ abito semplice che portò nella prima scena. La riconosce il conte; ma ella come una dama privata gli presenta la chiave della prigione perchè possa fuggire. Il conte la prega a scoprirsi, e la regina il compiace dandogli prima la chiave. Il conte le domanda il perdono che suol concedersi a’ rei che veggono la faccia del sovrano. Nega la regina di altro potere a suo prò dopo avergli dato il mezzo di fuggire. Sdegna il conte di fuggire, getta la chiave nel fiume sottoposto alla finestra della prigione, e le dice che se non vuole essere ingrata, cerchi nuova guisa da soddisfare al suo debito. La regina risponde di più non potere, ed estremamente addolorata, ma conservando la durezza della maestà offesa, ordina l’esecuzione della sentenza. Legge il servo per curiosità la lettera scritta dal conte a Bianca; scopre il di lei delitto e l’innocenza del padrone, e la porta alla regina. Se ne rileva ch’egli invitava a Londra i congiurati unicamente per prendere in una volta tutti i ribelli. La lettera termina con un consiglio a Bianca di desistere dall’impresa di vendicarsi della regina, aggiugnendo,

Mira que sin mi te quedas,
y no ha de haver cada dia
quien, por mucho que te quiera,
por conservarte la vida,
por traidor la suya pierda.

Da questa lettera screduta la regina ordina che si sospenda l’esecuzione della sentenza, ma il conte è già stato decollato. Le querele della regina per lo più sobrie e convenienti all’evento tragico ed al di lei carattere, mal grado di non pochi difetti, danno fine a questo componimento interessante. Tommaso Cornelio lo spogliò in Francia de’ principali errori, e ne ritenne le situazioni tragiche nel suo Conte d’Essex; ma nella dipintura del carattere del conte egli rimane al di sotto dell’originale. Nella favola Spagnuola Essex è un innamorato, tuttochè combatta nel di lui cuore l’ambizione e l’amore; ma eroicamente dà per Bianca la vita per non iscoprirla, e soggiace alla morte colla taccia di traditore. Nella tragedia Francese egli comparisce mattamente innamorato, e, come ben dice il conte Pietro di Calepio, muore più per disperazione che per grandezza d’animo.

Il gusto del monarca a guisa del suono si propaga e si diffonde in tutti i sensi per la nazione. La corte di Filippo IV si empì di verseggiatori che produssero a gara un gran numero di favole. Talora si videro tre autori occupati al lavoro di una sola commedia, dividendosene gli atti; ond’è che se ne leggono più centinaja col titolo comedia de tres Ingenios, i quali talvolta vi si nominano. Mendoza, Rosette e Cancer ne composero molte in tal guisa. Una ne avea io divenuta rarissima intitolata la Bathasara, di cui il primo atto appartiene a Luis Velez de Guevara, autore di molte altre commedie allora stimate morto nel 1640, il secondo ad Antonio Coello, ed il terzo a Francesco de Roxas il quale molte altre favole compose. Il primo atto desta curiosità, ed è meno difettoso nello stile; gli altri sono pessimi per istile, per azione e per orditura. L’argomento è una commediante rinomata che si converte, si disgusta della propria professione e della vita passata nel più bello di una rappresentazione in Valenza, va a servir Dio in una solitudine, e muore santamente. Nell’atto del Guevara si vede alla prima la dipintura naturale di un teatro Spagnuolo qual era a quei tempi. Esce ad affiggere il cartello di una nuova commedia un servo della compagnia detta di Eredia commediante famoso di quel tempo che n’era il capo. Si figura che tal compagnia rappresenti in Valenza nel teatro dell’Olivera. Apparisce l’interiore del teatro, e si veggono nella platea sparsi alcuni venditori, che, come è stato costume anche in Madrid sino ad alcuni anni fa, vanno gridando avellanas, piñones, peros de Aragon, turron ecc. Passano i facchini co i fardelli de’ vestiti delle commedianti. Si vedono venire al teatro Baltassarra, Leonora e la Graziosa. La gente impaziente grida, salgan salgan, empiezen, per sollecitare i commedianti ad incominciare. Baltassarra rappresenta a cavallo in mezzo della platea (costume non ancora deposto da’ commedianti) facendo la parte di Rosa Solimana. Nel meglio del recitare si distrae, e fa riflessioni morali sulla vanità de’ piaceri, che non entrano nella parte che rappresenta. Al fine rapita da un santo entusiasmo dice a vista di tutti,

Afuera galas del mundo,
afuera ambiciones locas,
que solo me haveis servido
en esta farsa engañosa
por testigos del delito,

e gettati via gli abiti teatrali parte precipitosamente. L’uditorio si scompiglia, chi grida da’ palchi, chi dalla cassuela, chi dalla grada, il Grazioso marito della Baltassarra ed Eredia capo della compagnia vengono fuori confusi e disperati per le loro perdite, e termina l’atto. Il secondo contiene la vita penitente di Baltassarra, le preghiere e le lagrime di un suo amante, i tentativi del demonio per distorla. Nell’atto terzo il Roxas continua a mostrare le astuzie del demonio, finchè si vede Baltassarra già spirata.

Ma il Roxas ha prodotte molte favole interamente sue. In quelle che si chiamano istoriche, lo stile è sommamente stravagante, e la condotta difettosissima. Di ciò può servir di esempio quella che intitolò los Aspides de Cleopatra, azione tragica scritta in pessimo stile colla solita trasgressione d’ogni regola, e mescolata di buffonerie arlecchinesche, la quale anche a questi tempi si vede comparir sulle scene. Ma egli è autore di varie favole non dispregevoli nel genere comico chiamato di spada e cappa. In quella intitolata Entre bovos anda el juego, è degno di notarsi un carattere comico di un Toledano chiamato Don Lucas del Cigarral acconciamente dipinto. Vedasene uno squarcio tratto dalla relazione che ne fa il di lui servo, da noi tradotto con fedeltà,

Don Luca Cigarral, il cui moderno
Casato non vien già dalla famiglia,
Ma da una macchia, o nido di cicale
Da lui piantato, è un cavaliere scarmo,
Gracile, macilento,
Cortissimo di busto,
Lunghissimo di gambe, che ha le mani
Più ruvide di quelle de’ villani;
I piedi lunghi, bassi al collo e piatti
Come hanno l’oche, e pien di nodi e calli.
Goffo un poco, un pò calvo, verdinero
Più che poco, e ancor più schifoso e sozzo,
Più di quaranta volte molto porco.
Se canta la mattina,
Non sol, come si dice,
Spaventa le sue noje,
Ma tutta pur la gente a lui vicina.
Se dorme al suo poder, con tale orrendo
Strepito russa, che s’ode in Toledo.
Mangia come un studente,
Beve come un Tedesco,
Come un signor di mille cose chiede,
Cinguetta al pari d’un ben grasso erede.
Con grazia tal ragiona,
Che ad ogni motto una novella appicca,
Che sempre è lunga, e non è giammai buona.
Non v’ha paese ov’ei stato non sia.
Cosa non sente dir ch’ei non se pria.
Se taluno dirà d’aver la posta
Corsa sino a Siviglia,
Egli, ad onta del mar che si frappone,
Fino a Perù la corsi anch’io, ripiglia.
Di spade si favella?
Ei solo se ne intende. Ad ogni lama
Che non ha impronta, egli un maestro assegna.
Cento commedie ha insino ad or composte,
E le conserva suggellate e chiuse,
E alle figlie che avrà, vuol darle in dote.
Ma vaglia il ver; benchè non sia gentile,
Benchè sia mal poeta e peggior musico,
Zotico, seccator, bugiardo e stolto,
Con un sol vezzo ogni suo neo compensa,
Che sì sordido ha il cuore e meschinello,
Che non daria quel che tacere è bello.

Questa dipintura, oltre all’essere ben graziosa, ha il merito di prevenire l’uditorio sul carattere del protagonista. Il poeta con altre pennellate ancora avviva il ritratto di Don Luca. Fa che egli imponga che nel passare Isabella sua sposa da Madrid a Toledo, si copra d’una mascheretta. Ecco tradotta la lettera che le scrive, la quale spira tutta la gentilezza di Don Luca: Sorella, io possiedo seimila e quarantadue ducati di rendita di un maggiorato, e se non ho figli, viene ad essere mio cugino il mio successore. Mi vien detto che voi ed io possiamo averne quanti vorremo. Venite questa notte a trattare del primo, che ci sarà tempo poi per gli altri. Mio cugino viene a prendervi; mettetevi una mascheretta, e non gli parlate; perchè finchè io viva, voi non dovete essere nè veduta nè udita. Nell’osteria di Torrejoncillo vi attendo; venite subito, che i tempi correnti non permettono di aspettar molto nelle osterie. Dio vi guardi, e vi dia più figliuoli che a me. Un’ altro bel colpo di pennello riceve il ritratto da un altro suo foglio portato dal nominato cugino. Contiene una carta di quitanza così dettata: Ho ricevuto da Don Antonio Salazar una donna che ha da essere mia moglie, con suoi contrassegni buoni o cattivi, alta di persona, di pelo nero, e pulcella nelle fattezze. E la consegnerò tale e quanta ella è, sempre che mi sarà domandata in occasione di nullità o divorzio. In Toledo a’ 4 di settembre del 1638. Don Luca Cigarral. In conseguenza del suo carattere procede Don Luca nella briga attaccata co’ passeggieri in Torrejoncillo, e nell’ incontro colla sposa nell’atto I che si rappresenta parte in Madrid e parte nel nominato villaggio. Non si smentisce nelle avventure notturne, quando tutti i passeggieri caminando verso Toledo pernottano in Illescas nell’atto II. Degno di lui nell’ atto III che si rappresenta in Cabañas, è il pensiero di far maritare Isabella col suo cugino per vendicarsene; perchè essendo poveri, mal grado del loro amore, forza è che vivano malcontenti. I caratteri sono ben dipinti; l’azione non offende l’unità richiesta; il tempo si stende oltre il confine di un giorno, ma non tanto che la favola ne divenga inverisimile, restringendosi al più a due giorni; il luogo solo non è uno, passando l’azione in Madrid, in Torrejoncillo, ed in Illescas, e terminando in Cabañas. Lo stile poi è comico, sobrio e vivace in tutto, eccetto nel dialogo degl’ innamorati; perchè allora i poeti credevano di cader nel basso, nel famigliare, nel triviale, se i concetti amorosi si fossero espressi con semplicità e naturalezza.

Seguace, ammiratore e quasi alunno di Lope de Vega fu Giovanni Perez de Montalbàn nato in Madrid da un librajo. Di anni diciassette cominciò a scrivere commedie che si recitarono con applauso e s’impressero in due volumi nel 1639. Oggi che pochissime commedie dell’istesso Lope si rappresentano, havvene più d’una di Montalbàn che si ripete quasi in ogni anno in Madrid, cioè la Lindona de Galicia, e los Amantes de Teruel.

La Lindona. Una mescolanza di avventure tragiche e comiche, di persone reali, basse e mediocri, un cumolo di fatti che formano anzi un romanzo che un dramma, in cui nell’atto I interviene Sancio re di Castiglia, e nell’atto II l’azione segue sotto il regno del di lui successore Ferdinando, rendono mostruosa questa favola che prende il nome da una Rica-Fembra di Galizia. Due cose secondo me l’hanno fatta conservare sul teatro ad onta di tante stravaganze, cioè il carattere vendicativo di questa dama che parla nel proprio dialetto Galiziano, e spira certa non usitata bizzarria e fierezza raccomandata dalla beltà; e la bellezza selvaggia di Linda vestita di pelli e cresciuta senza saper parlare e che si va sviluppando a poco a poco per mezzo di una tenera simpatia che le inspira la veduta di un giovane principe. Linda viene indi conosciuta per la figliuola di Lindona che ella avea gittata in mare per vendicarsi del principe Garzia di lei padre.

Los Amantes de Teruel. In questa terra del regno di Aragona corre una tradizione degli amori infelici di due amanti virtuosi morti di dolore l’uno nell’arrivar ricco per isposare la sua innamorata e trovarla moglie del suo rivale, l’altra al vedere estinto l’amante. La tradizione è accreditata presso gli Aragonesi con un sepolcro che si addita in Teruel. Su tale argomento Giovanni Tague de Salas formò un poema epico tragico intitolandolo los Amantes de Teruel impresso in Valenza nel 1617, e poi Montalbàn ne compose il dramma di cui parliamo.

Malgrado de i difetti consueti l’azione principale è sommamente interessante e i caratteri degli amanti Diego ed Isabella con molta vivacità delineati. Ferdinando altro amante d’Isabella mal noto e mal gradito, ed Elena di lei cugina ed occulta amante di Diego formano gli ostacoli della loro felicità. Il padre d’Isabella la destina ad un ricco, e Ferdinando è tale, essendo Diego povero di beni e pieno solo di virtù e di valore. L’uno e l’altro nell’atto I la chiedono in isposa ad un tempo. Il vecchio riceve con sommo piacere le istanze del ricco, ma alle fervide insinuanti preghiere del povero egli rimane intenerito ed irrisoluto a segno che al fine la nega ad ambedue, al povero perchè è tale, ed al ricco per non dispiacere al povero valoroso degno di miglior fortuna. Diego si avvisa d’implorare un altro favore, cioè di permettergli di sperare la mano della figliuola nel caso ch’egli migliorasse di fortuna; ed a tale effetto chiede che destini uno spazio competente per tentar la sorte. Condiscende il buon vecchio, e si conviene che Isabella rimarrà senza prendere marito tre anni e tre giorni, e questi scorsi nè tornando Diego più ricco, possa dare la mano a Ferdinando. Diego va a militare sotto Carlo V che muove contro Solimano.

Nell’atto II i maneggi di Elena fanno sì che per due anni e mezzo nè le lettere di Diego giungano alla cugina, nè quelle di lei siano a Diego consegnate. In oltre per abbattere di un colpo la costanza d’Isabella si fa venire un finto soldato colla falsa notizia della morte di Diego, che riduce agli estremi la vita d’Isabella senza indebolirne la passione. Dall’altra parte Diego ha fatti prodigii di valore, ha salvata la vita all’imperadore, si è fatto ammirare nella Goletta, è stato il primo a montare sul muro di Tunisi; ma sempre sfortunato si trova tuttavia povero. Disperato si vuole ammazzare; giugne all’imperadore la notizia di quel trasporto; ne intende le avventure ed i meriti; lo dichiara capitano della propria compagnia; gli assegna tremila scudi annui sulle rendite di Teruel per mantenersi, e gliene dà altri quattromila per le spese del viaggio.

Non può disporsi Isabella a sposar Ferdidinando prima di compiersi lo spazio accordato al creduto morto suo amante di tre anni e tre giorni. Nell’atto III scorso questo tempo un’ ora dopo è costretta a dargli la mano. Dopo un altr’ora giugne in Teruel Diego vivo, ricco e glorioso. L’incontro de’ due amanti è interessante. Vorrebbe Isabella narrare come sia condiscesa alle nozze, ma teme che sopraggiunga il marito. L’ affretta a partire. Tradurrò esattamente qualche squarcio di questa scena. Vieni tu con salute? dice Isabella. Saprai poi del mio stato, risponde Diego; ma tu come stai? Morta sopra la terra, ella ripiglia e vuol partire. Addio, ella segue agitata,

Addio; con te restar non mi è concesso.
Ti dirò solo in breve, che un soldato
Di tua morte recò nuove fallaci,
Che sospirai, che piansi,
Che morir volli . . . Ohdio! non è più tempo
Di rammentar quel che obbliare è forza!

Die.

E di che è tempo?

Isa:

Di pensar ch’è questa
L’ultima volta, oimè, ch’io ti favello,
Che tu mi vedi . . . addio . . . . Ti amai, lo sai,
Partisti . . .

Die.

E bene?

Isa:

Si ostinò Fernando,
L’interesse parlò, l’udì mio padre.
Corse il romor della mentita morte . .
Ah maledetto sia l’infame, il falso,
Il comprato messaggio, onde mi vedo
A sì misero stato oggi ridotta!
Passò il tempo prefisso; amante invano
Volli oppormi al destin; minaccia il padre;
Donna, priva di te, figlia, obedisco.
E infin . . . . deggio pur dirlo? infin son moglie.
Vanne, tel dissi già, lasciami, parti,
Che se ti miro più, perdermi posso,
E perdermi non vo’.

Die.

Pensa . . .

Isa:

Non giova.

Die:

Ben mio . . .

Isa:

Vanne.

Die:

Ah tu speri invan, crudele,
Che tal freddezza e tal contegno io soffra.

Isa:

Che far poss’ io?

Die:

Al padre dir ch’io vivo.

Isa:

É vano.

Die:

Parlar chiaro a Don Fernando.

Isa:

Sono già sua.

Die:

Prova la forza.

Isa:

È vana.

Die:

Vientene meco.

Isa:

L’onor mio m’è caro.

Die:

Fuggi sola.

Isa:

Ove?

Die:

A un giudice ricorri.

Isa:

A cui?

Die:

Di che sei mia.

Isa:

Non è più tempo.

Die:

Uccidimi.

Isa:

Io che ti amo?

Die:

Segui dunque ad amarmi:

Isa:

Ah nobil nacqui.

Die:

Qualche rimedio alfin trovar conviene

Isa:

É trovato:

Die:

Qual è?

Isa:

Morir tacendo.

Die:

Scelgo il morir, ma palesando al mondo
L’amor tuo, la tua fè.

Isa:

Sai ch’ho un marito.

Die:

Io, io son tuo marito, e dal tuo fianco
Appartarmi potrà solo la morte.

Isa:

E l’onor mio?

Die:

Tutto si perda omai.

Isa:

E la tua vita?

Die:

Oggi finisca.

Isa:

E il mio
Consorte?

Die:

Non ti goda.

Isa:

E i miei parenti?

Die:

Versin tutto il mio sangue.

Isa:

Invano io prego?

Die:

Io nulla ascolto.

Isa:

Ed io con questa mano
Saprò morir.

Die:

Saprò morir anch’io.

Parte Isabella, la segue Diego: ma ella temendo che sia veduto dal marito, per far che vada via, gli dice che l’abborrisce. L’anima dell’innamorato oppressa in tante guise dalla piena degli affetti non resiste a quest’ ultimo colpo, e spira di puro dolore, cagionando colla sua morte quella d’ Isabella che gli muore accanto. La relazione ch’ella prima di spirare fa della morte del suo amante al marito, e le di lei estreme querele mal corrispondono alla scena patetica e naturale che abbiam tradotta, essendo il rimanente pieno di arguzie, sofisticherie, sciapitezze e concettuzzi impertinenti. Questa composizione per lo più si vede ogni anno sulle scene Spagnuole sempre con piacere e concorso, quante volte venga rappresentato il carattere d’Isabella da un’ anima sensibile che per ventura o per arte non sia stata avvelenata dalle caricature istrioniche. Tal era la delicatissima attrice Pepita Huertas mancata nel fior degli anni suoi.

Uno degli scrittori più fecondi e pieni di sfrenata fantasia fu Fr. Gabriel Tellez di Madrid religioso di S. Maria della Mercede morto circa il 1650. Le sue commedie impresse in tre volumi in Madrid e in Tortosa nel 1634 portano il finto nome del maestro Tirsi de Molina. Egli accumulava gli accidenti di tal sorte che oltrepassava gli eccessi de’ suoi contemporanei. A lui appartiene la commedia delle imprese de’ Pizarri in cui corre dalle Spagne al Perù con somma leggerezza. Il teatro odierno non parmi che di questo frate rappresenti altra favola se non el Burlador de Sevilla, per altro titolo il Convitato di pietra. Niuno ignora la fortuna di questa stravagantissima composizione. In Ispagna continua a rappresentarsi. In Italia la tradusse il Perrucci Siciliano, ed i pubblici commedianti la ridussero a soggetto rendendola ancora più grottesca. Moliere la rettificò, facendone una dipintura d’un discolo, la spogliò della varietà, del bizzarro, del miracoloso, e ne dissipò il concorso. Fece altrettanto il Goldoni. Il dramma originale del frate ha trionfato per più di cento anni su tanti teatri, e si riproduce da’ ballerini pantomimi, ad onta del re di Napoli che esce col candeliere alla mano a i gridi d’ Isabella vituperata e ingannata da uno sconosciuto, di tante amorose avventure di Don Giovanni, de i di lui duelli, della statua che parla e camina, che va a cena, che invita Don Giovanni a cenare, che gli stringe la mano e l’uccide.

Giambatista Diamante è autore di varie favole, alcune delle quali sino a’ giorni nostri si sono conservate in teatro, e nel giro di ciascun anno costantemente vi compariscono. Ogni prima Dama del teatro Spagnuolo per far pompa di abilità apprende a rappresentar la di lui Judia de Toledo. L’argomento appartiene al regno di Alfonso VIII re di Castiglia che per sette anni perseverò nell’amore di una Ebrea Toledana chiamata nelle cronache nazionali Fermosa. Don Luis de Ulloa y Pereyra compose de i di lei fatti un poema di 76 ottave intitolato la Raquel che si trova inserito nel Parnasso Spagnuolo. L’azione del dramma incomincia dall’esiglio degli Ebrei decretato da Alfonso, per cui viene Rachele ad implorar la clemenza del sovrano, prosiegue col reciproco innamoramento, e termina colla morte di Rachele per mano de’ Castigliani sollevati. Le stranezze dello stile, l’ irregolarità, la buffoneria alternata cogli evenimenti tragici, non offuscano del tutto l’energia e la verità che si osserva nella dipintura delle passioni e de’ caratteri di Rachele innamorata e ambiziosa e di Alfonso accecato dall’amore. Traluce agli occhi curiosi e sagaci qualche pensiero vigoroso e naturale, benchè sommerso, per così dire, fralle metafore spropositate. Tale parmi nella giornata. I ciò che Rachele risponde al padre che vuol suggerirle quel che dee dire al re. Non ho bisogno, gli dice, delle vostre ragioni per persuadere; e quando mai, aggiugne, il di lui sdegno confondesse il mio discorso,

Yo harè que enmienden los ojos
los errores de mi labio.

Tale nella giornata II è la risposta data da Rachele stessa ad Alfonso. Lascia il rispetto, le dice il re,

Hablame como à tu amante,
No como à tu rey.

Raq.

No puedo,
Que ha poco que eres mi amante,
Y ha mucho que eres mi dueño.

Tale nella giornata III il congedo che Rachele condotta a morire prende dal padre.

Diamante scrisse anche una favola sul Cid, e Pietro Cornelio ne trasse alcuni pensieri. A lui debbe questo sentimento di Chimene,

Je sai que je suis fille, & que mon pere est mort.

Diamante avea detto ciò forse con maggior precisione,

El conde es muerto, y yo su hija soy.

Ma in fine che brami? si dice a Chimene; ed ella presso il poeta Francese risponde,

Le poursuivre, le perdre, & mourir après luy.

Diamante disse,

Perseguille hasta perdelle,
Y morir luego con el 105.

Ma sotto questo lungo e fecondo regno fiorì principalmente il famoso Pedro Calderon de la Barca assai conosciuto in Francia ed in Italia, de i cui drammi sacri o profani si valse frequentemente l’istesso Filippo IV. Egli compose almeno centoventi commedie oltre a un gran numero di prologhi o loas, delle quali una gran parte sino a’ nostri di continua a rappresentarsi, e secondo l’apparenza continuerà ancora. Sino all’anno 1664 non n’erano usciti che tre tomi, che poi crebbero a nove oltre a sei altri impressi in Madrid nel 1717, che contengono settantadue auti sacramentali. Ma il numero tanto di questi che delle commedie apparisce molto maggiore perchè gliene attribuirono altre non sue per accreditarle col di lui nome.

Di questo celebre commediografo variamente giudicarono i critici e forse sempre con ingiustizia. Deificato da alcuni fu trattato da altri qual mostro e corruttore del teatro. Non meritava la cieca idolatria de’ primi, avendo lasciate a’ posteri molte cose da migliorare, nè le amare invettive degli altri, per molti pregi che possedeva. Blàs de Nasarre, il quale cercò abbassare i più celebri drammatici Spagnuoli, per sostituir Ioro un merito ideale di altri oscuri scrittori, declamò prolissamente contro le stravaganze, gli errori e l’ignoranza di Calderon. Senza dubbio questo poeta (per accennarne alcuna cosa in generale prima di scendere alle particolarità di qualche sua favola) mostrò di non conoscere, o almeno non si curò di praticare veruna delle regole che è più difficil cosa ignorare che sapere: non separò mai il tragico dal comico: pensando di mostrare acutezza nell’elevar lo stile si perdè, non che nel lirico, nello stravagante106: abbellì i vizj (errore sopra ogni altro inescusabile), e diede aspetto di virtù alle debolezze: fece alcun componimento di mal esempio, come el Galàn sin Dama: cadde sovente in errori di mitologia, di storia, di geografia. Ma Calderòn ebbe una immaginazione prodigiosamente feconda: non cedeva allo stesso Lope nell’armonia della versificazione: maneggiò la lingua con infinita grazia, dolcezza, facilità ed eleganza: seppe interessare gli spettatori con una serie di evenimenti inaspettati che producono continuamente situazioni popolari e vivaci. Sono, è vero, i suoi ritratti per lo più manierati e poco rassomiglianti agli originali che ci presenta la natura; ma non si allontanano molto dalle opinioni dominanti a’ giorni suoi. Oggi che li conosce tutto il ridicolo della smania cavalleresca e de i duellisti mercè del piacevole pennello del Cervantes, i personaggi di Calderon rassembrano tutti Rodomonti o Pentesilee erranti; ma era cosa comune al suo tempo che un cavaliere prendesse di notte le sue armi, andasse in ronda sospirando sotto le finestre della casa della sua bella, e si battesse con chi passava. Per giudicar dritto di un autor comico, non basta intender l’arte, ma conviene saper trasportarsi al di lui secolo.

I generi scenici da lui coltivati furono tre, l’allegorico degli auti sacramentali, le favole istoriche, e le commedie di spada e cappa.

Quanto agli auti sembra ch’egli non avesse compresi gl’ inevitabili inconvenienti attaccati al maneggiar sulla scena la delicata materia de’ misteri della nostra religione. Al vedere egli deliziavasi nell’ interpretarli con mille giuochetti puerili sulle parole e con tante buffonerie de’ personaggi ridicoli. Eccone qualche pruova. Cristo (dicesi in un auto) morì nella strada delle Tre Croci, alludendo con equivoco meschino alle croci del Calvario e alla calle de las Tres-Cruces di Madrid. Con simile equivoco si dice che la Samaritana abita alla calle del Pozo. Con istrano anacronismo intervengono in un medesimo auto personaggi divini e umani divisi di paesi e di tempi, come la Trinità, il demonio, San Paolo, Adamo, S. Agostino, Geremia. L’Appetito, il Peccato, una Rosa, un Cedro, il Mondo, sono personificati negli auti107. In quello intitolato gli Ordini Militari si figura che Cristo venga a domandare la Croce al Mondo, e che questo personaggio per concedergliela voglia sentirne l’avviso di Mosè, Giobbe, Davide e Geremia, i quali affermano che egli la meriti per lo quarto del Padre; dopo di che il Mondo si determina a dare a Cristo la Croce, affermando non averla sinora concessa a veruno se non per onore. Nel Laberinto del Mondo l’Innocenza rappresentata dalla Graziosa, che corrisponde alle nostre Servette o Buffe, in presenza di Theos che è Gesù Cristo venuto su di una nave a redimere il mondo, dice del mare,

. . . por mi cuenta he hallado
Que no es gracioso el mar aunque es salado:
Mas fuera dicha suma
Que el chocolate hiciera tanta espuma 108.

Ma è inutile di più trattenersi su gli auti sacramentali banditi per sempre da’ teatri Spagnuoli. Erano già tre mesi nel settembre del 1765 quando giunsi in Madrid, che per real rescritto del gran monarca CARLO III se ne proibì la rappresentazione per lo scandolo che producevano le interpretazioni arbitrarie e gli arzigogoli poetici su di così gran Mistero, e per l’indecenza di vedersi sulla scena una Laide rappresentar da Maria Vergine, una mima elevar la sfera sacramentale e cantare il Tantum ergo.

Nelle favole istoriche dove introduconsi personaggi reali, regnano le principali stranezze sì dello stile nel cercarvisi il sublime, come delle apparenze e degli accidenti accumulati senza modo per correre appresso alle novità e chiamar il concorso. Calderon ne compose moltissime che possono dirsi stravaganti; p. e. las Armas de la Hermosura, in cui Coriolano diventa un vero cavaliere errante de’ bassi tempi: Fineza contra fineza, in cui si ammassano evenimenti disparati ed apparenze senza numero, e si stravolge il bellissimo episodio di Olinto e Sofronia di Torquato Tasso: la Aurora en Copacavana che a stento m’induco a crederla uscita da Calderon. In essa i Peruviani son dipinti a capriccio, e la storia dello scoprimento di Pizzaro v’è adulterata ed involta in miracoli ed apparenze senza oggetto e senza giudizio, e divenuta tutta fantastica per mezzo dell’Idolatria personaggio allegorico, che si agita, medita, eseguisce mille incantesimi senza perchè e senza sapere ella stessa quel che si voglia nè quel che intenti.

Ma fra esse se ne leggono alcune più interessanti e più sobrie e per varii tratti poetici e per situazioni pregevoli, se voglia usarsi loro indulgenza per la solita irregolarità. Prescelgo in questo genere tragico, mal grado delle buffonerie, la Hija del aire, el Tetrarca de Jerusalèn, la Niña de Gomes Arias.

Sotto il nome di Hija del aire (figlia dell’aria) Calderon, non altrimenti che il nostro Muzio Manfredi, pubblicò due favole sulle avventure di Semiramide. Nella prima ne dimostrò la prima gioventù, l’ educazione selvaggia avuta ne’ monti, le sue nozze con Mennone indi con Nino re di Assiria. Nella seconda trattò del di lei regno dopo la morte di Nino, della maniera come tolse il freno del governo al figliuolo inetto per regnare colle di lui spoglie virili, e della di lei morte. Nell’una e nell’ altra è dipinto vivacemente il carattere di questa regina straordinaria piena di valore e di ambizione; ma nella seconda sono gli evenimenti assai più dilettevoli e più atti a chiamare il concorso.

El Tetrarca de Jerusalèn contiene le avventure di Marianna ed Erode, ed è forse la più famosa delle di lui rappresentazioni istoriche e quella che più spesso ho veduta riprodursi sul teatro di Madrid. La favola si aggira sul timore che ha Marianna di una predizione di un astrologo, che ella perirebbe preda di un gran mostro, e che Erode col pugnale che sempre porta allato darebbe la morte alla persona da lui più amata. Risaltano in questa favola il carattere di Marianna virtuosa quanto bella, a quello di Erode geloso ed amante.

Nell’atto I Erode tenta dissipare i di lei timori riguardo al mostro, e perchè non abbia a temere del pugnale lo getta in mare, supponendo Gerusalemme città marittima. Ma questo ferro fatale va a cadere appunto su di un uomo che a nuoto tenta falvarsi da un naufragio, e questi è Tolomeo suo capitano da lui mandato in soccorso di Marcantonio contro di Ottaviano. É condotto questo Tolomeo col pugnale fitto nel corpo e prima che spiri fa un racconto del trionfo di Ottaviano e dell’armata Ebrea distrutta dalla tempesta. Ma egli a dispetto di un pugnale che l’ha trafitto vuol ciò riferire in settantacinque versi ripieni di concettuzzi e di circostanze inutili, entrandovi il bucentoro di Cleopatra lavorato di avorio e coralli, il mare divenuto Nembrot de’ venti che pone monti sopra monti e città sopra città, la tavola su di cui si salva Tolomeo fatta delfino impietosito, il ferro che l’ha trafitto divenuto cometa errante, che corre la sfera dell’ aria contro l’umano vascello del di lui corpo. Un poeta più sobrio avrebbe ad un moribondo risparmiato almeno sessanta di questi versi ed un pajo di dozzine di pensieri stravaganti.

Tout ce qu’on dit de trop est fade & rèbutant.

Intanto Ottaviano in Menfi per alcune carte comprende i disegni di Erode. E quali sono? Aspirare a divenire imperadore di Roma. È una ipotesi troppo inverisimile per accreditar le situazioni che seguono, che un Idumeo signore di una parte della Palestina nel tempo che contendevano Ottaviano e Marcantonio, concepisca il disegno di farsi padrone di Roma. Ottaviano tralle carte nominate appartenenti ad Aristobolo ha trovato un ritratto della bella Marianna, e gli vien dato ad intendere essere immagine di una bellezza estinta. Il poeta riconduce lo spettatore a Gerusalemme ad ascoltare un dialogo di Marianna ed Erode che aringano ed argomentano a vicenda.

In Menfi comincia l’atto II che poi termina nella Giudea. Nell’intervallo degli atti si figura il Tetrarca fatto prigioniero, ed è condotto alla presenza di Ottaviano, che ha nelle mani il ritratto di Marianna. Erode s’ingelosisce; Ottaviano lo minaccia e rimprovera, e gli volge le spalle; Erode tenta di ammazzarlo col suo pugnale. Per render verisimile quest’attentato, dovrebbe supporsi che Ottaviano si trattenga col nemico senza verun testimonio, senza corteggio, senza guardie. Ma chi lò salva dalla morte? Una copia grande del picciolo ritratto che cadendo dal muro si frappone e riceve il colpo destinato ad Ottaviano. Il pugnale tolto dalla percossa immagine rimane in potere di Ottaviano, ed Erode è condotto a una torre per aspettar la sentenza della sua morte. La gelosia gli fa vedere la sua Marianna in potere del nemico che ne tiene varj ritratti. Pensa ad impedirgliene il possesso ancor dopo che egli sarà morto, ed in una lettera ordina la di lei morte, e la manda a Tolomeo. Per un intrigo amoroso di una damigella questa lettera passa nelle mani della stessa Marianna che con somma maraviglia e dolore ne legge il contenuto. Le sue giuste querele sono patetiche ma confuse in un mucchio di espressioni fantastiche. È notabile la situazione di Marianna dopo la lettura della lettera. La tormentano l’amore e l’indignazione; nè a questo punto patetico altro manca che una esecuzione più naturale ed espressioni spogliate da i delirj de’ secentisti.

L’atto III passa in Gerusalemme. Marianna si presenta ad Ottaviano coperta di un velo e domanda la vita del consorte. Non vuole udirla, e le dice,

Si enternecer no espero
mis iras, paraque con ellas luchas?

E Marianna con grandezza e vivacità ripiglia,

Paraque tu gobiernas si no escuchas?

Ottaviano convinto da tal detto si arresta, ma ricusa di ascoltarla prima che discopra il suo volto. Marianna si discopre, ed è ravvisata per l’originale della pittura. L’imperadore concede la grazia domandata, e nobilmente dilegua anche ogni sospetto svegliato in Erode da i di lei ritratti. Erode vuol mostrare la sua gratitudine alla moglie, ma ne ammira la somma mestizia e le lagrime. Ne vuol sapere la sorgente, e Marianna gli rimprovera l’ ordine dato della di lei morte, mostrandogli il di lui foglio. Molti pensieri patetici ed energici si trovano sparsi nelle di lei querele; ma sono frammischiati a varie impertinenze pedantesche di quel tempo. Ella si ritira al suo appartamento per mai più non vederlo, giurando por los dioses che adora109 che si getterà in mare se ardisce entrarvi. Intende Ottaviano la strettezza in cui vive Marianna, e risolve di andar di notte a vederla. Quì Ottaviano diventa un innamorato di spada e cappa che si accinge ad un’ avventura notturna; là dove egli prima per dissipare i sospetti del Tetrarca magnanimamente diede ragione della maniera per cui acquistò il ritratto, e poi lo lasciò in potere della stessa Marianna. Egli in fatti entra di notte nelle di lei stanze con poco decoro della maestà e con rischio della fama della regina. L’incontra, offerisce liberarla (quando che dovea e potea farlo decentemente colla propria autorità); Marianna gli dice che la sua prigionia è volontaria. Puerilmente ancora Ottaviano s’invoglia un’ altra volta del ritratto che spontaneamente le avea consegnato; e la regina glielo nega e vuol bruciarlo. Ottaviano insiste, l’impedisce, vuol torglielo a forza; ella minaccia d’ammazzarsi col pugnale di Erode che Ottaviano porta al fianco. Non è questa una contesa tutta comica e indecente contraria alla verisimiglianza ed al decoro di questi personaggi? Ottaviano si arresta, ella fugge e getta via il pugnale; egli le corre dietro. Chi riconosce più in tal conflitto e strano inseguimento l’Ottaviano del resto della favola? Il Tetrarca viene col disegno di tentar di parlare a Marianna; si maraviglia de’ fregi donneschi sparsi per la stanza; si avvede del suo pugnale che era rimasto in potere dell’imperadore; ode la di lui voce e quella di Marianna; sente tutta la sua gelosia; imbatte in Ottaviano, l’ affronta; Marianna per separargli smorza il lume; Erode perde la spada, impugna il pugnale, incontra Marianna, l’ammazza, e poi si getta in mare.

E questa è la favola del Tetrarca de Jerusalèn che l’ autore volle chiamar tragedia, ad onta delle buffonerie che quì ho tralasciate, dell’irregolarità e delle avventure comiche notturne; conchiudendo, che quì termina la tragedia, restando adempiuto l’ influsso. Ed in ciò ancora è da riprendersi il poeta; perchè in vece di prefiggersi l’insegnamento di una verità, cioè che le passioni sfrenate e la pazza gelosia cagionino ruine e miserie, egli si è studiato d’insegnare che esse provengono dall’influsso degli astri. Era questa la bella moralità da insegnarsi sulle scene? Si combattono in tal guisa gli errori volgari? É questa una dottrina concorde colla libertà umana e colla religione? Calderon incorse nel medesimo difetto nell’altra sua favola reale la Vida es sueño.

Credè il sig. Andres che il Francese Tristano avesse tolto l’argomento della sua Marianna dal Tetrarca di Gerusalemme. Ma che mai trovò egli di rassomigliante nella condotta della tragedia francese e della favola Spagnuola, in cui si vedono le additate tinte comiche miste alle tragiche, le irregolarità, que’ ritratti adorati dal poco grave Ottaviano, quelle avventure notturne, il passaggio replicato de’ personaggi da Gerusalemme a Menfi e da Menfi a Gerusalemme, la cura puerile del poeta di accreditar l’errore volgare dell’influsso? Ben però è certo che Ludovico Dolce precedè d’un secolo il Francese e lo Spagnuolo in valersi dell’argomento della morte di Marianna e della gelosia di Erode riferita dall’Ebreo Flavio Giuseppe, e ne formò una tragedia regolare recitata con tale applauso in casa di Sebastiano Erizzo, che quando volle ripetersi nel ducal palazzo di Ferrara, la calca che vi accorse ne impedì la rappresentanza. E chi non vede quanto più la Marianna di Tristano rassomigli a quella del Dolce, il quale se ne togli qualche languidezza ed espressione troppo famigliare, formò con giudizio di quella storia una vera tragedia regolare ed interessante? Ma siccome non dubitiamo di affermare che il Dolce per invenzione ed arte di tanto precedè, e vinse il Francese e lo Spagnuolo, così confessiamo che egli, non osando abbandonar la storia, non migliorò quanto dovea i caratteri di Marianna e di Erode; là dove a mio avviso Calderon dipinse più vivacemente il geloso furor di Erode, e rendè più interessante il carattere di Marianna amante, offesa, virtuosa, sensibile e grande. Osserviamo ancora che l’ Italiano nello scioglimento produsse assai meglio l’effetto tragico di quello che fece lo Spagnuolo colla morte di Marianna seguita all’oscuro per un equivoco mal condotto; ma ci sembra nel tempo stesso che il Dolce avrebbe meglio eccitato il terrore, se non iscemava l’odiosità prodotta dall’ insana sevizia del tiranno coll’ infruttuoso suo pentimento, o se dopo l’ eccidio egli avesse con tutta evidenza fatto conoscere al geloso il suo inganno e l’innocenza di Marianna.

La Niña de Gomes Arias contiene la detestabile dipintura di un soldato discolo colpevole di più delitti, e segnatamente di tradire tutte le semplici donzelle che le prestano fede. Dorotea trafugata dalla casa paterna viene da lui che già n’è sazio, abbandonata in un deserto mentre dorme a piè dell’Alpujarra, ne’ cui monti, presa Granata da Ferdinando ed Isabella, si permise che vivessero alcuni Mori come tributarj, i quali di tempo in tempo calavano al piano e rendevano schiavi i passeggieri. Allo svegliarsi Dorotea vedendosi dappresso un Affricano cerca lo sposo. Questa situazione richiedeva altre espressioni che le seguenti false e inverisimili:

Dime (domanda al Moro) que has hecho del dia,
atezada nube parda?
sombra, que has hecho del sol?
noche, que has hecho del alba?

É presa da’ Mori, ma vien liberata da alcuni soldati Cristiani e condotta in una casa dove dimora l’istesso Gomes suo traditore. Questi pensa di menar via un’ altra donzella di quella casa, e per errore porta seco la stessa Dorotea. All’apparir del dì nell’atto terzo egli ravvisa Dorotea trovandosi nel medesimo luogo dove l’abbandonò la prima volta, cioè a vista di Benamexi città de’ Mori. Dispettoso l’oltraggia, l’ ingiuria, vuol di nuovo abbandonarla. Piagne la meschina, domanda la morte; ma l’inumano prende una risoluzione più barbara, e facendo segno a’ Mori tratta di venderla. Meritano di notarsi le querele di Dorotea, mal grado de’ freddi concetti che le deturpano. Ne darò una mia traduzione, e ne’ passi dove i tratti patetici vengono traditi dalle false espressioni, non sostituirò ad esse i miei pensieri, ma le trascriverò in margine. Ecco come a lui parla Dorotea:

Mostro, barbaro, ingrato, ove trascorri? 110
Che tenti? E a tanto orror giugner potesti
Senza temere i fulmini del cielo?
Vender mi vuoi tiranno? A un mostro vile
Vendermi, oimè, senza pensar che schiava
Se mi fè un folle amor, libera io nacqui?
Di qual barbaro mai, di qual selvaggio
Tanta infamia si udì? Quella che amasti,
Nè vo’ già dir la sposa tua, tu stesso
Meni di un altro in braccio? Il giusto cielo
Mi vendichi di te: l’aria ti manchi,
Ti nieghi il sol la luce, e del tuo sangue
Ti vegga asperso, e dall’infame busto
Un carnefice vil quell’empio capo
Recida ... Ma che dico? Oimè, ben mio,
Mio sposo, mio signor, tua schiava io sono,
Fa di me quel che vuoi. Ma se ti offesi,
Se nel tuo sdegno incorfi, uccidi, mora
La schiava tua senza cangiar catena.
Splenda a te sempre mai propizio il sole,
Placida l’aura ti vezzeggi: un terso
Specchio l’acqua ti sia: per te la terra
In ridente giardin tutta si cangi.
Il fiero Cagnerì cui tu mi vendi,
Quel dì che in preda mi lasciasti al sonno,
Amante si mostrò, che il ciel dispone,
Ch’io nell’essere amata ed abborrita
Sia del pari infelice 111 ! Or tu vorrai
Darmi in sua man, nè sentirai quel gelo
Che suol provarsi ancor per chi si abborre?
Se amor non può, ti renda onor geloso.
Io pure udii dal labbro tuo talvolta
Che sposo mio saresti. Ah per sì caro
Nome che meritai qualche momento,
Signor pietà, mercè,
Deh non lasciarmi, oimè!
Presa in Benamexi
In man del Cagnerì 112.
Che se per non serbar la data fede
Fuggir mi vuoi, ben ti prometto e giuro
Obbliarla per sempre ed in un chiostro
Girmi a chiuder di quì, dove co’ voti
Dal ciel t’implorerò giorni felici
Quel tempo che il dolor della tua assenza,
Della perdita tua, mi lasci in vita.
E se Beatrice ingelosir pur temi,
Se mi vegga tornar teco a Granata,
Io stessa a lei dirò che per errore
Di sua casa salii, che vi ritorno
I suoi dubbj a calmar, che di mio padre
L’ira io fuggia, tu lei salvar credendo
Salvasti me, ma che non v’è fra noi,
Nè mai fu arcano onde si adombri e offenda.
E quando in servitù vuoi pur ch’io viva,
Dia legge a me chi innamorar te seppe.
Lei servirò; nè più avvilir si puote
Disingannato amor, femminil fasto.
Ma se il mio pianto a intenerirti è vano
Per quel che sono, a quel che fui deh pensa.
Nacqui di nobil padre, il sai, da lui
Amata mi vedesti, e rispettata
Nella patria da nobili e volgari.
Ti ascoltai, ti credei, patria ed onore
(O memoria crudel!) per te perdei.
Pietà, signor, quel miserabil vecchio
Pensa qual resterà, quando l’infaustæ
Novella a lui del mio destin pervenga.
Vendicarsi vorrà, quando non sia
Altri uccidendo, colla propria morte.
Ma già ... misera me ... mi manca il fiato . . .
Mi balza il cor ... dalla funesta rupe
Già scende il Cagnerì 113 . . . Signor, mio bene,
Pietà di me, pietà di te: rientra
In te stesso per te: cangi il pentirti
In merito il delitto; o tu vedrai
Congiurato in tuo danno, e cielo e terra 114.
Signor, pietà, mercè,
Non mi lasciare, oimè!
Presa in Benamexi
In man del Cagnerì.

Ma l’infelice è dall’inumano Gomes data in potere dell’Affricano. Viene poi liberata dalle armi della regina Isabella, la quale informata delle di lei avventure, ed avuto in suo potere lo spietato Arias, decreta ch’egli risarcisca l’onore di Dorotea sposandola ed indi perda la testa su di un palco.

Ognuno vede che questo atroce misfatto è quell’istesso che commise un mostro Inglese in persona di una Garaiba, la quale oltre all’avergli dato il cuore e il possesso di se stessa, gli avea di più salvata la vita. L’uomo ingrato in ricompensa, giunto con lei a salvamento nella Barbata, vendè la sua liberatrice. Se l’argomento della favola di Calderon è finto, egli immaginò quel che eseguì il detestabile Inglese. Se egli trasse dal fatto della Caraiba l’argomento del suo dramma, perchè mai trasportò dalla nazione Inglese alla propria quell’infamia che eccita il fremito dell’umanità? E se tralle antiche leggende Spagnuole si rinviene eziandio questa spietatezza (di che lascio a’ nazionali la cura d’investigarlo), egli è da dire che l’ umana malvagità volle copiare se stessa, e far ripetere nel declinar del passato secolo ad un Inglese quel che già avea eseguito uno Spagnuolo.

Ma il merito particolare di Calderon non si appalesa nelle favole istoriche ove per lo più volendo esser tragico, grande, sublime, diventa turgido, pedantesco, puerile. Egli trionfa nelle commedie dette di spada e cappa, presentando a’ sagaci osservatori un gran numero di situazioni interessanti, colpi di teatro curiosi disposti acconciamente, regolarità maggiore, stile più proprio del genere, e dialogo quasi sempre naturale. Quindi è avvenuto che mentre le commedie dell’istesso Lope e di quasi tutti i suoi coetanei più non compariscono sulle scene di Madrid, vi si sostengono quelle di Calderon. Noi quì potremmo addurne diverse degne di leggersi; ma ci contenteremo di quelle che più spesso si rappresentano, o che hanno alcun particolar pregio. Ben tessuto è il viluppo delle due commedie Casa con dos puertas mala es de guardar, e Tambien ay duelo en las damas, le quali si rassomigliano ne’ colpi scenici. Tiene l’uditorio svegliato l’intrigo della commedia los Empeños de un acaso, dove per accidente più che per interesse passano i personaggi d’uno in un altro impegno. Lo stile è proprio del genere eccetto quando gli amanti vogliono parere spiritosi, fioriti e leggiadri, perchè allora diventano enimmatici e pedanteschi. Fu tradotta da’ Francesi col titolo les Engagemens du hazard.

Si rassomigliano in varie cose le commedie Nadie fie su secreto, e il Secreto à voces, ma sono artificiose e notabili per alcune situazioni comiche. Nella prima un principe ama l’innamorata del suo favorito, e sapendone i secreti toglie agli amanti l’opportunità di parlarsi, di sposarsi e di fuggirsi via. Nell’ altra un servo diventa la spia del proprio padrone, che è il segretario d’ una principessa da cui è occultamente amato. Egli ama una dama della di lei corte, e la principessa sa il di lui amore ma non l’amata. Gl’ innamorati per comunicarsi anche in pubblico quanto passa, hanno posto fra loro una cifra, che rende inutili tutte le diligenze e gli avvisi della spia. Quest’ intrigo riesce piacevole, e sarebbe a desiderarsi che il poeta avesse renduta più verisimile la pratica della cifra. Senza mettere per ipotesi che gli amanti sieno un Perfetti e una Corilla, cioè verseggiatori estemporanei, è impossibile persuadere all’uditorio ch’essi s’intendano. Ecco in che consiste la cifra. Colui che comincia a parlare, prende in mano un fazzoletto per avvisare all’altro che stia attento. Indirizza poi a’ circostanti un discorso diverso dal secreto, del qual discorso però ogni prima parola di un verso s’intende diretta all’amante; di modo che raccogliendo in fine tutte le prime voci, ne risulti l’avviso che si vuol dare. Questa cifra è soggetta a due opposizioni. Primieramente la prima voce da prendersi nella favola di Calderon è sempre il principio di un verso e non già di un periodo terminato. Di poi la lunghezza del discorso riesce inverisimile all’improvviso nel parlare, dovendosi fare due discorsi seguiti di materie differenti colle medesime parole. E se Calderon vivesse, confesserebbe che a tavolino distese egli con qualche studio ciò che suppone che i suoi personaggi facessero estemporaneamente. Siane un saggio l’avviso che dà Laura all’amante nella giornata II. Ella vuol dirgli ciò che siegue:

Flerida ha sabido ya
que de aqui no te ausentaste,
y que con tu dama hablaste,
de que muy zelosa està.

Ciascuna parola di questi quattro versi dee servire per prima parola di ogni verso del discorso generale indirizzato a tutti gli altri, di maniera che ciascuno di questi versi fornisce le quattro prime parole de’ quattro versi del sentimento che si dirigge agli astanti. Eccone la prima strofa:

Flerida, cuya beltad
ha con tu ingenio igualado,
sabido es quanto ha mostrado
ya mi afecto mi humildad.

Da ciò apparisce l’inverisimiglianza della pratica esecuzione di tal cifra parlando. V’è però la maniera di migliorare tale artificio, per fuggir l’ inconveniente che risulta dal far parere che sappia il personaggio esser la commedia scritta in versi.

Contansi tralle migliori commedie del medesimo autore per situazioni interessanti e per caratteri ben dipinti el Medico de su bonra, Primero soy yo, Dicha y Desdicha del nombre, el Garrote mas bien dado. La commedia No ay burlas con el amor contiene i caratteri di due sorelle che si contrastano, Leonora sensibile, facile e nell’espressioni e nelle maniere naturale, Beatrice schiva, ritrosa, nojosamente stoica, affettata. L’ostentazione dell’erudizione greca e latina di Beatrice c’induce a sospettare che Moliere ne avesse tolta l’idea delle sue Donne Letterate; ma ciò è incerto, ed è sicuro dall’altra parte che il vivacissimo colorito della favola francese ha un impasto originale. La commedia Mejor està que estaba è fondata (come la maggior parte delle Spagnuole) nel concorso di varj colpi di teatro. Ma ben notabile (e l’avvertì anche M. Linguet115) è la situazione delle prime scene, in cui Carlo si ricovera in casa di Flora per aver ammazzato un uomo ed è da Flora nascosto. Ella intende poi che l’ucciso è il di lei cugino, nè perciò lascia di proteggerlo e salvarlo. In questa favola Calderon non ha evitato il solito difetto di mescolare colle scurrilità le sagre cose. Il buffone stà parlando col Podestà, e gli è detto che si contenga nel dovuto rispetto alla presenza del Podestà. Norabuena, egli risponde.

Diciendo yo la verdad,
ser que importa en conclusion
el Trono, ò Dominacion,
quanto mas el Potestad.

In tutte le favole Calderoniche non è da cercarsi regolarità ed unità nel tempo, nel luogo, nell’azione e nell’interesse. Ma nella sola favola los Empeños en seis horas, vi si trova di proposito racchiusa l’azione quasi nel tempo della rappresentazione. Si vede che l’ autore volle tesserla con tale angustia, non per osservar le regole prescritte, ma per desiderio di riuscire in una impresa allora forse reputata difficilissima. Di fatti egli si studiò sempre di ritrovare argomenti artificiosi e capaci di recar maraviglia, senza aver la mira a cercarli idonei ad inspirare amore per qualche virtù o a rilevare una massima istruttiva. E che insegna quest’intrigo degl’ Impegni in sei ore? Per mezzo di un manto si prende senza verisimiglianza un equivoco, per cui Nisa è creduta Porzia da un personaggio che viene a sposar quest’ultima; e quando l’equivoco si scioglie, che mai vi s’impara? Egli vorrebbe incessantemente inculcarsi a’ poeti scenici, che il diletto non debbe mai andar disgiunto dall’ insegnamento. Ma ad onta di tanti difetti di regolarità, di stile e d’ istruzione le favole di Pietro Calderon de la Barca contengono molti pregi, per li quali piacquero e piacciono ancora in Ispagna, e trovarono traduttori ed imitatori in Francia prima di Moliere ed in Italia nel passato secolo. Che se altrettanto non è concesso a tanti e tanti commediografi, bisogna dire che nelle di lui favole si nasconda un perchè, uno spirito attivo vivace incantatore, per cui, secondo Orazio, sogliono i poemi ascoltarsi con diletto quante volte si ripetono. Egli è questo perchè, questo spirito elettrico che sfugge al tatto grossolano di certi freddi censori di Calderòn.

Nel tempo ch’egli di tanti componimenti arricchiva il teatro Castigliano, altri poeti fiorirono ancora, ma principalmente Agostin Moreto ed Antonio Solis, i quali per avventura nulla a lui cedevano per fantasia, e lo superavano in qualche altro pregio.

Moreto, giusta il costume del secolo, scrisse varie commedie in compagnia di altri poeti, e non poche ne produsse solo, e chiudonsi in tre volumi, de’ quali il primo uscì in Madrid l’anno 1654; ma cessò di comporne tosto che fu iniziato negli ordini sacri a quali ascese. In generale questo scrittore usa della libertà spagnuola meno di Galderon, per lo più distendendosi la durata dell’azione a pochi giorni. Ha parimente più copia di sali e più lepidezza, dipinge i caratteri con maggior vivacità comica, ed hanno i suoi colpi di teatro più varietà. Se la moda e l’esempio non avesse rapito Moreto, forse in lui si sarebbe veduto il Moliere delle Spagne. La perizia che avea in porre alla vista il ridicolo d’un carattere, comparisce singolarmente nella sua commedia el Marquès del Cigarral. Questo marchese è un ridicoloso vantatore pieno di una sognata nobiltà di cui pretende tirar l’origine da Noè. M. Scarron la tradusse in Francia e l’intitolò Don Japhet; ma non contentandosi di ritenerne le grazie, le caricò fuor di proposito. Lo stile di Moreto generalmente è moderato e proprio del genere comico, eccetto quando parla l’innamorato, perchè allora egli si perde nel lirico e nello stravagante al pari degli altri. Le facezie ed i motteggi sono graziosi e frequenti, ma egli segue i compatriotti nell’usanza di scherzare sulle parole sacre. Don Cosmo dice nella giornata I, ad Ephesios responsion, nella II giura il personaggio por el santisimo bote de la Magdalena santa, nella III esclama valgame todo el Psalterio. Lo spettatore volgare che altra scuola pubblica non suole avere che il teatro, si conferma con ciò nell’abito di abusare delle sacre espressioni. Moreto non per tanto pieno di buon senso vide molti difetti del teatro spagnuolo, e più di una volta ne rise. In questa motteggia sull’uso d’introdurre i servi buffoni, che sono gli arlecchini di quelle scene, ad assistere a i discorsi de’ principi, ed a mettervi il loro sale. Quanto alle unità di tempo e di luogo si vale de’ privilegj nazionali ma con discretezza. L’azione comincia in Ortaz e prosiegue e termina in Consuegra, e vi s’impiega almeno lo spazio di dodici giorni; dicendo Don Cosme nella I giornata a Leonora che vada a Consuegra, dove egli si porterà passati dieci giorni, e nella prima scena poi della II giornata,

Ayer se cumpliò el plazo prometido,
En que ha señalado su venida;

sono dunque trascorsi undici giorni, e l’azione principale non è pure incominciata.

Ma egli compose la Confusion de un Jardin, in cui seppe tessere un’ azione regolare passata in un giardino nel giro d’una notte. Anche in essa riprese i compatriotti che appiccavano indivisibilmente agl’ innamorati i buffoni con manifesto detrimento della verisimiglianza. Egli fa che l’innamorato all’entrar nel giardino dia congedo al suo servo, il quale si lagna di essere il primo servo con cui il padrone non si consigli, e che rimanga escluso da’ di lui secreti maneggi. Si vede che Moreto volle comporre una favola dentro le regole senza dipendere dall’uso spagnuolo. Essa è tanto regolare quanto gl’ Impegni in sei ore di Calderòn; ma è più semplice, meno caricata di accidenti, e non meno dilettevole. Ma queste commedie che noi con ingenuità mettiamo alla vista, sono state forse additate da’ Nasarri e da’ Lampillas? Si confrontino le loro scritture. Anche in questa favola si vedono le solite allusioni buffonesche alle cose sacre. Essendo preso un cavaliere nel giardino, la Graciosa dice,

Es noche de Jueves santo
que se hace prision en huerto.

Non dee però dissimularsi che nè gl’ Impegni in sei ore, nè la Confusione d’un Giardino ho veduto rappresentar mai in Madrid nella mia lunga dimora.

El Desdèn con el Desdèn, altra commedia di Moreto, comparisce sempre con nuovo diletto sulle scene Castigliane. Benchè sottoposta ai soliti difetti d’irregolarità, vi si ammirano pennelleggiate con somma maestria le passioni di una dama bizzarra che vuol parere superiore all’amore. Moliere la tradusse intitolandola la Princesse d’Elide, ma questa copia fatta per altro frettolosamente sembra assai fredda a fronte dell’originale. Che vivacità in Moreto! Che delicato contrasto di un orgoglio nutrito sin dalla fanciullezza, e di un amor nascente nel cuore di Diana! Che interesse in tutta la favola progressivamente accresciuto a misura che si avanza verso il fine! Tutto questo si desidera nella copia che ne abbozzò Moliere. In prima questo gran comico Francese trasportò l’azione tra’ remotissimi principi Greci d’Elide, d’Itaca, di Pilo e della Messenia, e con ciò alla bella prima ne diminuì l’evidenza e l’interesse, che fuor di dubbio noi prendiamo più facilmente per oggetti che più a noi si avvicinano. Di poi quel Moròn Francese comparato col ben grazioso Polilla Spagnuolo comparisce un freddo buffone. Appresso l’Eurialo di Moliere che è il conte de Urgèl di Moreto, introduce il suo stratagemma di fingersi nemico di amore spogliato di circostanze che l’ accreditino, ed in un modo languido che annoja coloro che conoscono l’ originale Spagnuolo. In oltre l’insipidezza colla quale la Principessa d’ Elide entra nell’impegno d’innamorare Eurialo, copre di gelo l’invenzione di Moreto. Je vous avoüe (atto II scena 5) que cela m’a donné de l’émotion, & je souhaiterois fort de trouver les moyens de châtier cette hauteur. Qual differenza da queste parole a quelle della scena di Diana con Cintia in cui nasce il di lei impegno! Con quanta energia ella s’irrita alla freddezza di Carlo! Qual pennellata maestrevole in questi due versetti,

Aunque me cueste un cuidado,
He de rendir à este necio,

ne’ quali tutta si manifesta l’anima orgogliosa di Diana, e la facilità ch’ella si lusinga d’incontrare a vincerlo! Giunto in Madrid m’imbattei a sentirli espressi dalla singolare attrice Mariquita Ladvenant con tal sagace misto di certa sicurezza maestosa, di dispetto, e di una risa ironica, che pareva di aver letto nell’anima di Moreto. Nè anche la copia Francese rappresenta in menoma parte le vaghe tinte originali di una scena della II giornata, in cui Carlo cade a palesarsi amante, e vien trattato da Diana coll’ ultima fierezza e col disdegno più altiero, per la qual cosa egli scaltramente ripiglia la dissimulazione, ed ella rimane mortificata e sempre più impegnata ad innamorarlo davvero. Invano parimente si cerca nella copia la bellezza della scena della III giornata, in cui Carlo si finge preso di un’ altra e la chiede in isposa, così che la gelosia finisce di trionfare del cuore di Diana. E finalmente la languidezza, con cui la Principessa d’Elide vuole esigere da Aglante che la vendichi rifiutando la mano di Eurialo, se si confronti colle infocate espressioni di Diana gelosa, superba e disprezzata, rassomiglia un fuoco fiaccamente dipinto alla vista di una fornace ardente.

Anche l’altro valoroso comico Francese M. Regnard rimase al di sotto di Moreto nell’imitare ne’ suoi Menecmi varie scene piacevoli della commedia di Moreto la Ocasion hace el ladron. In essa una baligia cambiata ed un nome preso a caso da un cavaliere cui importa di non esser conosciuto, forma un intrigo assai vivace. Vi si veggono con molto artificio condotte le comiche situazioni, e con verità dipinti i caratteri, specialmente quello di Don Manuel de Herrera, in cui si ravvisa un natural ritratto de i discendenti de’ nobili, che commettono azioni ingiuste degne di ogni rimprovero, e pure credonsi onorati purchè non rubino; quasi che l’infamia dipenda da questo solo genere di delitti. M. Linguet ha renduta a Moreto tutta la giustizia per questa favola preferendola ai mentovati Menecmi di Regnard. Egli l’ha inserita nel suo Teatro Spagnuolo con altre due del medesimo autore, cioè il Parecido en la Corte, e No puede ser guardar la muger. Il Parecido è una commedia di rassomiglianza che ha varie scene piacevoli e dove il buffone ha una parte competente. L’altra è stata adottata dagl’ istrioni. Italiani e recitata spesso all’improvviso. Ma in questa si vuole osservare che il poeta per sostenere il sentimento opposto introduce un fratello che non è la persona più scaltra del mondo, nè la più atta a vegliare sugli andamenti della sorella; ed oltre a ciò essa è da riporsi tralle favole di cattivo esempio, che danno peso appo i volgari alle massime perverse del libertinaggio116.

Termineremo di parlar di Moreto colla commedia intitolata el Valiente Justiciero, nella quale si ritraggono al vivo le tirannie baronali quando regnava in Ispagna con tutto il vigore il governo feudale. Vi si rappresenta un Rico-Hombre di Castiglia padrone di Alcalà e delle città, castella e villaggi che le sono intorno, vantandosi egli di passeggiare sempre per le proprie possessioni per dieci miglia di circuito, e queste non già dategli per mercede da qualche sovrano, ma guadagnate contro i Mori a colpi di lancia. Egli gonfio non meno della ricchezza che del legnaggio dice,

. . . . . . que en Castilla
viò Ricos-hombres mi casa
antes que Reyes su silla;

laonde rende a se stesso giustizia in questa guisa:

Pues quien ha de poner ley
en un hombre como yo,
que ya que Rey no naciò,
tampoco es menos que el Rey?

Queste pennellate eccellenti preparano ad intenderne le ingiustizie e le violenze; e vien descritto come ingannatore di nobili donzelle deluse colla parola di matrimonio e poi rifiutate con discortesia e disprezzo, come rapitore di spose illustri, come derisore dell’autorità reale quando si tratta della sua pretesa giurisdizione. E’ degna di osservarsi l’ultima scena della I giornata, in cui il rico-hombre chiamato Don Tello riceve in propria casa il re Don Pietro il crudele in qualità di un privato cortigiano chiamato Aguilera. Don Tello parla con poco rispetto del re che crede assente, ed il finto Aguilera alzandosi ne lo riprende con bizzarria; ma Don Tello quasi sdegnandosi di corrucciarsi con una persona tanto, al suo credere, inferiore a lui per nobiltà e per valore, gli dice con tranquilla superiorità,

Sientese el bueno Aguilera.

Questo tratto di alterigia è vendicato nella II giornata. Don Tello è costretto dal re a venire a Madrid. Entra nella reale udienza ed è obbligato ad aspettar lungo tempo il sovrano, il quale esce al fine ad ascoltarlo ma leggendo una lettera, nè badando a Don Tello che gli s’inginocchia davanti. Il buffone che al solito assiste a quest’incontro, rileva cotal disprezzo, e motteggia il padrone mortificato col ripetere quel verso,

Sientese el bueno Aguilera.

Di poi Don Tello pe’ suoi delitti è condannato a morte. Ma perchè egli più d’ una volta ha mostrato disprezzo del valor personale del re che si teneva per prode, per ordine secreto del sovrano è condotto fuori della prigione e di Madrid. Il re senza farsi conoscere duella con lui, lo disarma, e si scopre, godendo di avere umiliato e convinto l’orgoglioso vassallo non meno del proprio potere che della gagliardia.

Prima di passare alle commedie di Antonio Solis, quest’ultima favola di Moreto ci torna in mente quante volte i poeti Spagnuoli hanno introdotti i sovrani che deposta la maestà si trattengono in domestici colloquii con contadini senza scoprirsi. Distinguonsi in tal particolare altre due commedie applaudite, e solite anche al presente a rappresentarsi in Madrid, cioè el Montañes Juan Pasqual, ed el Sabio en su retiro. La prima dicesi composta da un Ingenio, e vi è introdotto anche il re Don Pietro il crudele, il quale andando alla caccia obbligato da un’ improvvisa tempesta si ritira in casa del labrador Juan Pasqual, con cui nel tempo della cena ragiona allegramente, ed intende parlar di se, senza le basse lusinghe cortigianesche, da un uomo di buon carattere e fornito di saviezza. L’altra commedia el Sabio en su retiro appartiene a Giovanni Matos Fragoso, ed è la migliore delle sue favole117. Notabili sono in essa il carattere del re Alfonso detto il Savio, e quello di un uomo di campagna pieno di virtù e di buon senso naturale. Interessante singolarmente è la scena della loro cena; e i discorsi del re e di Juan Pasqual sono ben degni degli elogj de’ giornalisti Francesi e di M. Linguet. I miei leggitori vedranno forse con piacere tradotto qualche squarcio di questa favola; ed io prescelgo un discorso di Juan Pasqual con cui s’indirizza all’autore della natura, perchè ne manifesta il carattere:

Arbitro di natura, alto sovrano
Della terra e del ciel, quali non debbo
Grazie alla tua pietà, che di tai doni
Sì mi colmasti, che quanto si scopre
Dalla vicina rupe a quella valle
Che di alte olive sì folta verdeggia,
Tutto a me serve! I copiosi favi 118
Quanto mele raccolgono, al suol quanti
Gravosi tralci di dolcissime uve
Inchina il ricco peso, quanti monti
Di dorato frumento ingombran l’aje,
Tutto, tua gran mercè, per me si aduna.
Nè la ricchezza è la maggior ventura
Che mi donasti; un placido riposo,
Una gioja innocente appien gradito
Rende lo stato mio; che l’uom felice
Tant’è quant’ei si reputa. Lontano
Da cure ambiziose infra i castagni
Infra le quercie, in rustico abituro
Nacqui, e dodici lustri io vissi lieto.
Nè il re vidi giammai, nè di Siviglia
L’altera corte, e sol due leghe appena
Lunge è da quì; tal mi cagiona orrore
Il doppio mascherato cortigiano.
Meno tranquilli i dì fra miei pastori
Che mi onorano a gara, ed i miei voti
A’ cittadini onori io non sollevo:
Chè gir sì alto è ben somma follia
Per cader poi con più fatal ruina.
Temo l’esempio di robusta quercia
Che de’ venti al soffiar spesso si spezza,
Quando debole canna il lor furore
Stanca cedendo, e col piegarsi vince.

Gl’ Inglesi hanno un picciolo componimento intitolato il Re ed il Mugnajo di Mansfield, cui l’autore Dodsley dà modestamente il nome di novella drammatica. Vi si vede un re d’ Inghilterra che smarrito in una foresta si ricovera solo in casa del mugnajo, dove ascolta i propositi de’ campagnuoli e l’infedeltà usata da un suo cortigiano ad una contadina119. Verisimilmente l’autore ne tolse l’argomento dalle favole di Moreto, o dell’ Anonimo o di Matos. Non per tanto M. Sedaine che ha scritto in Francia le Roi & le Fermier, e M. Collet autore della Partie de chasse de Henri IV, confessarono di aver seguita la favoletta inglese, ignorando che questa era una debole copia delle nominate commedie spagnuole.

L’altro degno contemporaneo di Calderòn e Moreto è il celebre autore della storia della Conquista del Messico Antonio Solìs. Senza eccettuarne l’ istesso Moreto, egli ha rispettate più d’ogni Spagnuolo le regole del verisimile. Circa l’unità di tempo quasi mai non si valse della libertà nazionale nelle favole di spada e cappa, e si limitò a un giorno di ventiquattr’ ore, e talora di poco eccedè i due. Non manca di colpi di teatro e di comiche situazioni, e supera l’ istesso Calderòn, se non nell’eleganza, nella proprietà della locuzione comica; non vedendosi nelle di lui favole que’ groppi di stravaganze ne’ quali cade Calderòn. Solis fa parlare i personaggi con naturalezza, giusta il carattere e la passione, e se alcuna volta sottilizza rapito dal turbine che tutti gli altri aggirava, non mai incorre in metafore stranissime, o nella mostruosa mescolanza del tragico col comico. M. Linguet ha di lui tradotto soltanto Un bovo hace ciento commedia bene avviluppata che si continua a rappresentare; ma forse poteva far migliore scelta fralle seguenti. Amparar al enemigo, che dal Celano in Napoli fu tradotta in prosa e intitolata Proteggere l’ inimico, ha più d’una situazione interessante, locuzione propria, e un’ azione che non dura più di due notti, e tre giorni. La Xitanilla de Madrid fu parimente tradotta dal medesimo col titolo la Zingaretta di Madrid. Una novella di Cervantes diede l’ argomento a questa favola, che ha somma grazia in castigliano, e perde nelle traduzioni. Le comuni passioni, le gelosie, gli amori, gli sdegni, le riconciliazioni, hanno in essa un grazioso colore di novità. La durata dell’ azione passa di poche ore le ventiquattro. Sebbene per le passioni generali e per l’intreccio si è veduta con piacere anche ne’ teatri italiani, tuttavolta fuori delle Spagne è impossibile il ritenere scrivendo i tratti originali della dipintura degli zingani Andaluzzi che acquistano ancor grazia maggiore nella rappresentazione che ne fanno i nazionali. Più di una fiata ho veduta rappresentar questa commedia (perchè quasi in ogni anno si ripete) or dall’eccellente attrice Pepita Huertas già morta, or dalla Carreras che già si era ritirata dal teatro quando io lasciai le Spagne. L’una e l’altra con pari applauso, benchè per differenti pregi, si segnalarono nel carattere di Preziosa. Rendevasi accetta la prima per certa grazia naturale tutta nobile che faceva trasparire in mezzo a i modi ed a i gerghi zingareschi. Questo bel misto di grazia, di spirito, e di nobiltà mirabilmente conveniva a una giovanetta di sommo talento e vivacità ma disdegnosa e bizzarra ancor nell’amore, la quale in fine si scopre di esser nata dama. Si distinse in seguito la Carreras nella rappresentazione fattasene nel 1781 per la viva imitazione delle maniere di quel ceto da non potersi migliorare. Stando poi nella convalescenza di una grave infermità si destinò l’anno 1782 a rappresentarla nel passar che fece S. A. il conte d’Artois per Madrid andando al campo di San Roque; ma dopo della prima scena ella cadde in un profondo deliquio e convenne che la Graziosa Apollonia supplisse sul fatto la di lei parte; nè poichè si riebbe dalla nuova infermità volle, benchè giovane, tornar più sulle scene. Altra commedia del Solis è il Doctor Carlino, la quale anche si contiene ne’ termini di poco più di un giorno. Il personaggio che dà il titolo alla favola è tratto dalla commedia imperfetta del Gongora, ed è dipinto felicemente; ma questa commedia non è rimasta sulle scene. Nella commedia el Amor al uso (che Tommaso Cornelio tradusse ed intitolò l’ Amour à la mode) Solis ha pure rappresentato un’ azione che si compie in 24 ore. Vi si dipingono vivacemente in istile faceto e naturale i costumi e le leggerezze giovanili. Vi si mette in vista la galanteria di una dama e di un cavaliere che fanno vista di amarsi, avendo però ciascuno più d’un intrigo amoroso per le mani. Solis sopravvisse a Calderon, il quale morì assai vecchio nel 1681, e tutti si rivolsero a lui, perchè succedesse all’estinto poeta nel comporre gli autos sacramentales; ma egli risolutamente ricusò di porvi la mano, confessandosi insufficiente di seguirlo in tal carriera. Verisimilmente questo valoroso scrittore che non calcò le vestigia di Lope nè di Calderon e de’ loro seguaci nell’irregolarità delle commedie e nello stile, conobbe ancora gl’ inconvenienti e le mostruosità annesse a quell’ informe specie di dramma.

Si avvicinano a’ soprallodati poeti il Messicano Giovanni Ruiz de Alarcon, Antonio Zamora, Giovanni La Hoz e Francesco Bances de Candamo. Molte commedie essi diedero al teatro spagnuolo benchè oggi poche se ne rappresentino.

Comparisce alcuna volta la commedia di Alarcòn intitolata No ay mal que por bien no venga, Don Domingo de Don Blas. Vi si scorge veramente la solita viziosa mescolanza di grandi interessi reali con avventure mediocri e di persone tragiche con caratteri comici senza rispettarvisi le unità. Notabile non per tanto per le stravaganze è il carattere originale di Don Domingo, cavaliere onorato e valoroso, ma talmente innamorato del proprio comodo e così avverso a quanto possa torgli il menomo uso della propria libertà, che giugne all’eccesso e ne diviene ridicolo. Il re di Leone passa per Zamora? Don Domingo non si cura di andar cogli altri nobili a corteggiarlo. Il re lo manda a chiamare? Egli si affretta ad obedire sol per liberarsi presto da quella noja. Il re vuol fargli qualche grazia, dicendo che domandi pure? Egli lo prega che se continua a dimorare in Zamora, gli risparmi l’onore di più chiamarlo. Ode che in una casa si stà cantando? Per goder da vicino di quella musica, senza invito monta su e si pone a sedere. Giugne chi se ne ingelosisce e lo disfida; ed egli accetta, ma vuol battersi senza levarsi da sedere. Andando per la città mena seco un servo, che oltre ad un parasole porta sotto il braccio uno scabello, di cui Don Domingo si serve in istrada per riposare. Questo personaggio capriccioso che tal volta eccede e si rende inverisimile e tocca il buffonesco della farsa, è non per tanto interessante pel valore di cui è dotato, e per la fedeltà che in ogni incontro mostra al suo sovrano.

Tralle commedie di Antonio Zamora che raccolte in due tomi si sono impresse ne’ principj del nostro secolo, havvene due che oggi si rappresentano. La prima s’intitola No ay plazo que no se cumpla, ny deuda que no se pague, cioè non vi è tempo che non giunga nè debito che non si paghi; ed è il Convitato di pietra in parte rettificato. Zamora spogliò la mostruosa favola del frate di molte inverisimiglianze, colorì assai meglio il carattere del libertino, circoscrisse l’azione all’ammazzamento del comendatore, rammentando per racconto i trascorsi del Tenorio in Napoli, e ritenne solo il prodigio della statua convitata che parla e camina e convita indi uccide Don Giovanni. Quanto al tempo egli si permise la licenza di tre mesi d’intervallo dal I al II atto, nel qual tempo si scolpisce il magnifico sepolcro dell’Ulloa. Anche lo stile è più sobrio e lontano da molte stranezze nazionali di que’ tempi. L’altra commedia del Zamora solita a rappresentarsi è l’Hechizado por fuerza (l’ ammaliato a forza) il cui stile, l’azione e i caratteri si contengono ne’ limiti di quel genere comico che si appressa alla farsa. Pecca ancora nell’unità del tempo, durando l’azione intorno ad un mese; come altresì in quella del luogo, benchè non esca da’ contorni di Madrid; ma l’uno e l’altro difetto rimarrebbe dissimulato sopprimendosene alcuni versi. Poche commedie spagnuole hanno la piace-volezza di questa ridicola favola.

El Castigo de la miseria, cioè il castigo dell’avarizia, di Giovanni la Hoz lascia alla critica poche cose da censurare, e non poche da lodare. La sudicia avarizia di Don Marcos Gil, che oltrepassa gli Euclioni e gli Arpagoni, è colorita con tratti vigorosi, e ben punita con un matrimonio di una finta ricchissima vedova Indiana che in effetto è una povera donna di Salamanca, Anche questa favola partecipa assai della farsa; ma i caratteri sono ben dipinti, e lo stile è buono, comico, grazioso.

Francesco Bances de Candamo compose più commedie, tre sole delle quali si riveggono alcuna volta sulle scene, lo Schiavo in catene d’ oro, il Sarto del Campiglio, il Duello contro l’innammorata. Non v’ha regola di verisimile che in esse non si trasgredisca, nè stranezza di stile che non possa notarvisi; e pur vi si divisa un artificio che ne rende gli argomenti interessanti. Imprese Candamo a dar nella prima favola una lezione scenica a’ principi, col medesimo intento che ebbe M. de Marmontel ne’ discorsi di Giustiniano e Belisario. E siccome nel libro di tal Francese la morale e la politica che vi si spargono, vengono avvelenate da una perpetua languidezza, dall’inverisimiglianza e da più di un errore di calcolo politico e morale, oltre a quelli della religione; così nel dramma spagnuolo la lezione che si pretende dare a’ sovrani, tende a distruggere un principio erroneo ed a stabilire una falsità opposta. Un suddito ardito che crede avere studiato, censura il governo di Trajano e si ribella. L’ imperadore benigno per castigarlo se l’associa al trono. Il suo disegno è di mostrare che non vale lo studio scompagnato dell’esperienza; ma si fonda questa massima que no es ciencia que se estudia la del reinar, la quale è manifestamente falsa. Studio richiede il regno; ma studio saldo, profondo; studio di cognizioni immediatamente necessarie a diversi rami della politica, della publica economia e della legislazione; studio non iscompagnato dall’intelligenza degli affari. Il Camillo di Candamo avea studiato male; si dovea dunque insegnare che al principe conviene studiar bene. In fatti egli vien dipinto ignorante non solo ne’ principj politici che mettono capo nella ragion naturale e delle genti, ma ancor nella geografia e nella storia. Or che avea egli studiato? delle ciance? Candamo dunque dovea insegnare, non a disprezzare i libri, ma bensì a saperli scegliere, e che l’arte del regno ne’ buoni libri si apprende non meno che nel maneggio degli affari; altrimenti il popolo nella scuola pubblica del teatro porterà a casa un grossolano pregiudizio contro il sapere. Se i principi studieranno l’arte di cantare, danzare e verseggiare come Nerone, in vece di quella di regnare, diventeranno musici, ballerini e rimatori, e non già principi illuminati. Se come Alfonso che fu detto il savio, studieranno l’astronomia a segno di credersi abili a dar consigli all’Autor delle cose per migliorare il sistema celeste, essi diventeranno astronomi temerarj e principi inetti. Ma se impareranno l’arte di ben conoscere i proprj popoli, di pesarne l’ energia, di diriggerla a vantaggio dello stato, di calcolarne la forza e la debolezza, di moderarne gli eccessi e di correggerne i difetti, di animarne la virtù co’ premj in vece di scoraggiarla col disprezzo, di emendarne gli errori da padre e non da despoto, i principi che si dedicheranno a questo studio, calcheranno le orme de’ Titi e degli Antonini, i quali furono degni e dotti principi. Se apprenderanno a ben ragionare, a sapere i doveri di ogni classe di uomini, a scemare i loro bisogni e per conseguenza i loro delitti, in vece di aumentarli, e si faranno istruire da’ filosofi veri, da i Leibnitz, da i Volfii, da i Lock, da i Montesquieu e da i Genovesi, applicandone le dottrine al maneggio degli affari, ed imitando i regnanti benefici e scienziati, essi riscuoteranno gli applausi universali e l’approvazione di se stessi. Se s’illumineranno co’ viaggi, co’ libri savj e colla conversazione de’ sapienti e de’ buoni, come fece Pietro il Grande di Russia, essi sapranno in pochi anni rifondere le nazioni ed esserne i creatori. Se volgeranno le cure ad alleggerire i popoli dal pesante fardello delle leggi fra se talora discordi e talora avverse all’umanità, e quasi sempre bisognose di una legione di comentatori, come pensò in Napoli il Cattolico re CARLO III, e come ha eseguito in Pietroburgo l’augusta CATERINA II col codice Russiano; e se veglieranno poi all’ esecuzione della nuova legislazione, essi renderanno i soggetti e se stessi felici. Adunque dalla favola di Candamo risulta uno sciocco insegnamento, cioè che l’arte del regnare non s’impara se non col maneggio. Se per apprendere ogni arte si richiede disposizione naturale, studio ostinato e pratica ragionata, di grazia l’arte di regnare ch’è l’ultimo sforzo dell’ umana ragione, si dovrà attendere dalla sola presenza de’ casi, i quali sempre sono infinitamente scarsi e fra se diversi, e quindi insufficienti a darci principj applicabili ad ogni evento? E come maneggiarsi bene senza una norma, senza bussola, senza aver coltivata la ragione? Ogni arte che si acquisti a forza di pratica materiale, s’impara errando; e gli errori de’ principi sono sempre fatali. Quello soltanto che nella favola di Candamo merita lode, è che vi si mostra coll’ esempio di Camillo questa verità morale, cioè che un principe buono che voglia bene adempiere al suo dovere, è un vero schiavo, che col manto reale ricopre le proprie dorate catene, dovendo per bene de’ popoli rinunziare a non poche delizie concesse a’ privati. E questa verità imparata colla pratica di un lungo regno ha prodotto di tempo in tempo le abdicazioni di Silla, di Diocleziano, di Amorat, di Carlo V, di Cristina di Svezia ecc.

L’altra commedia di Candamo il Sarto del Campiglio è una mescolanza di affari pubblici ed affetti privati, e di accidenti mal disposti con qualche situazione interessante. Io l’ho veduta tradotta in prosa italiana poco felice, ma spogliata in gran parte delle arditezze dello stile e delle solite irregolarità.

Il Duello contro l’Innamorata chiama il concorso coll’ azione principale, benchè si aggiri per vie tortuose. Una dama bizzarra esige dall’amante infedele un giuramento di non palesarla e prende l’ aspetto di un principe nella corte della sua rivale. Col nome finto, altro non potendo, sfida l’amante. Egli è nell’ angustia o di combattere contro una donna amata nella pubblica piazza o di rimaner disonorato, o di mancare al giuramento con iscoprirla. Ma essendogli lasciata l’elezione dell’armi, esce dall’impegno scegliendo di combattere colla sola spada, e col petto nudo non solo di armi ma di vesti. La donna altera vinta da quest’artificio è costretta a palesarsi col pianto. Nel tempo stesso l’innamorato, il quale si era raffreddato nel di lei amore per un sospetto ingiusto, si trova disingannato per altri accidenti, e le dà la mano di sposo. Questo scioglimento curioso ha renduto noto questo dramma, e M. Linguet l’ha inserito nel suo Teatro Spagnuolo, intitolandolo la Fidelité difficile.

Incredibile è il numero de’ contemporanei e successori di Calderon, i quali con minor vena, fuoco e felicità hanno seguito il di lui metodo. Io potrei impinguare questa parte del mio libro con più migliaja di commedie e de’ già nominati scrittori e di molti altri, come Godinez, Bocangel, Cuellar, Paz, Huerta, Zarate, Monroy, Anna di Caro ecc. . Ma qual vantaggio o diletto apporterebbe un catalogo di favole per lo più mancanti d’arte, di gusto e di giudizio? qual gloria alla nazione sì gran numero di talenti abbandonati al trasporto d’una immaginazione calda e disordinata e innamorati di un parlar gergone metaforico, enimmatico, gigantesco? Essi tutto posero lo studio a riempiere le sregolate loro favole di ripetute impertinenti descrizioni e pitture di cavalli, tori, armature, navi, giardini, palagi, duelli, battaglie navali e terrestri, naufragj, di avventure romanzesche d’ogni maniera. Questi ornamenti ridondanti, strani, capricciosi, contrarj al genere rappresentativo, formavano allora il sublime delle favole spagnuole, e niuno di essi ne andò libero. Per la qual cosa tanti giudiziosi critici nazionali strepitarono negli ultimi tre secoli contro le follie teatrali, lusingandosi di arrestare l’inondazione fangosa colle loro letterarie querele120. Più grave ancora è l’accusa fatta a’ loro compatriotti per l’oscenità de’ loro drammi negata in vano colla solita stranezza dal nominato apologista, e ripresa con forti espressioni dal Canariese Giovanni Ceverio de Vera morto in concetto di santità nel 1600 con un Dialogo contro le commedie Spagnuole, indi dal P. Fr. Giovanni della Concezione, dal lodato Nasarre e dall’amico Moratin. Laonde confessando l’immensa fecondità degl’ ingegni Spagnuoli, ed il loro sale comico non bene avvertito da chi volle scherzare con dire che essi nè anche sapevano ridere senza gravità, per servire alle leggi della storia che del vero si alimenta, osserviamo che rarissime sono le commedie che da tali rimproveri si esimono. Ma non lasciamo di dire che se essi al loro sale nativo, alla vivacità e fecondità dell’immaginazione, alla predilezione che hanno pel teatro, accoppiato avessero un prudente timore di offendere la verisimiglianza, e si fossero appigliati ad uno stile più conveniente al genere, avrebbero forse in tal carriera superati i loro vicini e i lontani.

Da quanto quì abbiamo ora appena accennato ben si rileva perchè nel XVII ancor meno che nel precedente secolo si trovino tragedie vere. Montiano che ne fu il più diligente investigatore appena giunse a contarne sette o otto e pure sregolate. Perciò (dirò sempre) si vogliono compatire alcuni forestieri, e fra questi M. Linguet (cui non ha punto liberato dalle insolenze ingiuste per lo più del fu Garcia de la Huerta l’essere stato tanto benemerito del teatro spagnuolo) se avanzano che la vera tragedia o non si è coltivata o non si è conosciuta dalla maggior parte della nazione.

Quasi tutte le tragedie del secolo XVII appartengono a Cristoforo Virues avendone egli solo prodotte cinque nel 1609. La Gran Semiramis non è una tragedia divisa in tre atti, ma una rappresentazione de’ fatti di questa regina in tre tragedie separate quanti sono gli atti. La Cruel Cassandra contiene molti fatti e molti ammazzamenti. Attila furioso si aggira su gli amori di questo re Unno. La Infeliz Marcela per avviso del Montiano è anzi una novella che una tragedia, in cui intervengono anche persone basse e comiche. L’unica che senza esitare possa chiamarsi tragedia, è la sua Elisa Dido 121.

Una tragedia intitolata Pompeyo compose Cristoforo de Mesa traduttore dell’Iliade di Omero e dell’Eneide di Virgilio impressa nel 1615, e dell’Ecloghe, e della Georgica pubblicate nel 1618 insieme colle Rime e colla nominata tragedia. Reca però maraviglia che un ingegno così esercitato, e che di più pregiavasi di aver per cinque anni frequentato ed ascoltato in Italia Torquato Tasso, avesse scritta una tragedia sì cattiva, seguendo il sistema erroneo de’ compatriotti anzi che l’esempio degli antichi e di Torquato. Il suo Pompeo comparisce in Lesbo, passa in Farsaglia, s’imbarca, ritorna a Lesbo e va a morire in Egitto.

Forse dopo l’Elisa Dido del Virues non possiamo contare altre tragedie del XVII secolo che la traduzione delle Troadi di Seneca fatta da Giuseppe Antonio Gonzalez de Salas che s’impresse nel 1633, in cui quasi sempre superò in gonfiezza l’originale; e l’Hercules Furente y Oeteo di Francesco Lopez de Zarate pubblicata con altre opere nel 1651, nella quale si nota qualche squarcio sublime. Ma nè queste nè quelle del Virues sono mai state rappresentate ne’ teatri di Madrid mentre io vi dimorai.

Tale è la storia del teatro Spagnuolo sino alla fine del passato secolo da me con pazienza e fede compilata senza averne trovato esempio122. Varie cose ne trattarono il Montiano, il Luzan, il Nasarre, l’Antonio, le cui lodi o invettive non volli adottare senza averle pesate con imparzialità. Soprattutto ho badato a schivare le loro inutili decisioni generali. E che giovano esse quando non sono verificate su i medesimi drammi? Io ne ho scelti ed esaminati i migliori, ed ho potuto su di essi particolareggiare, ed accennarne con fondamento i difetti assai noti, e le bellezze, delle quali non ancora si erano avvisati i nazionali di far diligente inchiesta. Possa questo mio lavoro inspirar loro il disegno di fare una collezione delle favole sceniche spagnuole scelta e ragionata mille volte promessa e mai non intrapresa! Possa facilitarne l’esecuzione questa mia storia! Allora gli Spagnuoli che mostrano già tanti progressi fatti nelle scienze e nelle arti, vedranno a tutta luce le loro forze e le loro debolezze teatrali, e si volgeranno a calcare miglior sentiero. Allora si avvedranno che tralle potenti cagioni che vi ostano, son da noverarsi gli scritti de’ Lampillas, degli Huerta, e di altri simili declamatori ed infedelì adulatori de i difetti del teatro nazionale. Allora (o ch’io m’inganno) da scrittore antispagnuolo qual mi vollero dipingere non meno i meschini che gl’ insolenti apologisti, sarò tenuto per uno de’ benemeriti di una nazione, di cui non meno nel Discorso contro del Lampillas che nell’Orazione funebre per Carlo III recitata ed impressa nell’aprile del corrente anno 1789, abbozzai un sincero elogio dettato dal cuore e dalla verità, e non dalle speranze nè dalla bassezza lusinghiera Lampigliana.