(1789) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome IV « LIBRO VI. Storia drammatica del XVII secolo. — CAPO II. Pastorali Italiane. » pp. 131-143
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(1789) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome IV « LIBRO VI. Storia drammatica del XVII secolo. — CAPO II. Pastorali Italiane. » pp. 131-143

CAPO II.
Pastorali Italiane.

Le pastorali uscite ne’ primi anni del secolo si avvicinarono a quelle del precedente tanto ne’ pregi di semplicità e regolarità di azione e di eleganza e purezza di linguaggio, quanto ne’ difetti di languidezza e di stile troppo lirico ed ornato. Non è però che non se ne fossero prodotte alcune degne di mentovarsi fralle buone. Se non giunse veruna a pareggiar l’ Aminta (cui niuna de’ due secoli può tener dietro) o a superare il Pastor fido, almeno per consenso de i dotti frutto pregevole del XVII secolo fu la Filli di Sciro che occupa il terzo luogo.

Prima di essa si produssero il Sogno, e la Pastorella Regia di Giammaria Guicciardi impresse nel primo e nel secondo anno del secolo; la Dichiorgia, o sia contrasto dell’amore e dello sdegno dell’Aquilano Pompeo Interverio pubblicata in Vicenza nel 1604; il Rapímento di Corilla di Francesco Vinta uscita nel 1605; il Filarmindo del conte Ridolfo Campeggi.

Alessandro Calderoni diede alla luce l’Esiglio amoroso nel medesimo anno 1607, in cui gli Accademici Intrepidi fecero imprimere in Ferrara la mentovata Filli di Sciro dedicandola al VI duca di Urbino Francesco Maria Feltrio della Rovere. L’autore Guidubaldo de’ Bonarelli (fratello dell’autore del Solimano) morì d’anni quarantacinque l’anno stesso, in cui i lodati Accademici la fecero solennemente rappresentare in Ferrara con un prologo della Notte composto dal cavalier Marini. Un’ altra rappresentazione se ne fece in Sassuolo con un prologo del conte Fulvio Testi. Ne uscirono per l’Italia ed oltramonti molte edizioni e traduzioni Francesi ed Inglesi. Le opere che riscuotono gli applausi dell’ Europa e gli encomj degli uomini di gusto e di buon senso, eccitano alle censure la vanità e l’invidia. Chi morde, chi impallidisce all’udirle lodate, chi si scaglia in pubblico o in segreto contro di esse; ma quelle superiori alle bassezze della timida malignità e dell’arrogante ignoranza poggiano in alto e s’incaminano all’immortalità. Si censurò vivamente la Filli, ma le censure sparvero tosto, e la Filli gode una lunga fama, ad onta dei difetti dello stile, e della moda già passata delle pastorali. Forse la critica più sobria fu quella che si fece al doppio amore di Celia per la rarità del caso, poco atto essendo un possibile raro o troppo metafisico a persuadere e interessare. Lo spettatore ad ogni finta particolarità corre di volo col pensiero sulle cose reali, e non trovandovi l’originale dell’immagine enunciata, rimane alla prima sospeso, incerto, non persuaso; e se a misura che l’azione avanza, vada crescendo la distanza del finto dal vero, passa all’indifferenza, indi alla noja, e sovente al disprezzo. Anche circa lo stile la giusta critica non è sempre contenta della Filli; perchè, oltre al raffinamento, diciam così, originario delle pastorali, vi si veggono molti falsi brillanti ed alquante metafore ardite alla moda Marinesca.

Non per tanto il Bonarelli compensa con varie bellezze sì la scelta di quel possibile straordinario che i difetti dello stile; e tali bellezze la preserveranno dalla totale dimenticanza. Le curiose avventure di Filli e Tirsi educati fra’ Turchi allontanano dalla favola il languore che suole accompagnare la maggior parte delle pastorali ripiene di fredde uniformi elegie senz’anima e senza sangue. Si vuol però notare che gli accidenti di Celia tirano verso di lei l’interesse della favola più di quello che vien concesso a un episodio. Il lettore s’ interessa per essa fin dalla scena terza dell’atto I quando la finta Clori gentilmente si lagna della di lei freddezza:

Sdegni ch’io ti riveggia?
Deh che nuovi portenti?
Sul mio primo apparire alle tue case
Tu mi accogliesti appena
Con un cotal sorriso,
A cui non rispondea per gli occhi il core.
Poscia nell’abbracciarmi
Colle braccia cadenti
Non mi stringesti il seno, e dall’estremo
Delle gelate labbra
Parve cader, non iscoccare, il bacio.
Indi con fioca voce
Non so se pur dicesti,
Ben venga Clori.
Io non t’udii già dir come solevi,
Cloride vita mia.
Poi ti se’ data a gir d’intorno errando
Torbida e lagrimosa.
Io ti seguo, e tu fuggi:
Io ti parlo, e tu taci:
Io ti miro, e tu piangi:
Sì m’odii forse? o ingrata ecc.

A queste delicate espressioni suggerite da una grande intelligenza del cuore umano, Celia è spinta a palesare le proprie avventure col Centauro e co’ due pastori; e de’ suoi strani amori e del veleno da lei preso si riempie la maggior parte de’ primi quattro atti. I suoi casi chiamano l’attenzione in modo che non pajono accessorii. Pure in una parte del quarto e nel quinto intero torna l’interesse ad essere tutto per Filli. Sin dal principio dell’ atto II desta curiosità il ben colorito amor fanciullesco di costei e del suo Tirsi in Tracia; e nel racconto che se ne fa niun belletto nè arditezza si scorge, ma sì bene una verità d’espressione che diletta e invita a leggere. Un gran movimento riceve l’azione principale dalla riconoscenza di Tirsi, e ne aumenta la vivacità il trasporto di Filli nel trovarlo infedele per le di lui medesime parole. Il disperato dolore della ninfa si spiega nella prima scena dell’atto IV con energia e felicità e senza veruna affettazione di stile. Ella così conchiude:

Per me non v’è conforto,
Per te non v’è tormento,
Che qual tu pur ti se’ perfido e crudo,
E’ forza, oimè, ch’io t’ami;
Io t’amo, e se per altro
Non t’è caro il mio amor, caro ti sia
Perchè il mio amor sarà la morte mia.
O Tirsi, o Tirsi ingrato,
Filli che per te nacque,
Filli che per te visse,
Filli per te si muore.

I due segni d’oro mandati da Filli ridotta all’estremo al suo Tirsi infedele, perturbano sommamente l’azione, che viene nobilitata nel V atto col pericolo della vita di Tirsi, il quale avendo gettati via que’ cerchi, ov’era l’immagine del Sultano, per una legge è divenuto reo di morte. Egli per disperazione nella quinta scena si accusa del fatto, e Filli per salvarlo se ne accusa ancora, rinnovando così l’affettuosa contesa di Olinto e Sofronia. Lo scioglimento avviene senza violenza per la volontà del Sultano spiegata in note Egizie in quel cerchio medesimo che ha servito alla riconoscenza di Tirsi e Filli. In conseguenza ne avvengono le nozze di questi amanti, e quelle di Celia con Aminta, e la felicità di Sciro liberata dal tributo crudele solito a riscuotersi da’ Traci.

Leggonsi nell’opere del Chiabrera tre pastorali, le Meganira, la Gelopea, l’Alcippo meritevoli dell’attenzione degl’ intelligenti imparziali. Appartiene la prima al secondo lustro del secolo, ed in essa, oltre all’ esser piaciuto all’autore di rimare con frequenza, non si vede il calore richiesto nelle sceniche poesie; ma ben si nota la semplicità dell’azione condotta coll’ usata regolarità Italiana, ed espressa colla natural grazia di questo leggiadro poeta. Interessante è l’ episodio di Jante ed Alcasto dell’atto I, in cui si spiega l’origine della festa di Arcadia: curioso quello dell’atto III degli amori di Logisto colla Maga che gli donò l’arco incantato: e patetico l’equivoco preso da Alcippo nel IV atto, pensando aver trafitta la sua Meganira nel provar l’arco.

La Gelopea scritta in versi endecasillabi e settenarj liberi s’impresse in Venezia nel 1607, e colle opere dell’autore nel 1610. Vi si vede più artifizio nel piano, viluppo più teatrale, caratteri più varj, passioni più vivaci, locuzione ricca di molte grazie naturali ed assai conveniente alle persone imitate. L’azione che si finge accaduta nel Premontorio luogo amenissimo del borgo di San Pietro di Arena nella Riviera di Genova, si aggira sull’amore di un pastorello per Gelopea turbato dalla gelosia per una menzogna, serenato dal disinganno, e felicitato dal possesso della pastorella amata. Vaga nell’atto I è la descrizione fatta dall’innamorato Filebo delle bellezze di Gelopea, e dei di lei graziosi trastulli col merlo imitati da quelli vaghissimi col passero di Catullo. Si machina nell’atto II a danni de’ due amanti per separargli suscitando in ciascuno torbidi sospetti di gelosia. Ad Alcanta si assegna la cura di tirar Gelopea al fenile d’Alfeo per accertarsi che Filebo dee trovarvisi con altra ninfa. Nerino malvagio, povero e ad un bisogno bacchettone sveglia in Filebo lo stesso sospetto della fede di Gelopea, e l’invita a scorgerne l’infedeltà nel medesimo fenile. Pregevole nell’atto III è la scena in cui Telaira sorella di Filebo vuol renderlo avveduto della inverisimiglianza del racconto fattogli da Nerino. Il loro dialogo è così acconcio, che il lettore rimane pago d’ogni proposta, e considera che posto egli nelle medesime circostanze non avrebbe altramente detto o replicato; ciò che forma il carattere dell’ottimo dialogo. Telaira stessa parla con Gelopea nell’atto V, e si scioglie l’ equivoco, conoscendo gli amanti che l’uno non era andato al fenile d’Alfeo che in traccia solamente dell’altro. Comprendono di essere stati aggirati, ricuperano la tranquillità, e si confermano nel proposito di sposarsi come il padre di Gelopea condifcenda alle nozze. E’ ben leggiadra questa poesia, e non so veruna pastorale d’oltramonti che potesse sostenere senza manifesto svantaggio il confronto della Gelopea.

L’Alcippo impressa in Venezia nel 1615 gareggia per la semplicità colle stesse greche favole, e pure interessa a maraviglia. Alcippo per amore di Clori si trasforma in ninfa, e col nome di Megilla se la rende amica se non amante con quello di Alcippo. E’ scoperto dalle ninfe d’Arcadia per la ripugnanza ch’egli ha di bagnarsi seco loro. Una legge condanna a morire sommerso nell’Erimanto chiunque ardisce insidiare l’onestà di quelle rigide seguaci di Diana; ed Alcippo dee soggiacere a questa pena. Tirsi, il giudice più zelante per l’ osservanza della legge, si scopre essere il padre di Alcippo ignoto a se stesso. Montano obbliga Alcippo a parlare in sua difesa; egli con candidezza manifesta l’innocente suo disegno di acquistar la di lei benevolenza, per poi scoprirsi ed ottenerla in consorte. Commuove il suo semplice appassionato racconto; tutti intercedono per lui, ed ottiene il perdono e la sua bella Clori. I caratteri vi sono ben sostenuti, e quello singolarmente della finta Megilla ha una nobiltà che incanta. Tutto poi nella favola è vero, tenero, patetico, e senza affettazione nè turgidezza veruna. Sei pur bella, o natura, quando i pedanti non ti rassettano!

Altre pastorali potrebbero mentovarsi, nelle quali non si vide tutta la corruzione del secolo, se voglia mirarsene con indulgenza qualche languidezza ed ornamento lirico. Tra esse può registrarsi la Finta Fiammetta uscita nel 1610 composta da Francesco Contarini che un’ altra ne avea prodotta nel 1595. Una Nuova Amarilli pubblicò il Gambaruti mentovata dal Ghilini. Ogni lode riscuote la Tancia graziosa e semplice commedia rusticale di Michelangelo Buonarroti il giovane pubblicata ne’ primi lustri del secolo anche per gl’ intermedii accomodati all’ argomento villesco (Nota III). Giulio Cesare Cortese compose la Rosa favola boschereccia nel dialetto Napoletano pubblicata nel 162167. Filippo Finella produsse in Napoli nel 1625 e nel 1628 la Penelopea tragicommedia pastorale, e nel 1626 la Cintia. Domenico Basile fece una traduzione Napoletana del Pastor fido impressa nel 1628. Nel medesimo anno si pubblicò la boschereccia detta maritima intitolata Dardo Fatale da Giambatista Bregazzano, il quale diede alla luce nel 1630 il Vendicato Sdegno favola pescatoria, e nel 1637 le Varie Fortune boschereccia. Altre tre pescatorie di questo secolo furono l’Aci di Scipione Manzano impresso in Venezia nel 1600, l’Amaranta del Villifranchi del 1610, e la Dori d’Isabetta Coreglia Lucchese stampata in Napoli nel 1634. Il Messinese Scipione Errico compose una graziosa pastorale l’Armonia d’amore impressa due volte in Messina e la terza volta in Roma nel 1655. La rende pregevole l’ingegnosa semplicità dello stile senza arditezze, e l’ameno soggetto di una festa cinquennale, in cui si gareggia col canto per acquistare una vaga ninfa. Io non conosco pastorale veruna de’ due precedenti secoli che più di questa abbia acconciamente dato luogo a molti squarci musicali, ed a tante arie o strofe anacreontiche non cantate soltanto dal coro in fine degli atti, ma in mezzo di essi da personaggi, e soprattutto nell’atto V.

Si registrano nel catalogo della biblioteca Imperiali due pastorali di un caprajo improvvisatore, il Siringo favola cacciatoria impressa in Siena nel 1636, ed il Negoziante uscita in Venezia nel 1660. Gian-Domenico Peri ne fu l’autore, il quale nacque in Arcidosso nelle montagne Sanesi. I parenti non del tutto sforniti di comodi l’aveano mandato a scuola; ma egli spaventato dalla villana sevizia del suo pedagogo lasciò la casa paterna, e si fuggì nelle selve a menar vita campestre, ed in esse senza studio pervenne ad essere poeta ed improvvisatore. Non ebbe il Peri altro maestro che il proprio genio e l’udito affinato dalla lettura che nel campo un altro caprajo faceva del Furioso e della Gerusalemme. Forza de’ gran modelli! pur troppo è vero, hinc pectore numen concipiunt vates. L’amore della poetica armonia che bevve il Peri in sì bei fonti gl’ inspirò l’amore di verseggiare, e compose alcuni poemi e le riferite pastorali, ch’egli stesso rappresentava in compagnia d’altri caprai. Solea far la parte di zappatore, e si contraffaceva di tal modo che non poteva mirarsi nè udirsi senza riso. Il teatro era naturale senza veruno artificio in un luogo poco lungi dal casale in un castagneto opportuno alla rappresentazione. La di lui fama pervenne al granduca, alla cui presenza lesse il poema intitolato la Fesuleide, e ne ottenne una pensione68.

Tre altre pastorali di tal tempo appartenenti a due Gonzaghi rimangono tuttavia inedite, e si trovano presso l’eruditissimo P. Ireneo Affo. La prima intitolata Fontana vitale e mortale è di Don Andrea Gonzaga, da cui nacque Don Vincenzo conte di S. Paolo in Puglia, che gli succedette nel ducato di Guastalla; ma tal componimento, per avviso del lodato religioso, è poco degno di trattenerci. Le altre due sono di Don Cesare Gonzaga II principe di Molfetta morto nel 1632 in Vienna di età ancor fresca. L’una s’intitola Procri, che dal canonico Negri Guastallese si pose per appendice alla sua storia di Guastalla. Stimò il Negri che la Procri fusse parto di Don Ferrante Gonzaga; ma da’ registri delle lettere dell’archivio segreto di Guastalla si rileva che fu composta da Don Cesare69. Egli compose ancora la Piaga felice favola ne i boschi divisa in cinque atti, il cui originale conservasi dal lodato Bibliotecario di Parma. Egli che ebbe la scuola del padre, non peccò nello stile; fu dolce, facile e piano, guardandosi dall’ampollosità e dalle arditezze delle metafore.

Inedita conservasi parimente nella biblioteca dell’università di Torino l’ Alvida pastorale del conte Lodovico San Martino d’ Agliè, cui par che avesse fornito l’argomento e il piano lo stesso duca di Savoja Carlo Emanuele I a cui si dedicò70.