CAPO III.
Continuazione del teatro Italiano. Commedie:
Opera in musica: Attori accademici ed istrioni e rappresentazioni regie:
teatri materiali.
I.
Commedie.
Nelle commedie Italiane del XVII secolo si vuol fare la medesima distinzione del precedente in erudite e in buffonesche ed oscene destinate al divertimento del volgo. Senza ciò i critici boriosi e singolarmente i superficiali viaggiatori oltramontani privi della fiaccola della storia combatteranno sempre contro quest’ultime, e sempre crederanno di aver trionfato di tutte.
Non meritano di esser poste in obblio o disprezzate le commedie ingegnose, piacevoli, regolari che specialmente ne’ primi lustri del secolo uscirono da varie accademie del XVI che continuarono a fiorire nel XVII secolo, come le Napoletane, le Toscane e le Lombarde. Ne produsse ancora quella degli Umoristi di Roma cominciata dopo il 1600. Or si può senza biasimo da chi vuol ragionar di teatro negligentare la notizia di queste produzioni non ignobili, delle quali gli autori o bene scarso tributo pagarono al mal gusto che giva infettando l’eloquenza, o pur felicemente se ne guardarono?
Non furono certamente commedie scritte unicamente per dilettar la plebaglia quelle degl’ Intronati di Siena, i quali, dopo che nel principio del secolo ebbero la permissione dal governo di tornare agli antichi loro esercizj, nel 1611 ne pubblicarono una collezione, dove si veggono caratteri ben condotti, costumi ben dipinti, economia regolata, il ridicolo destramente rilevato e una dizione propria del genere comico. Quella di Adriano Politi intitolata gl’ Ingannati si accolse con applauso in Italia, si tradusse in francese e si pubblicò in Lione col titolo les Abusez, secondo il Fontanini; secondo però Apostolo Zeno la commedia francese quì mentovata non fu tratta da quella del Politi, ma da un’ altra degl’ Intronati che ebbe il medesimo titolo.
Si vogliono collocare tralle ingegnose commedie erudite l’ Impresa d’amore rappresentata sin dal 1600 dagli Accademici Amorosi di Tropea, e le Spezzate durezze di Ottavio Glorizio che s’impressero nel 1605 in Messina, e si reimpressero qualche anno dopo in Venezia: la Trappolaria del Palermitano Luigi Eredia recitata ed impressa in Palermo nel 1602: l’Ancora vaga commedia pubblicata nel 1604 e più volte ristampata in Venezia del cavaliere Napoletano Giulio Cesare Torelli, la cui morte compianse con un sonetto il Marini: il Padre afflitto del Cenzio uscita nel 1606, e il di lui Amico infedele del 1617.
Non furono forse regolari, ingegnose e facete la Pellegrina di Girolamo Bargagli Sanese uscita alla luce nel 1611, gli Scambj di Belisario Bulgarini pubblicata nel medesimo anno, e le commedie del Malavolti, cioè i Servi Nobili del 1605, l’Amor disperato del 1611 e la Menzogna del 1614? Mancano esse forse d’arte e di grazia comica? abbondano d’oscenità e d’inverisimiglianze? Cede forse l’Idropica di Giambatista Guarini pubblicata nel 1613 a veruna delle commedie erudite per regolarità, per grazia comica, per delicatezza ne’ caratteri e per vaghezza di locuzione?
Se altre favole comiche non potessero mostrare gl’ Italiani del secolo di cui parliamo se non quelle del cavaliere Napoletano Giambatista della Porta recitate in parte anche nel precedente, ma in questo pubblicate per le stampe, pochi emuli avrebbero essi da temere nella prima metà del secolo XVII. Noi ne accennammo più cose nella nostra opera appartenente alle Sicilie71; e quì ci arresteremo anche un poco su di esse forse non inutilmente non solo per la gioventù, ma ancora per chi non leggendo osa ragionare, e per chi non sa se non ripetere come oriuolo i giudizj portati dagli esteri su i nostri scrittori, favellandone iniquamente per tradizione. Non ci fermeremo nè su di quelle che l’ editore della di lui Penelope Pompeo Barbarito nel 1591 promise di produrre, nè sulle favole notate a sogetto, tralle quali lasciò lunga fama la celebre sua Notte 72, onde solea ricrear la città di Napoli nel tempo stesso che colle opere scientifiche la rendeva dotta. Per comprendere l’indole comica di questo cavaliere e la natura delle sue favole, bastano le quattordici che raccolte in quattro volumi si pubblicarono in Napoli dal Muzio nel 172673.
Il Porta conoscitore esperto de’ Greci e de’ Latini, ed osservator sagace dell’arte comica dell’Ariosto, mostra di posseder la grazia di Aristofane senza oscenità ed amarezza, la giovialità di Plauto rettificata, e l’artificio di dipignere ed avviluppare del Ferrarese senza copiarlo con impudenza da plagiario che ti ruba e ti rinnega. Seguì per lo più le orme di Plauto, ma nel viluppo lo sorpassa d’ invenzione e di proprietà. Se Plauto potesse prestar la sua penna e render latine la Trappolaria e l’Astrologo, ne rimarrebbe oscurata buona parte delle di lui favole tolte in prestanza da’ Greci. Talvolta si elevò ad un genere di commedia più nobile, come nella Furiosa, nella Cintia, e ne’ Fratelli Rivali; talvolta maneggiò la commedia tenera, come nella Sorella e nel Moro.
Generalmente prese egli a perseguitare colla sferza comica la vanità ridicola, la letteratura pedantesca e la falsa bravura de’ millantatori scimie ridevoli de’ soldati di ventura. L’economia delle sue favole è verisimile, semplice ed animata da piacevoli colpi di teatro. Lo stile è comico, buono per lo più, benchè talvolta soverchio affinato per far ridere alla maniera Plautina. Dipigne benissimo le delicatezze e i piccioli nulla degl’ innamorati, tirando fuori dal fondo del cuore umano certi tratti così naturali e proprii dell’affetto che riescono inimitabili. Solo ne incresce che alcune volte renda gli amanti soverchio ragionatori. Del linguaggio Italiano generale si vale acconciamente per esprimere le cose con verità e qualche volta con vivacità. Non giugne all’eleganza dell’Ariosto, del Bentivoglio o del Caro; anzi non sempre la dizione è pura, sfuggendogli dalla penna tratto tratto formole e voci non ammesse da’ Toscani rigorosi. Egli sulle orme degl’ Intronati e de’ Rozzi e di altri che introdussero qualche personaggio che parla Veneziano, Bolognese, Spagnuolo o Napoletano, frammischiò ancora qualcheduno che si vale del dialetto Napoletano, ma coll’ atticismo patrio, e con ogni lepore cittadinesco come nato in Napoli e versato nelle grazie della propria favella.
Ma il comico valore del Porta ha per avventura qualche carattere particolare onde si distingua dagli altri comici, come Raffaello si distingue da Michelangelo, Achille da Ajace, Cicerone da Pollione, Terenzio da Plauto? A noi par di vederlo; e ci dispiace di non essere stati in ciò prevenuti da verun critico. La commedia del Porta è sempre di situazione, e l’arte che possiede di avviluppare ingegnosamente nella stessa semplicità, lo rende particolarmente notabile e pregevole. Un filo naturalissimo mosso da una molla non preveduta si va con verisimiglianza avvolgendo senza bisogno di circostanze chiamate a forza in soccorso del poeta, e vi cagiona un moto vivace, mette i personaggi in situazioni comiche o tenere e sino al fine tiene svegliato lo spettatore tralla sorpresa e il diletto.
Quindi è che le sue commedie possono con ragion veduta proporsi per modello di viluppo ingegnoso senza sforzo, attivo senza trasporto e naturale senza languidezza. Diasi agli eccellenti comici Francesi venuti dopo di lui il bel vanto di essersi segnalati egregiamente nella bella commedia che dipigne i caratteri correnti; ma si riserbi al Porta il trionfo nella commedia di viluppo. Non entro quì ad esaminare a qual delle due debbasi la preminenza. Quando l’uno e l’ altro genere sia trattato con maestria, meritano ugualmente la corona comica. Ogni scrittore ha pregi a se proprii (possiamo dire con Madama Dacier che tante buone cose conobbe a molti de’ suoi posteri sfuggite), e siccome non v’ha cosa più vasta della poesia in generale, e della drammatica in particolare, così non v’ha carriera dove mostrino gli uomini maggior diversità di talenti. Tutti i generi sono buoni, secondo l’avviso del Voltaire, fuorchè il nojoso; ed io aggiungerei, fuorchè lo spropositato e l’eterogeneo. Quei che pretendono che tutta l’arte comica consista nel solo ritrarre i costumi senza molto aver cura d’istoriar l’azione, riflettano che i costumi, spezialmente locali, sono come le mode passeggieri, ma l’azione esposta con bell’ arte in vaghi quadri appassionati o piacevoli conviene ad ogni tempo. I caratteri forti, niuno l’ignora, sono di numero limitati, e dipinti bene una volta, se vogliano replicarsi, riescono per lo più languide e fredde copie. Ma gli accidenti o le combinazioni del verisimile ben modificato producono in teatro la sempre bella e sospirata varietà. Or tale è l’arte che serpeggia nella Trappolaria, nell’ Olimpia, nella Tabernaria ed in altre del Porta; e questo dilettevole genere comico dopo di alcune prime commedie del Moliere e del Bugiardo del Cornelio, fu da’ francesi totalmente negletto. Gli Spagnuoli lo maneggiarono molte volte con felicità, ma sempre trascurando ogni saggia regola adottata dalla culta Europa, e talvolta violentando la verità nel condurre lo scioglimento. Il Porta lo fece suo particolar retaggio maneggiandolo con piacevolezza, ingegno, novità e giudizio, senza infrangere le regole e senza ricorrere a’ soliti partiti di manti, nascondigli, evenimenti all’oscuro e case che si compenetrano.
Parvero, è vero, al sig. di Marmontel le commedie Spagnuole meglio intrecciate dell’Italiane; e noi rispetteremmo ciecamente il suo giudizio, s’egli avesse mostrato di aver letta alcuna delle buone commedie erudite dell’Italia. Il solo Porta che avesse letto, l’avrebbe guarito del suo preoccupato avviso; ma il Porta soffrirà con Ariosto e Machiavelli e Bentivoglio ed altri illustri Italiani che scrissero commedie, la disgrazia di non essere stato letto dal sig. di Marmontel. Di grazia quale ingegnoso artificio lodevole può campeggiare in una favola che si agevola d’ogni modo il sentiero aggruppando in due ore di rappresentazione la storia di mezzo secolo, e presentando in quattro spanne di teatro tutto il globo terraqueo, ed anche il mondo mitologico e l’inferno e il paradiso? Intende egli per intreccio un cumulo di evenimenti romanzeschi ammonticati a dispetto della natura in mille guise?
Secondo me l’arte di avviluppare consiste nel concatenare gli avvenimenti in maniera che vi si ravvisi sempre una ragione che soddisfaccia in ogni passo dell’azione. Direi ancora che il viluppo più acconcio ad appagar chi ascolta, altro non sia che una giudiziosa progressione di un’ azione sola per la via del maraviglioso condotta al suo fine74. Ma questo maraviglioso in che mai è posto? Nell’accumular fatti come si fa nelle commedie romanzesche? Aristotile lo caratterizzò egregiamente con quest’esempio: cada una statua nel punto che passi sotto di essa l’uccisore di colui che rappresenta, e questa caduta naturale per combinazione diventa maravigliosa. Il Porta ne diede di belli esempj. Ecco l’intrigo dell’Astrologo. Un impostore dà ad intendere a un credulo ignorante innamorato che per mezzo d’arcane scienze trasformerà talmente un servo che rassembrerà un vecchio creduto morto; e nel punto che si aspetta la promessa metamorfosi, per mero caso arriva quel vecchio stesso, e tolto in cambio cagiona maraviglia, sconcerto e movimento di molte passioni con diletto dello spettatore. Una sola è la molla, ma attivissima e ben collocata dà moto a tutta la machina. Pari industria si scorge nella sua Sorella. Un padre spedisce in Costantinopoli un suo figliuolo per liberare dalla schiavitù la moglie e una figliuola. Questi s’innamora in Venezia di una bella schiava, e senza eseguire la commissione del padre riscatta questa giovane, la sposa e la mena nella casa paterna facendola credere la sorella liberata, ed affermando d’aver trovata già morta la madre. Ma questa madre per buona ventura ottiene la libertà, ed arriva in un punto che disturba la tranquillità degli amanti. Il primo a vederla è il figliuolo che prevedendo di dovere il di lei arrivo far che egli debba fuggire dal rigore del padre giustamente sdegnato, piangendo le manifesta la sua colpa, e vuol partirsi disperato quando ella non voglia impietosita dare a credere al marito che la giovane che è in casa sia appunto la perduta sua figliuola. La madre condiscende e promette. S’incontra colla giovane, ed effettivamente la riconosce per la figlia ed è da lei riconosciuta per madre. Le reciproche tenerezze, il pianto che produce naturalmente quest’incontro, vien dal figlio creduto pietoso artificio della madre affettuosa. Ma quando intende esser quella veramente di lui sorella, cade nelle smanie di Edipo senza però oltrepassare i limiti prescritti alla commedia, e la vivacità delle passioni che risveglia quest’evenimento, agita e scompiglia la casa tutta, la quale avventuratamente si rassetta col manifestarsi uno scambio accaduto alla fanciulla in fasce, per cui è riconosciuta per figlia di un altro concittadino. Il viluppo della Trappolaria e quello dell’Olimpia sono della stessa guisa ingegnosi e felici, una sola ipotesi verisimile tutto avvolgendo e mettendo in movimento, ed un solo fatto che necessariamente, e non a piacer del poeta si manifesta, riconducendo la tranquillità tra personaggi ed un piacevole scioglimento.
Tre altri buoni scrittori Napoletani sin dal principio del secolo si segnalarono con ingegnose e regolari favole comiche, l’Isa, lo Stellati, il Gaetano duca di Sermoneta. Cinque commedie portano il nome di Ottavio d’Isa Capuano, la Fortunia impressa verso il 1612 e poi molte altre volte, l’Alvida del 1616, la Flaminia del 1621, la Ginevra dell’anno seguente, e poi del 1630 in Viterbo, che è l’edizione citata dal Fontanini, ed il Malmaritato del 1633 secondo il Fontanini e l’Allacci, benchè il Toppi ne registri un’ edizione del 1616 col titolo di Malmaritata, che le conviene meglio. Esse veramente non portano il nome dell’autore che le compose, cioè di Francesco d’Isa sacerdote erudito che dimorava in Roma, dove morì sull’incominciar del secolo. Sono tutte artificiose e facete scritte ad imitazione de’ Latini con intrighi maneggiati da servi astuti, e talvolta con colori tolti da Plauto, come il raggiro de’ servi per ingannare un Capitano nell’ Alvida che con poche variazioni si trova nel Miles del comico latino. Rancida parrebbe ancora l’invenzione degli argomenti delle sue favole fondati sulla schiavitù di qualche persona in Turchia o in Affrica; ma si vuole avvertire che in quel secolo essi doveano interessare più che ora non fanno, perchè tralle calamità specialmente delle Sicilie sotto il governo viceregnale non fu la minore nè la meno frequente quella delle continue depredazioni de’ barbari sulle nostre terre littorali non più coperte dalle potenti armate di mare di Napoli e di Sicilia. Aggiugni a ciò le devastazioni delle provincie del regno taglieggiate e saccheggiate da compagnie di banditi, i quali non rare volte tolsero a’ ricchi abborriti i beni e le figliuole. Ed in fatti su questa lagrimosa parte della storia di Napoli è fondata la schiavitù di Alvida menata via da’ banditi Abbruzzesi, come ella stessa racconta ad Odoardo nell’atto IV. Capuano fu ancora Lorenzo Stellati autore pregevole di altre due commedie, cioè del Furbo uscita in Napoli nel 1638, e del Ruffiano impressa nel 1643 assai comendate dal Gravina. Le commedie del duca di Sermoneta Filippo Gaetano parimente con ragione lodate dal Gravina per la loro regolarità e per la dipintura de’ caratteri e degli affetti, sono la Schiava impressa in Napoli sin dal 1613 e reimpressa dopo molti anni in Palermo, l’ Ortenzio rappresentata in Rimini alla presenza del cardinal Gaetano e stampata in Palermo nel 1641, e i Due Vecchi impressa colle altre dal Ciacconio in Napoli nel 1644.
Piacevole e senza inverisimiglianze grossolane è il Trimbella trasformato commedia in versi del Martellini stampata nel 1618. Si recitò in Firenze nel medesimo anno in cinque giorni con generale applauso la Fiera commedia urbana del festivo Buonarroti il giovane, la quale è uno spettacolo di cinque commedie concatenate diviso in venticinque atti75. Tra’ piacevoli Trattenimenti di Antonio Brignole Sale impressi in Genova trovasi il Geloso non geloso commedia in cui lepidamente si ritrae un uomo posseduto dalla gelosia, che per non incorrere nel ridicolo attaccato a’ gelosi vorrebbe comparirne esente e ne diviene doppiamente degno di riso. Assai giocondamente il Messinese Scipione Errico schernì le affettazioni e le arditezze dello stile Marinesco e Lopense, e criticò con sale e giudizio diversi poeti di quel secolo colla sua commedia le Rivolte di Parnaso per le nozze di Calliope, che s’impresse in Messina nel 1620 ed altrove diverse volte. Compose anche l’Altani quattro commedie che possono mentovarsi con onore l’Amerigo del 1621, la Prigioniera del 1622, il Mecàm Bassa del 1625 e le Mascherate del 1633. Gli Abbagli felici del conte Prospero Bonarelli della Rovere si pubblicò in Macerata nel 1642, e non è commedia da confondersi colle buffonesche accette al solo volgo. Carlo Maria Maggi compose quattro piacevoli commedie con intermezzi e prologhi da cantarsi, il Barone di Birbanza, il Manco male, i Consei de Meneghin, e il Falso Filosofo impresse poi in Venezia nel 1708. Esse hanno molta piacevolezza comica, specialmente per chi intende il dialetto Milanese, e vi si veggono acconciamente delineati i caratteri e quello sopra tutti del falso filosofo pittura vera, vivace e pregevole, di cui s’incontrano alla giornata gli originali.
Adunque anche in un tempo di decadenza nelle belle lettere vogliono distinguersi le additate commedie erudite da ciò che indi si compose col disegno di piacere alla plebe; ed esse debbono tanto più pregiarsi quanto più si vide il secolo trasportato dallo spettacolo più seducente dell’opera76.
II.
Opera musicale.
Quando con ardir felice il Rinuccini accoppiava al dramma una musica continuata e tirava l’attenzione dell’Europa con uno spettacolo che tutte raccoglieva le sparse delizie che parlano efficacemente a’ sensi; quando, dico, nacque l’Opera, l’Italia trovavasi ricca di opere immortali di pittura, scoltura ed architettura: gloriavasi de’ talenti e delle invenzioni di varii celebri pittori e machinisti che seguirono Girolamo Genga e il matematico e architetto Baltassarre Peruzzi: possedeva illustri pittori di quadratura, come Ferdinando da Bibiena, Angelo Michele Colonna Comasco scolare del Dentoni, Agostino Mitelli Bolognese, il cavalier d’Arpino architetto e pittore insigne: non vedeva fuori del suo recinto nè Noverri, nè Vestris, nè Hilverding, anzi inviava i suoi ballerini oltramonti, e i Francesi stessi scendevano dalle Alpi per apprendere la danza (Nota IV): i suoi Peri, Corsi, Monteverde, Soriano, Giovannelli erano allora quel che oggi sono i Piccinni, i Gluck, i Sacchini, i Paiselli. Or qual maraviglia che uno spettacolo, in cui poteva trionfare l’eccellenza di tanti valorosi artefici, venisse nelle prime città Italiane a gara accolto e coltivato?
Non furono delle ultime a goderne Venezia, Bologna, Roma, Torino, Napoli. Claudio Monteverde che avea posta in musica l’Arianna del Rinuccini divenuto maestro della cappella di San Marco introdusse tra’ Veneziani il novello spettacolo armonico, fra’ quali fu con tal magnificenza e pompa decorato, che ne volò la fama, non che per l’ Italia, oltramonti. Cominciò da prima a coltivarsi il dramma musicale nelle case private de’ gentiluomini, indi passò su’ teatri. L’Andromeda del Reggiano Benedetto Ferrari celebre sonatore di tiorba vi si cantò nel 1637. Vi comparve anche il Pastore d’Anfriso, ed innoltrandosi il secolo la Divisione del Mondo dramma del Parmigiano Giulio Cesare Corradi che altri ancor ne compose, vi si rappresentò con tanta splendidezza, che la città si riempì di un prodigioso numero di forestieri. Si ripetè in Bologna sin da’ primi anni del secolo l’Euridice del Rinuccini. La di lui Arianna si rappresentò pure in Roma, dove da un Porporato si compose l’ Adonia lodato dal Crescimbeni. Più tardi poi nella medesima città si ammirarono le maravigliose invenzioni onde nobilitava la scena musicale il cavalier Pippo Acciajoli77. Torino si contraddistinse nel 1628 per la sontuosa rappresentazione del Vascello della felicità, e dell’Arione. Prima che Napoli e Sicilia avessero un’ opera tutta cantata, ebbero una festa teatrale composta di danza, di musica e di machine eseguita nel 1639 sotto il vicerè Ferrante Afan de Ribera nella sala del real palazzo di Napoli nel passar che vi fece l’infanta Maria sorella di Filippo IV, che andava in Ungheria a trovare il re Ferdinando suo sposo. Vi si eseguirono quattro balli differenti, il primo della Fama con sei cigni, il secondo delle Muse con Apollo, il terzo di nani e Ciclopi, il quarto di alcune deità; e vi comparve la Notte su di un carro di stelle tirato da quattro cavalli; e si cangiò più volte la scena rappresentando successivamente un tempio, il Parnasso, la fucina di Vulcano ed i Campi Elisii. Quali però si fussero i versi che animarono tali invenzioni da noi s’ignora78. Tra’ primi melodrammi rappresentati in Napoli e ripetuti altrove si contano la Deidamia del Messinese Scipione Errico che si replicò in Venezia nel 1644, ed il Pomo di Venere del Napoletano Antonio Basso rappresentato in Napoli nel 1645, ed il Ciro di Giulio Cesare Sorrentino pur Napoletano stampato e recitato in Venezia ed altrove tante volte. Si segnalarono per la magnificenza ne’ musicali spettacoli i sovrani di Mantova e di Modena stipendiando esorbitantemente cantanti dell’uno e dell’altro sesso.
Bisogna però confessare che la cura maggiore non si pose nell’elezione de’ poeti. I deputati de’ principi, e più gl’ impresarj particolari badavano a provvedersi di ottimi dipintori di prospettiva, di pratichi machinisti, di voci squisite, e di migliori sonatori e maestri di musica. La bella poesia che sola può somministrare alla musica il vero linguaggio delle passioni, cominciò ben presto ad occupare l’ultimo luogo.
Non è già che ne’ primi tempi dell’opera mancassero in Italia buoni poeti, ma il genere stesso era tuttavia nell’infanzia. Il Chiabrera che nella lirica avea gloriosamente calcato un sentier novello, scrivendo qualche componimento musicale non si avvisò di seguire l’opera de’ Greci. Non mancavagli l’opportunità di spiegare anche in tal genere i poetici suoi talenti, avendolo il granduca di Toscana Ferdinando I prescelto ad inventare i componimenti musicali per le feste delle nozze della principessa Maria. In tale occasione compose il Rapimento di Cefalo picciolo melodramma di cinque atti. Tanta pompa di metri lirici, tante machine, tanti cori, ci mostrano l’opera nascente al tempo del Rinuccini, benchè da questo Fiorentino rimanesse il Savonese superato per interesse e per affetto. In Firenze si rappresentò ancora alla presenza di Cosimo II sotto il nome di vegghia l’altro suo dramma intitolato Amore sbandito pubblicato in Genova nel 1622; ma si vuole avvertire che il tanto decantato Chiabrera non si decantò mai in Italia nè pel Rapimento di Cefalo nè per tal vegghia.
Un componimento scenico per la musica composto pel dì natalizio di Maria Farnese duchessa di Modena diviso in tre atti leggesi nelle poesie di Fulvio Testi. Espero vi fa il prologo, e v’intervengono i personaggi allegorici la Notte, la Religione, la Gloria ec.. Vi formarono il primo ballo i Crepuscoli seguaci di Espero, il secondo le Ninfe marine, ed il terzo un coro di Amazzoni che intrecciò una danza guerriera. Altra breve festa fatta a Sassuolo nel dì natalizio di Francesco da Este duca di Modena scrisse il medesimo poeta, in cui cantavano varie deità. Precede i recitativi di Cerere il coro seguente:
Di rai più belliCinto i capelliIl dio di DeloRida nel cielo.A’ bei splendoriDi nuovi fioriTutte superbeRidano l’erbe.Del caldo austro ai fiati graviArdan pur le arene Maure,Quì tranquille, quì soaviSusurrando ridan l’aure ecc.
Termina la festa con un altro coro che pur contiene tre strofe anacreontiche. Or quando anche non vi fossero state ariette anacreontiche sin dal XV secolo, come altrove abbiam dimostrato, basterebbero queste del Testi a provare che il Cicognini non fu il primo ad introdurle ne’ drammi; perchè le poesie del Testi cominciarono ad imprimersi sin dal 1613, e terminarono nel 1645 in vita dell’autore, ed in conseguenza prima della rappresentazione del Giasone. Vuolsi però osservare che le accennate feste del Testi sono snervate, senza azione, e tessute di parti che possono supprimersi senza che il componimento ne perisca, la qual cosa è la più sicura prova dell’imperfezione di un dramma.
Giulio Rospigliosi cardinale e poi pontefice col nome di Clemente IX si esercitò nell’opera sotto Urbano VIII. I suoi drammi d’argomento cristiano recitati in Roma con applauso s’ intitolano, la Comica del cielo, la Vita umana, la Sofronia, la Datira, oltre ad altri due di soggetto morale intitolati Dal male il bene e Chi soffre spera. Essi insieme col S. Eustachio tragedia rimasero inediti, e se ne serbano copie manoscritte da alcuni signori Romani.
Si distinse nell’opera intorno al 1628 il Fiorentino Andrea Salvadori, i cui melodrammi Santa Ursola, Flora, Medora ed altri si fecero rappresentare con magnificenza da’ granduchi di Toscana. Alla buona riuscita di essi contribuì singolarmente la dolcissima voce e la maestria di cantare del Vittorio da Spoleto attore maraviglioso, quo nemo neque nostra, neque patrum memoria toto orbe terrarum præstantior est auditus 79; e pure in quel tempo si ammiravano per la voce e per l’arte di modularla il Campagnuola, l’Angelucci, il Gregorio.
Con lode particolare coltivò l’opera Ottavio Tronsarelli pur Fiorentino morto nel 1641. Riscosse molti elogj il di lui dramma intitolato Catena di Adone composto espressamente per una contesa insorta fra due cavalieri di gran riguardo Giovanni Giorgio Aldobrandino e Giovanni Domenico Lupi intorno a due famose cantatrici, per sapere qual delle due fosse la più eccellente per soavità di voce e per arte di cantare. Chiamavasi l’una Checca della Laguna, perchè abitava in quella parte della città che conteneva alcune acque stagnanti a modo di laguna. Era l’ altra Margherita Costa pel canto e pel suo vergognoso traffico famosa. Davasi nel melodramma ad entrambe parte eguale perchè potessero a competenza mostrar senza svantaggio il proprio valore. Ma la prudente consorte del principe Aldobrandino non ne permise l’ esecuzione; e l’opera fu rappresentata da eunuchi 80 nel palagio del marchese Evandro Conti a’ Monti, e secondo il racconto del Baglioni toccò all’insigne pittore ed architetto regnicolo il cavalier d’Arpino a ordinarne e a dipignerne le scene.
Ma questi eunuchi sostituiti alle cantatrici nel dramma del Tronsarelli ci richiamano alla memoria un’ osservazione fatta sulla nostra Storia de’ Teatri del 1777 dal già mancato erudito estensore di quel tempo delle Romane Efemeridi Letterarie. Egli desiderava che vi si fosse mentovata l’inumana usanza, malgrado delle leggi introdotta, di mutilare i giovanetti cantori, investigando in qual tempo fussero stati ammessi sulle scene. Per soddisfare in parte a tal curiosità nell’ampliar quest’ opera sin dal 1780 cercammo di supplire colle illazioni che soggiungeremo al difetto di decisivo documento.
Chi non sa quanto antica sia questa barbarie, ed in quanti paesi per diversi fini tutti abjetti e vili adoperata81? Chi ignora quanto poco fossero gli eunuchi favoriti da’ legislatori? Soggiaceva alla pena della legge Cornelia chi avesse castrato un uomo82. Domiziano, al dir di Stazio83, e Nerva, secondo Dione, victarono espressamente la castrazione. Adriano con un suo rescritto condannò alla morte chi si lasciasse castrare, chi l’ ordinasse e il norcino che l’eseguisse. Pena di morte posevi ancor Costantino84. Leone Augusto in niun luogo permise a’ Romani quest’atrocità, ed a’ barbari solo in qualche parte85. Con tutto ciò, per quanto gli eunuchi venissero perseguitati dalle leggi, avviliti negli esercizj più immondi, spregiati nella società, scherniti dagli scrittori amici dell’ umanità86, non mai si giunse ad estirpare quest’abuso inumano, ch’empie la terra di mostri imbelli, schifosi e detestabili. Gli eunuchi si sono perpetuati, e ad onta della ragione e del buon senno non solo nella China, nella Turchia e nella Persia, dall’abjezione della schiavitù più umiliante passano a’ posti più ragguardevoli; non solo nella decadenza dell’impero molti di essi divennero consoli e generali, come i Narseti, i Rufini, gli Eutropj: ma noi, noi stessi gli ascoltiamo gorgheggiare nelle chiese, e rappresentar da Alessandro e da Cesare ne’ nostri teatri.
Contenti gli antichi delle voci naturali de’ loro attori ancor nelle parti femminili, non mai pensarono a valersi degli eunuchi per le loro scene. I Cinesi soli par che avessero avuti musici castrati; ma sebbene di essi, come narrammo nel tomo I, si servissero ne’ musicali trattenimenti dati nelle stanze delle imperadrici, non gli adoperarono mai nelle recite teatrali. Ne’ tempi mezzani nè anche in Europa si ammisero nelle gran feste musicali, ne’ tornei, ne’ caroselli. Nè tra’ giullari e ministrieri che cantavano per le case de’ signori, nè tra’ buffoni che in qualunque modo, secondo Albertin Mussato, cantarono su’ teatri dell’Italia, si vide mescolata cotal genia.
Potrebbe affermarsi sulla storia che tra’ Greci cominciasse la castrazione ad usarsi per mestier musicale trovandosi fra essi introdotta intorno al secolo XII. Ciò rilevasi da un passo di Teodoro Balsamone già da noi citato, il quale visse in quel secolo: olim cantorum ordo non ex eunuchis, ut hodie fit, constituebatur, sed ex iis qui non erant ejusmodi 87. Eranvi dunque in Grecia nel duodecimo secolo musici castrati: ma dal non trovarsene poscia fatta menzione può argomentarsi che fosse cessata sì bella usanza di assottigliar la voce per l’ordine de’ cantori.
Le nazioni settentrionali aliene da questo obbrobrio in ogni tempo, nel venire a dominare ne’ paesi occidentali del Romano impero, non poterono comunicar loro ciò che esse detestavano o ignoravano.
Forse gli Arabi soggiogata la Spagna ed acquistatane la naturalità, ed oppressa la Sicilia ed alcune terre della Puglia e delle Calabrie, colla voce de’ loro laidi eunuchi Affricani ne poterono risvegliar l’idea. Certo si è che la Spagna e l’Italia hanno avuto sopra le nazioni moderne il vergognoso primato di rinnovare l’usanza di smaschiare la gioventù, e di addestrarla così malconcia ad esercitare il canto, e par che abbiano l’abbominevole privilegio di continuarlo88. Non so per quale stranezza od uso sin dal XVI secolo tanto abbondassero gli eunuchi nella penisola di Spagna; ma una bolla di Sisto V ci convince che non erano pochi, e che arrogavansi il diritto di contrarre matrimonj colle donne, siccome gli uomini fanno89. L’Italia poi che al dir del Maffei e nel bene e nel male suole andare innanzi ai concorrenti e soprastare, addottrinò così bene nel canto i suoi castrati, e tanti n’ebbe che potè fornire all’Europa tutta molte voci soprane conservate in quest’infelici con tanto oltraggio della natura.
Ma qual fu l’epoca vera, in cui questi moderni non guerrieri Narseti, in vece di occuparsi ne’ ministeri de’ serragli e de’ giardini orientali, si rivolsero nell’una e nell’altra Esperia ad esercitar la musica? Non apparisce. Si nota solo dagl’ intelligenti che i teologi moralisti del XVI secolo non muovono la questione, se lecito sia il castrare per fare un musico; nè pare che ciò prendesse ad investigarsi prima del secolo XVII. Adunque non molto prima di tali ricerche dovettero esser numerosi i musici castrati. Ma cerchiamo almeno con qualche argomento negativo di farci la strada ad indagare il tempo in cui salirono sulle scene. Il mentovato Modenese Orazio Vecchi nel voler far cantare l’Anfiparnaso si sarebbe ridotto a valersi del Brighella, del Dottore, del Pantalone, se a suo tempo si fossero usate in teatro le voci artificiali de’ castrati? E se il Fiorentino Rinuccini gli avesse ne’ suoi melodrammi adoperati, il Vecchi gli avrebbe ricusati? L’ultimo dramma del Rinuccini s’impresse nel 1608; nè da più diligenti scrittori che del di lui tentativo fatto insieme col Peri, col Corsi e col Caccini hanno favellato, si accenna che si valessero di eunuchi; cosa che certamente non avrebbero omessa a cagione della novità. Possiamo dunque con molta probabilità affermare che almeno sino ai primi dieci anni del secolo XVII i teatri Italiani non risonarono delle note di tali cigni infelici che mercano a sì gran prezzo l’inutile acutezza della voce. Sapplamo poi che il lodato Tronsarelli finì di vivere nel 1641, e che la Catena di Adone si cantò qualche anno prima, giacchè egli ebbe agio di raccorne le censure e replicarvi, scagionandosi della mancanza d’invenzione imputatagli, siccome narra l’ Eritreo. Ma questo letterato parlandoci di eunuchi sostituiti alle cantatrici nel dramma riferito non mostra che gli spettatori se ne fossero maravigliati, nè scrive di essersi proposto quel cambio come una novità. Dá ciò si deduce che molti anni prima del 1640 (in cui scrisse Pietro della Valle che essi erano assai comuni sulle scene Italiane) gli eunuchi si erano introdotti ne’ nostri melodrammi. Ora riducendo discretamente questi molti anni a soli dodici o quindici, noi risaliremo intorno al 1625. E così se per ora non possiam dire precisamente l’anno del primo melodramma recitato dagli eunuchi, avremo almeno stabilito che l’epoca della loro introduzione sulla scena si chiuda certamente nello spazio che corre dall’anno 1610 al 1625.
In questo periodo adunque l’opera Italiana contrasse coll’ umanità il demerito di aver tolto ogni orrore alla castrazione facendo assaporare e premiando esorbitantemente l’artificiale squisitezza delle voci. Ma chi sa quando l’Italia si purgherà da tal macchia colla gloria di bandir dalle sue scene la nojosa uniformità recatavi dagl’ invincibili pregiudizj di tali attori che oggidì ne scema il diletto? Ciò avverrà appunto, quando scosso il volontario stupore gli uomini giungano a comprendere che, oltre ai tenori con tanto diletto ascoltati, le dolcissime naturali voci delle femmine fanno in iscena, senza che si violenti la natura, quanto mai sanno eseguire le non naturali de’ castrati. Noi nel nostro secolo ne abbiamo avuti luminosi esempj nella Cuzzoni, nella Tesi, nella Faustina, nell’Astrua, nella Mingotti, nella Gabrieli.
E forse ve ne mancarono nell’età passata? Sin dal principio del secolo si ammirarono singolarmente la Romana Caterina Martinella morta in Mantova nel 1608, la Caccini, le Lulle Giulia e Vittoria, la Moretti, l’ Adriana ecc. Oltre alle prelodate Checca della Laguna e Margherita Costa l’Eritreo ne nomina un’ altra come una delle più eccellenti de’ suoi giorni, cioè Leonora Baroni figlia della nominata bella Adriana di Mantova90. Non incresca al lettore di udire con qual trasporto favelli di questa Leonora un intelligente di musica che l’ avea più volte ascoltata. “Ella è fornita d’ ingegno e di ottimo gusto, capace di discernere la buona dalla cattiva musica, intendendola benissimo ed avendo anche composto alcuna cosa, ond’è che canta con fondamento e sicurezza. Esprime anche e pronunzia perfettamente. Non si pregia di esser bella, ma senza essere civetta sa piacere. Canta con pudore ma franco, con modestia ma nobile, e con grazia e dolcezza. La di lei voce è soprana distesa, giusta, sonora, armoniosa. Ha l’arte di addolcirla e rinforzarla senza stento, senza far visacci, boccacce, storcimenti” ... “I suoi slanci e sospiri non son punto lascivi: gli sguardi nulla hanno d’impudico: il gestire proprio di una donzella onesta.” Passando da un tuono all’altro fa talvolta sentire le divisioni de’ generi enarmonico e cromatico con tal destrezza e leggiadria che incanta tutti”91. Che se tanto può attendersi dallo studio delle donne, quali vantaggi maggiori ne presentano le voci de’ castrati perchè non abbiano a sbandirsi dalle scene italiche? Sarebbe tempo che l’arte e la natura oltraggiate rivendicassero i loro dritti. Un filosofo Italiano per amor dell’umanità impiegò le sue meditazioni per salvar dalla morte gli uomini rei; or non sarebbe ancor meglio impiegata la voce dei dotti a muovere la potenza e la pietà de’ Principi Spagnuoli ed Italiani per salvar tante vittime innocenti dalla spietata ingordigia che consiglia e perpetua sì barbara ed umiliante mutilazione?
Giacinto Andrea Ciccognini Fiorentino mostrò tanta inclinazione alle cose teatrali, che, oltre allo studio che pose in inventare o tradurre più drammi, non eravi compagnia comica ch’egli non conoscesse, nè attore abile di cui non cercasse l’amicizia. Arrivò a tal cecità che è fama di aver pensato una volta a dare un suo figliuolo in potere di Frittellino notissimo attore di que’ tempi perchè apprendesse da lui l’arte di rappresentare92. Coltivò ancora il dramma musicale, e ne compose uno assai allora applaudito nelle nozze di Michele Perretti principe di Venafro e di Anna Maria Cesi fatto rappresentare con magnificenza reale. Nel suo Giasone pubblicato nel 1649 interruppe il recitativo con quelle stanze anacreontiche che diconsi arie, usate ancor prima di lui dal Testi, dal Salvadori e dal Rinuccini, anzi dal Notturno sin dal XV secolo.
Ma una filza inutile di nomi di scrittori d’opere in musica di tal secolo sarebbe una narrazione ugualmente nojosa per chi la legge e per chi la scrive. Essi furono assaissimi e quasi tutti al di sotto del mediocre, se si riguardi ai pregi richiesti nella poesia rappresentativa. Furono i loro drammi notabili per le sconvenevolezze, per le irregolarità, per le apparenze stravaganti simili a’ sogni degl’ infermi, per un miscuglio di tragico e di comico e di eroi, numi e buffoni, per istile vizioso, in somma per tutto ciò che ottimamente vi osservò il prelodato Ab. Arteaga; di maniera che allora non fu il dramma musicale Italiano meno stravagante che le rappresentazioni Spagnuole, Inglesi ed Alemanne. Solo è da notarsi che ne’ primi tempi l’opera tirava i suoi argomenti dalla mitologia, la quale agevolmente apprestava di gran materiali per le decorazioni e per le machine che maravigliosamente si eseguivano da insigni artefici. Si rivolse poi a ricavarli dalla storia, pigliando il miglior sentiero; ma pure la poesia vi avanzò poco, e lo spettacolo scemò di pregio per l’apparato. I primi ad esercitarvisi non ne acquistarono nome migliore. Appena possiamo eccettuar dalla loro calca il dottor Giovanni Andrea Moniglia lettore in Pisa satireggiato da Benedetto Menzini sotto il nome di Curculione 93. Egli fu poeta nella corte di Toscana, e morì all’improvviso nel settembre del 1700. I di lui melodrammi ebbero gran voga allora, ed oggi appena si sa che si rappresentarono. Anche il Lemene cavaliere Lodigiano poeta non dispregevole ad onta de’ difetti del suo tempo compose melodrammi non cattivi. Ne compose anche il Capece, il Minato poeta della Corte di Vienna, ed Andrea Perrucci Siciliano autore della Stellidaura impressa nel 1678 e cantata nella sala de’ vicerè in Napoli, e dell’Epaminonda impresso e cantato nel 1684. Laonde non ci tratterremo su tanti altri melodrammatici rammentati dal Mazzucchelli, dal Crescimbeni e dal Quadrio, nè sull’Achille in Sciro del marchese Ippolito Ferrarese rappresentato in Venezia nel 1663, nè sull’Attilio Regolo del Veneziano Matteo Noris impresso nel 1693 in Firenze, i quali illustri nomi attendevano un ingegno assai più sublime per trionfar sulle scene musicali. Accenneremo solo di passaggio che Alessandro Guidi Pavese dagli Arcadi convertito alla buona poesia, scrisse prima della sua conversione letteraria l’Amalasunta in Italia rappresentato in Parma nel 1681. Nè passeremo oltre senza avere accennato che l’opera buffa si coltivò con qualche successo e forse con molto minore stravaganza anche per la poesia, come si vede nelle Pazzie per vendetta di Giuseppe Vallaro, nel Podestà di Coloniola, nelle Magie amorose del nominato Giulio Cesare Sorrentino vagamente decorato, e nel piacevole componimento allegorico di due parti la Verità raminga di Francesco Sbarra.
III.
Attori accademici, Commedianti pubblici e
Rappresentazioni chiamate Regie.
Siccome non v’ha nella società esempio più pericoloso per la virtù che il favore dichiarato per un immeritevole: così non v’ha nelle lettere più dannoso spettacolo che il trionfo della stravaganza. Il mal gusto prosperoso perverte i deboli e gli conquista, mentre il vero gusto ramingo va mendicando ricetto da pochi sconosciuto dalla moltitudine; come l’uomo probo e pieno di non dubbio merito rimane confuso tralla plebe in una società corrotta, dove tutti gli sguardi e gli applausi si attira l’impostura che sa farsi un partito ed il vizio luminoso.
Le stranezze dell’opera in musica accompagnata da tutti gli allettamenti della vista e dell’udito fecero sempre più intorno alla metà del secolo comparire insipide e fredde le rappresentazioni regolari tragiche e comiche; e queste si videro in un tempo stesso abbandonate dagli attori accademici e dagl’ istrioni o commedianti pubblici. Gli uni e gli altri s’invaghirono della nuova foggia di commedie Spagnuole, che gl’ Italiani non osando dar loro il nome di commedie nè di tragedie le chiamarono opere regie, opere sceniche, azioni regicomiche, ove alternava il buffonesco e l’eroico, le apparenze fantastiche e la storia, la vita civile ed il miracoloso. Altre favole si formarono ad imitazione di quelle di espada y capa ripiene di evenimenti notturni, di ratti, puntigli, duelli, equivoci, raggiri, sorprese al favor de’ manti. Queste novità tirarono per qualche tempo l’attenzione, ed allora si tradussero Calderon, Moreto, Solis ec.
Allora si composero le commedie di Giambatista Pasca Napoletano il Cavalier trascurato, la Taciturnità loquace, il Figlio della battaglia, la Falsa accusa data alla Duchessa di Sassonia, imitazioni libere del teatro Spagnuolo pubblicate dal 1652 al 1672. Raffaello Tauro Bitontino allora produsse dal 1651 al 1690 le Ingelosite speranze, la Contessa di Barcellona, il Fingere per vincere, l’Isabella, o la Donna più costante, la Falsa Astrologia, traduzioni alterate dalle commedie del Calderon e di altri Spagnuoli. Allora il Pisani Toscano compose le sue favole sul medesimo gusto. Lionardo de Lionardis nel 1674 pubblicò il Finto Incanto, che è el Encanto sin encanto del medesimo Calderon. Il Canonico Carlo Celano nato in Napoli nel 1617 e morto nel 1693, col nome di Ettore Calcolona tradusse con libertà e rettificò varie commedie Spagnuole, come può osservarsi nelle sue date alla luce più volte in Napoli ed in Roma, l’Ardito vergognoso, Chi tutto vuol tutto perde, la Forza del sangue, l’Infanta villana, la Zingaretta di Madrid, Proteggere l’inimico, il Consigliere del suo male ecc. Ho detto che rettificò (con pace del Lampillas) i difetti principali degli originali, perchè in fatti ne tolse le irregolarità manifeste; sebbene non vo lasciar di dire che alle sue favole manchi la grazia e la purezza e l’eleganza della locuzione del Calderon e Solis, e l’amabile difficoltà della versificazione armoniosa. Similmente tradussero ed imitarono le commedie Spagnuole Ignazio Capaccio Napoletano, Pietro Capaccio Catanese, Tommaso Sassi Amalfitano, Giuseppe di Vito Napoletano, Andrea Perrucci traduttore ed imitatore nel 1678 del Convitato di pietra, ed Onofrio di Castro autore della commedia la Necessità aguzza l’ingegno, in cui si vede qualche regolarità unita a un’ immagine di comico di carattere e alla maniera, Spagnuola, con uno stile che spira tutta l’ affettazione di quel tempo di corruttela.
I pubblici commedianti che aveano inventate in quel secolo con buon successo nuove maschere per contraffare le ridicolezze de’ popoli diversi che compongono la nazione Italiana, recitavano le loro commedie dell’arte tessute solo a soggetto senza dialogo premeditato, come le cinquanta pubblicate nel 1611 dal commediante Flaminio Scala. Ma l’Arlecchino che ogni dì ripeteva in mille guise le medesime lepidezze, cominciava ad invecchiare, mentre l’opera in musica stendeva rapidamente i suoi progressi. Laonde alla mancanza del concorso nel lor teatro pensarono i commedianti di riparare colle accennate imitazioni delle commedie Spagnuole, e con altre ancor più difettose, come il Conte di Saldagna, Bernardo del Carpio, Pietro Abailardo ec.94.
Ma queste cose toglievano di giorno in giorno il credito al teatro istrionico, senza impedirne la desolazione. La moltitudine si affollava sempre con maggior diletto ed avidità alla scena musicale piena di magnificenze che allettavano potentemente più di un senso. Opposero allora i commedianti decorazioni a decorazioni e musica a musica, e si sostennero anche un poco con farse magiche ripiene di apparenze, di voli, di trasformazioni, e con intermezzi in musica, passeggieri ripari a’ loro continui bisogni.
Contribuiva parimente al loro discredito la destrezza degl’ Italiani più culti nell’arte rappresentativa. Gl’ istrioni non furono sempre i migliori attori. Le accademie letterarie de’ Rozzi e degl’ Intronati che tornarono a fiorire nel XVII secolo, quella brigata di nobili attori che rappresentava in Napoli le commedie a soggetto del Porta, gli Squinternati di Palermo, di cui parla il Perrucci e ’l Mongitore, i nobili Napoletani, il Muscettola, il Dentice, il Mariconda che pure recitarono eccellentemente, facevano cadere in dispregio la maniera per lo più plebea, caricata, declamatoria de’ pubblici commedianti. Il celebre cavalier Bernini nato in Napoli, e che fiorì in Roma dove morì nel 1680, rappresentava egregiamente diversi comici caratteri95. Il famoso pittore e poeta satirico Napoletano Salvador Rosa morto in Roma nel 1673, empì questa città non meno che Firenze di maraviglia per la copiosa eloquenza estemporanea, per la grazia, per la copia e novità de’ sali, e per la naturalezza onde si fece ammirare nel carattere di Formica personaggio raggiratore come il Coviello, ed in quello di Pascariello. La di lui casa in Firenze divenne un’ accademia letteraria sotto il titolo de’ Percossi, ove intervenivano l’insigne Vangelista Torricelli, il celebre Carlo Dati, Giambatista Ricciardi, il dottor Berni, il Cbimentelli ecc., ed in essa rappresentavansi in alcuni mesi dell’anno piacevolissime commedie. Le parti serie sostenevansi da Pietro Sacchetti, Agnelo Popoleschi, Carlo Dati, e ’l Ricciardi. Il dottor Viviani fratello del celebre matematico Vincenzio faceva la parte di Pasquella. Luigi Ridolfi nella parte contadinesca di Schitirzi da lui inventata fu reputato il miracolo delle scene. Quanto poi al Rosa (aggiugne il lodato Baldinucci che ciò racconta) non è chi possa mai dir tanto, che basti, dico della parte ch’ei fece di Pascariello; e Francesco Maria Agli negoziante Bolognese in età di sessant’anni portava a maraviglia quella del Dottor Graziano, e durò più anni a venire a posta da Bologna a Firenze lasciando i negozj per tre mesi, solamente per fine di trovarsi a recitare con Salvadore, e faceva con esso scene tali, che le risa che alzavansi fra gli ascoltanti senza intermissione, o riposo, e per lungo spazio imponevano silenzio talora all’uno talora all’altro; ed io che in que’ tempi mi trovai col Rosa, ed ascoltai alcuna di quelle commedie, so che verissima cosa fu, che non mancò alcuno, che per soverchio di violenza delle medesime risa fu a pericolo di crepare.
Oltramonti ancora si fecero applaudire nelle parti piacevoli Michelangelo Fracanzano figliuolo di Cesare celebre e sfortunato pittore Napoletano, e Tiberio Fiorillo. Michelangelo rappresentava estemporaneamente la parte di Pulcinella studiandola sin dalla fanciullezza da Andrea Calcese ammirato in tal carattere in Napoli ed in Roma96, e da Francesco Baldo, dal quale ricevè anche in dono la maschera stessa usata dal primo di lui maestro il Calcese97. Alcuni Francesi testimoni oculari degli applausi che riscuoteva la maniera graziosa ed il motteggiar di Michelangelo, al loro ritorno in Parigi ne divulgarono di tal modo i pregi che vi fu chiamato nella gioventù di Luigi XIV. Piacque il suo giuoco scenico grazioso e naturale; ma come poteva dilettar pienamente in Francia un carattere di cui non aveasi idea, ed un dialetto sconosciuto come il Napoletano? Pur non lasciò di eccitare il riso e di far conoscere in parte il proprio valore, e gli fu continuata la pensione assegnatagli di mille luigi, colla quale soccorse e chiamò presso di se i suoi genitori, ed in seguito prese moglie e visse con decenza sino al 1685. Più ammirato fu nel medesimo Parigi l’ altro Napoletano Tiberio Fiorillo conosciuto col nome di Scaramuccia. Egli seppe meglio far conoscere i suoi talenti a’ Francesi facendo valere la somma sua arte pantomimica di maniera che poco o nulla gli nocque il patrio linguaggio. E’ troppo noto che egli come attore soltanto controbilanciava il gran Moliere che come attore ed autore quivi spiegava gl’ inimitabili suoi talenti. Non è men noto che il Moliere non isdegnò di apprendere da Scaramuccia i più fini misteri dell’arte di rappresentare, assistendo incessantemente ad ascoltarlo per copiarne l’espressiva grazia e naturalezza. E’ noto altresì che lo stesso Moliere non vide mai così pieno il proprio teatro come ne’ quattro mesi che Scaramuccia abbandonò Parigi l’anno 1662 per venire a Napoli a vedere i suoi parenti; e che al di lui ritorno i Parigini accorsero di bel nuovo alla Commedia Italiana, ed in tutto il mese di novembre non si curarono de’ capi d’opera che produceva Moliere. Scaramuccia poi rinunziò al teatro; e Menagio applicò a lui quel motto homo non periit, sed periit artifex, perchè più non vi comparve. Egli (aggiugnesi nella di lui Menagiana) “fu il più perfetto pantomimo de’ nostri tempi; Moliere original Francese non perdè mai una rappresentazione di quest’originale Italiano”. Egli morì vecchio in Parigi nel 1694, lasciando a un di lui figliuolo sacerdote il valsente di centomila scudi98.
IV.
Teatri materiali.
Molti teatri si eressero in Italia nel XVII secolo da valorosi architetti; ma i più considerabili furono quello di Parma, di San Giovanni Crisostomo in Venezia, di Fano, e di Tordinona in Roma.
Il teatro di Parma non fu opera del Palladio terminata dal Bernino, come alcuno affermò; nè si chiamava Giambatista Magnani l’architetto che vi fu impiegato, come leggesi nel trattato del Teatro, e nelle Lettere sopra la pittura dell’Algarotti, e nel Discorso premesso alle sue tragedie dal chiar. Bettinelli. Giambatista Aleotti di Argenta ingegniere illustre nell’architettura idraulica, nella civile e nella militare, il fe costruire d’ordine del duca Ranuccio I Farnese nel 1618. Si aprì secondo la prima costruzione nel 1619, dedicandosi a Bellona e alle Muse, come leggesi nell’iscrizione latina sovrapposta al proscenio. Si ampliò poscia e si prolungò dal marchese Enzio Bentivoglio, e si rendè capace di tal numero di persone, che nelle feste celebrate l’anno 1690 per le nozze di Odoardo Farnese con Dorodea Sofia di Neoburgo, vi si contarono quattordicimila spettatori99.
La figura di questo teatro è mistilinea congiungendosi a un semicerchio due rette laterali. La scena dal muro alla bocca del proscenio ha di lunghezza 125 piedi parigini e 93 di larghezza. La platea larga 48 ha una scalinata di quattordici scaglioni e un gran palco ducale nel mezzo. Sopra di essa si alzano due magnifiche logge, l’una Dorica e l’altra Jonica, ciascuna con una scalinata di quattro sedili. Il nominato autore dell’opuscolo del Teatro osserva che la bocca del palco scenario eccessivamente angusta e molto lontana dalla scalinata nuoce al vedere, là dove si avrebbe potuto fare più larga e più vicina agli spettatori; e così parve anche a me; allorchè vidi questo gran teatro. I lati retti della platea congiunti alla strettezza della bocca del palco occultano a chi siede lateralmente buona parte della scena. Oltre a ciò si oppone al solito effetto della simmetria l’architettura dei due grand’ingressi laterali posti tralla scalinata e ’l proscenio, essendo ornati di due ordini diversi dal rimanente. Ma la magnificenza, la vastità, l’artificio ond’ è costrutto, per cui, mal grado di tante centinature, colonne isolate, agetti e risalti, parlando ancor sottovoce da una parte si sente distintamente dall’altra, tutto ciò, dico, farà sempre ammirar questo teatro come uno de’ più gloriosi monumenti dell’amor del grande e della protezione delle arti che ebbero i principi Farnesi. Ed oggi singolarmente che i teatri trovansi tanto lontani dall’antica solidità e magnificenza, non è picciol vanto per l’ Italia e per lo stato di Parma il potere additare un teatro tanto magnifico e poco lontano dalla maniera antica, specialmente agli stranieri avvezzi a’ loro teatri assai meschini. Non per tanto per la medesima vastità (per cui ha potuto un tempo servire per una specie di naumachia, come dimostrano le antlie e i sifoni, per li quali ascendeva l’acqua per inondare l’orchestra) esso non è più in uso, e solo rimane esposto alla curiosità de’ viaggiatori; ed incresce il vedere che già mostra talmente i danni del tempo e del disuso, che non senza qualche ritegno si monta sulla scena per osservarsi minutamente.
Celebre per le pompose rappresentazioni musicali che vi si eseguirono, è il teatro di San Giovanni Crisostomo di Venezia. Non fu il principe che fe costruirlo, ma alcuni nobili particolari che soggiacquero alla spesa. La costruzione fu nella nuova maniera con palchetti sostituiti modernamente alle antiche scalinate, cioè con più ordini di stanzini collocati a guisa di gabbie l’un sopra l’altro, i quali avendo l’uscita a’ corridoj, lasciano il passaggio alla voce per dissiparvisi, in vece di esser rimandata alla scena. Non può negarsi che tali stanzini diano alle brigate che vi si chiudono, il comodo di conversare, prender rinfreschi e giocare; ma se si riguarda al fine principale delle scheniche rappresentazioni, essi riescono a tutt’altro opportuni che a godere di uno spettacolo destinato a commuovere per dilettare. I palchetti del teatro nominato di Venezia non bastando al gran concorso che cresceva, ebbero indi un aumento di tre per ciascun ordine su i lati del proscenio. Gli altri teatri Veneti per lo più inalzati sopra rovine di antichi edifizj, appartengono parimente al secolo XVII (a riserba di quello di San Benedetto); ma niuno di essi sembra degno di sì cospicua città, la quale può gloriarsi di aver prima di ogni altra avuti teatri costruiti a norma del compasso immortale de’ Palladj e de’ Sansovini.
Giacomo Torelli ed altri cinque cavalieri Fanesi vollero supplire alla spesa di un teatro nella patria, e su i disegni dello stesso Torelli verso il 1670 fecero costruire il bel teatro di Fano. Un arco accompagnato a due lunghe rette laterali terminate nel proscenio formano la figura mistilinea di tal teatro, la cui lunghezza è di 84 piedi parigini, e la larghezza non arriva ai 50. Ha cinque ordini di palchetti alla moderna; il proscenio per ogni lato ha due pilastri con una nicchia nel mezzo di essi colle figure di Pallade; e nel mezzo vi è scritto Theatrum Fortunæ. Si osserva da chi ha veduto questo teatro, che non è sottoposto al difetto comune quasi a tutti gli altri, che la voce si perda ne’ buchi de’ palchetti, perchè tutti convengono che vi si senta egregiamente ogni parola.
Roma non ha un teatro moderno corrispondente a sì famosa capitale. Niuno di quelli che vi si veggono eretti, si avvicina alcun poco a quegli antichi monumenti onde abbonda, e specialmente al teatro di Marcello. Quello di Tordinona fu opera di Carlo Fontana, e la sua figura inclina alla circolare, avendo nel maggior diametro piedi 52, e nel minore 48. Ha sei ordini di palchetti; ma (dice l’autore dell’ opera del Teatro) de’ comodi interni, e dell’abbellimento esteriore, non vi è occasione di poterne fare neppure un cenno.
Molti altri teatri si eressero nel medesimo secolo, e quasi ogni città n’ ebbe uno qual più qual meno magnifico a proporzione, tutte volendo partecipare del piacere di uno spettacolo pomposo come l’opera in musica. Sono dunque da riferirsi a quel tempo il teatro di Urbino, in cui si ammirarono le invenzioni del Genga esaltate dal Serlio degli alberi fatti di finissima seta, prima che la prospettiva avesse insegnato in qualunque occorrenza a mostrare i rilievi a forza di ombre e di punti ben presi: il teatro antico di Bologna che era nella piazza, ma che più non esiste, di forma quadrata diviso in gran palchettoni: quello di Modena detto della Spelta, opera del cavalier Vigarani, distrutto nel 1767: quello di Milano che s’incendiò pochi anni sono: quello di Pavia: quello di Santo Stefano di Ferrara: quello dell’accademia degl’ Intronati in Siena rifabbricato verso il 1670: quello di Marco Contarini in Piazzuola nel Padovano di tal vastità, che nel 1680 vi si videro girar nella scena tirate da superbi destrieri sino a cinque carrozze e carri trionfali, e comparire cento Amazzoni e cento Mori a piedi e cinquanta a cavallo100.
Ed è questa la storia scenica Italiana del secolo XVII. Fioriscono ne’ primi lustri poeti tragici degni di mentovarsi al pari de’ precedenti, il Bracciolini, lo Stefonio, il Bonarelli, il Dottori, il Pallavicino, il Delfino, il Caraccio: si producono alla poesia pastorale drammatica componimenti da non arrossirne al confronto de’ primi in tal genere, la Filli, la Rosa, l’Armonia d’amore, la Gelopea, la Tancia: si contano tralle commedie ingegnose, regolari e piacevoli quelle del Porta modelli della commedia d’intrigo, e degl’ Intronati, del Malavolti, del Guarini, dell’Altani, dell’Isa, del Gaetano, del Brignole Sale, del Bonarelli, del Maggi. Si attese poscia a spiegare tutte le pompe delle arti del disegno e della musica nell’opera; ma vi si neglessero le vere bellezze, la regolarità e la sublimità della poesia, e si avvilì coll’ introduzione degli eunuchi, che, sebbene sin dal XVI secolo contraevano matrimonj in Ispagna, non aveano per anche profanate le scene. Alterando al fine il sistema drammatico degli antichi si prese a tradurre ed imitar con furore il teatro Spagnuolo, di cui si corressero alcuni difetti, si adottarono le stravaganze, e si perderono non poche bellezze. Nel Rosa, nel Viviani, nell’Agli, nel Ridolfi, nel Dati si ebbero egregii attori accademici; si mandò a Parigi il Fracanzano e ’l Fiorillo o Scaramuccia, da cui apprese Moliere; si costruì il gran teatro di Parma; e si sostituirono alle antiche scalinate i palchetti negli altri teatri di Fano, di Bologna, di Modena, di Roma, di Venezia.