CAPO III.
Spettacoli scenici in Inghilterra.
Si rappresentavano nella Gran Brettagna per gran parte del secolo XVI i misteri, le moralità e le più assurde farse. Appena dicesi del re Edoardo VI grandemente esaltato da Cardano che avesse composta una commedia elegantissima che s’intitolava la Puttana di Babilonia esaltata dagli antiquarj ma sfuggita all’esame de’ moderni per essersi perduta.
A gloria però delle lettere vuolsi ne’ fasti scenici Inglesi registrare un nome assai sublime. La figliuola di Errico VIII Elisabetta che suole riporsi insieme coi più gran principi del suo tempo Sisto V pontefice Romano ed Errico IV re di Francia, all’amor della musica congiunse la coltura delle lettere, ed oltre alle aringhe d’Isocrate, tradusse in latino le tragedie di Sofocle16. Non ebbe però questa gran regina molti compagni che lavorassero a far risorgere la drammatica co’ modelli dell’antichità. Non vi fu nel di lei regno che il lord Tommaso Sackville che compose Gordobuc commedia in qualche maniera scritta con regolarità17.
Sotto quel cielo non ancora abbastanza rischiarato la stessa lingua non era allora nè polita nè fissata, quando sulle scene comparve Guglielmo Shakespear. Abbandonato questo scrittore a se stesso si arrollò tra’ commedianti per libertinaggio, e compose poi, per sostentarsi, pel teatro di un popolo che ancor non poteva gloriarsi di aver prodotto alle scienze, alla politica, alla marina e al commercio, un Newton, un Bacone, un Locke, ed il Grande Atto della Navigazione. Non rechi dunque stupore, se i drammi di Shakespear benchè mostruosi facessero la delizia della nazione. Egli racchiuse, come i Cinesi, in una rappresentazione di poche ore i fatti di trenta anni: introdusse nelle favole tragiche persone basse, prostitute, ubbriachi, calzolai, beccamorti, spiriti invisibili, un leone, un sorcio ed il chiaro della luna che favellano: egli non seppe nè astenersi dal miracoloso ed incredibile, nè separare dal tragico il comico, restando per ciò, non che lungi dal pareggiare Euripide, inferiore allo stesso Tespi. Ebbe non per tanto un ingegno pieno di vigoroso entusiasmo che lo solleva talvolta presso a’ più insigni tragici, e che giustifica il giudizio datone da’ suoi compatriotti, ch’egli abbondi di difetti innumerabili e di bellezze inimitabili. Spicca soprattutto nel colorire con forza ed evidenza i caratteri de’ grand’ uomini, segnandone i temperamenti, i difetti e le virtù. Macbeth, Hamlet, Errico IV, Othello, Giulio Cesare, il Mercante Veneziano si considerano come i di lui drammi migliori18.
Abbiamo osservato nel parlar de’ drammatici Italiani l’esattezza di tanti industriosi scrittori intenti a far risorgere l’arte teatrale de’ Greci. Osserviamo ora in Shakespear la mancanza di erudizione, di emuli e di modelli supplita dall’ingegno che lo menava a riflettere sull’uomo, à studiare i movimenti del proprio cuore e a ritrarre le passioni dal vero. Egli non conobbe l’arte e copiò vigorosamente la natura. Che tragico incomparabile non diverrebbe chi sapesse ben congiungere l’uno e l’altro studio!
Tuttavolta i critici non lasciano di rimproverare a Shakespear le bassezze miste ai gran tratti. Studiando egli la natura mancò di giudizio nell’ imitarne ciò che nelle società si riprenderebbe. Non è inverisimile (disse Voltaire per iscolpar se stesso nel Figliuol Prodigo) che mentre in una stanza si piange un morto, dicasi da un buffone qualche motto che muova a riso. Ma questo vero indiscreto non si dee imitar sulla scena; in prima perchè la parte più sana riprenderà l’impertinenza del buffone, e perciò sembrando tal mescolanza sconvenevole nella conversazione dovrà, come in fatti avviene, dispiacere ancor nella scena, dove la natura dee comparire scelta e conveniente19. In secondo luogo il poeta giudizioso non lavora mai contro se stesso: or che altro fa colui, che, volendo intenerire e commuovere, impedisce egli stesso la riuscita del suo disegno, distraendo lo spettatore colla buffoneria intempestiva?
Shakespear istudiò la natura, e pure nelle sue espressioni non di rado la perde di vista. Non l’ebbe presente ne’ rimproveri che ne’ Due Gentiluomini di Verona fa il Duca di Milano al Valentino. Nella sola orazione di Antonio nel Giulio Cesare, in quell’ orazione che il Sig. Martino Sherlock stima il capo d’opera dell’eloquenza da preferirsi alle orazioni tutte di Omero, di Virgilio, di Demostene e di Cicerone, in quell’orazione che in ogni parola abbraccia mille bellezze ignote a’ profani, in quella sola orazione, dico, si osservano espressioni ricercate, frivole e contrarie alla semplicità della bella natura. Quando piangevano i poveri (dice Antonio) Cesare lagrimava; l’ambizione dovea esser fatta di una materia più dura. Questa materia più dura delle lagrime è forse una grazia naturale? Oltre a ciò la falsa ragione che si adduce non distrugge l’accusa di ambizioso data a Cesare. L’orgoglio, l’ alteriggia, vizj composti di presunzione e di ferocia, sono quelli che rendono l’uomo disprezzante, duro, insensibile agli altrui mali; ma l’ ambizione non rare volte si copre di umanità e di dolcezza. Sherlock che ha studiato venti anni i drammi di Shakespear, ha studiato ben poco il cuore umano. Notate come il sangue di Cesare lo seguiva (cioè seguiva il maledetto acciajo di Bruto) come sforzandosi di uscire, per sapere, se fosse possibile, che questo era Bruto. Longino, Orazio e Boelò, de’ quali con privilegio esclusivo vantasi ammiratore il Sherlock, avrebbero ravvisato del patetico e del sublime in questo sangue che si sforza di uscire per seguire il ferro e per sapere se era Bruto il feritore? Merita questo concettuzzo di esser preferito a quanto vantò di grande la latina e la greca eloquenza?
L’unica vera bellezza dell’orazione di Shakespear è appunto quella che è sfuggita alla diligenza del Sherlock che da venti anni la stà studiando. Il merito del Shakespear in tale argomento consiste singolarmente nell’essersi approfittato delle notizie istoriche di tal fatto, e nell’aver renduta capace di rappresentarsi in teatro l’aringa fatta da Antonio al Popolo Romano riferitaci dagli scrittori20, spiegandovi un patetico risentito e forte che accompagna lo spettacolo alle parole; e per questo merito, ad onta delle false espressioni accennate, si manifesta un esperto poeta drammatico. Ma questo merito tutto appartiene al teatro, nè senza ridicolezza si metterebbe in confronto colle orazioni dei Demosteni e de’ Tullj. Di grazia questi due prodigiosi principi dell’ eloquenza, si sono mai trovati in un caso simile? Non sa il Sherlock quanti aspetti diversi prenda l’eloquenza dagli oggetti e dalle circostanze? Non comprende l’enorme differenza che passa trallo spiegar la pompa oratoria nel Foro o nel Senato Romano e nel Pritaneo di Atene contro l’ambiziosa politica di Filippo e le ruberie di Verre, e tral mettere in azione in un teatro un cadavere insanguinato? Veramente il Shellock non è l’uomo più felice in comparare21.
Non è maraviglia che quel focoso viaggiatore preso dal farnetico di ragionar di letteratura vada tirando di taglio e di punta contro i fantasimi ch’egli stesso infanta, e giudichi de’ popoli colla più deplorabile superficialità. Non è maraviglia che abbia scarabocchiato un libercolo picciolissimo in tutti i sensi, per provare che in Italia la poesia non è uscita ancora dalla fanciullezza; non consistendo la sua grand’opera che in pagine 104 in picciolo ottavo, delle quali (sebbene protesti di voler fare un libro picciolo) ne impiega ben quaranta solo in esagerate lodi della sua innamorata, cioè di Shakespear. Non è maraviglia che nella medesima brochure o scartabello che sia, cancelli con una mano quel che coll’ altra dipigne; e nell’atto che dichiara gl’ Italiani fanciulli in poesia, affermi che abbondino di eccellentissimi poeti lirici in ogni genere, non avendo ancora imparato che l’entusiasmo, la mente più che divina, il sommo ingegno, la grandezza dello stile, doti da Orazio richieste nel vero poeta, convengono singolarmente alla poesia lirica. Non è maraviglia ancora che mentre nega il nome di poeta grande ad Ariosto, confessi poi che sia egli gran poeta descrittivo, con altra palpabile contraddizione, perchè le bellezze dello stile, la copia, la vaghezza, la vivacità e la varietà delle immagini, formano le principali prerogative della poesia perchè trionfi del tempo. Tutte queste incoerenze, io dico, delle quali si compone il di lui bel Consiglio a un giovane, potrebbero recarci stupore, se fussero profferite da un altro che non ci avesse puerilmente ed à propos des bottes fatto sapere di aver molto studiato la matematica e di credere d’avere della precisione nelle idee.
Gli si faccia parimente grazia del non aver conosciuta la storia letteraria Italiana, come dimostra proponendo per cosa tutta nuova all’Italia lo studio de’ Greci: a quella Italia, dove anche nella tenebrosa barbarie de’ bassi tempi fiorirono intere provincie, come la Magna Grecia, la Japigia e parte della Sicilia, le quali altro linguaggio non aveano che il greco, e mandarono a spiegar la pompa del loro sapere a Costantinopoli i Metodj, i Crisolai, i Barlaami: a quell’Italia, che dopo la distruzione del Greco Impero tutta si diede alle greche lettere, e fu la prima a comunicarle al rimanente dell’Europa, cioè alla Spagna per mezzo del Poliziano ammaestrando Arias Barbosa ed Antonio di Nebrissa, ed all’ Inghilterra per opera di Sulpizio, di Pomponio Leto e del Guarini maestri de’ due Guglielmi Lilio e Gray: a quell’Italia, dove (per valermi delle parole di un elegante Spagnuolo) la lingua greca diventò sì comune dopo la presa di Costantinopoli, che, come dice Costantino Lascari nel proemio ad una sua gramatica, l’ ignorare le cose greche recava vergogna agl’ Italiani, e la lingua greca più fioriva nell’Italia che nella stessa Grecia 22: a quell’Italia in fine che oggi ancor vanta così gran copia di opere nelle quali ad evidenza si manifesta quanto si coltivi il greco idioma in Roma, in Napoli, in Firenze, in Parma, in Padova, in Verona, in Venezia, in Mantova, in Modena ecc., che essa vince di gran lunga il gregge numeroso de’ viaggiatori transalpini stravolti, leggieri, vani, imperiti e maligni, tuttochè tanti sieno i Sherlock e gli Archenheltz23. E chi vorrà incolpare quest’Irlandese del non essere istruito della letteratura Italiana, quando egli ha mostrato nella sua opera grande di cinquanta carte di esser pochissimo versato in quella della Gran-Brettagna? Egli adduce in lode di Shakespear l’unanime consenso degl’ Inglesi d’indole per altro tanto, al suo dire, singolari che difficilmente se ne trovano due che si somiglino; ed afferma che in Inghilterra in quasi duecento anni non v’è stata una sola voce contro di Shakespear. Orsù facciamogli udire alcune voci sonore al pari di quella di Stentore uscite dall’Isole Britanniche contro di Shakespear per instruirlo anche in ciò che ignora de’ suoi stessi compatriotti.
Inglese era Dryden, erudito e poeta drammatico, e pure nella dedicatoria della tragedia Troilus and Cressida afferma ingenuamente che nelle composizioni scritte da Shakespear nel secolo XVI scorretta era la frase, sregolata la dicitura, oscura ed affettata l’ espressione; aggiugnendo che al principio del secolo susseguente quel padre del teatro Inglese pensò a pulire il linguaggio nelle ultime sue fatiche, e a levare alquanto di quella ruggine, di cui troppo erano imbrattate le prime.
Inglese era Samuele Johnson, e dopo del Rowe e del Pope e del vescovo Warburton, è stato comentatore delle opere del Shakespear pubblicate in Londra in otto volumi nel 1765; e pure nella prefazione dice di lui moltissimo bene e moltissimo male, che è quello appunto che fanno gli esteri imparziali. Io tanto più di buon grado ne trascriverò qualche osservazione, quanto più mi sembra conducente a far meglio conoscere per mezzo di un nazionale il carattere del poeta Inglese.
I critici (dice Johnson) hanno rimproverato a Shakespear il troppo studio d’ imitar la natura universale. Hanno detto che i suoi Romani non erano vestiti del proprio costume; e che ai re da lui introdotti mancavano le dignità richieste nella loro classe. Dennis si offende (dice Johnson, e Dennis, Sig. Sherlock, era anche nato in Inghilterra) perchè Menenio senator di Roma faccia il buffone; e Voltaire crede che sia un violar la decenza il dipingere che fa in Hamlet l’usurpator Danese ubbriaco. Ma Shakespear sacrifica tutto alla natura e alla verità. Esigeva la sua favola de’ Romani e de’ re, ed egli non vide che gli uomini. Egli avea bisogno di un buffone, ed il prese dal Senato di Roma, ove fe ne sarebbe, come altrove, trovato più d’uno. Voleva egli mettere sulla scena un usurpatore e un omicida, e per renderlo dispregevole e odioso, aggiunse a’ di lui vizj l’ubbriachezza, sapendo che il vino esercita la sua possanza su i re come su gli altri24. L’ intreccio delle sue favole (parla il medesimo Johnson) in generale è tessuto debolmente e condotto senz’arte. Egli trascura le occasioni di piacere o interessare che presentagli naturalmente lo scioglimento. Perchè componeva per vivere avvicinandosi al termine del lavoro si dava tutta la fretta per ritrarne frutto al più presto . . . . . Non ebbe verun riguardo ai tempi ed a’ luoghi, e senza scrupolo attribuiva ad un secolo e ad una nazione i costumi, le usanze, le opinioni di un altro tempo e di un altro popolo . . . . Quando vuole esser comico, la sua piacevolezza è rozza, e l’allegoria licenziosa. Gli uomini e le donne civili nè parlano nè operano diversamente dalle genti del contado. Quando vuole essere oratore (attento, Sig. Martino), diviene freddo e snervato; imperciocchè allora solo egli è grande quando si contiene nella natura . . . . Esprime sovente di una maniera ingarbugliata un pensiero comune; e cela una picciola immagine in un verso pomposo . . . . . Quando vuole intenerire dipingendo la grandezza che ruina o l’innocenza che pericola, più sensibilmente manifesta l’ineguaglianza del suo ingegno. Egli non può essere lungo tempo tenero e patetico . . . . Il difetto più notabile del nostro poeta è il gusto singolare che avea pel giuoco puerile sulle parole; non v’ha cosa che non sacrifichi al piacere di dire un’ arguzia ecc. ecc.
Inglese per finirla era Gay autore del componimento scenico intitolato Come la chiamate Voi? Farsa Tragi-Comi-Pastorale, in cui non meno che nella prefazione viene finamente e con grazia comica deriso il teatro di Shakespear in mille guise, formandosi fin anche de’ di lui versi piacevolissime parodie.
Adunque non è punto vero ciò che afferma il Sherlock, che in Inghilterra non vi è stata mai una sola voce contro Shakespear; non è punto vero che sono quivi tutti ciechi adoratori non meno delle bruttezze che delle bellezze di lui. In compenso però può oggi questo famoso poeta tralle altre sue glorie contare di essere stato dichiarato l’innamorata del tenero Sherlock che consiglia con tanto gusto e giudizio la gioventù. Mi vieta il mio argomento l’andar ricercando dietro ad ogni particolarità della scrittura di costui, nella quale trovansi sparse senza citarsi moltissime cose che leggonsi altrove, ed altre non poche a lui da questo e da quello suggerite in Italia le quali ha egli registrate senza esame e senza ben ricucirle col rimanente del suo libretto. Io ne ho voluto accennare soltanto quel che riguarda la drammatica, non curandomi di mettere al vaglio tante mal digerite opinioni spacciate sulla poesia italiana e francese, ove pesta non iscorgesi nè di gusto nè di giudizio, nè di quella precisione d’idee, di cui crede piamente potersi pregiare. Per umiltà avrà egli voluto occultarci i progressi da lui fatti nelle matematiche, ragionando a bella posta così incongruamente e con frequenti contraddizioni; e per la stessa umiltà avrà voluto fingersi poco o nulla istruito della letteratura straniera e della nazionale. Ma chi bramasse distinta contezza delle madornali eresie letterarie del Sherlock, legga le Tre Lettere dell’erudito Alessandro Zorzi Veneziano impresse in Ferrara nel 1779, anno alle lettere fatale per la perdita fatta di questo dotto laborioso Italiano25.
Shakespear scrisse anche commedie, e gl’ Inglesi veggono sempre con piacere il di lui Cavaliere Falstaff, e le Commari di Windsor. Egli scrivea un medesimo componimento parte in versi e parte in prosa. Nato in Strafford verso il 1564, morì nel 1616; e per onorarne la memoria gli fu eretto un magnifico monumento nell’Abadia di Westminster.
Nel medesimo secolo XVI fiorì il Cavalier Fulck Grevil Lord Brooke chiaro nelle armi e nelle lettere, che fu l’intimo amico di Sidney favorito della regina Elisabetta. Grevil compose due tragedie Alaham e Mustapha, nelle quali introdusse il coro alla maniera greca.
Contemporaneo del Shakespear fu Giovanni Fletcher, il quale ancora contribuì agli avanzamenti del teatro Britannico. Tralle di lui favole passa per eccellente quella che intitolò il Re non Re.
Non si vuole però omettere di notare che sin da allora sulle scene di quell’ isole cominciò ad allignare un gusto più attivo e più energico che altrove. Gl’ Inglesi amano sul teatro più a vedere che a pensare. Da quel tempo spiegarono una propensione particolare al grande, al terribile, al tetro, al malinconico più che al tenero, ed una vivacità, una robustezza e un amor deciso pel complicato più che per la semplicità; e questo carattere di tragedia si è andato sempre più disviluppando sino a’ dì nostri.