(1788) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome III « LIBRO IV — CAPO II. Progressi della poesia comica nel medesimo secolo. » pp. 175-262
/ 1560
(1788) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome III « LIBRO IV — CAPO II. Progressi della poesia comica nel medesimo secolo. » pp. 175-262

CAPO II.
Progressi della poesia comica nel medesimo secolo.

All’edizione delle sue belle tragedie premise il chiar. Ab. Bettinelli un Discorso intorno al teatro Italiano, dal quale traggonsi moltissime osservazioni di buongusto. Vi si dice però che la prima epoca gloriosa della poesia regolare drammatica è al 1520, che secondo me dovrebbe risalire qualche altro lustro. Il lodato autore ha la mira alla Sofonisba del Trissino, alla Rosmunda del Rucellai, ad alcune commedie dell’Ariosto, a quelle del Machiavelli, alla Calandra del Bibbiena. Ma queste tragedie e commedie hanno certamente la data più indietro del 1520, e per conseguenza la prima epoca gloriosa della drammatica può mettersi al principio del secolo. Secondo Lilio Gregorio Giraldi106 intorno a’ primi anni del secolo il Trissino avea per le mani la sua tragedia, benchè prima del 1514 non erasi tuttavia recitata. Si rappresentò poi la Rosmunda nel 1516, o 1517, secondo il Zeno, e fu la seconda tragedia rappresentata. Nè anche il Signor di Voltaire volle negarci questi pochi anni, e confessò che la ville de Vicence en 1514 fit des dépenses immenses pour la représentation de la premiere tragédie, qu’on eût vue en Europe depuis la decadence de l’Empire. Quanto alle commedie poi dalla narrazione a cui ci accingiamo di quelle dell’Ariosto, del Bibbiena e del Machiavelli, si vedrà che furono scritte assai prima del 1520, cioè intorno al 1498 o poco più; e per conseguenza che l’epoca gloriosa della poesia regolare drammatica dovrà fissarsi sul bel principio del secolo XVI.

I.
Commedie chiamate Antiche ed Erudite.

Una felice combinazione per la poesia drammatica trasse i più chiari epici Italiani a coltivarla. Per mezzo degli autori dell’Italia liberata e del Goffredo fiorì tra noi la buona tragedia; e pel cantore dell’Orlando furioso risorse la commedia nuova degli antichi. Questo poeta prodigioso nato nel 1474 a corre le prime palme in tutti i generi che maneggiò (che che abbia voluto gratuitamente asserire in iscapito delle di lui satire e commedie l’Ab. Andres), per divertire la corte del Duca di Ferrara compose cinque commedie, la Cassaria, i Suppositi, la Lena, il Negromante e la Scolastica. Alfonso d’Este per farle rappresentare fe costruire un teatro stabile secondo il disegno dell’istesso poeta, il quale parimente ebbe la cura dell’ ottima esecuzione ammaestrando alcuni gentiluomini; anzi più di una volta egli vi sostenne ancora la parte del prologo, come ci dice Gabriele suo fratello in quello della Scolastica:

. . . . . Quando apparve in sonnio
Il fratello al fratello in forma e in abito
Che s’era dimostrato sul proscenio
Nostro più volte a recitar principj,
E qualche volta a sostenere il carico
Della commedia, e farle serbar l’ordine. 107

Ariosto da prima, cioè ne’ suoi verdi anni, cominciò a scrivere le sue favole in prosa circa il 1498108; e così furono scritte i Suppositi e la Cassaria. Ma avanzato in età le riscrisse in verso, del quale però soltanto si servì nelle altre tre. Scelse lo sdrucciolo, in cui alcuni pretesero raffigurare l’immagine dell’antico giambico; ma solo la grazia della locuzione e la maestria inarrivabile di un Ariosto potè renderlo soffribile e compensarne l’irreparabil caduta e la manifesta monotonia. Non istancherò i leggitori analizzando minutamente queste commedie; ma ne anderò solo notando alcune bellezze per istruzione della gioventù, e per rimproverarle agli ultimi detrattori transalpini, i quali o non vogliono o non sanno vederle da se stessi.

I Suppositi. Nell’edizione che se ne fece in Venezia nel 1525, si vede questa favola preceduta da un prologo in prosa, nel quale l’autore confessa di avere in essa seguitato Terenzio nell’ Eunuco e Plauto ne’ Cattivi. E veramente parte dell’argomento trasse da que’ comici antichi; mentre l’innamorato Erostrato padrone si fa credere pel suo servo Dulippo, e questi è tenuto per Erostrato, prendendone il nome e la condizione. Ma la modestia dell’autore gli fe dissimulare il merito principale della sua favola, che consiste nell’ averla avviluppata e sciolta con mirabile naturalezza senza bisogno di scorta, e renduta notabilmente interessante colla venuta di Filogono padre di Erostrato; di che non fu debitore agli antichi. In fatti la gloria principale dell’Ariosto e di tanti altri comici Italiani, de’ quali ragioneremo, è questa appunto di aver migliorati gli argomenti degli antichi, e di averne poi tratti tanti e tanti altri dalla propria fantasia; la qual cosa gli rende superiori a’ Latini per invenzione, ed in conseguenza per vivacità. E se il nostro dottissimo Gravina avesse da questo punto riguardata la commedia Italiana del cinquecento, certamente non avrebbe senza veruna riserba avanzato nella lettera scritta al Maffei, che i nostri Comici son di gran lunga inferiori a’ Latini. E’ vero poi che l’Ariosto si valse di alcuni caratteri antichi, ma seppe adattarli alla propria età e nazione con un colorito fresco ed originale; e moltissimi nuovi ne introdusse, come avvocati, cattedratici, teologi. Per la qual cosa possiamo fare osservare che il gesuita Rapin diede al Moliere una lode immaginaria, allorchè affermò che fu questo celebre Francese il primo a far ridere con ritratti di nobili, uscendo da’ servi, parassiti, raggiratori e trasoni. Io trovo che i Cinesi, gl’ Indiani, i Greci, i Latini, gl’ Italiani, gli Spagnuoli e i Francesi stessi, prima del Moliere, dipinsero i nobili ridicoli109. Lo stile dell’Ariosto in questa e nelle altre si presta mirabilmente, alla maniera di Menandro, a tutti gli affetti e a tutti i caratteri. Motteggia con grazia senza buffoneria di piazza: ragiona con tutta la naturalezza ignota alla pedanteria: famigliare e piacevole non lascia di adornarsi di quelle sobrie bellezze poetiche che a tal genere non isconvengono: satireggia con sale e vivacità senza addentar gl’ individui. E su di ciò si vuol riflettere che la commedia Italiana di tal tempo non pervenne all’insolenza della greca antica, a cagione de’ governi delle Italiche contrade assai differenti dall’Ateniese. Ma non fu già timida e circospetta quanto la latina; imperciocchè i nostri autori comici erano per lo più persone nobili e ragguardevoli nella civile società, o almeno non furono schiavi come la maggior parte de’ Latini. Quindi è che nelle commedie dell’Ariosto e de’ contemporanei si trovano proverbiati coraggiosamente signori, ministri, governatori, giudici, avvocati, frati ecc. Eccone un saggio de’ Suppositi. Lizio servo nell’atto IV attribuisce a coloro che presiedono al governo, gli sconcerti privati. Un Ferrarese discolpa i Rettori:

Che san di questo li rettori? credi tu
Che intendano ogni cosa?

E Lizio risponde:

. . . . . Anzi che intendano
Poco e mal volentier credo, e non vogliano
Guardar, se non dove guadagno veggano;
E l’orecchie più aperte aver dovrebbono,
Che le taverne gli uscj le domeniche.

E quì si avverta che si parla appunto dei rettori di Ferrara, dove si rappresentava la commedia in presenza del principe e forse di que’ medesimi rettori. Non meno penetrante è il colpo che questo satirico di Lizio dà a’ giudici, che oggi forse non si permetterebbe sulle scene; ed in fine con somma grazia e piacevolezza comica pongonsi alla berlina gli avvocati. Io non parlo poi della regolarità della condotta di questa favola, e delle altre, non dell’Ariosto solamente, ma degli altri che scrissero dopo; perchè pregio degl’ Italiani fu il non avere incominciato dal comporre favole mostruose, come le Cinesi, le Inglesi, e le Spagnuole, ma regolari scrupolosamente contenute ne’ limiti prescritti da Aristotile e da Orazio. Dovrei bensì additare l’arte del poeta nella rivoluzione apportata all’azione dalle notizie rilevate opportunamente, e l’interesse che va gradatamente crescendo col disordine che mena allo scioglimento; ma tali cose meglio si sentono nella lettura continuata che nel racconto.

La Cassaria. Benchè in questa favola ricca di sali, di grazie e di passi piacevoli, si veggano introdotti servi, ruffiani ed altri personaggi usati nelle antiche comedie, l’argomento però tutto appartiene al nostro poeta. Una cassa lasciata in deposito nella casa di Crisobolo, la quale dal di lui figliuolo Erofilo innamorato della giovinetta Eulalia vien data in potere di Lucramo padrone di questa bella schiava, forma un groppo ingegnoso, ed adduce senza stento uno scioglimento felice. Quando l’autore la scrisse in prosa, vi pose un prologo in terza rima, ove dimostra sommo rispetto per gli antichi; ed allora che la ridusse in versi sdruccioli, nel prologo abbellito di vaghe e graziose dipinture si valse del metro medesimo del rimanente. In alcune circostanze le immagini ritratte al vivo par che si scostino dalle caricature de’ nostri giorni; ma chi non sa che di tutta la poesia, la comica è la più soggetta ad alterazioni per le maniere e i costumi? Il Ferrarese valoroso dipintore della natura, il quale imitò i costumi de’ suoi paesani tre secoli indietro, avea quella freschezza di colorito e quella rassomiglianza agli originali che poteva attendersi dal suo pennello, ma che noi venuti sì tardi più non sappiamo rinvenirci. Con simili prevenzioni debbono leggersi i ritratti della vanità ed incostanza delle donne nell’ adornarsi, ove ravvisasi un’ elegante parafrasi del verso Terenziano, Dum moliuntur, dum comuntur, annus est; e poi la dipintura degli effeminati giovinastri che si bellettano come le femmine, la quale per altro troverebbe i suoi ridicoli originali ancor fra noi:

. . . . Anch’essi perdono
Non meno in adornarsi, e fino a mettere
Il bianco e ’l rosso. Fan come le femmine
Tutte le cose: han lor specchi, lor pettini,
Lor pelatoj, lor stuccetti de’ varii
Ferracciuoli forniti: hanno lor bossoli
Lor ampolle e vasetti ecc.

Non è totalmente passata di moda la pittura di certi titolati ridicoli, de’ quali si burla lepidamente, essendosene conservata la razza sino a questi dì, ed avendola dopo di lui trovata Moliere in Francia, e schernita Wycherley in Inghilterra. Il nostro insigne poeta così ne parla:

. . . . Che fuor che titoli
E vanti e fumi, ostentazioni e favole,
Ci so veder poco altro di magnifico.
Tutto ciò ch’hanno in adornarsi spendono,
Polirsi, profumarsi come femmine,
E pascer mule e paggi, che lor trottino
Tutto dì dietro, mentre essi avvolgendosi
Di quà e di là, le vie e le piazze scorrono,
Più che ognuna civetta dimenandosi,
E facendo più gesti ch’una scimia, ecc.

Ma giova osservare in qual maniera si esprima in questa favola un innamorato. Eulalia lo rimprovera perchè le sembra che non si curi di liberarla; egli punto da ciò manifesta i suoi sensi con tale opportuna esagerazione:

Ch’io non la faccia chiara del grandissimo
Ben ch’io le voglio? e ch’io non la certifichi
Ch’io non amo altra persona, nè voglione
Mio padre, . . . che mio padre? me medesimo
Non ne vo’ trarre ancor, quanto la minima
Parte di lei?

Notisi il calore che spirano le di lui parole, quando sa che gli è stata menata via Eulalia:

Volp.

Ove ir vuoi tu? che pensi tu far?

Erof.

Vogliola
O riavere, o morire.

Volp.

Non correre
In tanta fretta, Erofilo: ricordati
Che noi siamo in pericolo di perdere
La cassa; attendi a quella, e poi.

Erof.

Che attendere?
Che cassa? Più m’importa la mia Eulalia,
Che quanta roba è al mondo. Ove ti pensi tu,
Ch’abbian presa la via?

Trap.

Di quà mi parvero
Andar.

Volp.

Non ir, padron, che non ti facciano
Qualche male.

Erof.

E che peggio mi potriano
Far, se già m’han levato il cuore e l’anima?

In questa guisa nelle commedie Italiane del cinquecento parlano gl’ innamorati con tutto il calore de’ Panfili o de’ Cherei Terenziani, e ben lontani dalle sottigliezze metafisiche degli Spagnuoli, e dalle tirate e da’ tratti spiritosi de’ Francesi. La natura in quell’animato linguaggio si riconosce, e se ne compiace.

La Lena. Piacevole è l’intrigo di questa commedia, che su di un semplice fondamento aggirandosi produce varj ridicoli colpi di teatro, i quali con tutta naturalezza apportano lo scioglimento. Flavio amante di una giovinetta contratta per lei con la Lena ruffiana inesorabile; e per tenerla contenta fa del danaro impegnando la roba e la beretta. Il servo Corbolo sì per discolparlo del pegno fatto, come per trarre altro danaro da Ilario di lui padre, gli narra una immaginaria sorpresa notturna, la quale nell’atto terzo forma una scena incomparabilmente più graziosa per lo stile e più naturale di quella della galera del Moliere, perchè questo comico Francese la trasse da altri comici, ed Ariosto la copiò dalla natura e ne diede l’esempio a tutti gli altri. La giunteria di Corbolo è sconcertata dalla venuta del Cremonino colla veste di Flavio nelle mani. Corbolo con molte astuzie cerca di puntellare la sua menzogna cadente; ma il vecchio insospettito mena seco il Cremonino per esaminarlo in casa senza che Corbolo possa interromperlo. Flavio intanto che è in casa della Lena, è deluso, ed obbligato a nascondersi in una botte quivi lasciata in deposito. Sventuratamente il padrone di tale botte viene a riprenderla, per dubbio che per gli debiti del marito della Lena, non abbia a pericolare. Ed appunto nel cacciarla fuori (standovi Flavio dentro) sopraggiugne un creditore con gli sbirri, e la vuol torre in pegno. Fazio ch’è il padre di Licinia amata da Flavio, arriva in questo punto, ode il contrasto, si frappone, e per metter pace offre di tener egli la botte in deposito, la fa condurre in sua casa, e ne segue il matrimonio di Flavio e Licinia. Non è questa una commedia nobile; ma nel genere inferiore ha tutte le grazie del viluppo e della piacevolezza de’ colpi teatrali senza discendere sino alla farsa. È da notarvisi ancora che vi si tratta di un intrigo amoroso e di un giovine trovato in casa di una fanciulla onorata, ma non per questo produce risentimento veruno di funeste conseguenze. Or dov’è mai quella gelosia, e quella vendetta Italiana tanto esagerata nella Poetica Francese dal moderno filosofante M. Marmontel come principio universale di tutti gl’ intrighi delle nostre commedie? ma di ciò nella favola seguente.

Il Negromante. Questa commedia (che ci suggerirà alcune curiose osservazioni critiche) e per la vaghezza dello stile e per l’ artifizio del groppo e pel calore e ’l movimento dell’azione e per la vivace dipintura de’ caratteri e per la grazia de’ motteggi, merita che si legga con attenzione che sarà ben compensata dal diletto.

Massimo vecchio astringe il giovine Cintio destinato suo erede a sposare una donna ch’egli non può amare trovandosi preoccupato dall’amore di Lavinia figliuola di Fazio. Cintio obedisce, ma in tutto un mese non si accoppia colla moglie, fingendosi, impotente e sperando di far disciogliere le nozze. Massimo per guarirlo dopo varie pratiche e molti rimedj tentati invano ricorre ad un furbo che passa per astrologo e negromante. Costui cercando di arricchire a spese di Massimo ed anche di Camillo Pocosale innamorato di picciola levatura, senza volerlo fa sì che si manifesti l’amore di Cintio e Lavinia, rimanendo egli scornato e scoperto per impostore.

Delle molte bellezze di questa favola additiamone alcuna che ne sembri più piacevole e più degna di esser notata. Cintio teme che il Negromante colla sua scienza possa scoprire il proprio secreto, e con Fazio e col servo Temolo parla della fama delle di lui opere prodigiose. Cose mirabili (egli dice)

Di lui mi narra il suo garzone:

Tem.

Fateci,
Se Dio v’ajuti, udir questi miracoli.

Cint.

Mi dice che a sua posta fa risplendere
La notte, e il dì oscurarsi.

Tem.

Anch’io so similemente cotesto far.

Cint.

Come?

Tem.

Se accendere
Di notte anderò un lume, e di dì a chiudere
Le finestre . . .
Or sa far altro?

Cint.

Fa la terra muovere
Sempre che ’l vuole.

Tem.

Anch’io talvolta muovola,
S’io metto al foco, o ne levo, la pentola:
O quando cerco al bujo, se più gocciola
Di vino è nel boccale, allor dimenola.

Cint.

Te ne fai beffe? e ti par di udir favole?
Or che dirai di questo, che invisibile
Va a suo piacere?

Tem.

Invisibile? avetelo
Voi mai, padron, veduto andarvi?

Cint.

Oh bestia,
Come si può veder, se va invisibile?

Tem.

Che altro sa far?

Cint.

De le donne e degli uomini
Sa trasformar sempre che vuole in varii
Animali e volatili e quadrupedi.

Tem.

Si vede far tutto il dì, nè miracolo
E’ cotesto.

Faz.

U’ si vede far?

Tem.

Nel popolo
Nostro . . . .

Faz.

Narraci
Pur come?

Tem.

Non vedete voi che subito
Ch’un divien podestate, commissario,
Notajo, pagador degli stipendii,
Che li costumi umani lascia, e prendeli
O di lupo, o di volpe, o d’alcun nibbio?

Faz.

Cotesto è vero.

Tem.

E tosto ch’un d’ignobile
Grado vien consigliere o segretario,
E che di comandare agli altri ha ufficio,
Non è vero anche che diventa un asino?

Faz.

Verissimo.

Tem.

Di molti che si mutano
In becco, io vo’ tacere.

Queste trasformazioni satiriche d’uomini in animali sono accennate con somma lepidezza, nè hanno minor grazia comica di quella che osservammo in Aristofane nelle Nubi che prendono varie forme; se non che l’Italiano satireggia con più artificio i ceti interi, e non le persone particolari.

Reca singolar diletto al filosofo che non arzigogola, cioè che ragiona con sicurezza di dati, il rintracciar nelle commedie alcun materiale da supplire alla storia stessa delle nazioni intorno all’alterazioni de’ costumi e delle maniere ed all’epoche de’ loro abusi. Per questo aspetto mirava Platone le Nubi, quando inviò tal favola al re Dionisio per dargli a conoscere gli Ateniesi. Di questa utilità e diletto privansi per certo spirito di superficialità molti Italiani che non curansi di esaminare le ricchezze teatrali che posseggono, contenti di averne false e superficiali notizie nell’opere oltramontane. E che può sapere, per esempio, dell’indole dell’Italica commedia quel meschino Italiano che prende per sua scorta la Poetica Francese del Marmontel, dove trovansi stabiliti principj contraddetti dal fatto? Ecco ciò che con filosofica franchezza disse quel Francese degl’ Italiani: Un popolo che per gran tempo ha posto il proprio onore nella fedeltà delle donne (io son pronto a mostrare ad un bisogno a quest’ enciclopedista, che tutta l’Europa, e singolarmente i Francesi, hanno in certo tempo posto il proprio onore nella fedeltà delle donne), e nella vendetta crudele de’ tradimenti amorosi (e pure dovrebbe sapere l’autore del Belisario che non sono stati Italiani quelli che hanno portato più d’una fiata sulla scena a’ giorni nostri i Fajeli che per gelosia strappano il cuore agli amanti delle Gabrieli di Vergy) per necessità dovè inventa e nelle commedie intrighi pericolosi per gli amanti, e capaci di esercitare la furberia de’ servi. Pongasi da parte che questo maestro di poetica ciò scrivendo non si ricordò de’ Greci e de’ Latini, i quali sono pieni, e ’l sanno i ragazzi, di quest’ intrighi e di questa furberia servile. Osserviamo solo che questo principio è fabbricato sulla rena.

Le commedie da noi chiamate antiche avute dal Sig. Marmontel in pensiero, e non mai sotto gli occhi, sono, per quel che si stà narrando, frutti per la maggior parte del secolo XVI. Ora per verificare il principio posto da questo autore che ha dato al teatro la Cleopatra, bisognerebbe dimostrare, che gl’ Italiani in tal tempo fossero stati, com’ egli immagina, ad esclusione di ogni altro popolo, tutti gelosi e vendicativi. Ma io gli proverò colle medesime commedie, ch’egli anfana a secco, e che non si è curato di bene osservare. Ariosto è il primo ad ismentirlo con tutte le sue cinque commedie, perchè in veruna di esse non si vede pesta di quegl’ intrighi di gelosia e di vendetta funesta da lui urbanamente chiamata Italiana, per essersi dimenticato delle storie delle altre nazioni e della propria. Io gli presento un ritratto del costume Italiano di quel tempo della maniera di conversare insieme l’uno e l’altro sesso, somministratomi dalla favola del Negromante. Ecco quel che dice Cintio a Massimo lodatore della ritiratezza delle donne de’ tempi passati:

. . . . Ma in quali case essere
Sentite donne voi ch’abbiano grazia,
Che tutto il dì non vi vadano i giovani,
Essendo o non essendovi i loro uomini,
A corteggiar?

Mass.

Nè l’usanza è lodevole.
Cotesto al tempo mio non era solito.

Cin.

Doveano al vostro tempo avere i giovani,
Più che non hanno a questa età, malizia.

Mass.

Non già, ma bene i vecchi più accorti erano.
Mi meraviglio ch’al presente gli uomini
Non sieno affatto grossi come tortore.

Cin.

Perchè?

Mass.

Perchè hanno tutti sì buon stomaco.

È questa l’esagerata gelosia Italiana che corre di bocca in bocca tra’ Francesi? E con tal conoscenza de’ costumi Italiani ha fondato il suo filosofico principio della nostra commedia il Signor di Marmontel? Il filosofar sulle arti reca utile alla gioventù e lode al ragionatore; ma col fantasticar su di esse con osservazioni mal digerite si distrugge e non si edifica.

Continuando la ricerca di alcune bellezze e dell’artificio del Negromante, osserviamo che il carattere di Mastro Giachelino furbo vagabondo viene sin dal principio dell’atto II enunciato da Nibio. Egli dice che avendo appena appreso a leggere e scriver male, ha l’arte di spacciarsi per filosofo, alchimista, medico, astrologo e mago, sapendo di tali cose quello stesso

Che sa l’asino e ’l bue di sonar gli organi.

Aggiugne, che egli e ’l maestro vanno come zingari

Di paese in paese, e le vestigie
Sue tuttavia dovunque passa, restano
Come de la lumaca, o per più simile
Comparazion, di grandine, o di fulmine.

Ma si sviluppa affatto il di lui carattere, quando egli stesso parla con Nibio, e svolge la sua economia furbesca nello scorticare differentemente i creduli suoi merlotti, con tal arte e tal grazia, che è da dolersi che la gioventù la quale trascura la lettura di tali commedie, rimanga priva di tante bellezze comiche.

Or questo furbo così trincato si ha prefisso, giusta le sue regole economiche, di tosar prima a poco a poco Massimo e Camillo, e poi di scorticarli fin sul vivo e fuggirsi. Al primo egli promette di portare in casa una cassa con un cadavere per fare uno scongiuro; e per preparare la stanza alla finta evocazione, domanda di molte ricche tele, argenti, ed altre cose. All’altro promette il possesso dell’ innamorata, purchè si faccia trasportare nella di lei casa in una cassa. Condiscende il Pocosale, e si fa chiudere. Questo maneggio in parte trapelato mette in agitazione Temolo e Fazio già insospettiti del Negromante che prima aveano cercato di guadagnare. Essi temono qualche male da questa cassa, e vedendola portare verso la casa di Massimo si turbano:

. . . .

Faz.

Ah che la cassa arrecano
Che hai detto!

Tem.

Ov’è?

Faz.

Vieni ove sono, e vedila.

Tem.

Chi la porta?

Faz.

Un facchin.

Tem.

Solo?

Faz.

Accompagnala
Pur quel suo servidore.

Tem.

Ecci l’Astrologo?

Faz.

L’Astrologo non ci è.

Tem.

Non ci è?

Faz.

No, dicoti.

Tem.

Lascia far dunque a me.

Faz.

Che vuoi far?

Tem.

Eccola.
Avvertisci a rispondermi a proposito.

Faz.

Che di tu? Ma con chi parl’ io? Ove diavolo
Corre costui? perchè da me sì subito
S’è dileguato? io credo che farnetichi.

Ma no; Temolo non ha tempo d’istruirlo di ciò che ha pensato, e si ritira, per lasciar venir fuori Nibio con la cassa; indi per allontanarlo di là inventa una fola verisimile, e l’accredita con patetica vivezza. Egli vien fuori esclamando:

O terra scellerata!

Faz.

Di che diavolo
Grida costui?

Tem.

Non ci si può più vivere.
Tutta è piena di traditor.

Faz.

Che gridi tu?

Tem.

E d’assassini.

Faz.

Chi t’ha offeso?

Tem.

O povero
Gentiluomo!

Faz.

Mi par che tu sia ...

Tem.

O Fazio,
Gran pietà!

Faz.

Che pietade?

Tem.

O caso orribile!
Non m’ho potuto ritener di piangere Di compassione.

Faz.

Di che?

Tem.

Aimè d’un povero
Forestier, ch’ho veduto or ora uccidere
D’una crudel coltellata.

Con tal preludio e co’ meriti a Nibio non ignoti del suo padrone, non è molto ch’egli creda che Mastro Giachelino, secondo il racconto di Temolo, sia stato ucciso. Egli vuole accorrere a vederlo, Temolo gl’insegna la via, e poi soggiugne,

Ma che voglio insegnar? Non è possibile
Errar. Va dietro agli altri; grandi, e piccioli
V’accorron tutti.

Nib.

Oh dio?

Tem.

Non posso credere,
Che ’l trovi vivo.

Nibio parte precipitosamente. Temolo per cogliere il frutto della sua astuzia e distruggere i disegni dell’Astrologo, in vece di far entrare la cassa nella casa di Massimo, la fa condurre in quella di Fazio. Torna poi Nibio arrabbiato per essere stato beffato, e cerca della cassa. Graziosissima è la seconda burla che riceve. Fazio gli dice, che il facchino l’ha portata in dogana, cosa verisimile, che spaventa Nibio d’ altra sorte, e lo sbalza verso la dogana; colpi maestrevoli tanto più artifiziosi e piacevoli, quanto più naturali. Un vivo disordine e movimento reca all’azione questa cassa condotta in casa di Fazio. Camillo che v’è rinchiuso, intende il secreto dell’unione degli animi di Cintio e Lavinia, e fugge in farsetto per riferirlo a Massimo. Cintio sommamente afflitto pel caso va in cerca di Camillo per pregarlo di tacere. Fazio gli dice che faccia conto che Massimo abbia già saputo il fatto, essendo iti a lui Camillo ed Abondio. Sono iti? dice Cintio;

Faz.

Sì, sono.

Cin.

Io son spacciato, io son morto, apriti,
Apriti, per dio, terra, e seppelliscimi.

Ogni parola dà un nuovo moto un nuovo calore alla favola. Cintio disperato pensa a fuggire, egli dice,

Tanto lontano che giammai più Massimo
Non mi rivegga: aspettar la sua collera
Non voglio: addio: vi raccomando Fazio,
La mia Lavinia.

Fermiamoci qualche istante in questo punto dell’azione. Se non è questa la forza (vis) comica da Cesare desiderata in Terenzio, e qual sarà mai? Dessa è appunto, la quale, a quel che io ne penso, non è altra cosa, se non che un movimento proprio della comica poesia, il quale crescendo per gradi senza intermissione, infonda e conservi l’ attività ne’ caratteri, e la vivacità nella favola 110. Diede Cesare a tal movimento il nome di forza per contrapporla alla languidezza, mortal veleno della scena: vi aggiunse comica, per dinotare che tale esser debba e nelle situazioni e ne’ colpi di teatro e negli affetti, quale alla commedia si convenga; e con ciò la distinse da quella forza più energica richiesta nelle passioni, e ne’ caratteri della tragedia.

Chi ripose tal forza comica nella copia de’ sali e de’ motteggi, non parmi che si apponesse. Una languidissima favola non mai avrà la forza accennata da Cesare, per quanto sia cospersa di sali e motti graziosi. I pulcinelli, gli arlecchini, i graziosi del teatro Spagnuolo, con tutte le loro possibili lepidezze, non credo che ispirerebbero forza e calore a una favola fredda e dilombata. Della stessa maniera una tragedia languida, lenta, snervata, sarà sempre priva di forza tragica, tuttochè abbondasse di gravi sentenze politiche e morali. Direi che meno di altri critici e precettori di poetica si fosse allontanato dalla mente di Cesare il prelodato Sig. Marmontel, il quale pone la forza comica ne’ gran tratti che sviluppano i caratteri, e vanno a cercare il vizio sino al fondo dell’anima, se l’arte di cogliere questi gran tratti fosse mancata a Terenzio. Ma è troppo noto che il pregio maggiore di questo Cartaginese fu appunto il sapere disviluppare i caratteri, e cercarne le tinte sino al fondo dell’anima. Cesare dunque ad altro ebbe la mira nel richiedere in lui la forza comica; e certamente vi desiderava quel piacevole e comico calore e movimento che anima la favola, e tiene svegliato lo spettatore111.

Or questa forza comica, questa vivacità piacevole dell’azione noi ravvisiamo appunto nel Negromante. Nulla v’ha di freddo, nulla di superfluo. La piacevolezza aumenta a misura che l’azione s’inviluppa, e va crescendo sino all’ultimo grado comico lo scioglimento. Nè dee recare stupore, che per questa parte rimanga il comico Latino superato dall’Italiano. Terenzio, poco o molto che il facesse, piegava il proprio ingegno a seguire le greche guide; e l’attenzione che dava a spiegare le idee altrui, gli toglieva quel portamento originale, libero, franco, vivace, che l’Ariosto inventore manifesta ad ogni tratto112.

Questa favola fu rappresentata in Roma a’ tempi di Leone X, che la richiese all’autore, il quale nel rimettergliela l’accompagnò con una lettera de’ 16 di gennajo del 1520. Or questa data, e le parole del secondo prologo di tal commedia, ci danno l’epoca delle prime commedie dell’Ariosto. Ivi si dice:

. . . . Questa nuova commedia
Dic’ella aver avuta dal medesimo
Autor, da chi Ferrara ebbe di prossimo
La Lena, e già son quindici anni, o sedici,
Ch’ella ebbe la Cassaria e li Suppositi.
Oh dio! con quanta fretta gli anni volano!

Essa parimente si tradusse in prosa Francese, e s’impresse in Parigi nel medesimo secolo, cioè assai prima che vi si conoscesse il teatro Spagnuolo (Nota XIV).

La Scolastica. Quest’ultima commedia tessuta interamente da Lodovico fu solo da lui verseggiata sino alla quarta scena dell’atto IV, e terminata poi da Gabriele fratello del poeta. Non era stata se non abbozzata dal primo autore (secondo il Pigna ne’ Romanzi), e pure si ravvisa in essa la diversità della seconda mano. Anche Virginio figliuolo dell’autore fu indotto a lavorarvi, e da prima tutta la ridusse in prosa, indi la riscrisse in verso; ma il di lui travaglio si è perduto113.

Eccone il soggetto. Eurialo scolaro in assenza di Bartolo suo padre riceve in casa la sua innamorata Ippolita, facendola passare per figlia di Messer Lazzaro cattedratico che si aspettava, e che per notizie sopravvenute si sapeva di non dover più venire. La rivoluzione nasce graziosamente dal ritorno improvviso del padre di Eurialo, da un famigliare della padrona d’Ippolita, e dall’arrivo di M. Lazzaro. Il servo Accursio e Bonifazio amico di Eurialo vanno alla meglio rimediando agli sconcerti. Venendo M. Lazzaro, il quale non conosce personalmente l’amico Bartolo, Bonifazio ne prende il nome, e come tale lo riceve colla famiglia nella propria casa. Regge così la macchina finchè Bartolo che si trova in istrada, non vede uscir Bonifazio insieme con Lazzaro, e non sente che questi dà all’ altro il nome di Bartolo. Si trova introdotto in questa favola un frate teologo con cui Bartolo si consiglia. Costui trent’anni prima avea ricevuto in deposito molti beni da un suo amico che morì, per renderli alla di lui moglie e figlia. Bartolo si fe sedurre da quell’avere, nè curò di cercare di queste infelici; ed al fine dopo tanti anni scorsi pensa a fare un pellegrinaggio per andarne in traccia, e per espiar la colpa. Il buon teologo (i falsi teologi non pregiudicano a i veri e virtuosi che sono i più, e che nel consigliare non hanno la mira che alla giustizia) l’esorta a risparmiarsi l’incomodo del viaggiare essendo vecchio, ed a consegnarne a lui le spese; e quanto al ritener le altrui ricchezze depositate, conchiude che si potrà commutare in qualche opera pia, non essendovi obbligo sì grande,

Che non si possa scior con l’elemosine.

Trovasi in questa commedia più d’una imitazione di Terenzio. Simile alla risposta data da Davo a Miside nell’Andria è ciò che quì dice Accursio:

Ma non sapete voi che Messer Claudio
Meglio dirà che non ci son, credendosi
Di dir la verità, che conoscendosi
Bugiardo? e meglio le parole vengono
Che si partan dal cuor, che quelle ch’ escano
Sol dalla bocca all’intenzion contraria.

L’olim istuc olim cum ita animum induxti tuum, è ancora imitato nell’atto IV. Un’ altra imitazione Terenziana si scorge nell’allegrezza di M. Claudio. Ma degna di notarsi è singolarmente con quanta verità parlino in essa gl’ innamorati. Nell’atto II una vecchia che conduce Ippolita ad Eurialo, l’esorta ad esser prudente, ed a ben fingere il personaggio di figlia di M. Lazzaro. La giovane promette; ma appena dice Accursio

Ecco la casa là del nostro Eurialo,

che trasportata dice,

O cuor mio caro, o vita mia, difficile
Sarà potermi tener di non correre
Ad abbracciarlo;

e s’incamina con tutta fretta. Sono queste le pennellate maestrevoli che di un sol tratto spiegano tutto quanto è l’ affetto. Ella non cessa di rampognare la tardanza della vecchia coll’ impazienza propria della gioventù e dell’amore.

Altro non aggiugneremo intorno alle commedie dell’Ariosto, se non che egli è sì in gegnosamente regolare e semplice nell’economia delle favole, sì vivace, grazioso e piacevole, sì alle occorrenze patetico e delicato ne’ caratteri e negli affetti, sì elegante e naturale nello stile, e con tanta aggiustatezza e verità dialogizza senza aggiugnere una parola che non venga al proposito, che stimo, che mai non termineranno con lode la comica carriera que’ giovani, che allo studio dell’uomo e della società, per la quale vogliono dipingere, e alla ragionata lettura de’ frammenti di Menandro, e delle favole di Terenzio e di Plauto, non accoppino principalmente quella dell’Ariosto114.

Si novera tralle prime commedie di questo secolo la Calan dra del cardinal Bernardo Dovizio da Bibbiena terra del Casentino, nato nel 1470 e morto non senza sospetto di veleno l’anno 1520. Un pieno applauso riportò questa favola nelle replicate rappresentazioni che se ne fecero in Italia, ed anche in Francia. Apostolo Zeno narrò col seguente ordine le recite della Calandra in Italia: la prima in Roma a’ tempi di Leone X; la seconda in Mantova l’anno 1521; la terza di nuovo in Roma quando vi venne Isabella d’Este Gonzaga marchesa di Mantova; e l’ultima volta in Urbino115. Probabilmente però la prima di tutte le recite fu questa di Urbino, come ben riflette l’insigne Storico della nostra letteratura116; giacchè il Castiglione dice di questa recita che non essendo ancor giunto il prologo del Bibbiena, aveane egli composto uno, la qual cosa può indicare che la di lui commedia fosse scritta di recente, anzi non del tutto compiuta. Le parole colle quali si conchiude l’argomento che vi è apposto dopo il prologo, indicano che la rappresentazione non si faceva in Roma, ma in un’ altra città. Nel parlarsi de’ gemelli si dice che essi sono in Roma, e che gli spettatori vedranno comparirli nella propria loro città. Nè crediate però (si soggiugne) che per negromanzia sì presto da Roma vengano quì . . . . perciocchè la terra che vedete quì (cioè nella scena) è Roma, la quale già esser solea sì ampla . . . . e ora è sì picciola diventata, che, come vedete, agiatamente cape nella città vostra. L’altra recita si fece in Roma alla presenza di Leone X, per quel che accenna il Giovio nella di lui Vita, e le magnifiche scene furono opera di Baltassarre Peruzzi Sanese117; ed allora fu che v’intervenne anche la nominata marchesa di Mantova, costando da una delle lettere inedite del Castiglione conservate in Mantova, che ella fu in Roma nel 1514, cioè su i principj del pontificato di Leone X118. La terza recita seguì in Mantova avanti alla medesima marchesa nel 1521, siccome afferma il Signore Zeno coll’ autorità di Mario Equicola. Fu poi rappresentata in Lione nel 1548 in presenza del re Errico II e della regina Caterina Medici dalla nazione Fiorentina, e quei sovrani distribuirono agli attori un regalo di ottocento doppie; e ciò anche accadde più di un secolo prima che i Francesi conoscessero Castro, Lope e Calderon.

Si premette all’azione un prologo ed un argomento. Si espone nel primo la qualità della favola, ed in fine si dà una graziosa discolpa dell’ accusa che si potria fare all’autore di essere ladro di Plauto. A Plauto (si dice) staria molto bene lo essere rubato, per tenere il moccicone le cose sue senza una chiave, senza una custodia al mondo. Tuttavolta con giuramento si aggiugne di non averglisi furato cosa veruna; e che ciò sia vero, si cerchi quanto ha Plauto e troverassi che niente gli manca di quello che aver suole. Coll’ argomento poi narrato da un altro attore viene l’uditorio instruito che la favola si aggira sulle avventure di due gemelli nati in Modone, l’uno maschio chiamato Lidio, l’altra femmina per nome Santilla, di forma e di presenza similissimi, i quali nella presa fatta da’ Turchi della loro patria rimangono divisi sin dalla fanciullezza, e per varj casi, senza che l’uno sappia dell’ altro, giungono in Italia, apprendono la lingua del paese, e Santilla vi dimora in abito virile col nome del fratello. Dopo alcuni scambiamenti avvenuti per l’amorosa follia di Fulvia moglie del dissennato Calandro (onde la favola prende il nome) i fratelli lietamente si riconoscono. Calandro che ha veduto Lidio vestito da femmina quando visitava la moglie, se n’è anch’egli mattamente innamorato.

Lo stile puro ed elegante della Calandra non può essere nè più grazioso nè più proprio per gli personaggi che vi s’imitano. I caratteri vi sono dipinti con brio e verità, e nelle passioni mediocri che vi si maneggiano, si manifesta in bel modo la ridicolezza che ne risulta. Soprattutto è dipinta al vivo la scempiaggine di Calandro che rassomiglia al Tofano del Boccaccio. Piacevoli sono i dialoghi che fa coll’ astuto Fessenio che se ne burla e l’aggira. Egli l’ha persuaso ad andar chiuso in un forziero a vedere la sua fanciulla; egli in altra scena passa più avanti, e gli dà a credere, che possa morire e resuscitare a sua posta, e così gliene insegna il modo:

Fes.

Tu sai, Calandro, che altra differenza non è dal vivo al morto, se non in quanto che il morto non si muove mai e il vivo sì; e però, quando tu faccia come io ti dirò, sempre risusciterai.

Cal.

Di su.

Fes.

Col viso tutto alzato al cielo si sputa in su, poi con tutta la persona si dà una scossa, poi si apre gli occhi, si parla, e si muove i membri: allor la morte si va con Dio, e l’ uomo ritorna vivo. E stà sicuro, Calandro mio, che chi fa questo, non è mai morto . . . .

Calandro contentissimo pruova a morire e rivivere col bel secreto. Fessenio gli dice che guardi a farlo bene:

Cal.

Tu ’l vedrai. Or guarda: eccomi.

Fes.

Torci la bocca; più ancora; torci bene; per l’altro verso; più basso . . . . Oh ob, or muori a posta tua. Oh bene. Che cosa è a far co’ savj! chi avria mai imparato a morir sì bene come ha fatto questo valentuomo, il quale muore di fuora eccellentemente? Se così bene di drento muore, non sentirà cosa che io gli faccia, e conoscerollo a questo. Zas: bene. Zas: benissimo. Zas: ottimo. Calandro, o Calandro, Calandro?

Cal.

Io son morto, io son morto.

Fes.

Diventa vivo, diventa vivo: su, su, che alla fe tu muori galantemente. Sputa in su.

Ed ecco che i lavaceci Italiani hanno la fisonomia de’ Pourceaugnac Francesi, nè è a noi mancato un pennello nazionale che abbia saputo ritrarli un secolo e mezzo prima de’ Molieri.

Ma sebbene tutto fia comico e pîacevole in questa favola e tutto lontano dalla decantata gelosia e vendetta Italiana, non a torto però il dotto Lilio Gregorio Giraldi nel confessare che essa abbondi di sali e facezie, affermò che mancava d’arte. L’intrigo non è di quelli che ben concatenati prestano all’azione forza ed interesse. In molte sue parti si desidera quel verisimile che accredita le favole sceniche e chiama l’attenzione dello spettatore. Non si vede, per darne qualche esempio, nell’atto I la ragione, per cui Fulvia che altre volte ha avuto in casa Lidio vestito da femmina, pretenda poi che Ruffo per via d’incanti lo trasformi in femmina per l’istesso intento; e perchè non usa del modo più agevole già praticato? Allora che nell’atto V i fratelli di Calandro ci hanno colto Lidio e Fulvia insieme, non si vede chiaro, come nel tempo che si aspettano i di lei fratelli, sieno gli amanti così mal custoditi, che possa a Lidio sostituirsi Santilla per far rimaner Calandro scornato, e riuscire la riconoscenza de’ gemelli;

Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi.

Meglio condusse il Boccaccio la novella di Tofano, in cui si vede un’ avventura simile, e che suggerì al Moliere la piacevole farsa di George Dandin. Il pudore poi richiesto ne’ moderni colti teatri vuol che si schivino gli amorazzi di Fulvia; come altresì le scene equivoche della natura di quella di Samia chiusa con Luscio119; poichè quivi il Dovizio imita anzi l’oscenità di qualche passo della Lisistrata di Aristofane, che la piacevolezza di Plauto. In oltre Fessenio che incomincia l’atto III dicendo, ecco, spettatori, le spoglie ecc. segue i nominati comici antichi, ma si allontana anche per questa ragione da Terenzio universalmente approvato, il quale mai non si rivolge agli spettatori. Tutte queste cose, delle quali niuna se ne scorge nelle commedie dell’Ariosto, rendono a’ miei sguardi il gran poeta Ferrarese di gran lunga superiore al cardinal Bibiena nella poesia comica.

Quasi al medesimo tempo scrisse le sue commedie il celebre segretario Fiorentino Niccolò Machiavelli nato in Firenze nel 1469 e morto nel 1547. Egli compose la Mandragola, la Clizia e l’Andria.

La Mandragola. La freschezza e la vivacità del colorito di questa favola, se l’oscenità dell’argomento non la tenesse lontana da’ moderni teatri, potrebbe rendere accorti i forestieri di quanto abbiano gl’ Italiani preceduto la nazione Francese nella bella commedia di carattere. L’autore vi morse alcuni viventi cittadini, le orme calcando di Aristofane. Volle ancora esporvi alla berlina l’abuso fatto da un tal Timoteo del credito dovuto a certo stato rispettabile; e quantunque se ne potesse con copiosi esempi giustificar la pittura, pure ad onor del tutto consiglia la prudenza a risparmiar la parte mal sana e a non motteggiarla in iscena, affinchè dagl’ inesperti o maligni non se ne traggano scandalose conseguenze generali. Essa non per tanto allora si fece e si rappresentò in Firenze con tal plauso generale, che giusta il racconto di Paolo Giovio120 “i medesimi cittadini proverbiati e punti altissimamente nella favola di Nicia soffrirono con pazienza l’ ingiuria e la marca che gli segnava, in grazia della mirabile urbana piacevolezza; e Leone X che da cardinale l’avea veduta nella patria, volle goderla anche in Roma essendo papa, e v’invitò gli attori stessi, e vi fe trasportar anche l’intero apparato comico, col quale erasi in Firenze rappresentata”. Il Giovio chiama Nicia questa favola, perchè n’è il personaggio principale il balordo M. Nicia Calfucci, il quale cade nella sciocchezza di dare alla bella sua moglie una pozione di mandragola colle circostanze che l’accompagnano, per averne un figliuolo maschio. Un prologo in versi serve a dar conto della qualità della scena, dell’azione e degl’ interlocutori. Vi si dice fralle altre cose:

La favola Mandragola si chiama:
La cagion voi vedrete
Nel recitarla, com’ io m’indovino.
Non è il compositor di molta fama;
Pur se voi non ridete,
Egli è contento di pagarvi il vino.

Nè vano è questo vanto della piacevolezza che promette, che ridicolissima essa riesce per tutte le sue parti. Per conoscere M. Nicia che avrà la ventura di aver de’ figliuoli, vedasi uno squarcio della seconda scena dell’atto I. Ligurio parassito gli dice, ch’egli forse avrà briga di andar colla moglie a’ bagni, perchè non è uso a perdere la cupola di veduta.

Nic.

Tu erri. Quando io ero più giovane, io sono stato molto randagio, e non si fece mai la fiera a Prato, che io non v’ andassi, e non ci è castel veruno all’intorno, dove io non sia stato; e ti vo’ dire più là; io sono stato a Pisa e a Livorno, o và.

Lig.

Voi dovete avere veduta la carrucola di Pisa.

Nic.

Tu vuoi dire la verrucola.

Lig.

A sì, la verrucola. A Livorno vedeste voi il mare?

Nic.

Ben sai che il vidi.

Lig.

Quanto è egli maggior che Arno?

Nic.

Che Arno? Egli è per quattro volte, per più di sei, per più di sette, mi farai dire; e non si vede se non acqua, acqua, acqua.

Nella scena undecima dell’atto terzo si trovano a maraviglia espresse le apparenti ragioni usate dagl’ impostori seduttori per indurre la credula innocenza a cadere in fallo. Tutti i discorsi dello scempio Dottore

Che ’mparò in sul Buezio leggi assai,

hanno somma grazia, e rilevano la di lui goffaggine senza bisogno di sforzo veruno istrionico per far ridere, come non rare volte si nota ne’ migliori comici stranieri. Soprattutto è da vedersi il di lui carattere in ciò che dice di sua moglie nella scena ottava dell’atto IV, quanti lezj ha fatto questa mia pazza ecc. Ligurio anche graziosamente motteggia sull’avventura di Nicia, stando in aguato egli, Nicia stesso, Siro e Frate Timoteo travestiti per cogliere alcuno giovinaccio spensierato per lo bisogno che ne hanno:

Lig.

Non perdiam più tempo quì. Io voglio essere il capitano, ed ordinare l’esercito per la giornata. Al destro corno fia preposto Callimaco, al sinistro io, tralle due corna starà quì il dottore; Siro fia retrogrado per dare sussidio a quella banda che inclinasse; il nome fia San Cocu.

Nic.

Chi è San Cocu?

Lig.

E’ il più onorato santo che sia in Francia.

L’atto IV si conchiude colle parole di F. Timoteo indirizzate agli spettatori, le quali a parer mio distruggono l’illusione teatrale sino a questo punto mirabilmente sostenuta. Aristofane e Plauto seducevano gli eruditi comici del secolo XVI.

Se si attenda alla felicissima dipintura de’ caratteri introdotti che non può migliorarsi, e all’ardita satira de’ licenziosi costumi allora dominanti, e a i sali e alle grazie dello stile, noi converremo di buon grado col celebre conte Algarotti che in essa ritrova la eleganza del dire di Terenzio e la forzæ comica di Plauto. Ci scommetterei (egli aggiugne) che avrebbe mosso a riso l’istesso Orazio, a cui non garbeggiavano gran fatto i sali Plautini. Essa fu tradotta in Francese dal celebre Giambatista Rousseau, encomiata per l’intreccio e per lo vero comico dal Sig. di Voltaire, e ammirata da M. il primo a portare in iscena gli amori de’ pescatori.

Il più volte nominato Cieco d’Adria ebbe il vantaggio, disse Apostolo Zeno, di comporre una pastorale prima del Guarini e dopo del Tasso, intitolata il Pentimento amoroso. Ma questa si pubblicò in Venezia nel 1583, ed io trovo, che nella stessa città un’ altra se ne impresse nel 1581 di Aluise Pasqualigo detta gl’ Intricati, la quale, come appare dalla dedicatoria fattane al principe dell’Accademia Olimpica, ed anche dal prologo, era stata rappresentata qualche anno prima a Zara. È un cattivo componimento fondato sopra incantesimi che producono nojose e inverisimili situazioni, e vi s’introducono per buffoni Calabaza Spagnuolo e Graziano Bolognese che parlano ne’ proprj idiomi. Altro dunque non ha di notabile che di aver preceduto il Pentimento amoroso. Il Groto scrisse indi un’ altra pastorale intitolata Calisto pubblicata per le stampe nel 1586.

Contemporanea al Pentimento fu la Danza di Venere di Angelo Ingegnieri. Era stata già rappresentata in Parma in presenza di Ranuccio Farnese giovanetto nel 1583, quando fu dedicata alla nobile Camilla Lupi che vi sostenne la parte d’Amarilli; e si stampò poi nell’ anno seguente in Vicenza. L’intreccio è più complicato dell’Aminta, e si sviluppa con un’ agnizione. Venere languidezza. Ciò che dice poi dell’oscenità di tali commedie, potrebbe sì bene esser questa giusto motivo di vietarne la lettura a’ fanciulli, ma non già una prova contro la loro prestanza. Oltrechè starà bene il riprendere le laidezze della Mandragola a chi si fa prolissamente il panegirista dell’osceno benchè puro ed elegante libro della Celestina ruffiana famosa?

La Clizia. É questa una libera imitazione o una bella copia della Casina di Plauto o di Difilo. Nel prologo che è in prosa come tutta la commedia, lo confessa l’istesso autore. Egli dice, che un caso anticamente avvenuto in Grecia, è poi seguito anche in Firenze: E volendo questo nostro autore l’uno delli due rappresentarvi, ha eletto il Fiorentino . . . Prendete intanto il caso seguito in Firenze, e non aspettate di riconoscere o il casato o gli uomini, perchè l’autore per fuggire carico ha convertiti i nomi veri ne’ nomi finti. Passa indi a discolparsi, se ad alcuno paresse esservi cosa men che onesta, benchè egli non creda che vi sia; ma quando pur vi fosse, sarà in modo detta, che queste donne potranno senza arrossire ascoltarla.

Parmi che dalla prima scena possa rilevarsi che si sia tal commedia rappresentata intorno al 1506. In narrando Cleandro a Palamede quando e in qual modo venne in casa la Clizia, dice: Quando dodici anni sono nel 1494 passò il re Carlo per Firenze, che andava con un grande esercito all’impresa del regno, alloggiò in casa nostra uno gentiluomo della compagnia di monsignor di Fois chiamato Beltramo di Guascogna. Dalla terza scena poi dell’atto II, in cui altercano Sofronia e Nicomaco, parmi che si vegga che l’autore compose prima la Mandragola. Nicomaco propone alla moglie di prendere per arbitro de’ loro domestici dispiaceri sulle nozze di Clizia, qualche religioso. A chi andremo? dice Sofronia.

Nic.

E’ non si può ire a altri che a F. Timoteo, che è nostro confessore di casa, ed è un santarello, ed ha già fatto qualche miracolo.

Sof.

Quale?

Nic.

Come quale? Non sai tu che per le sue orazioni Monna Lucrezia Calfucci che era sterile, ingravidò?

Questo motto non riuscirebbe grazioso e vivace, se per la passata commedia non fosse nota la novella di Nicia.

Tralle dipinture lodevoli di questa favola ci si presentano i bellissimi ritratti del buon padre di famiglia e del traviato coloriti egregiamente nella quarta scena dell’atto II fatti da Sofronia nella persona stessa di Nicomaco, vivi, veri, naturali, senza massime generali, senza sforzi di spirito, senz’affettazioni, senza tirate istrioniche da Pantalone.

Calca l’autore, come si è detto, le tracce della Casina latina; ma senza dubbio ne migliora di molto l’economia e ne accresce la verisimiglianza, specialmente nello scioglimento colla venuta del padre di Clizia. Il Machiavelli ha fatto con molta felicità della Casina quello che Plauto stesso e Cecilio e Nevio e Terenzio ed Afranio fecero delle favole greche. E sarebbe a desiderare che nella nostra illuminata età, in vece di farsi scempiate traduzioni delle favole Plautine, se ne facessero sulle orme del Machiavelli fresche imitazioni libere che si rendessero interessanti appunto per adattarvisi l’espressioni latine ai costumi moderni. I Francesi stessi e la conobbero e la pregiarono e ne ragionarono con senno e buongusto, ancor prima di conoscere i drammatici Spagnuoli. E latina bona (disse Balzac121) hetruscam fecit meo judicio non malam. Clitia siquidem illius eadem est quae Plauti Casina. Alcune cose (e’ soggiugne) fedelissimo interprete ne rendette quasi da verbo a verbo, altre ne corresse con arte, molte ne imitò con singolare felicità, qualcheduna però ne trascrisse aut impudenter aut perverse. E per esempio di ciò che ne dice in ultimo luogo adduce il passo della scena quinta dell’atto II della Casina, Quid istuc est, quicum litigas, Olympio, che il Machiavelli traduce ed imita nella sesta dell’atto III della sua Clizia:

Pirr.

Prima che io facessi ciò che voi volete, io mi lascerei scorticare.

Nic.

La cosa va bene. Pirro stà nella fede. Che hai tu? Con chi combatti tu, Pirro?

Pirr.

Combatto ora con chi voi combattete sempre.

Nic.

Che dice ella? che vuole ella?

Pirr.

Pregami ch’io non tolga Clizia per donna.

Nic.

Che l’hai tu detto?

Pirr.

Ch’io mi lascerei prima ammazzare che la rifiutassi.

Nic.

Ben dicesti.

Pirr.

Se io ho ben detto, io dubito non avere mal fatto; perchè io mi sarò fatta nemica la vostra donna, e il vostro figliuolo, e tutti gli altri di casa.

Nic.

Che importa a te? Stà ben con Cristo, e fatti beffe de’ santi.

Pirr.

Sì, ma se voi morissi, e’ santi mi tratterebbero assai male.

Quest’ultima espressione stà ben con Cristo ecc. parve a Balzac meno castigata; e veramente non può negarsi che avrebbe potuto esporsi con minor impudenza o irriverenza. Non per tanto la veste allora addossata in Italia alla Casina, ha la foggia, il colore, i fregi, tutto vivace e moderno, e sì ben rassettata, che par nativa di Firenze e non della Grecia; per le quali cose tira l’ attenzione di chi legge o ascolta, e l’interesse che risveglia la preserva dalla pretesa lentezza e dal languore.

Questa commedia in prosa è accompagnata da sei corte canzonette. La prima va innanzi al prologo, ed è cantata da una ninfa e da due pastori; le altre cinque ancor di questa più corte son poste per tramezzi nella fine di ciascun atto. Adunque coloro che pretendono, sol perchè l’asserirono la prima volta, trasformare le pastorali del XVI secolo in opere in musica per sapere che vi furono poste in musica le canzonette de’ cori, dovrebbero contare ancora tralle opere musicali questa commedia in prosa del Machiavelli per la medesima ragione; la qual cosa sarebbe una rara scoperta del secolo XVIII.

Oltre a questa libera imitazione della Casina si provò il Machiavelli a fare anche una pretta traduzione dell’Andria di Terenzio, la quale parmi che per la prima volta si sia impressa nell’ edizione di Parigi delle di lui opere che porta la data di Londra del 1768. Se questo celebre segretario Fiorentino ignorò il latino linguaggio, come si è preteso, certamente ciò non apparisce nè dalle sue riflessioni politiche sulla storia di Tito Livio, nè da questa traduzione dell’Andria.

Intorno a cinquanta altri letterati non volgari produssero in tal secolo ben regolate e piacevoli commedie parte in prosa e parte in versi, le quali forse passano il numero di centotrenta. Noi faremo menzione della maggior parte di esse, senza trattenerci su di tutte lungamente. Non perchè tutte non ci presentino pregi degni da osservarsi; che ingegnose e regolari esse sono, e in grazioso e sempre puro stile da’ Toscani e non Toscani dettate; ma unicamente perchè non permette tante minute ricerche e continue pause un racconto che abbraccia tante età e nazioni e tanti generi di drammi. Ci arresteremo dunque in alcune più notabili per qualche ragione che interessi ed instruisca.

Tra’ primi nostri letterati che ci arricchirono di ottime commedie, contisi il nobilissimo poeta Ercole Bentivoglio per nascita Bolognese, ma Ferrarese per domicilio, essendo stato d’anni sette e qualche mese nel 1513 condotto dal padre alla corte del duca Ercole d’Este suo suocero. Questo illustre letterato morto in Venezia d’anni sessantadue nel 1572122, che nella satira e nella commedia si avvicinò di molto al principe de’ nostri poeti Lodovico Ariosto suo amico, compose tre commedie il Geloso, i Fantasmi e i Romiti, e una tragedia intitolata Arianna mentovata dal Ghilini, le quali probabilmente si rappresentarono nel teatro ducale di Ferrara. Il Geloso e i Fantasmi videro la luce delle stampe nel 1545; ma de’ Romiti e dell’Arianna non ci è rimasto che il nome.

Il Geloso. Avrebbe mai il glorioso maestro della Poetica Francese, nel parlar della gelosia e vendetta delle commedie Italiane, avuto in pensiere questa favola? Quì in fatti abbiamo un vecchio medico geloso ingiustamente della moglie. Quegl’ intrighi pericolosi per gli amanti atti ad esercitar le furberie de’ servi, i quali non abbiamo potuto finora rinvenire nell’Ariosto, nel Bibbiena e nel Machiavelli, regneranno per avventura come nel proprio elemento in questa favola del Bentivoglio che di proposito dipinge un geloso? Vediamolo.

Ermino incerto della fedeltà della moglie, per assicurarsene, finge un’ assenza di un giorno o due; e soccorso da uno ch’egli crede mercatante, si traveste, appiccasi al mento una finta barba nera per coprir la sua ch’è bigia e va a mettersi in aguato all’uscio di dietro della propria casa. Il creduto mercatante ch’è un furbo, per ajutar Fausto giovane innamorato di Livia nipote del medico, lo consiglia a travestirsi colle vesti che gli ha lasciate Ermino, perchè senza difficoltà venga nella di lui casa ammesso. Fausto travestito sul punto di picchiare è trattenuto prima da una donna che toltolo pel medico vuole che vada a visitar suo marito infermo, indi da due palafrenieri di un cardinale che il chiamano da parte del padrone, e finalmente da un servo di casa pieno di vino, per cui è costretto a ritirarsi. Rimpatria intanto nello stesso giorno Folco fratello d’ Ermino, che di soldato divenuto mercatante, di povero schiavo ricco e libero, viene a rivedere la sua famiglia. Picchia: ma il servo ubbriaco, dopo aver detto che Ermino è morto di peste e che Livia è fuggita via, serra l’uscio, ed il lascia fuori pieno di sospetti. Egli però si sovviene di aver per ventura conservata una chiave dell’uscio di dietro della casa, e pensa per quella introdursi. Il medico che stà in osservazione vede entrare questo mercatante in casa senza raffigurarlo, si dispera, vuol ire su a cogliere sul fatto la moglie, batte la porta, ma non essendo ravvisato dalla fante per essere nella guisa accennata travestito, è ingiuriato ed escluso. Ripigliate le sue vesti, e toltasi la finta barba, va in casa, trova il fratello, si disinganna, chiede perdono alla moglie del torto che le faceva col sospettar di lei, e si conchiude il matrimonio di Livia con Fausto.

Sono questi gl’ intrighi pericolosi e le stragi che somministrano la gelosia e la vendetta Italiana? Sono essi più pericolosi, non dico de’ Fajeli d’ultima data, ma del Principe geloso, di Sganarello e di Giorgio Dandino, che da circa un secolo e mezzo si rappresentano in Francia, dove giusta il pensare del Marmontel, non vi dee essere nè gelosia nè vendetta? Nè il Geloso del Bentivoglio avrebbe dovuto essere da lui ignorato, per poco che avesse l’uso di fornirsi di dati certi prima di fondar principj filosofici; mentre le poesie e le commedie di questo nostro illustre scrittore s’ impressero in Parigi dal Furnier l’anno 1719, e si dedicarono da Giuseppe di Capoa a monsignor Cornelio Bentivoglio d’Aragona nunzio di Clemente XI al re Cristianissimo.

L’argomento di questa favola è nuovo. L’autore stesso dice nel prologo che si è sforzato di comporre una commedia

Nuova d’invenzione e d’argomento,
Non tolta da Latin nè Greco autore,
Non mai più udita nè veduta in scena;
Il suo nome è il Geloso. Questa è Roma. ecc.

E sia questa una delle tante evidenti prove per ismentire quegl’ imperiosi critici filosofi di buongusto, i quali tacciano senza conoscerle tutte le nostre antiche commedie, come se fossero state sempre fredde e languide copie e traduzioni de’ Greci e de’ Latini.

Tralle grazie comiche di questa favola son da notarsi gl’ impedimenti che sopravvengono a Fausto nell’atto III, ne’ quali si rinviene la piacevolezza degl’ Importuni (les Facheux) del Moliere, ma col maestrevole vantaggio che essi sono utili a fare avanzar con moto l’azione. Il discorso di Ermino ingannato dalle apparenze nella quinta scena dell’atto IV, è proprio, naturale, vivace ed elegante. Piacevole è nella scena seguente il di lui contrasto colla Nuta non essendo da lei raffigurato. Buona ed imitata da un frammento di Plauto è pure la disperazione di Fausto che nella scena quarta dell’atto V vuole andar via per vincere la propria passione; e bella è poi la quinta in cui riceve la notizia del suo conchiuso matrimonio con Livia. Macro congedando gli spettatori mostra lo scopo morale della favola:

Voi che avete moglier giovane e bella,
Da lui pigliate esempio, e non ne siate
Gelosi più, che certo fate peggio;
Perchè il più delle volte è temeraria
La gelosia che vi presenta cose
Che ’n effetto non sono; e non è doglia
Nè miseria di lei peggiore al mondo.

I Fantasmi. Una libera elegante imitazione della Mostellaria di Plauto si ammira in quest’altra favola del Bentivoglio. Egli che pur sapeva sì bene inventare e disporre senza altra scorta che la natura, volle non per tanto dare un bell’ esempio del modo di trasportare nelle moderne lingue le antiche favole con grazia e con franchezza e vivacità di colorito nelle maniere. Nel prologo mostra gran rispetto per la dotta antichità. Noi, dice, nulla faremo di perfetto, se dietro a i di lei vestigj non andremo:

Che come uno scultore, un dipintore
Non potrà mai dipignere, o scolpire
Figura ond’abbia onor, se pria non vede
E le sculture e le pitture antiche
Di cui tolga il model; così ancor noi
Non possiam fare alcuna cosa bella,
Se quest’antichità per nostro specchio
Non ci mettiamo innanzi.

Lo stile è al solito felice ed elegante da per tutto, di che molti passi assai belli si potrebbero addurre in pruova; ma ci contenteremo di un solo dell’atto III, cioè di una parte del racconto che fa il servo al vecchio Basilio intorno ai fantasimi che gli dà a credere che appajono nella loro casa. Accorro, egli dice, a i gridi di Fulvio, e gli domando,

Che avete? che vi duol, padron mio caro?
Su su (disse ei tremando come foglia
E pallido nel viso come un morto)
Datemi le mie calce e ’l mio giubbone,
Ch’io non voglio dormire in questa casa,
Nè mai più porvi alla mia vita il piede.
Voi dovete sognar: Che v’è incontrato?

Nol posso dire, egli mi risponde, prima de’ nove giorni, e vestitosi si va di buon passo a dormir con Flaminio suo amico; io resto con più sonno che paura, ridendo e compassionandolo.

Così mentre di lui meco sol penso,
E che mi chino a spegner la lucerna
Col destro braccio, ch’era sulla panca,
E col suo lume mi toglieva il sonno,
Sento un subito strepito, il maggiore
Che mai sentissi alla mia vita, e veggo
L’uscio che s’apre da sua posta, ch’io
Pur dianzi chiuso avea col chiavistello.

Basil.

Miracolo! oh dio! ch’è quello ch’odo?

Ne.

Poi veggo un uom, che del sepolcro uscito
Allor allor verso il mio letto viene.
Pelle nè carne avea, ma le ossa sole,
Ch’eran cinte da vermi e da serpenti;
E la squallida barba, e li capelli
Tutti di sangue avea macchiati e tinti.
Io vi lascio pensar s’ebbi paura.

Basil.

Io di paura sarei morto allora.

Ne.

Negro (disse ei con spaventevol voce.)
Or odi quel che ancora a Fulvio ho detto:
Non mettete mai più quà dentro il piede,
Ch’io non vi lascerò riposar mai
Giorno nè notte, ch’io son quì sepolto,
E starvi mi conviene eternamente.

In questa guisa arricchirono gl’ Italiani la propria lingua delle antiche invenzioni, e rendettero le belle espressioni antiche interessanti per li moderni, sapendo dar loro (con pace anche quì del Sig. Andres) un’ aria fresca, delicata, moderna e tutta lontana dalla lentezza e dal languore. L’eleganza e la facilità di esprimersi e di verseggiare del Bentivoglio riscosse da’ più dotti contemporanei le meritate lodi. Il Lollio, il Pigna, il Giraldi, il Doni, il Varchi, il Domenichi applaudirono a tutte le di lui poesie e soprattutto alle commedie. Il più vicino all’Ariosto per la commedia di quel tempo egli è senza dubbio questo nobile scrittore, il quale nell’elezione poi del metro ha vinto l’istesso immortal cantore del Furioso. Egli gareggiò pure con felicità grande colla Clizia del Machiavelli, per aver sì acconciamente avvicinata l’antica Mostellaria ai nostri costumi; e lo superò ancora colla sempre dilettevole difficoltà del verso, onde accrebbe leggiadria e vaghezza ai suoi Fantasimi.

Cinque commedie compose allora Pietro Aretino che si discostano dalle commedie degli antichi, e dipingono costumi moderni con motti osceni e con amarezza satirica, il Marescalco, l’Ippocrito, il Filosofo, la Cortigiana, e la Talanta. Il Marescalco pubblicato nel 1530 è una lunga commedia di cinque atti priva d’azione, di vivacità ed interesse, benchè sottoposta alle leggi teatrali del verisimile; e consiste nell’estrema avversione che ha un Marescalco al matrimonio posta alla tortura dal di lui padrone con fingere di avergli destinata moglie con ricca dote, la qual poi trovasi essere un paggio vestito da femmina. Questa commedia, e l’Ippocrito impresso nel 1542, e ’l Filosofo uscito nel 1549 furono da Jacopo Doroneti pubblicate nel seguente secolo sotto nome del celebre Tansillo coi titoli del Cavallerizzo, del Finto e del Sofista; ma è ben noto che fu impostura scoperta poi dal Crescimbeni. La Cortigiana altra lunghissima commedia di cinque atti tessuta di molte scene oziose mordacissime ed aliene dal fatto, contiene due azioni staccate di poco momento e di niuno interesse, i cui passi rispettivi senza dipendenza tra loro si succedono alternativamente. Vi si pongono alla berlina due personaggi ridicoli, cioè un Sanese scempiato che viene in Roma per farsi cardinale imparando prima ad esser Cortigiano, da che nasce il titolo della commedia, ed un Signor Parabolano Napoletano sciocco, vano ed innamorato aggirato da una ruffiana e da un furbo suo servidore. Francesco Buonafede altro impostore letterario che avea data alla luce la Talanta altra commedia dell’Aretino nel 1604 col titolo di Ninetta, pubblicò anche la Cortigiana nel 1628 col titolo dello Sciocco, attribuendole ambedue al faceto poeta Cesare Caporali123. Queste commedie non possono notarsi di veruna superstiziosa cura di rendere Italiane le maniere latine, e non pertanto mancano di ogni vivacità; il che pruova contro del Sig. Andres, che la lentezza ed il languore provengono da tutt’altra fonte che dallo studio di adattare le antiche frasi alle moderne lingue.

L’Arcivescovo di Patras Alessandro Piccolomini nato nel 1508 da collocarsi tra gli uomini illustri del cinquecento, oltre a tante opere riferite dal Ghilini e meglio dal Tiraboschi, compose tre commedie in prosa. La prima intitolata l’Amor costante fu recitata nel 1536 in presenza dell’ imperador Carlo V quando entrò in Siena, e s’impresse nel 1559. La seconda è l’Alessandro che si stampò nel 1553. L’Ortenzio che fu la terza, si rappresentò nel 1560 entrando in Siena il duca Cosimo I, e si pubblicò per le stampe l’anno 1571. Trovansi parimente impresse tralle sei degli Accademici Intronati di Siena uscite nel 1611. Giovanni Imperiali nel Museo Istorico parla delle due prime con molta lode, e cita Trajano Boccalini, da cui stimavasi il Piccolomini come principe de’ poeti comici Italiani. Egli però seguì Plauto ed Aristofane nel far che gli attori s’indrizzino agli spettatori. Panzana nell’Amor costante dice: Scoppio di voglia di ridere, e per rispetto de’ forestieri tengo la bocca che non rida. Un Napoletano che vi è introdotto, domanda: E dove songo li forastiere? E Panzana additando l’uditorio dice, Eccone quà tanti. De chiste (l’ altro ripiglia) non importa, ride pure, isse songo a Siena, e nuje simmo a Pisa. Lo stesso Panzana favella indi al medesimo uditorio e descrive il carattere del Napoletano Ligdonio.

Ariosto, Bentivoglio, Aretino, Dovizio, Machiavelli si valsero per tutti i personaggi delle loro commedie del solo linguaggio toscano. In quelle degl’ Intronati comincia a vedersi alcun personaggio buffonesco subalterno che parla in qualche dialetto particolare, come il Ligdonio del Piccolomini, o in una lingua straniera, come il Giglio Spagnuolo di bassa condizione sedicente Hidalgo (gentiluomo) motteggiato di spilorceria nella commedia degl’ Ingannati de’ medesimi accademici Sanesi. Si notano in essa varj motteggi sugli Spagnuoli di quel tempo. Dice Fabrizio nell’atto I, dove alloggiano gli Spagnuoli? E l’altro risponde, io non m’impaccio con loro; cotesti vanno al Rampino. Lo stesso Fabrizio nel III dubitando d’una fante, dice: crede farmi stare a qualche scudo; ma è male informata, che io sono allievo di Spagnuoli. Degni però di qualche scusa sono gl’ Italiani d’allora come troppo vicini al funesto sacco di Roma, che sì gran parte ne ridusse in miseria; e la commedia nominata degl’ Ingannati si recitò due giorni dopo del Sacrificio che fu come una introduzione agli spettacoli del carnovale del 1531. Domandando Gherardo dell’età della figliuola di Virginio, questi risponde: Quando fu il sacco di Roma, che ella ed io fummo prigioni di que’ cani, finiva tredici anni. Di quel sacco parlò pure nel Geloso il prelodato Bentivoglio, ed ancor l’Aretino nella Cortigiana. La commedia degl’ Ingannati è regolare e scritta puramente, in istile proprio, e con pratica e felicità vi si dipingono i costumi e le passioni; ma già questi accademici si dipartono dalla semplicità degli anzilodati autori, e vanno in traccia del ravviluppato assai complicato negli accidenti. Abbondano gl’ Ingannati di sali e lepidezze, ma talvolta sono soverchio liberi, come pajono gli equivoci del lunghissimo prologo. Io non approverò mai le scene simili alla quinta del V atto di Cittina: Io non so che trispigio sia dentro a questa camera terrena; io sento la lettiera fare un rimenio, un tentennare che pare che qualche spirito la dimeni ecc. Si lascino queste imitazioni impudenti alla sfacciataggine de’ repubblicani Ateniesi di venti secoli indietro che se ne compiacevano.

Regolari e piene di sali e motteggi sono le cinque commedie di Lodovico Dolce, colle quali contribuì all’avanzamento della scena comica. Due ne scrisse in versi che furono il Capitano uscita alla luce per le stampe nel 1545, e il Marito nel 1560; le altre tre sono scritte in buona prosa, il Ragazzo che s’impresse nel 1541, il Ruffiano tratta dal Rudente di Plauto, e la Fabrizia, le quali si pubblicarono nel 1549.

Nel 1548 videro la luce quattro altre buone commedie in diverse città, i Simillimi, l’Aridosio, la Sporta, e la Filenia. La prima fu una comica imitazione in versi fatta dal celebre Vicentino Trissino de’ Menecmi di Plauto, ove però, come afferma egli stesso, volle servare il modo di Aristofane, e v’introdusse il coro. L’Aridosio appartiene a Lorenzino de’ Medici, e la Sporta a Giambatista Gelli, Fiorentini. Scrisse anche il Gelli l’Errore altra commedia che non s’impresse che nel 1603. Tralle migliori commedie in prosa di quel secolo si noverano queste del Gelli, che Moliere non isdegnò d’imitar nell’Avaro ed in altre sue commedie. La protestazione ch’egli fa nel prologo della Sporta, mostra l’intelligenza ed il buon gusto che possedeva in questo genere: In essa (egli dice) non si vedranno riconoscimenti di giovani, o fanciulle, che oggidì non occorre, ma accidenti di una vita civile e privata sotto una immaginazione di verità, e di cose che tutto il giorno accaggiono al viver nostro. Con tutto ciò questo conoscimento e questa squisitezza di gusto non l’hanno salvato dalla negligenza de’ posteri; e le di lui belle commedie non si leggono come se scritte fossero nell’idioma Tibetano. Questo piacevolissimo scrittore che morì d’anni sessantacinque nel 1563, fu calzolajo, ma si distinse in Firenze per molte lezioni recitate nell’Accademia Fiorentina, e per alcune traduzioni.

La Filenia fu una piacevole commedia di Antonio Mariconda cavaliere Napoletano, che sebbene s’impresse nell’anno 1548, era stata rappresentata sin dal 1546 da alcuni gentiluomini Napoletani, mentovati nel I libro della Storia di Notar Castaldo, nella sala del palazzo del principe di Salerno (in Napoli) dove stava sempre per tale effetto apparecchiato il proscenio.

Intorno alla metà del secolo scrissero commedie con maggior felicità il Contile, il Firenzuola, il Lasca ed il Cecchi. Luca Contile letterato di grido compose in buona prosa la Pescara, la Cesarea Gonzaga e la Trinuzia che si pubblicarono con applauso nel 1550. Agnolo Firenzuola cittadino Fiorentino ed Abate Vallombrosano e letterato che si distinse in più di un genere, e visse sotto Clemente VII e Paolo III, e morì in Roma poco prima del 1548, scrisse in prosa due belle commedie i Lucidi impressa da’ Giunti di Firenze nel 1549, e la Trinuzia uscita alla luce nel 1551. Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, uno de’ cinque fondatori dell’Accademia della Crusca e assai benemerito della nostra lingua, compose più commedie in prosa elegante e graziosa, tralle quali spiccano la Gelosia (che non è certamente quella de’ Fajeli) pubblicata in Firenze nel 1551, e la Spiritata nel 1560, le quali insieme colla Sibilla si ristamparono in Venezia nel 1582. Giovammaria Cecchi, cui si confessano i Fiorentini assai tenuti per aver fatta la loro patria uguale a Roma e ad Atene, oltre ad alcune pastorali, pubblicò nel 1550 e nel 1561 varie commedie in prosa ed in versi, intitolate i Dissimili, l’Assiuolo, la Moglie, gl’ Incantesimi, la Dote, la Stiava, il Donzello, il Corredo, lo Spirito, e il Servigiale; e per quel che ne dice il Quadrio molte altre ne rimasero inedite.

Dalla metà del secolo sino all’ottanta in circa uscirono al pubblico altre commedie lodate. Il Vignali contemporaneo dell’Aretino, del Franco, e del Francese Rabelais, e di un genio conforme, compose la Floria commedia in prosa, secondo Apostolo Zeno, licenziosa anzi che no, che si pubblicò nel 1560. Il Capitano bizzarro commedia in terza rima di Secondo Tarantino si recitò in Taranto, e s’impresse in Venezia nel 1551. Giordano Bruno di Nola compose la commedia del Candelajo che si pubblicò in Parigi nel 1582, vi si reimpresse nel 1589, e vi si tradusse nel secolo seguente pubblicandosi col titolo Boniface & le Pedant. L’Eustachia commedia in prosa del Guidani Leccese s’impresse in Venezia per Aldo nel 1570. Il Trappa pure in prosa di Massimo Cameli Aquilano si pubblicò nell’Aquila nel 1566. La Virginia che il secondo Bernardo Accolti fece sulla sua serva, dal Fontanini è posta tralle commedie in prosa, ma è scritta per la maggior parte in ottava rima, il che osservò il Zeno. La Flora di Luigi Alamanni s’impresse in Firenze nel 1556 per cura di Andrea Lori che la fece recitare nella compagnia di San Bernardino da Cestello con alcuni suoi intermedj124. Questo elegante scrittore della Coltivazione, dell’Antigone e di belle satire (ma non già della Libertà tragedia attribuitagli dal Ghilini composta da un apostata della Cattolica Fede) volle usare in tal commedia un nuovo metro, cioè uno sdrucciolo di sedici sillabe125, fatica e invenzione inutile intrapresa da altri Italiani ancora per imitare superstiziosamente il giambico greco e latino126. Ma tutti i vantaggi che essi speravano co’ nuovi metri poco o nulla grati all’orecchio Italiano, presenta a chi sa maneggiarlo il solo endecasillabo sciolto. La commedia della Flora è bene scritta, in istile puro e piacevole e copiosa di grazie comiche, e per questa parte degna di sì leggiadro scrittore. Tuttavolta (sebbene non vi si vegga punto uno studio affettato di trasportare in essa l’espressioni latine, che altri ha creduto che nelle commedie Italiane sia sorgente di lentezza) sembraci ben lenta e languida nell’avvilupparsi e nello sciogliersi, e da non soffrire, per vivacità e sceneggiatura ed economia, il paragone di quelle dell’Ariosto, del Machiavelli e del Bentivoglio.

Lodate da molti, e singolarmente da Adriano Politi, son le commedie di Bernardino Pino da Cagli. Nel prologo degl’ Ingiusti Sdegni sua commedia impressa nel 1553 havvi una descrizione lodevole della commedia, nella quale si afferma che tutti i vantaggi della pittura, della musica e della storia si trovano raccolti nella commedia. Nel leggerla non mi trovai molto contento del linguaggio dell’innamorato Licinio, il quale così dice alla sua Delia che gli parla da dentro senza aprirgli la porta: Licinio è quì che come smarrito augello cerca di ridursi nel vostro nido, come aquila che stà per fissar l’occhio in voi suo bel sole: deh uscite fuori, acciocchè i raggi del vostro aspetto illustrino questo luogo, come io illustrato da voi veggio ogni cosa nelle più oscure tenebre della notte. Quanto sono lontane simili studiate espressioni dal linguaggio infocato de’ Fedrj, de’ Panfili e de’ Cherei di Terenzio, o degli Erostrati dell’Ariosto! L’ affettazione, il raffinamento, la falsità de’ concetti cominciavano a fare smarrire a’ poeti il sentiero della verità e della natura. In ricompensa ben mi colpì in tal commedia la saviezza della fanciulla, che tutto che innamorata dissuade Licinio dal rompere le porte, non essendo in casa la di lui madre, come proponeva, per parlarle con libertà. Egli poi tutto ardore vuol tirarle un anello in segno di volerla sposare, ed ella l’impedisce dicendo: Non gittate, non gittate che io l’accetto, e come mio ve lo ridono, acciocchè se a Dio piacerà mai che io possa, come vorrei, esser vostra, ne leghi eternamente ambedue; e tenete per certo, che ogni mio desiderio, ogni mio pensiero, ogni mia speranza è che voi o per serva, o per altra che mi vogliate, abbiate ad essere scudo dell’onor mio: questo vi basti: ricordatevi di me. Non si possono mai abbastanza lodare questi tratti di saviezza che spandono per l’uditorio un piacere indicibile, specialmente quando sono espressi, come in questa scena, senza affettazione e senza farne un sermone da pulpito anzi che da teatro. Le oscenità, gli equivoci impudenti eccitano il riso negli sfacciati col cui genio simpatizzano, ed il pudore se ne offende. Le altre commedie del Pino sono lo Sbratta impressa un anno prima degl’ Ingiusti Sdegni, e due altre uscite alla luce più tardi, l’Evagria nel 1584, e i Falsi Sospetti nel 1588.

Francesco d’Ambra gentiluomo Fiorentino morto in Roma nel 1558127 scrisse più commedie pregiate dagl’ intelligenti, e citate per la lingua nel Vocabolario della Crusca. Le più stimate sono: i Bernardi in versi sciolti che si produsse in Firenze nel 1563 e 1564; la Cofanaria parimente in versi sciolti recitata cogl’ intermedj di Giovanbatista Cini nelle nozze di Don Francesco de’ Medici e della regina Giovanna d’ Austria, e stampata in Firenze nel 1561; ed il Furto scritta in prosa impressa nel 1560, e poi più volte ristampata, la quale vivente l’ autore si era rappresentata dagli accademici Fiorentini nel 1544, ed appresso raccolse gli applausi più distinti in varj altri teatri Italiani.

Nel medesimo periodo comparvero le commedie di Girolamo Parabosco. Una ne compose in versi ch’è il Pellegrino impressa nel 1560, e sette in prosa, cioè l’Ermafrodito, il Ladro, il Marinajo, la Notte, i Contenti, il Viluppo e la Fantesca pubblicate dal 1549 al 1597. Nè in regolarità nè in grazia comica cedono gran fatto a quelle de’ contemporanei.

Il capitano Niccolò Secchi compose quattro commedie in prosa noverate tralle migliori Italiane. Gl’ Inganni (tradotta poi nel seguente secolo dal principe de’ comici Francesi, ed imitata nel nostro dal Napoletano Niccolò Amenta) si recitò con sommo applauso in Milano alla presenza di Filippo II allora principe delle Asturie nel 1547, e s’impresse nel 1562. L’Interesse, la Cameriera ed il Beffa si pubblicarono dal 1581 al 1584 l’una dopo l’altra.

La Spina ed il Granchio del cavaliere Lionardo Salviati; la Suocera di Benedetto Varchi; la Balia, la Cecca e la Costanza di Girolamo Razzi; il Pellegrino ed il Ladro del Comparini; il Furbo di Cristoforo Castelletti; la Cingana e la Capraria di GianCarlo Rodigino; l’Amore Scolastico del Martini; il Medico del Castellini; il Commodo di Antonio Landi; la Vedova di Giambatista Cini; la Teodora del Malaguzzi; il Capriccio del Cosentino Francesco Antonio Rossi, i Furori di Niccolò degli Angeli; tutte queste commedie scritte parte in prosa, e parte in versi nel periodo di cui parliamo, si faranno leggere da chi vuol conoscere il teatro Italiano, per la regolarità, per le lepidezze, per la purezza ed eleganza dello stile, benchè per la licenziosità di que’ tempi i motteggi e i sali non sieno sempre in alcune i più decenti, ed in altre la favola sia soverchio complicata.

Al declinar del secolo non declinò il gusto della buona commedia. S’ impresse in Venezia nel 1582 la commedia intitolata gli Straccioni del commendatore Annibal Caro Marchigiano, la quale però molti anni prima era stata composta e rappresentata con gran plauso in Roma. Niuno meglio di lui seppe seguir gli antichi dando all’ imitazione la più gaja e fresca tintura de’ costumi della sua età. Scusandosi nel prologo di avere ideato senza esempio un argomento, non solo doppio, come facevano gli antichi, ma interzato, dice però di avere in ogni altra cosa seguitato il loro uso. E se vi parrà (e’ soggiugne) che in qualche parte l’abbia alterato, considerate, che sono alterati ancora i tempi e i costumi, i quali sono quelli che fanno variar l’ operazioni e le leggi dell’operare. Chi vestisse ora di toga e di pretesta, per begli abiti che fossero, ci offenderebbe non meno che se portasse la beretta a taglieri o le calze a campanelle. Il Caro congiunse egregiamente l’artificio del viluppo alla piacevolezza comica (lasciando a parte la solita sua maravigliosa eleganza e purezza e grazia del dire) e pose nel tempo stesso nella passione di Gisippo e Giulietta un interesse che avvicina questa bella commedia al genere dell’Ecira Terenziana, e la salverà sempre dal cadere in dimenticanza. E’ una verità costante, che le dipinture delle maniere locali, benchè eccellenti, variano, per così dire, in ogni pajo di lustri, ma quelle delle passioni generali conservano la loro freschezza in ogni tempo. Anima mia (dice nell’atto II Gisippo che crede morta la sua bella Giulietta) tu sei pure in luogo da poter chiaramente vedere la costanza dell’animo mio, la grandezza del mio dolore, e il desiderio di venir dove tu sei. Tu senti che il tuo nome m’è sempre in bocca. Tu vedi che la tua immagine mi stà continuamente nel cuore. Tu sai che d’altri che tuo non posso essere quando bene ad altri sia dato. Dovrebbero i giovani studiosi specchiarsi in simili naturalissimi esempi ed apprendere in questi sentimenti pieni di calore e di verità il linguaggio della natura; quel linguaggio che sarà sempre ignoto a certuni che si hanno formato un picciolo frasario preteso filosofico che vogliono applicare in ogni incontro ed in ogni situazione. Gisippo poi intende nell’atto V che Giulietta è viva. Satiro servo gliene reca la novella. E’ risuscitata la Giulietta, la Giulietta, egli dice.

Gisip.

Che Giulietta, bestia?

Sat.

Oh padrone, che ho io veduto!

Gisip.

Che hai spiritato?

Sat.

Io ho veduta, io ho veduta la Giulietta, e l’ho veduta con questi occhi.

Gisip.

Qualcuna che le somiglia forse?

Sat.

Lei stessa.

Gisip.

La Giulietta?

Sat.

La Giulietta.

Gisip.

La mia?

Sat.

La vostra.

Gisip.

Viva?

Sat.

Viva.

Gisip.

Dove?

Sat.

In casa di Madonna Argentina.

Gisip.

Stai tu in cervello?

Sat.

Io non ho bevuto, io non vaneggio, io non dormo; io l’ ho veduta, io le ho parlato, ella ha parlato a me, e mi ha data questa lettera e quest’anello che vi porto.

Dem.

Questo è il giorno delle maraviglie.

Gisip.

Oh dio, questo è l’anello con che la sposai, e questa è sua lettera.

Dem.

Non m’avete voi detto ch’ella è morta?

Gisip.

Oimè! s’ella è morta! ah!

Dem.

E quest’anello?

Gisip.

E’ suo.

Dem.

E questa lettera?

Gisip.

E’ di sua mano.

Dem.

O come può star questo? lasciatemela leggere.

Merita di osservarsi la naturalezza di questo dialogo, in cui non si dice o si risponde cosa che non sembri l’unica espressione richiesta nel caso. Ma la bella lettera poi spira tutto il patetico della tenerezza sfortunata di un cuor sensibile che offeso si querela senza lasciar d’ amare. A’ leggitori non assiderati dalla lettura di tragedie cittadine e commedie piagnevoli oltramontane; a quelli che non hanno il sentimento irrugginito dalla pedantesca passione di far acquisto di libri stampati nel XV secolo, fossero poi anche scempj e fanciulleschi; a quelli che sanno burlarsi di coloro che non vorrebbero che altri rilevasse mai le bellezze de’ componimenti quasi obbliati, per poterli saccheggiare a loro posta; a quelli in fine che non pongono la perfezione delle moderne produzioni nell’accumulare notizie anche insulse, perchè ricavate da scritti inediti, ma sì bene nella copia delle vere bellezze delle opere ingegnose atte a fecondare le fervide fantasie della gioventù onde dipende la speranza delle arti; a siffatti delicati leggitori, dico, non increscerà di ammirar meco questa bellissima lettera degna del pennello maestrevole del Caro. Gisippo in essa è chiamato Tindaro che è il suo nome primiero.

Tindaro, padron mio (così convien ch’ io vi chiami, poichè mi trovo serva de’ servidori della vostra moglie), gli affanni che io ho sofferti finora grandissimi e infiniti, sono stati passati da me tutti con pazienza, sperando di ritrovarvi, e consolarmi d’avervi per mio consorte. Ma ora che finalmente vi ho ritrovato, poichè a me tolto vi siete, sconsolata e disperata per sempre desidero di morire.

Gisip.

Oimè! che parole son queste? seguitate.

Dem.

(leggendo) Ahi Tindaro, voi vi maritate; or non siete voi mio marito? se non mi siete ancor di letto, e non volete essermi per amore, mi siete pur di fede, e mi dovete essere per obbligo. Non sono io quella, che per esser vostra moglie non mi sono curata di abbandonar la mia madre, nè di andar dispersa dalla mia patria, nè divenir favola del mondo? Ricordatevi, che per voi sono state tante tempeste, per voi sono venuta in preda de’ corsari, per voi si può dire, che io sia morta, per voi son venduta, per voi carcerata, per voi battuta, e per non venir donna di altro uomo, come voi siete fatto uomo di altra donna, in tante e sì dure fortune sono stata sempre d’animo costante, e di corpo sono ancor vergine; e voi non forzato, non venduto, non battuto, a vostro diletto vi rimaritate.

Gisip.

E Giulietta scrive queste cose?

Dem.

(leggendo) Il dolore che io ne sento, è tale, che ne dovrò tosto morire; ma solo desidero di non morir serva nè vituperata; per l’una di queste cose io disegno di condurmi, col testimonio della mia verginità, a mostrare a’ miei, che io per legittimo amore, e non per incontinenza, ho consentito a venir con voi: per l’altro vi prego (se più di momento alcuno sono i miei prieghi presso di voi), che procuriate per me, poichè non posso morir donna vostra, che io non mi muoja almeno schiava di altri; o ricuperate con la giustizia, o impetrate dalla vostra sposa la mia libertà: che, per esser ella così gentile, come intendo, ve la dovrà facilmente concedere: e, bisognando, promettete il prezzo, che io sono stata comperata, che io prometto a voi di restituirlo.

Gisip.

Oh che dolore è questo!

Dem.

(leggendo) E quando questo non vogliate fare, mi basterà solamente di morire: il che desidero, così per finire la mia miseria, come per non impedire la vostra ventura. E per segno che io non voglio pregiudicare alla libertà vostra, vi rimando l’anello del nostro maritaggio. Nè per questo si scemerà punto dell’amor che io vi porto. State sano, e godete delle nuove nozze. Di casa della vostra moglie. Giulietta sfortunata.

Chi non senta a questa lettura correr sugli occhi suoi copiosamente le dolci lagrime della più delicata tenerezza, dica di sicuro di avere il cuore formato di assai diversa tempera da quella che costituisce un’ anima nobile. Ogni parola è una bellezza per chi l’analizza, nè l’ analizza chi non ha il cuore fatto per ciò che i Francesi chiamano sentimento.

Non si vede nelle commedie di Luigi Groto nè la verità e naturalezza dello stile, nè la patetica delicatezza degli Straccioni del Caro: ma son pur bene ravviluppate e ingegnose, e solo quanto al costume si vorrebbero più castigate. Esse sono tre, il Tesoro impressa nel 1583, l’Alteria nel 1587, e l’Emilia nel 1596, tutte scritte in versi e collo spirito d’arguzia che domina ne’ componimenti di questo famoso cieco d’Adria.

Di Cornelio Lanci si hanno impresse sette commedie in prosa dal 1583 al 1591, la Mestola, la Ruchetta, la Scrocca, il Vespa, l’Olivetta, la Pimpinella, e la Niccolosa, regolari per la condotta, naturali nello stile, vivaci ne’ caratteri, ma alquanto libere ne’ motteggi.

Il Fiorentino Raffaello Borghini volle oltrepassare i confini comici. Nella sua Donna costante ci diede un esempio (raro in tal secolo) di un intrigo pericoloso e più proprio per le passioni tragiche. Una fanciulla minacciata dal padre di altre nozze, per serbarsi al suo amante, prende un sonnifero e coll’ ajuto di un medico si fa seppellire per morta; indi tratta dalla sepoltura si veste da uomo, e nell’accingersi a partir per Lione, dove sapeva che dimorava l’ amante bandito, lo trova in Bologna addolorato per la notizia della di lei morte. In mezzo all’allegrezza di vederla viva questo suo amante chiamato Aristide è conosciuto ed arrestato. Alla novella che ne ha Elfenice ripiglia le vesti di donna coll’ intento di manifestare al Governadore come Aristide è suo sposo, e quando non ne impetrasse la libertà, di ammazzarsi. In tale stato correndo per le strade quasi fuor di se per lo dolore, scarmigliata, con un pugnale alla mano, (veramente con un poco d’inverisimiglianza) imbatte nella giustizia che mena a morire Milziade suo fratello convinto, per di lui confessione, di latrocinio. Sbigottiscono gli sbirri a vista di colei che il giorno avanti era stata sepolta, e presi da strano terrore fuggono senza badare al delinquente, il quale si maraviglia della sorella viva che corre come forsennata, e giugne presso la casa di Teodolinda sua amante. Egli era stato sorpreso dal bargello con una scala di seta sotto la di lei casa, e per salvarne la fama, si era accusato di aver voluto andare a rubare in quella casa, tuttochè gentiluomo e ricco egli fosse. Disperata Teodolinda avea risoluto, allor che egli passerebbe per andare al patibolo, di gettarsi al suo collo, confessare pubblicamente il suo amore, e giustificarlo dell’infamia del preteso tentato latrocinio. Ora vedendolo così solo lo scioglie e lo mena in casa. La vendicativa Timandra madre di Teodolinda dalla toppa dell’uscio gli vede abbracciati, e schizzando veleno va a chiamar Clotario suo marito perchè venga a prenderne crudel vendetta. Ma essi vengono liberati per opera della balia di Teodolinda, e di Elfenice, e del medico Erosistrato, nella cui casa si rifuggono. Il Governadore intende i casi di Aristide e di Milziade, vede che un doppio parentado potrebbe riconciliare le due famiglie nemiche, e coll’ autorità, colle ragioni e colle minacce dispone i due vecchi alla pace e al maritaggio di Elfenice con Aristide e di Teodolinda con Milziade.

Una commedia siffatta piena di evenimenti straordinarj e di pericoli grandi eccede i limiti della vera poesia comica, e per questo capo è assai difettosa. Essa par tessuta alla foggia delle commedie Spagnuole miste di tragico e di comico. Ma colà si sarebbe incominciata a sceneggiare dall’innamoramento di Elfenice e dall’omicido commesso da Aristide, proseguendosi per li sette anni che questi dimorò in Lione, mostrando la morte apparente di Elfenice, gli amori di Teodolinda con Milziade e l’accaduto della scala, e scendendo allo scioglimento colla condanna di costui impedita da Elfenice. Ma il Borghini incomincia con senno la sua Donna costante dalla venuta di Aristide in Bologna nel giorno che è stata sepolta fintamente Elfenice e che è menato a morir Milziade. Potrebbe dunque questa favola servir d’esempio agli Spagnuoli vaghi di situazioni risentite, qualora volessero continuare ad arricchire il proprio teatro di favole piene di grandi accidenti, ma senza cadere nelle stravaganze.

Io trovo nella favola descritta ben maneggiate le passioni ed espresse con sobrietà di stile; ma non son pago de i discorsi accademici e pedanteschi che vi si tengono, delle storie, degli esempi, de’ versi, onde la riempiono il servo Lucilio, il medico Erosistrato e ’l parassito Edace. Ed a che servono tutte quelle inezie all’usanza Spagnuola?

L’autore l’accompagnò con sei intermedj. Il primo serve d’introduzione che va innanzi al prologo, in cui la scena rappresenta il Parnasso colle muse, e vi si cantano quattordici versi. Nel secondo in fine dell’atto I si vede un antro, che è la reggia del Sonno, in cui Iride ed il Sonno cantano due strofe. Nel terzo in fine dell’atto II si vede in un prato Cerere nel suo carro, e canta due ottave. Il quarto tramezzo rappresenta Roma in un carro trionfale, innanzi al quale vengono legate le provincie soggiogate, e Roma canta una strofe, cui le provincie rispondono. Nel quinto intermedio Roma stessa comparisce scapigliata, incatenata innanzi a un carro trionfale occupato da Alarico, Genserico, Ricimero, Totila, Narsete e dal duca Borbone generale di Carlo V, i quali cantano una canzonetta, che dice

Quella che il mondo vinse, abbiamo vinto,

alla quale succede il lamento di Roma in due ottave, che conchiudono,

Già vinsi il mondo, or servo a gente vile,
Come fortuna va cangiando stile.

Nell’ultimo intermedio viene di sotterra Plutone con Proserpina, dal mare Nettuno con Teti, dal cielo Giove con Giunone, Venere con Vulcano e Cupido, i quali tutti cantano in lode di Amore, e cantando intrecciano un ballo. Eccoti dunque una commedia in prosa con accompagnamenti tali che le danno diritto a chiamarsi opera in musica, secondo la pretensione del Menestrier e di chi l’ha seguito. Questa commedia dedicata dall’autore a Carlo Pitti nel 1578 s’impresse nel 1582, e nell’anno seguente si pubblicò l’Amante Furioso altra commedia del Borghini.

Altre commedie regolari e piacevoli in versi ed in prosa si pubblicarono dopo della riferita. Il Vellettajo del Masucci in versi si diede alla luce nel 1585: l’Amico fido del Bardi rappresentata in Firenze nelle nozze di Don Cesare d’Este e Donna Virginia de’ Medici uscì al pubblico nel medesimo anno: la Prigione di Borso Argenti in prosa impressa nel 1587: la Vedova di Niccolò Buonaparte anche in prosa nel 1592: il Fortunio del Giusti anche in prosa nel 1593.

Il Perugino Sforza degli Oddi professor di leggi di gran nome nella patria, in Padova ed in Parma dove finì di vivere l’anno 1610 secondo Apostolo Zeno, o nel 1611 come ci assicura il Bolsi presso il Tiraboschi, compose in bella assai e natural prosa tre commedie da mettersi accanto agli Straccioni del Caro quanto al loro genere e carattere. La prima intitolata Erofilomachia, ovvero Duello d’Amore e d’Amicizia, si pubblicò nel 1586, ma era stata composta nella giovanezza dell’autore, e come nota lo Zeno sul Fontanini, fu recitata in Perugia con singolar piacere, e si ristampò più volte. La Prigione d’Amore si produsse nel 1592, ed in essa, come nella precedente, vi è una delicatezza di amore e d’amicizia posta al cimento, e vi si scorge, bellamente trasportata alla mediocrità comica, l’avventura di Damone e Pizia, l’uno de’ quali rimase per ostaggio dell’amico sotto lo stesso pericolo di vita, e l’altro ritornò puntualmente al suo supplicio. Oddi vi aggiunse la venuta di una innamorata che al vedere l’amante esposto, per essere ostaggio del di lei fratello che esattamente la rassomiglia, ed al sapere già vicina l’ ultima ora dello spazio concesso al ritorno del reo, sotto il nome del fratello si presenta alla prigione e libera l’amante. La pena ch’ella ne riceve, è un sonnifero creduto veleno, che apporta poco stante un lieto scioglimento. L’altra commedia dell’Oddi non meno bella per lo stile, per l’onestà, per la vaghezza de’ caratteri e per l’intreccio, intitolata i Morti vivi, s’impresse nel 1597. Anche queste commedie dell’Oddi son da riporsi nella dilicata classe delle commedie teneri simili all’Ecira, le quali nel nostro secolo vedremo oltramonte degenerare in rappresentazioni piagnevoli.

Si rappresentò in Caprarola dagli Accademici di quella città il primo di di settembre nel 1598 alla presenza del cardinal Odoardo Farnese gl’ Intrichi d’ amore commedia che porta il nome di Torquato Tasso e che s’ impresse in Viterbo presso Girolamo Discepolo nel 1604. E’ una favola assai ravviluppata, piena per altro di colori comici e di caratteri piacevoli ben rilevati. Il Baruffaldi e monsignor Bottari dubitano che sia componimento dell’autore della Gerusalemme; il marchese Manso lo niega assolutamente; e l’Ab. Pierantonio Serassi nella bellissima Vita di Torquato impressa in Roma l’anno 1785, giudica che sia opera di Giovanni Antonio Liberati che fece il prologo e gl’ intermedj a questa commedia, per la sola ragione che quest’ Accademico di Caprarola si dilettava di scrivere nel genere drammatico. Tuttavia non abbiamo sinora sufficienti indizj da non istimarla opera di Torquato. Il Manso per negarlo non ci disse di averlo saputo dal medesimo Torquato; e se lo negò per proprio avviso, è una opinione, e non una pruova la di lui asserzione; dall’altra parte il lodato Ab. Serassi quante volte discopre errori del Manso intorno alle cose di Torquato! Che sia poi piuttosto da riferirsi tal favola al Tasso Napoletano che al Liberati di Caprarola, cel persuade in certo modo il carattere ben dipinto e ’l dialetto di Giallaise; imperciocchè più facilmente poteva scrivere una parte in lingua napoletana il Tasso nato ed allevato nel regno sino al decimo anno della sua età, e che poi vi tornò già grande e vi si trattenne diversi mesi, che il Liberati il quale nè nacque nè dimorò nel regno di Napoli.

Forse l’ultimo scrittore comico del cinquecento fu il vecchio Loredano, che dal 1587 al 1608 pubblicò sette commedie in prosa, cioè i Vani amori, la Malandrina, la Turca, l’Incendio, la Berenice, la Madrigna, e Bigonzio.

Di una commedia composta dal Guarnello fa menzione Muzio Manfredi nelle citate lettere scritte da Lorena: di un’ altra intitolata gl’ Inganni di Curzio Gonzaga celebre nell’armi e nelle lettere parla il Quadrio: della Porzia e del Falco commedie inedite di Giuseppe Feggiadro de’ Gallani si favella nel Compendio Istorico di Parma scritto dall’Edovari e non pubblicato: della Pellegrina di Baltassarre di Palmia Parmigiano, che si rappresentò avanti al cardinal Grimani, e dell’altra del medesimo i Matrimonj recitata avanti al duca Pier Luigi Farnese, si fa motto nel citato ms. dell’Edovari: di un’ altra commedia latina detta Lucia del Cremonese Girolamo Fondoli anche inedita fa parola il Tiraboschi nella parte III del VII volume. Di queste, e delle due commedie di Bernardino Rota lo Scilinguato e gli Strabalzi mentovate con gran lode dal Ghilini, e de’ Marcelli di Angelo di Costanzo nominati dal Minturno, e di qualche altra parimente rimasta sepolta, basti averne accennati i titoli, giacchè per essersene perduto ogni vestigio o per aver riposato nell’ oscurità di qualche privato archivio, non hanno contribuito all’ avanzamento della poesia comica.

Queste sono le commedie Italiane da’ nostri chiamate antiche ed erudite. Or quali di queste ha lette il sempre lodato maestro di Poetica Francese? In qual di esse ha trovato quella sognata mescolanza di dialetti, quei gesti di scimia, quella tremenda e pericolosa gelosia e vendetta Italiana? E se ne ha lette alcune, come mai osò dire esser esse così sfornite d’arte, di spirito e di gusto che neppure di una sola possa sostenersi la lettura 128? Che se egli seppe solo per tradizione che vi fossero commedie antiche in Italia, o stimò che altra cosa non fossero che le farse d’Arlecchino per avventura vedute sul teatro Italiano di Parigi, egli stesso può avvedersi del torto che fa alla propria erudizione e filosofia, giudicando così a traverso della commedia Italiana che non avea punto studiata. Veramente una nazione che fece risorgere in Europa tutte le belle arti e le scienze, il gusto, la politezza e la libertà stessa, meritava un poco più di diligenza da questo scrittore. E che direbbe egli se si volesse dare idea del teatro Ateniese sulle rappresentazioni de’ neurospasti? che, se per dare a conoscere il teatro Francese, dimenticato Moliere e Racine, se ne fondasse il giudizio su Jodelle ed Hardy, o su i cartelloni delle fiere Parigine?

II.
Produzioni comiche di commedianti di professione.

Un secolo dotto fa risplendere di riverbero ancor quelli che non lo sono. Erano in tal tempo cresciuti gli attori di mestiere, benchè tante accademie insieme colla poesia teatrale coltivassero ancora il talento difficilissimo di ben recitare. Si trovò allora fra essi più d’un commediografo ingegnoso. Andrea Calmo Veneziano morto l’anno 1571, fu attore ed autore molto esperto ed applaudito, come ci fa a sapere in una lettera il Parabosco. Egli scrisse alcune commedie in prosa nel suo grazioso dialetto nativo mescolato talvolta col Bergamasco, col Greco moderno, e coll’ idioma Schiavone italianizzato; ed è probabile che a simili farse istrioniche avesse la mira il prelodato Marmontel. Le commedie del Calmo sono: la Spagnolas, il Saltuzza, la Pozione, la Rodiana e il Travaglia pubblicate dal 1549 al 1556. Il Lombardo altro attore di professione diede alla luce nel 1583 l’Alchimista sua commedia lodata. Fabrizio Fornari Napoletano detto il Capitan Coccodrillo Comico Confidente, diede alla luce in Parigi per l’Angelier nel 1585 la commedia intitolata Angelica, che poi si ristampò in Venezia nel 1607 pel Bariletto. Il famoso attore Padovano Angelo Beolco chiamato il Ruzzante scrisse alcune commedie che s’impressero nel 1598, cioè la Fiorina, la Vaccaria, l’Anconitana e la Piovana, le quali dal Varchi nell’Ercolano furono anteposte alle antiche Atellane. Francesco Andreini Pistojese marito della celebre attrice Isabella Andreini, e attore anch’egli che rappresentava da innamorato, e dopo la morte della moglie da tagliacantone col nome di Capitano Spavento da Vallinferna, volle ancora distinguersi come autore, scrivendo più dialoghi, farse e commedie, ove acciabattò quanto avea in iscena recitato come attore, cioè le rodomontate.

Generalmente i pubblici commedianti andavano per l’Italia rappresentando certe commedie chiamate dell’arte per distinguerle dalle erudite recitate nelle accademie e case particolari da attori nobili, civili ed instruiti per proprio diletto ed esercizio. Si notava, come dicono i commedianti, a soggetto il piano della favola e la distribuzione e sostanza dell’azione di ogni scena, e se ne lasciava il dialogo ad arbitrio de’ rappresentatori. Queste farse istrioniche aveano per oggetto l’eccitare il riso con ogni sorte di buffoneria, e vi si faceva uso di maschere diverse, colle quali nel vestito, nelle caricature e nel linguaggio si esagerava la ridicolezza caratteristica di qualche città. Pantalone era un mercatante Veneziano per lo più avaro; il Dottore un curiale Bolognese cicalone; Spaziento un millantatore poltrone, Coviello un furbo e Pascariello un vecchio goffo che non concludeva i suoi discorsi, tutti e tre Napoletani; Pulcinella un buffone dell’Acerra; Giangurgolo un villano Calabrese; Don Gelsomino un lezioso insipido Romano o uno zima Fiorentino; Beltrame un Milanese semplice; Brighella un Ferrarese raggiratore; Arlecchino un malizioso sciocco di Bergamo (Nota XV).

Il volgo Italiano se ne compiacque per la novità e per quello spirito di satira scambievole che serpeggia tra’ varj popoli di una medesima nazione, come avviene in Francia ancora tra’ Provenzali, Normandi e Gasconi, e in Ispagna tra’ Portoghesi e Castigliani, e Galiziani, Valenziani, Catalani e Andaluzzi, le cui ridicolezze e maniere di dire e di pronunziare rilevansi con irrisione scambievole. In queste farse dell’arte, nelle quali erroneamente gli oltramontani mal istruiti sogliono far consistere la commedia Italiana, possiamo ravvisare qualche reliquia degli antichi mimi, la cui indole libera e buffonesca è stata sempre d’introdurre prima certo rincrescimento della bella poesia scenica, indi di cagionarne la decadenza.