(1788) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome III « LIBRO IV — CAPO PRIMO. Risorge in Italia nel secolo XVI la tragedia Greca, ed il teatro materiale degli antichi. » pp. 86-174
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(1788) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome III « LIBRO IV — CAPO PRIMO. Risorge in Italia nel secolo XVI la tragedia Greca, ed il teatro materiale degli antichi. » pp. 86-174

CAPO PRIMO.
Risorge in Italia nel secolo XVI la tragedia Greca, ed il teatro materiale degli antichi.

Grandi furono nel precedente secolo gli sforzi degl’ Italiani in prò della poesia drammatica. Essi che aveano assicurato al lor paese il vanto di farla risorgere, compresero prima d’ogni altro che per riuscirvi bisognava ridurre le incondite farse sacre o profane di que’ tempi alla forma servata dagli antichi, e l’eseguirono. Seppero ancora sull’esempio dell’Ezzelino del Mussato preferire a’ tragici argomenti greci i fatti nazionali, al notare con qual particolare avidità si vedessero sulla scena le patrie gesta. Chi tanto avea felicemente tentato, avvezzo già alla lindura delle opere degli antichi disotterrate, non tardò col confronto ad avvedersi della rozzezza de’ proprii drammi, e conchiuse che più efficace espediente si richiedeva per richiamare in trono Melpomene e Talia. In un tempo in cui rinacque l’aurea età di Pericle o di Augusto; in cui si udì risonar per mezzo del Sannazzaro, del Fracastoro e del Vida la tromba Virgiliana; in cui sursero i temuti rivali di Apelle e di Fidia ne’ Raffaelli e ne’ Michelangeli; nel secolo XVI al fine non fu difficile il ravvisar l’enorme distanza interposta tra’ moderni drammi Italiani e Sofocle e Menandro. E per rappresentarsene al vivo i pregi inimitabili occuparonsi in prima gl’ Italiani con somma cura a calcar le stesse orme de’ Greci traducendone ed imitandone le favole; indi, assuefatti all’antico magistero, ad immaginarne altre nuove su que’ modelli. Così troviamo un gran numero di greche imitazioni, e poi un altro ugualmente grande di nuove favole sulle greche modellate. L’evento giustificò il bel disegno; perchè da allora rifiorì in Europa la drammatica vaga e vigorosa emula de’ Greci e de’ Latini. Di grazia poteva sperarsi che nascesse al teatro un Racine ed un Voltaire subito dopo un Mussato o un Laudivio? ed un Moliere dopo il Polentone o il Bojardi? Nò; bisognava che prima calcasse il coturno un Trissino ed un Rucellai, un Tasso ed un Manfredi, ed il socco un Bentivoglio e un Machiavelli e un Ariosto. I salti immaturi (ed a ciò, per non farsi deridere, dovrebbero riflettere tanti e tanti moderni filosofi critici che per affettar gusto sopraffino rimproverano all’Italia la languidezza e ’l portamento tutto greco de’ drammi del cinquecento) i salti, dico, troppo pronti ed immaturi o son vicini a’ precipizj, o non avvengono felicemente che per prodigj; ed i prodigj sono pur così rari in natura. Prima dunque di pervenire a’ Cornelj, a’ Racini, a’ Metastasj, a’ Maffei, veggansi in questo volume con miglior critica e filosofia i passi della poesia rappresentativa i quali all’epoca de’ lodati grand’ingegni condussero i moderni. Si troveranno in tal periodo in Italia 1 favole scritte in latina favella, 2 tragedie e commedie italiane di greca invenzione, 3 drammi modellati su gli antichi ma di nuovo argomento, 4 nuovi generi drammatici ignoti a’ greci, 5 i primi avanzamenti d’un melodramma diverso dall’antico. Per soprappiù tutto ciò si troverà animato da un puro ed elegante stile, da quel balsamo che solo può conservare incorruttibili (non che i drammi ed ogni genere poetico e tutta l’amena letteratura) le scienze stesse.

I.
Drammi Latini.

Leone X che illustrò i primi anni di sì bel secolo, amando l’erudizione, la poesia e gli spettacoli scenici, gli promosse in Roma come gli avea favoriti nella sua patria, e ciò bastò per eccitare i più grand’ingegni a coltivar la drammatica. Quindi è che si videro da prima in quella gran città divenuta centro delle lettere rappresentate le favole degli antichi, come il Penulo di Plauto nel 1513 in occasione di essersi dichiarato cittadino Romano Giuliano de’ Medici fratello del pontefice, le Bacchidi del medesimo comico nel celebrarsi le nozze de’ Cesarini coi Colonnesi, il Formione di Terenzio con un prologo del Mureto fatto recitare dal cardinale Ippolito da Este il giovine, e l’Ippolito di Seneca rappresentato avanti il palagio del cardinale Raffaele San Giorgio, in cui sostenne il personaggio di Fedra con tanta eccellenza il canonico di S. Pietro Tommaso Inghiramo74 dotto professore di eloquenza ed orator grande che sin che visse ne portò il soprannome di Fedro.

Oltre poi a queste rappresentazioni si composero in latina favella nuove tragedie e commedie. Il dotto Francesco Benzi75 scrisse due drammi Ergastus, e Philotimus coll’ usata sua eleganza, ne’ quali introdusse personaggi allegorici, l’Onore, la Fama, la Virtù, la Gloria, l’Inganno. Bartolommeo Zamberti Veneziano compose la Dolotechne, e Giovanni Armonio Marso la Stephanium commedia76, nella quale fece egli stesso da attore77. Antonio Mureto, benchè per nascita all’Italia non appartenga, avendo non per tanto qui composta la sua tragedia Julius Cæsar, stimiamo più opportuno registrarla fralle molte latine degl’ Italiani, che lasciarla sola nel teatro Francese di questo secolo. Giano Anisio, ossia Giovanni Anisio Napoletano dell’Accademia del Pontano compose la tragedia Protogonos pubblicata nel 1536, sulla quale fe poscia il commento Orazio Anisio suo nipote. Altre tragedie scrisse Giovanni Francesco Stoa.

Ma le più pregevoli tragedie latine di questo secolo uscirono da Cosenza. Antonio Tilesio celebre Cosentino dimorando in Venezia l’anno 1529 diede alla luce la sua tragedia intitolata Imber Aureus, che si reimpresse nel 1530 in Norimberga, e si rappresentò ancora magnifice, feliciterque frequentissimo in theatro, siccome scrisse Cristofano Froschovero l’anno 1531 dirigendo il discorso alla gioventù raccolta nel collegio Tigurino. I contemporanei ed i posteri riconobbero la forza e lo splendore delle sentenze e delle parole di questa Pioggia d’oro, per la quale la tragedia cominciò a favellare con dignità e decenza. L’argomento consiste nella prigionia di Danae nella torre di bronzo, e nella discesa di Giove in essa convertito in pioggia d’oro. Eccone un breve sunto imparziale.

Atto I. Acrisio re degli Argivi avendo consultato l’oracolo sulla scelta di un genero intende che di Danae sua figliuola uscirebbe il di lui uccisore, e spaventato congeda i pretensori della di lei mano, risolve di non accoppiarla a veruno, e si raccomanda a Vulcano. Chiude l’atto un coro di Argive, la cui eleganza e leggiadria poetica gareggia co’ migliori di Seneca, e forse gli supera per lo candore. Ma intanto che compiange la principessa destinata a morir vergine, vede il popolo che in atto di stupore accorre alla reggia. Egli stesso vi si avvicina (e ciò dinota di aver egli mutato luogo senza lasciare di esser presente agli spettatori), e vede alzata una gran torre di bronzo opera istantanea di Vulcano, in cui è rinchiusa Danae con la sua Nutrice.

Atto II. Ode il coro le voci lamentevoli di Danae che deplora la sua sventura. Ella desidera la morte, e tenta di darsela; la Nutrice la dissuade. Il loro dialogo ha tutta l’energia della passione, ed è soprammodo lontano dalla durezza delle sentenze lanciate ex abrupto alla maniera di Seneca. Danae s’ accorge dell’aquila ministra di Giove, e ne prende felice augurio, e va a fare una preghiera al Tonante.

Atto III. Gioisce Acrisio per l’opera stupenda in un momento costruita dal suo nume Vulcano, e si accinge a sacrificargli un’ ecatombe, e fa apprestare un lauto banchetto e dell’oro, per rimunerare i ciclopi che ne sono stati i fabbri. La mercede ad essi distribuita, l’ebbrezza che gli opprime, la pugna che ha con gli altri Polifemo, e la di lui morte, empiono la maggior parte dell’atto. Sarebbesi ciò tollerato sulle scene Ateniesi, nelle quali ebbero luogo le contese piuttosto comiche che tragiche delle Baccanti, di Jone, di Alceste; ma dalle latine tragedie in poi si sono rigettate come impertinenti. Io non debbo dissimulare questo neo della tragedia del Tilesio; ma non è giusto poi lo spregiarla tanto, come al tri ha fatto, per questo episodio.

Atto IV. Ammirasi in quest’atto il racconto della pioggia d’oro penetrata nella torre pieno d’eleganza e di vaghezza, che viene così preparato dalle commozioni di Danae che vuol parlarne alla Nutrice:

Nutrix, age, mea nutrix,
Perii!

Nu.

Quid est?

Da.

Quæ vidi!

Nu.

Quid, mea, stupes?

Da.

Heu!

Nu.

Fare.

Da.

Jam jam occidi.

Nu.

Miseram me!
Quid passa?

Da.

Juppiter . . .

Nu.

Te,
Mea, sospitet; quid trepidas
Exterrita? quid horridula
Riget coma? quid hoo? eheu.

Da.

Hic ipse, Juppiter ipse . . .
Deliquit animus. O quæ
Spectare contigit!

Gajamente è delineata la nuvoletta di color di rosa che si leva dal mare, ed a guisa di un augelletto si appressa alla torre, pende dalla di lei sommità, comincia a sciogliersi in leggiera rugiada e s’introduce per la finestra. Giova udire il medesimo vago poeta nel rimanente:

Crebrescit Imber diffluens mox Aureus
Illapsus undique, penetransque, qua domus
Junctura, qua diem inferunt spiracula,
Mentis mihi quid fuerit ibi tum, cogita,
Concreta cum pars, grando ut aurea, crepitans,
Circumque resiliens peteret ultro sinum.
Obrigui, ac ipso auro magis tunc pallui.
Sed ubi animum tandem recepi perditum,
Munus rata deum, subdidi explicans sinus,
Aurumque colludens, micansque sedula,
Flavis, sonansque rivulis fluentibus
Ignara sponte condidi in gremium mihi,
Legens ubique quod jacebat protinus.

Con ugual nitore e leggiadria si descrive la trasformazione di quest’oro in un vaghissimo giovanetto che si palesa pel gran padre degli uomini e degli dei. Danae ode da lui la serie de’ futuri suoi casi misti di gloria e di disgrazie vicine e lontane. Il coro da questa pioggia d’oro coglie l’opportunità di parlar della potenza di Cupido, indi lo prega ad esser propizio al genere umano ed a contentarsi di sospiri, di lagrime, di dolci sdegnetti, ed a bandire dal suo regno i ciechi furori, i lacci, i ferri, i precipizj, le stragi.

Atto V. Vi si narra come al sospettoso Acrisio sembra aver veduto nella finestra della torre il capo di Danae con quello di un uomo. Ne apre la porta, cerca il nemico insidiatore, si avventa alla figliuola, indi risolve di castigarla con una morte men pronta e più atroce. La fa chiudere in un’ arca di pino, ed inesorabile alle di lei lagrime la spinge egli stesso in mare. Il coro col messo ne geme, inveiscono contro dello spietato vecchio, e pregano Anfitrite di salvar l’infelice principessa. Termina la tragedia con tali parole indirizzate a Melpomene:

Jovis, o Melpomene, decus,
Roseo vincta cothurno,
Lyra cordi cui lugubris,
Delatum hoc tibi munus
Faxis perpetuum, rogo.

La regolarità, la convenevolezza del costume, la verità delle passioni dipinte, l’eleganza, il candore e la mirabile vaghezza dell’aureo stile, salveranno sempre dall’obblìo questa favola: la languidezza e l’ episodio poco tragico dell’atto terzo ne sono i nei che possono notarvisi, e che forse tali non parvero all’autore pieno della lettura degli antichi.

Contrasta colle grazie e colle veneri dello stile del Tilesio la maestà e la grandezza del suo compatriota ed amico Coriolano Martirano celebre vescovo di S. Marco in Calabria. Fiorendo verso il 1530 egli divenne il Seneca del regno di Napoli anzi dell’Italia, per lo studio che ebbe di recare egli solo nella latina favella molte delle più pregevoli favole greche. Trasportò da Euripide Medea, Ippolito, le Baccanti, le Fenisse il Ciclope; da Eschilo Prometeo; da Sofocle Elettra; dal Cristo paziente il suo Cristo; da Aristofane il Pluto e le Nubi; e con tal senno e garbo e buon successo egli il fece, che niuno de’ moderni latini drammi composti prima e dopo di lui può senza svantaggio venire a competenza colle sue libere imitazioni. Per dar conveniente idea del suo gusto e giudizio additeremo in ciascuna favola la maniera da lui tenuta nel tradurre i Greci.

Nella Medea non potè Martirano approfittarsi delle bellezze del piano di quella di Seneca, perchè seguì la greca; ma intanto scansò il difetto del tragico latino di far parlare nell’atto IV pedantescamente la nutrice accumulando tante notizie mitologiche e geografiche, e l’altro della pomposa evocazione de’ morti. Seguì l’ originale nell’economia della favola; ma si permise nel dialogo di dar talvolta nuovo ordine alle stesse idee, di sopprimerle in un luogo se in un altro si erano già accennate, di rendere con più precisione in latino ciò che in greco si disse con copia. Facendo moderato uso delle sentenze, schivò ugualmente l’affettazione di Seneca e gli ornamenti rettorici famigliari ad Euripide. Ciascuno (dice in Euripide nell’atto I il Pedagogo alla Nutrice) ama più se stesso che gli altri, e chi ciò fa per giustizia e chi per proprio comodo. Martirano conserva l’idea originale e si esprime con più semplicità e nettezza:

Quilibet sibi vult melius esse quam alteri.

I trasporti de’ re (dice nel greco la Nutrice) sono veementi e da lievi principj prendono incremento, e con difficoltà poi si cangiano i loro sdegni. Martirano così trasporta questo concetto:

. . . Superba magnorum indoles
Regum semel commota, non temere silet.

Euripide rende al solito assai ragionatrice Medea, e per più di quaranta versi lussureggia con varie sentenze morali, e con riflessioni generali sulle donne incominciando da Κορινϑιαι γυναικες. Martirano risecando quasi tutto questo squarcio attende solo alla passione di Medea per l’ ingratitudine ed infedeltà di Giasone consumandovi appena intorno a quindici versi,

Corintbiæ puellæ, acerbus est quibus &c.

Ma in contracambio dove campeggia il patetico del greco pennello egli ritiene interamente le più importanti scene, come quella di Medea che cerca ed ottiene da Creonte un giorno d’indugio alla sua partenza, tutte quelle che ha con Giasone, il racconto della morte del re e della figliuola, nel quale si è però il Cosentino nella conchiusione astenuto dalla sentenze accumulate dal Greco.

L’Ippolito del Martirano accompagna degnamente e senza arrossire al confronto quelli d’Euripide e di Seneca e la Fedra del Racine. Merita di notarsi singolarmente la scena del delirio di Fedra da noi recata nel romo quarto delle Vicende della Coltura delle Sicilie. Anche il racconto del mostro marino è una prova del gusto del Cosentino, che orna moderatamente l’originale senza pompeggiare, come fanno Seneca e Racine, senza l’inverisimile ardire che si fa mostrare ad Ippolito nell’affrontare il mostro78, senza imitar Seneca, che quando Teseo dovrebbe solo essere occupato della morte del figliuolo, lo rende curioso di sapere la figura del mostro79.

Nelle Baccanti segue Martirano al solito l’economia dell’originale esprimendone i concetti; ma negl’ incontri di Penteo con Bacco e nel di lui travestimento si contiene dentro i confini tragici, nè con Euripide scherza o motteggia comicamente. L’ammazzamento inspira tutta la compassione. Gli si avventano Agave, Ino e le baccanti, ed egli perchè lo riconosca così favella alla madre senza frutto:

. . . . Quo, mater, ruis,
Clamabat. Ipsa hæc membra, quæ scindis, creas.
Echionis, tuoque sum partu editus.
Unde hic furor? me cerne; sum natus; tene
Manus cruentas, mater, & Bacchum abjice,
Quem cerno vestra terga quatientem anguibus.

Desta tutto il terrore la riconoscenza di Agave che nella pretesa testa del leone ucciso ravvisa quella del figliuolo.

Traducendo ed imitando le Fenisse sembra aver voluto dopo quindici secoli mostrare l’autore, in qual maniera avrebbe dovuto Seneca o qual altro sia stato l’autore della Tebaide, recare nella lingua del Lazio, senza i difetti di stile che le s’ imputano, le Fenisse di Euripide. Per nostro avviso niuna delle bellezze originali si è perduta nella versione del Cosentino. Vi si vede con somma naturalezza e vivacità espressa felicemente la scena di Giocasta co’ figliuoli, la dipintura assai viva de’ loro caratteri, la robustezza dell’aringa della madre, la descrizione dell’assalto dato a Tebe, l’uscita degli assediati, la rotta degli Argivi, Capaneo fulminato, il duello de’ feroci fratelli con tutta l’energia delineato.

Pari verità e sobrietà di stile e giudizio si scorge nell’imitazione del Ciclope di cui mi sembra singolarmente notabile il coro dell’atto I da noi tradotto e recato nel IV t. delle Vicende della Coltura delle Sicilie.

Spicca parimente il di lui gusto nella scelta fatta nel voler tradurre l’ Elettra. Delle tre greche tragedie rimasteci sulla vendetta di Agamennone, benchè egli amasse con predilezzione Euripide, si attenne però a quella di Sofocle che per gravità di dizione e per economia sorpassa l’Elettra di Euripide e le Coefori di Eschilo. Manifesta parimente in essa il suo buon senno col seguire più fedelmente che non in altre l’originale, non avendo dovuto risecar molto del dialogo giusto, naturale e patetico di Sofocle. Egli appena vi si permette qualche picciolo cangiamento. Non insinuarmi (dice Elettra a Crisotemi) a non serbar la fede a chi la debbo. No (quella risponde) io ciò non insinuo, ma si bene di cedere ai potenti80. Martirano muta solo l’idea della forza che presenta la potenza, in quella della giustizia, col sostituire la regia potestà:

Non ajo. At ipsis obsequendum regibus.

E’ degna di osservarsi la di lui maniera di tradurre con sobria libertà nel famoso lamento di Elettra avendo in mano l’urna delle pretese ceneri di Oreste, che noi pur traducemmo con esattezza nel IV volume delle Vicende della Coltura delle Sicilie 81.

Colla stessa signoril maniera è cangiato in latino il Prometeo al Caucaso di Eschilo, benchè con più libera imitazione, specialmente nel descriver che fa la situazione di Tifeo atterrato dal fulmine di Giove e sepolto sotto l’Etna, nella narrazione fatta da Prometeo de’ beneficj da lui procurati agli uomini, e nelle veramente tragiche querele d’Io. Insomma il leggitore intelligente, oltre all’eleganza e alla maestà dello stile, ammirerà nelle di lui nobili imitazioni ora più ora meno libere ugual senno e buon gusto in quanto ritiene, in quanto altera e in quanto annoda con nuovo ordine.

Quanto al di lui Cristo, ben possiamo con compiacenza e sicurezza affermare che per sì maestosa e grave tragedia debbe in questo Cosentino raffigurarsi un Sofocle Cristiano; sì savio egli si dimostra nell’economia dell’ azione, e sì grande insieme, patetico e naturale nelle dipinture de’ caratteri e degli affetti, e sì sublime nello stile. Meriterebbe un lungo estratto, ma cel vieta l’ampiezza del nostro lavoro. Contentiamci di recare un solo frammento dell’eccellente racconto della morte di Cristo fatto da Gioseffo a Nicodemo:

Jamque artubus se Cristus e pallentibus
Solvebat, inque extrema vexatus diu
Tendebat, imo corde cum gemitum ciens
Erexit oculos morte tabentes polo,
Summamque acuto verberans auram sono,
O rector, inquit, orbis omnipotens Deus,
Cur me tuum relinquis? Afflicta excidit
Ex artubus vis omnis. O tandem, Pater,
Mortalibus me liberum vinclis cape.
Vix hæc; & ecce pectori accidit caput:
Lethique durus lumina obsedit sopor.
Tum de repente magnus exoritur fragor,
Tellusque ab imis mota sedibus diu
Immugiit: vulsisque nutarunt jugis
Montes: hiulcus saxa quatiebat tremor.
Sol & repente (mira res) moriens velut
Suam tenebris obruit densis facem:
Terrisque dirus noctis incubuit nigror.

Anche il lamento sommamente patetico di Maria sopra la crudeltà Ebrea meriterebbe di trascriversi. Non cede questa tragedia in regolarità di condotta alle migliori; e in vivacità e verità di colorito ne’ caratteri e nelle passioni, e in grandezza e sobrietà di stile va innanzi a quasi tutte le tragedie di Seneca.

Ma per vedere Aristofane ritratto con tutte, le sue grazie comiche senza che si rimanga offeso dalla di lui oscenità, bisogna consultare l’ eleganti traduzioni fatte dal nostro Cosentino delle Nubi e del Pluto, le più felici commedie di quel gran comico. Noi esortiamo la gioventù a leggerle, colla sicurezza che il travaglio di confrontarle coll’ originale e colle languidi ineleganti traduzioni de’ fratelli Rosetini di Prat’alboino, verrà compensato con usura dal diletto. In somma il vescovo Martirano quasi ne’ primi lustri del secolo colle otto sue tragedie e colle due commedie eseguì egli solo con ottima riuscita quanto a fare imprese in tutto il secolo l’Italia tutta, cioè fe rinascere con decenza e maestria la maggior parte del teatro Greco. Dovrà tutto ciò coprirsi d’ingrato obblio, perchè più di un secolo dopo surse Racine in Francia? Sono pur degni di compatimento certi critici e ragionatori d’ultima moda! Passiamo alle tragedie Italiane.

II.
Tragedie Italiane.

La prima tragedia scritta nel nostro volgare idioma fu la Sofonisba di Galeotto del Carretto de’ Marchesi di Savona nato in Casal Monferrato nel secolo XV. L’autore nel 1502 la presentò ad Isabella d’Este Gonzaga Marchesa di Mantova; ed alcuni anni dopo si pubblicò in Venezia con una commedia del medesimo Carretto intitolata Palazzo e Tempio d’Amore. La tragedia è verseggiata in ottava rima ed ha qualche debolezza e varj difetti, ma non è però indegna di esser chiamata tragedia; nè so donde si ricavasse il compilatore del Parnasso Spagnuolo la rara scoverta che questa Sofonisba fosse stata una spezie di dialogo allegorico 82. Chiama egli dialogo allegorico un’ azione eroica tragica tra’ personaggi storici, reali, palpabili, Sofonisba, Siface, Masinissa? Egli ha dunque parlato di tal componimento per volgare tradizione ovvero secondo che gliel dipinse la propria immaginazione. Scrisse il Carretto tre altre commedie, una delle quali s’intitolava I sei Contenti; ma esse non videro la luce, per esserne forse gli eredi stati distolti da tanti altri drammi di maggior pregio che dipoi apparvero. Per la stessa ragione meritano ben poco di rammemorarsi alcuni componimenti del principio del secolo descritti dal Quadrio nel tomo I. E che giova trattenersi sul Filolauro di Bernardo Filostrato, che esso Quadrio chiama atto tragico, ma che nella Drammaturgia dell’Allacci è detto solacciosa commedia? Essa fu impressa nel 1520 in Bologna senza nome di autore, e contiene un atto solo senza distinzione di scene con vario metro, e in linguaggio per lo più Lombardo. Tali cose traggonsi dalle tenebre de’ secoli rozzi quando vogliono scoprirsi i principj delle arti; ma quando queste già vanno altere di grandi artisti, lasciansi nella propria oscurità gli operarj volgari. E chi si perde ad osservare una casuccia mal costrutta di loto e di paglia dove sorgono marmorei edificj reali83? Volgiamoci dunque alle ricchezze che ci appresta un secolo così fecondo.

La Sofonisba di Giovan Giorgio Trissino, patrizio Vicentino nato nel 1478 e morto in Roma nel 1550, assai più famosa della precedente corse indi a non molto fra’ letterati e riscosse gli applausi universali. L’autore così versato nelle greche lettere nella dedicatoria a Carlo V della sua Italia liberata, poema ricco di varie bellezze Omeriche, afferma di aver nel comporre la sua tragedia tolto Sofocle per esemplare. Fu dedicata a Leone X e rappresentata magnificamente nel 1514 in Vicenza ed anche in Roma, ma s’ impresse la prima volta nel 1524. Non ha divisione di scene nè di atti; ha il coro alla greca; ed è per la maggior parte composta in versi sciolti, ed in qualche squarcio con rime rare e libere; e tal volta vi si osserva un troppo rigoroso accordamento di consonanze alla maniera delle nostre canzoni. La narrazione di Sofonisba ed Erminia incominciata dalla remota fondazione di Cartagine, lo studio di calcare con soverchia superstizione le vestigia de’ Greci, alcune ciarle, certe comparazioni liriche, lo stile non portato a quel punto di sublime richiesto nella tragedia, sono difetti con abbondante usura compensati dalla novità dell’argomento che l’autore non dovè nè alla Grecia nè al Lazio84, dalla regolarità ed economia dell’azione, dal carattere bellissimo di Sofonisba che interessa in ogni parte dell’azione (in ciò superiore di gran lunga a quella di Pietro Cornelio) e da un patetico animato da’ bei colori della natura che sempre trionfa nella vivace semplicità; quella semplicità che attinse il Trissino ne’ greci fonti. Un cuore non indurito da’ pregiudizj verserà pietose lagrime al racconto del veleno preso dalla regina, a’ di lei discorsi, alla compassionevole contesa con Erminia, ed al quadro delle donne affollate intorno a Sofonisba che trapassa, di Erminia che la sostiene e del figliuolino che bacia la madre la quale inutilmente si sforza per vederlo l’ultima volta sul punto di spirare. Veggasi nel seguente frammento il colorito di questa scena lagrimevole:

Sof.

A che piangete? non sapete ancora
Che ciò che nasce a morte si destina?

Cor.

Ahimè! che questa è pur troppo per tempo,
Che ancor non siete nel vigesimo anno

Sof.

Il bene esser non può troppo per tempo.

Erm.

Che duro bene è quel che ci distrugge!

Sof.

Accostatevi a me, voglio appoggiarmi,
Ch’io mi sento mancare, e già la notte
Tenebrosa ne vien negli occhi miei.

Erm.

Appoggiatevi pur sopra il mio petto.

Sof.

O figlio mio, tu non avrai più madre;
Ella già se ne va, statti con dio.

Erm.

Oimè! che cosa dolorosa ascolto!
Non ci lasciate ancor, non ci lasciate.

Sof.

I’ non posso far altro, e sono in via.

Erm.

Alzate il viso a questo che vi bacia.

Cor.

Riguardatelo un poco.

Sof.

Aimè! non posso.

Cor.

Dio vi raccolga in pace.

Sof.

Io vado . . . addio.

Non in Italia soltanto si accolse e si rappresentò questa tragedia con ammirazione; in Francia ancora sin dal XVI secolo si tradusse, e s’ imitò molte volte; di tal maniera che la Sofonisba oggi serbasi nel teatro tragico come un tesoro comune di sicuro evento al pari delle Ifigenie, delle Fedre, delle Medee85. La tradusse in prosa con i cori in versi Mellin de Saint Gelais, ed in versi Claudio Mermet nel medesimo secolo in cui si compose: Monchretien, Montreux, Mairet e Pietro Cornelio la tradussero e imitarono nel XVII: l’ha tradotta Millet, ed imitata lo stesso Voltaire nel XVIII (Nota X). Adunque la prima istruzione che ebbero i Francesi di un dramma in cui venissero osservate le regole delle tre unità, debbono riconoscerla dalla Sofonisba del Trissino. Si vedrà in appresso quante altre produzioni sceniche Italiane si tradussero o s’imitarono in Francia. Per la qual cosa non si capisce perchè il famoso avvocato Linguet 86 abbia avanzato che i Francesi, quanto al teatro, non hanno dall’Italia ricevuto quasi verun favore, e che la prima idea delle bellezze che essi hanno profuse sul teatro e ne’ loro scritti, l’abbiano presa da’ buoni autori Castigliani. Accordiamogli di buon grado quel ch’egli aggiugne, cioè che il Dante, l’Ariosto e il Tasso stesso, non hanno fatti allievi alcuni tra’ Francesi (senza andarne rintracciando il motivo, ch’egli stesso per avventura con tanti altri suoi dotti compatriotti troverà poco glorioso per la testa e per la lingua Francese); e che Lope de Vega, il Castro e ’l Calderon si sieno più facilmente prestati alla loro imitazione. Ma quanto alla prima idea delle bellezze teatrali, la storia contraddice all’asserzione del Linguet che brucia que’ grani d’incenso ad onore degli Spagnuoli. Piacemi ch’egli a nome de’ Francesi si mostri grato a quella colta e ingegnosa nazione, e che ripeta quel che altre volte ed assai prima di lui osservarono i Francesi stessi, gli Spagnuoli e gl’ Italiani; ma è giusto che per confessare un debito voglia negarne un altro?

Giovanni Rucellai autore del vaghissimo poemetto delle Api, cugino germano del pontefice Leone X, nato in Firenze nel 1475 e morto verso il 1526, corse poco dopo del Trissino il tragico aringo colla Rosmunda che fece recitare nel suo giardino in Firenze alla presenza di quel pontefice nel 1516, e che si stampò poi in Siena nel 1525. In essa prese ad imitare l’Ecuba di Euripide; e par che avesse voluto renderne lo stile più magnifico della Sofonisba. Sulle tracce poi dell’Ifigenia in Tauri del medesimo tragico Greco compose l’altra sua tragedia intitolata Oreste, dalla quale (se allora si fosse pubblicata) sarebbe rimasta oscurata la Rosmunda. Ma l’Oreste non si diede alla luce se non dopo due secoli per opera del Marchese Maffei, che la fece imprimere nel 1723 sull’esemplare posseduto prima dal Magliabecchi e poi dal Cavaliere Anton Francesco Marmi87. I caratteri vi sono degnamente sostenuti e le passioni dipinte con verità. L’autore non perde veruna delle interessanti situazioni del greco originale, e tocca collo stile la nota del sublime assai più del Trissino. Dall’altro canto mostra talvolta qualche affettazione nell’ elevarsi, corre dietro alle forme troppo poetiche e alle parole troppo latine, come osservò anche il Conte Pietro da Calepio, e non va esente dal cicaleccio; il che si vede sin dalla prima scena nella narrazione che fa Oreste delle proprie avventure incominciando dalla guerra di Troja. V’è di piu; egli le narra all’ amico Pilade cui doveano essere così note come a se stesso; egli le narra ancora intempestivamente nel metter piede nella terra de’ barbari. Ma per tali nei si priveranno i leggitori del piacere che recano tanti bei passi pieni di eleganza e vaghezza sparsi nelle tragedie del Rucellai? Uno storico della letteratura lascerà seppellirgli nell’ obblio, non vedendo nell’Oreste che languidezza ed imitazione del greco? Quanto a me esorto la gioventù ad osservare con qual felicità quest’illustre autore dipinga il prospetto del tempio e le teste e i busti ed il monte di ossa degli uccisi che vi biancheggia; la bellezza del racconto che fa Ifigenia della propria sventura quando fu in procinto di esser sacrificata in Aulide; quello del coro della pugna de’ due Greci co’ pastori; quello d’Oreste della morte di Agamennone. Molti squarci della generosa patetica contesa de’ due amici meriterebbero d’ esser trascritti; ma ci contenteremo delle seguenti parole di Pilade:

E pensi or ch’io ti lasci? e puoi pensarlo?
Dove ti lascio! donde son partito!
Chi lascio? a cui voio? che porto? ahi lasso!
Porto la morte del suo re; a cui?
Al miser popol di Micene e d’Argo.
Porto la morte del mio Oreste; a cui?
A Strofio; e quella del fratello; a cui?
A le sorelle triste e sventurate;
Le quai trepide or forse e spaventose
Del tuo ritorno stanno inginocchioni,
E raddoppian le mani e i voti al cielo.
E queste fian le già sudate palme,
Gli aspettati trionfi e la vittoria
Del simulacro che portiamo in Argo?
Con che volto potrò veder mio padre?
Con che occhi guardar mai potrò Elettra
Sorella a te, a me dolce consorte,
Senza te, senza me, senza il cuor mio?

E ciò fu poco quando l’Europa tutta più non conosceva la drammatica? quando non si sapeva la maniera di farla risorgere? poco meno di due secoli prima di Cornelio e Racine?

Dietro la scorta de’ Greci corifei e coll’ esempio del Trissino e del Rucellai seguirono pure le insegne di Melpomene molti altri celebri letterati. Ludovico Martelli illustre poeta Fiorentino morto in Salerno nell’acerba età di anni ventotto, secondo il Crescimbeni nel 1533, e secondo il Rolli ed altri con più probabilità mancato in Napoli nel 1527, parlandosi di lui come già morto in una lettera di Claudio Tolomei scritta a’ sette di aprile del 153188, compose una tragedia impressa indi colle altre sue opere in Firenze nel 1548, ed oggi registrata nel tomo III del Teatro Italiano antico stampato in Livorno sotto la data di Londra nel 1787, nella quale si allontanò dagli argomenti greci, seguendo in ciò piuttosto il Trissino che il Rucellai. Egli trasse dalla storia de’ re di Roma l’eccesso della spietata Tullia per esporlo sulle scene. La purezza ed eleganza dello stile non farà tollerare il carattere estremamente scellerato del protagonista. Tullia non solo calpesta le più sacre leggi della natura ed aspira al regno paterno per immoderata ambizione, ma, peggiorandosi nella tragedia la storia stessa, ella spiega la più detestabile avversione contro de’ genitori rinfacciando loro de’ misfatti, ed eccita contro di se l’indignazione di chi legge. Il coro continuo poi che vi si adopra alla greca, disdicevole manifestamente ad un’ azione Romana, obbliga il poeta ad incoerenze, com’ è quella che L. Tarquinio gelosissimo del proprio secreto si scopra alla moglie alla presenza d’un coro di donne che sono seco89. Per simili riflessioni a noi sembra questa Tullia una delle nostre tragedie più difettose, benchè il Gravina l’abbia noverata tralle migliori del cinquecento.

Seguirono i greci esemplari piuttosto traducendo che imitando l’ Alamanni, l’Anguillara e ’l Giustiniano. Luigi Alamanni celebre autore dell’elegantissimo poema della Coltivazione recò in Italiano ritenendone il titolo l’Antigone di Sofocle, che si stampò in Venezia nel 1532. Per testimonio degl’ intelligenti non cede in eleganza alle tragedie del Trissino e del Rucellai, e le vince per gravità di stile. Giraldi Cintio fa onorata menzione dell’Antigone Italiana, noverando l’autore tra’ benemeriti della toscana lingua Bembo, Trissino, Molza, Tolomei90:

E quel che ’nsino oltre le rigid’ alpi
Da Tebe in toscano abito tradusse
La pietosa soror di Polinice;
I’ dico l’Alamanni.

Il Fontanini la colloca tralle migliori tragedie Italiane (Nota XI). L’Edipo, la più bella tragedia di Sofocle, fu tradotto prima da Andrea Anguillara indi da Orsatto Giustiniano. Dell’Edipo dell’Anguillara impresso e rappresentato in Padova nel 1556 parla in una lettera citata dal Tiraboschi Girolamo Negri, ma con disprezzo dando all’Anguillara il nome di poeta plebeo. Giason di Nores nella sua Poetica riprende ancora come viziosi gli episodj di quest’Edipo dell’Anguillara. Non per tanto sembra che i contemporanei avessero vendicata l’opera e l’autore, essendosene con somma pompa ed applauso ripetuta la rappresentazione nel 1565 in Vicenza in un teatro di legno costruito espressamente nel palagio della Ragione dal celebre Palladio. Noi stimiamo col Conte di Calepio assai più difettoso l’Edipo dell’Anguillara che de’ tre pur difettosi Edipi francesi di Cornelio, di Voltaire e del P. Folard; e col Nores troviamo riprensibile l’ episodio della discordia de’ figliuoli di Edipo, per cui si rende la favola doppia e si commette un anacronismo totalmente inutile. Assai migliore fu la traduzione fedele che fece di tal tragedia il Veneziano Giustiniano. Per la nobiltà e l’eleganza dello stile essa gareggia colle più celebri tragedie di quel tempo. Si rappresentò nel 1585 con sontuosissimo apparato nel famoso Teatro Olimpico di Vicenza opera del prelodato Palladio, che per la morte di questo insigne architetto seguita nel 1586 si terminò dallo Scamozzi. La parte di Edipo che si accieca, fu sostenuta egregiamente dal famoso Luigi Groto detto il Cieco d’Adria tale divenuto otto giorni dopo nato, il quale a quest’oggetto recossi in Vicenza nel carnovale del 1585, e morì poscia in Venezia nella fine dell’anno stesso. Questo maraviglioso ingegno scrisse anch’egli due tragedie la Dalida e l’Adriana; ma esse colle altre di lui produzioni drammatiche non sono le migliori di quel tempo, specialmente per lo stile talvolta troppo ricercato e più proprio di certi anni del seguente secolo che del cinquecento.

Sperone Speroni degli Alvarotti dottissimo Padovano e l’oratore più eloquente della sua età, morto d’anni ottantotto nel 1588, compose la Canace tragedia pubblicata la prima volta in Venezia nel 1546, che dovea rappresentarsi in Padova l’anno 1542 dagli Accademici Infiammati, de’ quali era principe; ma ne fu interrotto il disegno per la morte seguita di Angelo Beolco detto il Ruzzante che dovea recitarvi. L’autore sostenne per essa una gran contesa con varj letterati; e sebbene si fosse gagliardamente difeso, volle riformarla e toglierne fralle altre cose le rime e i versi di cinque sillabe, ed all’ombra da prima introdotta nel prologo sostituire il personaggio di Venere. Vide questo gran letterato che il veleno de’ tragici componimenti de’ suoi contemporanei consisteva nella noja e languidezza dello stile, e pensò rimediarvi ornando ed infiorando la sua Canace con certe studiate espressioni che nuocono alla gravità tragica. E pure queste medesime servirono di modello agli autori dell’Aminta e del Pastor fido, e parvero più convenienti alla tenerezza di quelle celebri pastorali. Ma le forti e perturbate passioni della Canace esigevano stile più grave e la favella della natura più che dell’arte manifesta. Questo, e l’introduzione di molti personaggi subalterni dipinti scioperatamente, e non poche scene vuote ed oziose e slogate, ed i racconti di cose che meglio avrebbero animata la favola poste alla vista ed in azione, e ’l non essersi l’autore approfittato de’ rimorsi che doveano insorgere in Canace e Macareo ne’ loro mortali pericoli; questi, dico, mi sembrano i veri difetti sostanziali della Canace; e pur questi difetti appunto, per quanto mi ricorda, sfuggirono a’ censori contemporanei che in essa criticarono le rime, i versi corti e cotali altre pedanterie. Ma la dipintura nell’atto V di Canace sul letto funesto col bambino allato e col pugnale alla mano dono di Eolo suo padre, e le di lei parole nell’ atto di trafiggersi sperando di sopravvivere nella memoria di Macareo, e quelle indirizzate al figliuolino, hanno una verità, un patetico, un interesse sì vivo, che penetra ne’ cuori e potentemente commuove e perturba.

Giambatista Giraldi Cintio nato in Ferrara nel 1504 e morto nel 1573 trasse da’ suoi medesimi Ecatommiti più argomenti per la scena tragica, e ci lasciò nove tragedie, l’Orbecche, l’Altile, Didone, Antivalomeni, Cleopatra, Arenopia, Eufimia, Selene, Epitia. La prima che scrisse, a quel che egli dice, in meno di due mesi, e che si stima la migliore, si rappresentò alla presenza del Duca Ercole II nel 1541 in casa dell’autore, avendone apparecchiata la magnifica scena Girolamo Maria Contugo suo amico il quale l’avea stimolato a comporla. Fu rappresentata ancora alla presenza de’ Cardinali Ravenna e Salviati; ma sembra che alla prima rappresentazione, e non a questa, si fosse trovato il prelodato Luigi Alamanni, facendo il Giraldi dire alla Tragedia,

I’ dico l’Alamanni, che mi vide,
Per mio raro destino, uscire in scena.

Sebastiano Clarignano di Montefalco, il quale, dice il Giraldi nella dedicatoria, si puote sicuramente dire il Roscio e l’Esopo de’ nostri tempi, ne fu uno de’ principali attori. Giulio Ponzio Ponzoni vi rappresentò la parte di Oronte, e un certo giovane chiamato Flaminio quella di Orbecche. Dovea questo medesimo Flaminio rappresentare anche nell’Altile da recitarsi per ordine del Duca nell’aprile del 1543 alla venuta di Paolo III; ma nel giorno destinato alla rappresentazione quest’infelice Flaminio rimase disgraziata mente ucciso. L’ Orbecche s’impresse in Venezia nel 1543, nel 1551, e poi con tutte le altre nel 1583. Come nella Sofonisba la compassione è posta nel suo maggior lume, nell’Orbecche si eccita il terrore co’ più vivi sanguinosi trasporti della crudeltà. Sulmone re di Persia gareggia colle atrocità degli Atrei, ed Orbecche che svena il padre, va del pari coll’ Elettre matricide. Un matrimonio occulto contratto da questa sua figliuola con un valoroso avventuriere di oscuri natali aguzza la spietatezza naturale di Sulmone, e sotto la fede avuto in sua balia il genero e i due suoi figliuolini, di propria mano gli trucida, e ne presenta indi le mani e le teste alla figliuola, la quale tratta da un eccesso di dolore e di disperazione trafigge il padre e se stessa. Ha servito di modello a questa tragedia il Tieste di Seneca. Nemesi colle Furie, e l’Ombra di Selina madre di Orbecche formano l’atto I, come nel Tieste l’Ombra di Tantalo e Megera. L’atto IV nel quale Atreo ammazza i nipoti, e delle loro membra prepara al fratello le vivande scellerate, ha prestato molti colori alla terribile carnificina del quarto atto dell’Orbecche. Dalla descrizione del bosco secreto nella reggia di Atreo, Arcana in imo regia recessu patet ec., è imitata quella del luogo ove segue la strage di Oronte e de’ figliuoli:

Giace nel fondo di quest’alta torre
In parte si solinga e si riposta
Che non vi giunge mai raggio di sole,
Un luogo destinato a’ sacrifici,
Che soglion farsi da’ re nostri all’ombre,
A Proserpina irata, al fier Plutone,
Ove non pur la tenebrosa notte,
Ma il più orribile orrore ha la sua sede.

Il Giraldi nonpertanto si è guardato dall’affettazione di certi squarci della tragedia latina e da qualche ornamento ridondante. E’ divisa l’Orbecche in atti e scene e scritta in versi sciolti, se non che, come in quella del Trissino, havvi più di un passo rimato con troppo studiato accordamento. Il Calepio conta quasi tutte le tragedie del Giraldi e specialmente l’Orbecche fralle Italiane che conseguiscono l’ottimo fine della tragedia di purgar con piacevolezza lo sregolamento delle passioni per mezzo della compassione o del terrore. Ed in fatti a suo tempo si accolse l’Orbecche con molto applauso, e destò in tutti cotal compassione che niuno degli ascoltatori potè contenere il pianto. Oggi stimo che farebbe lo stesso effetto in una città colta che ha assaporato il piacer delle lagrime del teatro, purchè se ne troncassero acconciamente alcune ciance della nutrice, l’espressioni di Oronte appassionato nell’atto II che si trattiene per molti versi su i casi del nocchiero, la maggior parte della lunga scena seconda dell’atto III, quando Malecche esorta Sulmone alla pietà, e i lamenti del coro delle donne dopo essersi Orbecche trafitta.

Pietro Aretino, la cui penna in un tempo non di tenebre ma di luce si rendette, non so perchè, fin anche a’ più gran principi formidabile, uomo ad onta della sua mercenaria maldicenza, di qualche talento, sì, ma di volgare erudizione, di poca dottrina e di niuno onore, contribuì non poco alle glorie della tragedia Italiana. Fu egli il primo a porre sulla scena l’avventura degli Orazii (che nè anche è argomento greco); ed ebbe la sorte di coloro che tentando un mare sconosciuto hanno il vanto di scoprire e vincere, senza arricchirsi e trionfare. Egli scrisse l’ Orazia impressa in Venezia dal Giolito nel 1549, e dedicata al pontefice Paolo III sin dall’anno 1546. La Fama vi fa il prologo diffondendosi nelle lodi del pontefice, de’ Farnesi e di altri principi Italiani, ed anche di Carlo V; ed è questo il primo esempio de’ prologhi che servirono di poi a onorare i principi; ed il Calepio osserva a ragione che Pietro Cornelio s’inganna nel dire che sieno invenzione del suo secolo. Un coro di virtù in ciascun atto per tramezzo vi recita alcuni versi. Si espone nell’atto I la pugna stabilita dagli Orazj e Curiazj per decidere il fato di Alba e di Roma; e Celia Orazia moglie di un Curiazio è oppressa dall’immagine di una pugna che debbe in ogni evento riuscire per lei funesta. Nel II Tazio venuto dal campo racconta a Publio Orazio l’esito della pugna, nella quale Roma ha trionfato, ed egli ha perduti due figli, dal qual racconto è abbattuta la misera Orazia colla notizia della morte dello sposo. Arriva nel III un servo che appende al tempio di Minerva le spoglie degli estinti Curiazj. Celia in esse riconosce la veste del marito traforata e sanguinosa, e trasportata dal dolore inveisce contro il fratello uccisore, indi vedendolo venire circondato dal popolo e acclamato, gli si presenta colla chioma scarmigliata e con tutti i segni del più vivo dolore. Orazio indignato la trafigge. Nell’atto IV Tullo destina i Duumviri per giudicare Orazio, i quali lo condannano alla morte, contraddicendo invano il di lui afflitto padre che appella al popolo. Nel V il popolo libera il reo dalla pena di morte, ma vuole che soggiaccia all’infamia del giogo. Sdegna il magnanimo di sottoporvisi: Publio prega: il popolo è inesorabile: si ascolta una voce in aria che comanda ad Orazio di ubbidire. La regolarità di questa tragedia è manifesta; gli affetti sono ben maneggiati; i caratteri dipinti con uguaglianza, verità e decenza; il fine tragico di commuovere colla compassione e col timore egregiamente conseguito. Increscerà in essa in primo luogo il titolo di Orazia che dimostra esser essa il principal personaggio, e che morendo prima di terminar l’ atto III, abbandona ad un altro l’interesse, che era tutto per lei. Orazio le succede; e l’interesse in tutta l’azione trovasi diviso tra due personaggi. Non si unirebbe in un solo se il titolo di essa fosse l’ Orazio? Parranno poi piuttosto foglie che ingombrano che fregi che abbelliscono l’azione alcune cose episodiche sparse quà e là, di che può servire di esempio la dipintura di un cavallo a cui si rassomiglia la gioventù, distesa in dodici versi, che incomincia

La gioventù furor de la natura ec.

Si troverà poi soverchio ardita e viziosa qualche espressione, come questa del feciale nell’atto I,

Fattor degli astri larghi e degli avari,
Che nell’empiree logge affiggi il trono
Del volubil collegio de’ pianeti;

e quest’altra del II,

Gli abbracciamenti e i baci sono i frutti
Che le viscere, il cor, gli spirti e l’ alma
Colgono con le mani affettuose
Negli orti de la lor benivolenza;

e questo del medesimo atto,

Orazio vincitor per la mia lingua
Con la bocca del cor ti bacia in fronte,

e questa del V,

. . . . . . . . . . e però vuoi
Piuttosto al collo del tuo corpo un laccio,
Che la corda a la gola del tuo nome.

Ma in generale lo stile è puro, sobrio, e più d’una fiata grave e vigoroso, e sparso di utili massime or sulla legislazione or sul governo or sulla religione. Dice il sacerdote:

Il valore de l’asta e de la spada
E il timore dei riti e de le pene
Non tiene in alto le cittadi magne,
Come la riverenza e l’osservanza
De la religione e degl’ iddii.

Dice Publio:

Nè cupidigia d’uom, nè ardir di stella,
Può ciglio alzar dove pon mente Iddio.

Sorda e cieca è la legge, dicono i Duumviri nell’atto IV; e bene, dice Publio, si punisca il mio figliuolo,

Se la sorella ha de la vita spenta;

io stesso, se ciò fusse, il punirei; e i Duumviri ripigliano,

E che ha fatto il furioso dunque?

E Publio,

Estinte quelle lagrime insolenti
Che aveano invidia a la Romana gloria,

risposta sublime in bocca d’un padre. Quanto alla passione di Celia da per tutto ben colorita presenta spesso espressioni giuste, patetiche e naturali. Perdendosi l’impresa, ella dice, ognuno in Roma altro non perde che la libertade,

Ma io, io, se Roma vince, perdo
Il marito dolcissimo e i cognati;
E vincendo Alba, qual vincer potria,
Oltre il dominio de la libertade,
De i fratelli privata mi rimango.

Soprattutto è da vedersi la di lei dipintura dopo udita la morte dello sposo e alla vista delle di lui spoglie sanguinose, e quando si presenta al fratello perduta, semiviva, la chioma sparsa ed il volto bagnato di lagrime. Un cuore veramente Romano trasparisce in quanto fa e dice Publio; ma quando è in procinto di perdere il valoroso Orazio, l’unico figliuolo che gli rimane, allora fa vedere tutto il padre, implorando la pietà del popolo. Lo spirito d’ingenuità e di gratitudine che mosse prima il Cornelio, indi il Linguet a confessare il debito contratto con Guillèn de Castro pel Cid, non avrebbe dovuto stimolarli ugualmente a riconoscere nell’Orazia dell’Aretino gli Orazj del padre del teatro Francese, componimento di gran lunga superiore al Cid? Non l’avea l’Italiano preceduto d’un secolo intero nell’arricchire il teatro, e non infelicemente, di sì bell’ argomento non mai prima tentato nè dagli antichi nè da’ moderni? Vedesi veramente negli Orazj più artifizio nella condotta, e più forza; delicatezza e vivacità ne’ caratteri e nelle passioni; ma ben si scorge ancora nell’Orazia più giudizio nell’aver sempre l’ occhio allo scopo principale della tragedia di commuovere sino al fine pel timore e per la compassione; e si comprende che se il Cornelio l’ avesse anche in ciò imitato, avrebbe fatto corrispondere gli ultimi atti della sua tragedia che riescono freddi ed inutili, ai primi pieni di calore, d’interesse e di passione91.

Lodovico Dolce morto d’anni sessanta in Venezia nel 1568 vi pubblicò più d’una volta varie tragedie tratte da’ Greci, e da’ Latini. Nel 1566 se ne fece un’ edizione che conteneva Tieste, Giocasta, Didone, Medea, Ifigenia, Ecuba. La sua Marianna si diede alla luce nel 1565, e fu rappresentata con indicibile applauso in quella città nel palazzo di Sebastiano Erizzo a uno scelto uditorio di più di trecento gentiluomini; e quando volle ripetersi in Ferrara nel palazzo del Duca, tal fu il concorso, che non potè recitarsi. Questa frequenza delle rappresentazioni tragiche, questi applausi reiterati, quest’avidità di ascoltarle, indicano per avventura la mancanza di gusto per la tragedia imputata agl’ Italiani? Indicano ancora la languidezza e la noja perpetua a cagione delle greche imitazioni rimproverata ai componimenti tragici del cinquecento? Or chi non ignora la storia teatrale potrà mai senza infastidirsene leggere gli arzigogoli de’ sedicenti filosofi e critici declamatori d’oggidì, i quali sostengono sempre massime singolari contraddette dal fatto e dall’evidenza?

Assai di buono troveremmo esaminando la Progne di Girolamo Parabosco pubblicata nel 1548, la Cleopatra, la Scilla, e la Romilda di Cesare de’ Cesari uscite alla luce nel 1550 e 1551, la Cleopatra del Napoletano Alessandro Spinello stampata in Venezia nel 1550, la Medea del Galladei impressa nel 1558, l’Altea di Niccolò Carbone comparsa in Napoli nel 1559, la Fedra di Francesco Bozza uscita nel 1578 oscurata per altro di gran lunga da quella del Racine nel secolo seguente, e l’ Atamante di Girolamo Zoppio data al pubblico nel 1579, di cui nella 50 del IV libro delle sue Epistole fa un bell’ elogio il Mureto.

Potrebbe anche pascere alquanto la curiosità de’ leggitori la tragedia di Angelo Leonico intitolata il Soldato impressa in Venezia per Comin del Trino nel 1550 scritta in versi sciolti. L’azione passa tra personaggi particolari; privati ne sono gl’ interessi, ed in quel tempo non parvero degni della tragedia reale. Ne facciamo menzione perchè in essa può ravvisarsi il primo esempio di una tragedia cittadina, che i nostri scrittori nè seguirono nè pregiarono, e che poscia gl’ Inglesi, i Francesi e i Tedeschi hanno tanto nel nostro secolo coltivata, e che ha trovato un apologista nel Signor Ab. Andres 92.

Quattro tragedie pubblicò Antonio Cavallerino Modanese nel 1582 e 1583, delle quali parlano l’Allacci ed il Zeno nelle Annotazioni all’Eloquenza Italiana. Esse sono Telefonte, Rosimonda, Ino, ed il Conte di Modena, la quale non contiene argomento greco ma nazionale. Si crede che ne componesse sino a venti, tralle quali una del caso di Meleagro, la quale (dice il Manfredi nelle sue lettere) mi diceste che sarebbe l’idea della tragedia Toscana 93. Sappiamo dal Cav. Tiraboschi che il Cavallerino tradusse anche il Cristo paziente attribuito al Nazianzeno. Il di lui Telefonte ha il pregio della scelta del più bel soggetto dell’antichità, cioè del Cresfonte di Euripide che il tempo ci ha invidiato. Il Cavallerino ha la gloria di averlo prima di ogni altro recato sulle scene moderne.

L’immortale Torquato Tasso colla tragedia del Torrismondo si elevò sopra la maggior parte de’ contemporanei, ed a pochissimi di quel secolo lasciò la gloria di appressarglisi. Nel 1587 s’impresse in Bergamo, e dall’autore si dedicò a D. Vincenzo Gonzaga Duca di Mantova e di Monferrato. Ma alquanti anni prima comparve un abbozzo di questa tragedia nella II Parte delle Rime e Prose del Tasso raccolte per Aldo il giovane nel 1582. Nell’edizione delle opere di Torquato fatte in Venezia da Stefano Monti nel 1735 quest’abbozzo vien chiamato tragedia non finita, e contiene un atto primo senza coro di quattro scene, e due altre di un secondo atto, le quali tutte si distribuiscono poi nel primo e nel secondo della tragedia compiuta. I passi più belli della non finita si sono ritenuti nella perfezzionata; alcuni di essi si veggono in questa migliorati; ma qualche volta trovansi i concetti espressi nell’imperfetta con maggior naturalezza. Eccone un esempio. Torrismondo nella perfetta oppresso da rimorsi, nel narrare al consigliere i suoi passati casi, e l’essersi imbarcato con Alvida per ritornare ad Arana e l’aver per una tempesta preso terra in un seno sicuro tra’ curvi fianchi di un monte, descrive minutamente con mille poetiche immagini questa tempesta. Era però più proprio del genere drammatico e dello stato di Torrismondo il sacrificare al vero quella copiosa descrizione, come prima avea fatto. Galealto nella non finita l’avea con giudizio appena accennata:

Quando ecco la fortuna e il cielo avverso
Con amor congiurati, un fiero turbo
Mosser repente, il qual grandine e pioggia
Portando, e cieche tenebre sol miste
D’incerta luce e di baleni orrendi,
Volser sossopra l’onde, e per l’immenso
Grembo del mar le navi mie disperse,
E quella ov’era la donzella et io
Scevra di tutte l’altre a terra spinse ecc.

Torrismondo è un immagine di Edipo. Caduto in un errore per debolezza, trovasi per dissavventura involto in un delitto. Offende la fede data all’amico Germondo nell’effettuare con Alvida le nozze che avea contratte solo in apparenza; ma conosciutala poscia per sua sorella, si giudica contaminato da una scelleraggine, cagiona la morte di Alvida col narrargliele, e si ammazza. L’errore che dà motivo a tanti disastri (ottimamente affermò il dottissimo Marchese Maffei nel II tomo del Teatro Italiano) non potendo essere più umano, nè più compassionabile, non saprebbe incontrar meglio l’idea dell’ arte. Anche il Conte di Calepio ottimo giudice in tali materie ravvisa nel Torrismondo un carattere compiutamente tragico e degno della perfetta tragedia che va felicemente al vero suo fine di purgar con diletto le passioni per mezzo della compassione e del terrore.

Non per tanto il gesuita Rapin benchè pieno di erudizione e di dottrina, o poco giusto o poco provveduto di certa sensibilità necessaria a giudicar dritto de’ componimenti teatrali, non fu mosso nè dalla tragica maestà dello stile, nè dal patetico che regna nel Torrismondo. Egli che tralle altre pregiudicate sue opinioni pose in un fascio i tragici Italiani e gli Spagnuoli, asserì che il Tasso ed il Trissino aveano la testa stravolta da’ romanzi e che perciò non poterono arrivare al carattere di Sofocle. Non parliamo ora del Trissino, nella cui tragedia si scerne subito il torto manifesto di quel gesuita, ed appuntino l’opposto di ciò che egli afferma, cioè in vece di una testa guasta da’ romanzi, un genio pieno di giudizio e di sobrietà e un amore forse anche troppo eccessivo per la greca semplicità e ben lontano da una intemperanza romanzesca. Più plausibile e meno incongrua all’apparenza potrebbe parere la di lui asserzione riguardo al Tasso, il quale ideò i suoi personaggi su i modelli della cavalleria de’ bassi tempi. Ma Rapin dovea dimostrare prima di ogni altra cosa, che ne’ tempi della cavalleria non potevano regnare nel cuore umano passioni grandi atte a destar terrore o compassione. Da’ più severi critici oltramontani nè prima nè dopo di Rapin non si è mai pensato a sostenere contro i nostri poeti romanzieri che i costumi della cavalleria errante fossero improprj per le gran passioni. Solo si è detto che hanno essi abusato del maraviglioso con tanti voli d’ ippogrifi, con Atlanti e Melisse, con eroi fatati, avventure incredibili ecc. Ora niuno di tali eccessi avrebbe potuto il Rapin riprendere nel Torrismondo, e si rivolse a riprovare i costumi stessi di que’ tempi come incompatibili col carattere tragico. Egli che tanto affettava d’insistere sull’osservanza delle regole di Aristotile, in quale aforismo di quel grande osservatore avea appreso che il carattere tragico consista nella modificazione de’ costumi e non già nella qualità delle passioni? di più che le gran passioni umane appartengano più ad un tempo che ad un altro? E quando pure ciò fosse, per qual capriccio volle negarle a’ tempi del governo feudale e della cavalleria notabili appunto pel vigoroso fermento delle perturbazioni più robuste? Io non so come non vedesse egli quel che tanti altri, anche suoi compatriotti, osservarono, cioè che l’epoca de’ duelli, delle giostre, de’ beni della lancia è appunto un ritratto, appena da piccioli lineamenti alterato, de’ primi tempi eroici degli Ercoli, de’ Tesei e degli Achilli puntigliosi. Che se, in vece di un Edipo che per timore di un oracolo si esiglia volontariamente dalla patria, e fugge invano le minacciate nozze incestuose, s’introduce un principe Goto che per servire all’amicizia si presta a sposare apparentemente una donzella, trascorre per fragilità ad amarla, e la riconosce in fine per sua sorella per un’ avventura conforme a quella dell’Edipo; di grazia da tali picciole differenze quale ostacolo o pregiudizio ridonda alla sostanza dell’azione e degli affetti, e alla gravità tragica? La censura del Rapin appoggia in falso.

L’altra cosa che non seppe veder questo critico Francese, è che i costumi dell’età in cui s’immagina che abbia dominato nella Gozia questo Torrismondo, riescono per gli moderni più verisimili degli antichi. E forse non se ne trovano le immagini nelle favolose storie di Turpino, e nel romanzo della Tavola Rotonda del re Artù, di cui parla il Camden in Britannia, e in altri simili, i quali (al dire dell’erudito benchè infelicissimo verseggiatore Chapelain) sono storie che rappresentano i costumi Europei di que’ tempi? Ma a che mentovare i romanzi, quando la storia di quella bassa età ci è quasi sotto gli occhi? Non erano generali in Alemagna i torneamenti, il primo de’ quali, secondo Bastiano Munster 94, si tenne nel 938? Allora che Rapin andava criticando l’Ariosto, il Trissino ed il Tasso pe’ costumi della cavalleria, non si sovvenne del combattimento di Guiglielmo duca di Normandia assediato nel 1079 nel castello di Gerberoi? Non erano e in Inghilterra e in Francia, come altrove, generali i costumi della cavalleria nel secolo XIII ancora? Non si ricordò Rapin della giostra data nella Borgogna nel 1272, nella quale dal principe di Châlons fu disfidato Eduardo I che dalla Sicilia tornava in Inghilterra? Non pensò al cartello di disfida mandato al re Filippo di Valois da Eduardo III nel secolo XIV? Non al combattimento del medesimo re col cavaliere Ribaumont nell’assedio di Calais? Non all’eroine militari che v’ intervennero celebrate dallo storico e filosofo M. Hume, la contessa di Montfort, quella di Blois e la regina d’Inghilterra che marciò in Iscozia alla testa di un esercito contra il re Davide Brus? Non al combattimento de’ trenta Brettoni con trenta Inglesi, nel quale Beaumanoir gridava, or si vedrà chi di noi abbia più belle dame? Non all’ordine della Giarrettiera instituito in questo tempo in occasione degli amori del nominato Eduardo III per la contessa di Salisbury? Questi medesimi torneamenti, queste bizzarrie e disfide non continuarono e divennero frequentissime, specialmente in Francia, nel secolo XV? Non fu allora che con buon senno disse un inviato della Porta che assisteva ad una giostra, per un vero combattimento è poco, e per uno scherzo è troppo? Potè almeno obbliar del tutto il Rapin il famoso combattimento de’ tredici Italiani con tredici Francesi che rimasero vinti ed uccisi con tanta gloria del valore Italiano? Potè dimenticare le speciose disfide di Carlo V e di Francesco I? il duello del barone di Jarnac col favorito di Errico II la Chateigneraie che vi fu ferito a morte? in fine la disgrazia del medesimo Errico II ammazzato in una giostra dal conte di Mongommeri condannato poscia a morire sotto altro pretesto dalla vedova regina Caterina de’ Medici nel 1574? Or tutti questi combattimenti e queste disfide non seguirono nel secolo XVI, cioè in quel tempo in cui fu composto il Torrismondo? Ora se la tragedia di Torquato che con tanta energia dipigne le passioni generali e comuni a tutti i tempi, quanto ai costumi ritrae al vivo quelli che regnavano in Europa e che più si avvicinavano alle idee famigliari a quelli che viveano nel tempo stesso dell’autore, chi non vede quanto ella ne divenga più pregevole sopra le dipinture tutte greche, perchè più credibile e per conseguenza più interessante? Se dunque havvi de’ nei nella tragedia del Torrismondo, essi certamente non provengono da’ costumi della cavalleria additati dal Rapin come contrarii al carattere tragico di Sofocle.

Nel nostro secolo, oltre ad altri scrittorelli gregarii95, anche Egidio Saverio La Sante non meno pregiudicato del suo confratello Rapin, benchè più prudente, senza compromettersi con entrare a render ragione del proprio giudizio contro del Torrismondo, si lusingò, in una sua orazione recitata nel gennajo dell’anno 1728 in Parigi96, di poterne oscurar la gloria con un suo magistrale, quid habet Torrismundus? e che pregio ha mai cotesto Torrismondo. Che pregio egli dice? Ecco quello che a me sembra che abbia di eccellente. Un carattere tragico scelto con sommo giudizio ottimo per conseguire il fine della tragedia: una fina dipintura delle passioni: un piano regolare: un movimento nell’azione progressivamente accelerato: una versificazione armoniosa: una nobile, elegante e maestosa gravità di stile: un patetico vivace che empie, interessa, intenerisce, commuove ed eccita il bel piacere delle lagrime. Sono forse moltissime le tragedie più moderne che possono vantarsi d’altrettanto? Ne presentiamo qualche squarcio che ci sembra degno degli sguardi di un leggitore imparziale e sensibile. Veggasi in prima l’eleganza, l’ energia e la verità che campeggia nella descrizione delle notturne inquietudini dell’innamorata Alvida nell’atto I:

. . . . . . Oimè! giammai non chiudo
Queste luci già stanche in breve sonno,
Che a me forme d’orrore e di spavento
Il sogno non presenti: ed or mi sembra
Che dal fianco mi sia rapito a forza
Il caro sposo, e senza lui solinga
Gir per via lunga e tenebrosa errando,
Or le mura stillar, sudar i marmi
Miro, o credo mirar di nero sangue,
Or da le tombe antiche, ove sepolte
L’alte regine far di questo regno,
Uscir gran simulacro e gran rimbonbo
Quasi di un gran gigante . . . . . .
E mi scacci dal letto, e mi dimostri,
Perchè io vi fugga da sanguigna sferza,
Un’ orrida spelonca, e dietro il varco
Poscia mi chiuda.

Notisi con qual tragica gravità ella esprima la delicatezza e sensibilità che avviva tutti i di lei concetti:

Madre, io pur vel dirò, benchè vergogna
Affreni la mia lingua, e risospinga
Le mie parole in dietro: a lui sovente
Prendo la destra, e m’avvicino al flanco;
Ei trema, e tinge di pallore il volto,
Che sembra (onde mi turba e mi sgomenta)
Pallidezza di morte, e non di amore;
O in altra parte il volge, o il china a terra
Turbato e fosco; e se talor mi parla,
Parla in voci tremanti, e co’ sospiri
Le parole interrompe.

Poichè per lo scoprimento di essere Alvida sua sorella si avvisa il re Torrismondo di proporle le nozze di Germondo, odasi in qual guisa ella ne frema e si creda schernita:

Mentre il crudel così mi scaccia e parte,
Prende gioco di me, marito vostro,
Mi dice, è il buon Germondo, ed io fratello:
Et adornando va menzogne e fole
D’un ratto antico, e d’un’ antica fraude;
E mi figura e finge un bosco, un antro
Di ninfe incantatrici, e ’l falso inganno
Vera cagione è del rifiuto ingiusto;
E fia di peggio. E Torrismondo è questi,
Questi che mi discaccia, anzi m’ancide,
Questi ch’ebbe di me le prime spoglie,
Or l’ultime n’attende, e già sen gode.
E questi è il mio diletto, e la mia vita?
Oggi d’estinto re sprezzata figlia
Son rifiutata! O patria, o terra, o cielo,
Rifiutata vivrò? vivrò schernita?
Vivrò con tanto scorno? Ancora indugio?
Ancor pavento? e che? la morte, o ’l tardo
Morire? et amo ancor? ancor sospiro?
Lacrimo ancor? non è vergogna il pianto?
Che fan questi sospir? timida mano,
Timidissimo cor che pure agogni?
Mancano l’arme all’ira, o l’ira all’ alma?
Se vendetta non vuoi, nè vuole amore,
Basta un punto a la morte; or mori, et ama
Morendo.

Alvida dopo ciò parte furiosa ed eseguisce il suo pensiero. Io invito le anime tenere a vedere il quadro di Alvida moribonda e di Torrismondo addolorato. Ecco parte del racconto che se ne fa:

. . . . . . . . Il re trovolla
Pallida, esangue, onde le disse, Alvida,
Alvida, anima mia, che odo, ahi lasso!
Che veggio? ahi qual pensiero, ahi qual inganno,
Qual dolor, qual furor così ti spinse
A ferir te medesma? oimè, son queste
Piaghe de la tua mano? Allor gravosa
Ella rispose con languida voce:
Dunque viver dovea d’altrui che vostra,
E da voi rifiutata? . . . . . .

Torrismondo giurando e lagrimando le conferma il cambio fatale, ed ella allora quasi pentita dell’attentato

Parea d’abbandonar la chiara luce
Nel fior degli anni, e rispondea gemendo:
In quel modo che lece io sarò vostra
Quanto meco durar potrà quest’alma,
E poi vostra morrommi.
Spiacemi sol che il morir mio vi turbi,
E v’apporti cagion d’amara vita.
Egli pur lagrimando a lei soggiunse.
Come fratello omai, non come amante,
Prendo gli ultimi baci; al vostro sposo
Gli altri pregata di serbar vi piaccia,
Che non sarà mortal sì duro colpo.
Ma invan sperò, perchè l’estremo spirto
Ne la bocca di lui spirava, e disse:
O mio più che fratello, e più che amato,
Esser questo non può, che morte adombra
Già le mie luci.
Da poi ch’ella fu morta, il re sospeso
Stette per breve spazio muto e mesto
Da la pietate, e da l’orror confuso
Il suo dolor premea nel cor profondo;
Poi disse: Alvida, tu sei morta, io vivo
Senza l’anima? e tacque.

Per non riconoscere il carattere tragico e lo spirito or di Sofocle or di Euripide ne’ riferiti tratti naturali, patetici e veri a segno che con ogni picciolo cambiamento si guasterebbero; per non commuoversi nel leggerli (or che sarebbe rappresentandosi!); per resistere in somma alle potenti perturbazioni che risvegliano, bisogna avere l’anima preoccupata o poco sensibile di Rapin e de la Sante, o l’ignoranza del Carlencas, o la stupidità de’ nostri scioli che affettano nausea per tutto ciò che non è Francese. Io non sono cieco ammiratore di questa buona tragedia di tal modo che non mi avvegga di varie cose che oggidì nuocerebbero alla rappresentazione. Non si vedrebbero, per esempio, volentieri nelle scene odierne i nunzj, le nutrici, l’indovino alla foggia antica. Siamo oramai avvezzi a una maniera di sceneggiare diversa da quella del Torrismondo. C’increscerebbe ne’ fatti precedenti il bosco e l’antro delle ninfe incantatrici che servono di base al cambio di Rosmonda e d’Alvida. Si vorrebbe purgata la favola di qualche scena di poca importanza della nutrice, com’ è la seconda dell’atto I; della descrizione troppo lunga e troppo circostanziata della tempesta in bocca dell’angustiato Torrismondo; delle lungherie della scena terza del medesimo atto di Torrismondo col consigliere, in cui l’autore amplifica, esagera e replica in varj modi e sotto varie forme le medesime cose; del racconto della Regina Madre de’ piaceri amorosi per indurre la figliuola a maritarsi; della minuta numerazione che fa Torrismondo de’ giuochi da prepararsi per la venuta di Germondo; di quel cumolo di varj impossibili ammaslato dallo stesso Germondo nell’atto III, Dal freddo carro muover prima vedrem ecc. Si bramerebbe in oltre che in certi passi lo stile non s’indebolisse. Tali cose veramente non possono nuocere alle bellezze essenziali di questo componimento; perchè presso i veri intelligenti la modificazione delle maniere esteriori ed alquanti nei di poca conseguenza nulla pregiudicano alla sostanza ed al merito intrinseco che vi si scorge; ma vero è però che spogliato di tali frondi spiccherebbe meglio la vaghezza del frutto d’un ingegno in ogni incontro sublime97.

Questa tragedia non tardò molto ad essere conosciuta in Francia per la traduzione che ne fece Carlo Vion Parigino signor di Delibrai, che si stampò in Parigi nel 1626, e si ristampò nel 1640 e nel 1646. Allora i Cornelii non aveano ancora lette le commedie Spagnuole. E’ dunque (dicasi un’ altra volta con pace del Linguet) il Torrismondo una delle produzioni Italiane che diedero a’ Francesi le prime idee delle bellezze teatrali.

Un’ altra buona tragedia Italiana conobbe la Francia prima delle composizioni Spagnuole, cioè il Tancredi di Federico Asinari nobile Astigiano conte di Camerano, nato nel 1527 e morto nel 1576, la quale come osserva il Zeno, falsamente dall’editore fu attribuita a Torquato Tasso. Uscì la prima volta in Parigi nel 1587 col titolo di Gismonda. Di poi col proprio titolo di Tancredi si pubblicò in Bergamo nel 1588, benchè col nome di Ottavio Asinari fratello dell’autore; ma per quanto afferma il conte Mazzucchélli, gli autori del catalogo de’ codici mss della real libreria di Torino ne fanno autore Federico, e così pensò ancora il Signor Apostolo Zeno. Le particolari bellezze di questa tragedia vennero manifestate dal Parisotti in un discorso inserito nel tomo XXV della raccolta degli opuscoli del Calogerà.

Il Vicentino Giambatista Liviera d’anni diciotto ebbe tanto di gusto che potè comprendere la bellezza dell’argomento del Cresfonte di Euripide, e ne compose la sua tragedia che col medesimo titolo s’impresse in Padova nel 1588; ma egli lasciò a una penna più felice e più esercitata il pregio di tesserne un’ altra con più tragico ed elegante stile.

Bongianni Grattarolo di Salò sul lago di Garda coltivò ancora a que’ dì la poesia tragica talvolta con felicità. In età assai giovanile compose in versi sdruccioli l’Altea che s’impresse nel 1556, e la Polissena, della quale non fe menzione il Fontanini. Scrisse di poi l’Astianatte in miglior metro stampato in Venezia nel 1589, che nel nostro secolo s’inserì dal Maffei nel Teatro Italiano. L’autore vi premise un argomento in cui si distingue il contenuto di ciascun atto. La scena dell’azione dimostra Troja distrutta ed ardente col sepolcro di Ettore intero. Quante particolarità si sono narrate ne’ poemi di Omero intorno alle dissensioni degli dei favorevoli a’ Trojani ed a’ Greci, ad oracoli, fatalità, predizioni, ad antichi delitti e spergiuri de’ principi Trojani, tutto trovasi ammassato nell’atto I fatto da Giunone ed Iride, che è insieme prologo e parte dell’azione. Risparmiar tante ciarle sarebbe stato pregio dell’ opera. Nel rimanente si va dietro le orme di Seneca nel bellissimo atto III delle Troadi, ma col miglioramento che l’azione è una, restringendosi alla sola morte d’Astianatte. Molti passi del Latino autore vi si veggono non infelicemente imitati; qualche altro non corrisponde all’energia dell’originale. Allorchè si fa entrare Astianatte nel sepolcro: l’Andromaca del Grattarolo esprime i concetti di Seneca con maggior naturalezza, e forse con robustezza minore. Ma bisogna confessare che nell’atto IV l’Italiano rimane ben al di sotto del Latino. Lascio i tre versi d’Andromaca in occasione che il vecchio vuole imbrattare di sangue i cenci di cui si ha da coprire Astianatte:

Fia meglio trarre il sangue dal mio core,
Che sendo il sangue suo conforme al mio,
La fraude ne sarà meglio ajutata;

puerilità priva di gusto, di verità e di passione. Ma quello che più importa è che tutta la vaga scena di Seneca vi si vede malconcia. Andromaca nella tragedia latina dissimulando e piangendo con Ulisse dice che il figliuolo è morto. Nell’italiana Ulisse dice alla prima che cerca Astianatte per menarlo ad essere sacrificato, ed Andromaca atterrita esclama subito,

Oimè! che religion crudele è questa?
Che gran male hai tu detto in poche voci;

e poi

Ah Calcante crudel! forse Calcante
Vi esorta questo, e vi minaccia questo?

Queste sono esclamazioni imprudenti che contro al disegno di Andromaca debbono far conchiudere all’astuto Ulisse, che Astianatte è vivo. Per la stessa ragione non doveasi appresso far dire che egli si è perduto, e che non si sa dove sia; ma col tragico latino dirsi alla prima ch’è morto; perchè questa notizia ben accreditata dal dolor materno toglieva ad Ulisse ogni speranza; là dove l’essersi perduto stimola sempre più all’inchiesta. Di più il personaggio ozioso del vecchio colla sua presenza nuoce alla scena; perchè il sagace Itacese non lascerebbe di trarre anche da lui qualche notizia, e nol facendo, come nella tragedia del Grattarolo, manca in certo modo al proprio carattere. Ma dopo queste aggiunzioni svantaggiose fattevi dal moderno, la scena risorge, e si rende interessante, ripigliando gli antichi colori del materno timore, onde Ulisse prende argomento per la vita di Astianatte.

Passando all’atto V, non posso tralasciare di esaltare il giudizio di Torquato per ciò che soggiungo omesso nell’esame del Torrismondo. Egli superiore a Seneca, ed anche a più d’un moderno, fa raccontare il suicidio di Alvida e Torrismondo a persone che non vi hanno il principale interesse. E come avrebbe la regina di loro madre potuto verisimilmente attendere il fine di una relazione circostanziata, piena com’ ella trovasi dell’orrore della sua perdita? I personaggi estremamente addolorati o debbonsi tener lontani dal racconto, o fargli operare secondo il proprio dolore; or questa passione non è capace di soffrire un racconto minuto se non dopo i primi impeti, e per così dire nell’intermittenza. Seneca fa raccontar la morte di Polissena e di Astianatte ad Ecuba e Andromaca; e il Grattarolo l’ha seguito anche in questo, benchè per altro il suo racconto a più di un riguardo sia pregevole. Anche da Seneca egli ha tratta la magnanimità di Astianatte nell’incontrar la morte, e la dipinge in bei versi, ad eccezione di poche foglie, presentando degnamente lo spettacolo del campo greco, e del precipizio del real fanciullo dalla torre.

Appartengono a quest’ultimo periodo del secolo parimente l’Irene, l’Almeone, l’Ermete e l’Arianna del Giusti, l’Arsinoe di Niccolò degli Angeli, l’Elisa del Closio, l’Acripanda di Anton Decio da Orta, la Ghismonda del Razzi, il Principe Tigridoro del Miari, la Tullia feroce di Pietro Cresci, ed alcun’ altra mentovata dal Quadrio. Vi si vede talvolta troppo studio della semplicità greca, talvolta un’ imitazione delle sentenze di Seneca poste come aforismi, e sovente degli ornamenti più proprii dell’epica e della lirica poesia. Non per tanto esse, come ognun vede dal loro titolo, non sempre son tratte da argomenti maneggiati da’ tragici greci, ed apprestano più di una scena appassionata ed interessante; ma io non mi fermo su ciascuna, per non abusare della pazienza di chi legge con formare estratti e critiche di qualunque opera teatrale.

Ravviva la storia delle tragedie degli ultimi anni del secolo la Semiramide di Muzio Manfredi da Cesena, il quale dal Ghilini si disse Ravennate, perchè alcuni della di lui famiglia abitarono ancora in Ravenna. Questa tragedia che s’ impresse in Bergamo per Comin Ventura in quarto nel 1593 stando il Manfredi a Nansì, a giudizio di Francesco Patrizj può servire d’esempio a chi vuol comporre tragedie. Anche il dotto editore del Teatro Italiano ne portò un vantaggioso giudizio, al quale si soscriverà di buon grado chiunque la legga. Si distingue (egli dice) talmente con l’eloquenza, colla franchezza del dire, e col giro e spezzatura del verso, che quel luogo che tiene l’ Edipo per l’orditura, la Sofonisba per l’ affetto, e l’ Oreste per la bellezza de’ passi, può questa giustamente pretendere per lo stile. Riconosce parimente il Conte Calepio nel Nino di questa favola un carattere sommamente idoneo al fine della tragedia.

Il soggetto di essa è fondato nella famosa regina degli Assiri Semiramide, la quale, secondo Diodoro e Giustino, trasportata ad amare il figliuolo viene da lui uccisa. Figura il Manfredi ch’ella voglia sposare questo suo figliuolo chiamato Nino, il quale da sette anni si trova occultamente maritato con Dirce e arricchito di due pargoletti chiamati Nino e Semiramide anch’essi. La notizia di questo secreto nodo mette la regina in tal furore, che medita la strage di Dirce e de’ figliuoli e l’eseguisce in un sotterraneo. All’ avviso fatale che ne riceve Nino, s’accoppia lo scovrirsi Dirce per sua sorella. L’orrore e la disperazione lo perturbano a segno che novello Oreste diventa matricida, indi trafigge se stesso nel medesimo luogo ove giacciono immersi nel proprio sangue Dirce e i figliuoli. Alla maniera greca e latina l’ombra di Nino indi quella di Mennone mariti di Semiramide, facendo le due prime scene dell’atto I, preparano al terrore che indi spazia per la reggia di Babilonia. Non è un secco e digiuno racconto ma una scena animata e interessante la terza, nella quale questa virile regina narra alla confidente Imetra quanto ha disposto di Nino e di Dirce. Imposi (ella dice) a Simandio che dicesse

A Nino ch’egli omai fosse disposto
A meco unirsi in matrimonio, e ch’oggi
Voglio che insiem celebriam le nozze,
E che a questo non sia risposta o scusa.
A Dirce dissi: al mio ritorno, o figlia,
Fa ch’io ti trovi tutta lieta e culta,
Ch’oggi sposa sarai di tal marito,
Che a me grado n’avrai che tel destino.

Prevede Imetra le vicine funeste conseguenze del di lei empio disegno, ed a costo di qualunque rischio proprio tenta distoglierla dal proposto con una eloquenza vera e robusta nè aliena dal di lei stato, la quale fa ammirare l’arte del poeta senza ch’egli si discopra. Fralle altre cose cerca in tal guisa muoverla per l’ambizione e per la gloria:

Ma tu, Semiramis, che in tutto il mondo
Di gloria avanzi ogni famoso eroe .....
Tu che figlia di dea ti chiami e sei,
E dea sembri negli atti e nel sembiante,
Se la tua gloria gira al par del Sole,
A che cerchi oscurarla? a che defraudi
La fama? a che le tronchi i più bei vanni?
Qual dio, qual legge è che consenta al figlio
Farsi consorte de la madre, e nasca
Di lor chi sia fratello e figlio al padre,
Ed a la madre sia nipote e figlio?

Tutta traspare la feroce Semiramide nello sdegno che manifesta a tale ardito discorso. Non è ella una timida Fedra che ama insieme e paventa la vergogna di palesar l’amore: è una imperiosa conquistatrice cui tutto par lecito perchè può tutto bastandole di velar la sfrenatezza colla politica. Avvezza agli eccessi nè più ravvisandone l’orrore, afferma con baldanza, che la ragione di stato soltanto la determina a siffatte nozze, e ne palesa i politici impulsi. All’opposizione poi delle leggi risponde,

Quanto alle leggi, ogni dì nascon leggi;
Ed io che posso, e mi conviene il farlo,
Una faronne che da ora innanzi
Lecito sia al figliuol sposar la madre.

Invano replica Imetra; la regina non cangia parere, e la spinge a Dirce. Riflette poi che Imetra debbe aver qualche secreto nel cuore contro al disegno delle sue nozze e di quelle di Dirce, e soggiugne, faccia

La sua fortuna, anzi la lor fortuna
Ch’io non discopra in ciò cosa diversa,
Non pur contraria al desiderio mio;
Che a Dirce, a lei, a Nino istesso, a quanti
Colpa n’avranno, io mostrerò che importi
Il macchinar contro il voler di donna
Che possa quanto vuol.

Preparata con tal maestria sì pressante angustia alla fortuna di Nino e Dirce, per le nozze detestabili del figlio colla madre, e per quelle di Anaferne con Dirce, riesce nell’atto II interessantissimo l’ abboccamento di Dirce oppressa dal dolore con Nino che cerca consolarla. E ciò avremmo desiderato che il Signor di Calepio avesse allegato per uno degli ottimi esempj delle tragedie Italiane, dopo di avere in alcune di esse ripresa la poca congiunzione dell’atto II col I, e il vedervisi li trattati d’una scena non di rado diversissimi da quelli dell’ altra 98. Manfredi ha congiunte mirabilmente le premesse, i mezzi e le conseguenze della sua favola ingegnosa. E’ notabile nella scena quarta dell’atto II l’orrore che protesta di aver Nino per l’incesto, nel che si mette sempre più in vista il tragico contrasto del carattere di Nino colla passione di Semiramide, e si prepara la di lui disperazione per lo scioglimento. Nel medesimo atto si è disposto che Simandio vada francamente a scoprire alla regina l’occulto matrimonio di Nino e Dirce. Semiramide all’ intenderlo si accende di una rabbia tremenda, ed in conseguenza nell’ atto III minaccia di trarre a Dirce di propria mano il cuore. Simandio, Imetra, il sacerdote Beleso con sobria insieme e maschia eloquenza e con calore parlano in pro degli sposi. Semiramide rimane inflessibile. Al fine Beleso nulla sperando dalle armi della ragione ricorre a quelle del suo ministero, e la minaccia per parte degli dei, benchè senza perder di vista il rispetto dovuto come vassallo alla sua sovrana. La regina intanto si è fra se appigliata all’esecrabile partito di quietarlo dissimulando; e mostrandosi commossa dalle sacre sue minacce invia Simandio a Nino e Imetra a Dirce perchè gliela conduca coi figliuoli, affettando di voler veder tutti, a tutti perdonare, e con festa degna di sì gran re rinnovare le loro nozze. Ella accredita col sembiante l’inganno, e riscuote applausi e ringraziamenti. Seneca nel Tieste e Giraldi nell’Orbecche usarono il medesimo colore della dissimulazione; ma secondo me Semiramide comparisce in ciò assai più grande e più tragica di Atreo e Sulmone. Chiude nel più profondo dell’animo l’orrendo disegno, e tutti accoglie con somma tranquillità ed allegrezza; ma nell’equivoche espressioni che adopra, fa trasparire da lontano la perversità dell’intento. In fatti questa Medea dell’Assiria avuta appena Dirce ed i nipoti in sua balia con ispietatezza inaudita gli trucida. Atirzia ch’è stata presente alla strage, atterrita, disciolta in lagrime viene a narrarla nell’atto IV. Il racconto fatto con colori veri e vivaci è degno del pennello di Euripide, e forse di Dante e di Omero, sì terribili ed evidenti sono le immagini degli uccisi, e sì compassionevole la situazione di Dirce. Assiste veramente a questo racconto l’infelice Nino, ma coll’ interromperlo tratto tratto, ne aumenta il patetico. Udito in fine l’ ammazzamento di Dirce Nino freme, non respira che vendetta, minaccia la madre, invano volendo Simandio e Beleso farlo accorto della scelleraggine che vuol commettere. Egli va pur risoluto. Ma nell’atto V egli torna fuori senza avere nulla eseguito nel vuoto dell’uno atto e dell’altro. Il suo furore ha una specie di riposo. Or che ha egli fatto frattanto? Ha forse combattuto trall’ orrore della vendetta e l’enormità dell’offesa? Un motto almeno di ciò avrei voluto ne’ di lui discorsi della prima scena, nella quale torna ad accingersi alla vendetta. Imetra nella seconda scena narra a Nino come Anaferne si è sommerso nell’Eufrate, e la regina ha manifestato che Dirce era sua figlia. Ella ha sperato che tolta Dirce di mezzo, non rimanga altro ostacolo da vincere in Nino che quello del peccato; ma saprà Nino (ella dice per bocca d’Imetra) ch’egli

Sette anni è stato nell’error ch’ei chiama
Peccato incestuoso: era mia figlia
Dirce e sorella sua.

Qual orrore non cagiona sì tremenda notizia a Nino che ha sempre manifestato spavento particolare per l’incesto! Egli in prima va ripetendo le ragioni che accreditano la verità di tal notizia. A che (dic’egli) avrebbe ella

Chiamata Dirce da sua madre? e come
Promessa sì l’avria liberamente
Ad Anaferne, non l’essendo figlia?
Ma quel che importa più, l’Armenia in dote?
Non si dan regni alle altrui figlie in dote.
Oltra di ciò facea ridendo un atto 99,
Che la regina il fa sempre che ride:
Nè il vidi mai che non scemasse molto
Il piacer ch’io prendea d’esser con lei
Rimembrando mia madre.

Certo Nino della disgrazia da lui maggiormente tenuta diviene un Oreste agitato da trasporti furiosi. Cerca la regina di Assiria, non chiamandola madre, corre a lei, l’affronta, la trafigge, la mira e piange; indi s’invia al luogo della strage della sposa e de’ figliuoli, e s’uccide. Nel racconto della morte di Nino il poeta imitando in parte l’attitudine di Tancredi al sepolcro di Clorinda, principia colla pittura più espressiva del di lui dolore alla vista de’ figli e di Dirce:

Giunto al fiero spettacolo si stette
Pallido, freddo, muto, e privo quasi
Di movimento: e poco poi dagli occhi
Li cadde un fiume lagrimoso, e insieme
Un oimè languidissimo dal petto
Fuori mandò, così dicendo . . . .100.

Ma poi la stessa guida illustre lo sedusse, ed in vece di cercare nella natura e nelle circostanze di Nino il linguaggio di un dolor disperato, seguendo il Tasso anche in ciò che in lui si riprende, fa rivolgerlo a parlare al luoco, benchè poi la natura lo riconduce in istrada, e gli suggerisce molti concetti naturali e patetici. Un’ immagine anche bene espressa è la seguente:

Parve di morte empirsi, e restò chiusa
Sua vita io non so dove, e fu simile
Nel viso ai morti, e per buon spazio tacque.

Feritosi al fine Simandio gli toglie dal petto il pugnale,

Dicendo, ah Nino! E’ questa la virtude
Onde sì risplendevi? A questo modo
Si governano i regni?

ed egli:

Non mancherà chi darà vita al regno ....
   Io troppo vissi, ahi lasso!
Regnino i cari al ciel, vivano i cari
A la fortuna: lascia pur ch’io mora ....
   Sai ch’anzi eleggeva
Il parricido che l’incesto, e vuoi
Ch’or viva incestuoso e parricida?
Tu non m’ami sel vuoi: che se per questo
Morta è mia madre, i miei figliuoli e Dirce,
Come viver poss’ io cagion del tutto?
Disse, e nel volto diventò di neve,
E volendo seguir, di voce in vece
Singhiozzò, chiuse gli occhi e spirò l’ alma.

Bisogna confessare che questa Semiramide per uguaglianza, nobiltà e grandezza di stile e per versificazione vince quasi tutte le tragedie del cinquecento. Il Manfredi è stato il meno avido di sollevarsi a forza di ornamenti stranieri alla drammatica, cioè a dire epici e lirici. Si lascia vedere di quando in quando qualche superfluità ed affettazione: ma per quel tempo, in cui tutti correvano in traccia di mostrarsi poeti quando meno abbisognava, può dirsi che Muzio ne sia stato esente. Invano la censurò il suo contemporaneo Angelo Ingegnieri. La Semiramide trionfò dell’invidia e della pedanteria; e se in vece di criticarla i pedanti che sono alle lettere quel ch’è la ruggine al ferro, si fossero dedicati a rilevarne ciò che avea di migliore per additarlo alla gioventù, forse avrebbero impedita nel seguente secolo l’escursione e i progressi del mal gusto. Quasi a’ giorni nostri il celebre Marchese Maffei vi fece alcuni troncamenti del meno importante, e la fe rappresentare in Verona e piacque sommamente. E quando essa non piacerà dove si ami la poesia tragica? E chi potrà dubitarne? Certo niuno che l’abbia letta, che comprenda il vero merito d’un componimento tragico e che non abbia un interesse contrario alla verità101. Notisi ancora che il Manfredi è stato il primo in Europa a mostrare sulle scene questa regina famosa degli Assirj, e senza averne trovato modello veruno fra gli antichi ne ha inventata e disposta con tanta regolarità ed artificio la favola e con tale eccellenza vigore ed eloquenza scolpiti i caratteri e animate le passioni, che ha invitati i posteri a contar la Semiramide tragli argomenti teatrali. Quindi è che il Capitano Virues e Don Pedro Calderon de la Barca s’ avvisarono di maneggiarlo in Ispagna nel secolo seguente; e nel nostro vi si sono appigliati il Crebillon e ’l Voltaire, i quali vedrà il Signor avvocato Linguet se vi sieno stati determinati piuttosto dalla tragedia del Manfredi abbigliata alla greca, che da’ gotici drammi del Virues e del Calderon.

Al Manfredi dobbiamo parimente un volumetto di Lettere famigliari da lui scritte nel 1591 dimorando in Nansì, nelle quali trovasi conservata la memoria di varj componimenti specialmente tragici rimasti per la maggior parte inediti. Nella diciottesima egli anima Eugenio Visdomini Parmigiano a stampare due sue tragedie l’Amata e l’Edipo. Era colui suo compare; e forse questo titolo gliele fe parere degne di uscire alla luce dopo la Merope del conte Torelli. Nella decimanona indirizzata a Gabriello Bambasi altro Parmigiano accademico Innominato dice che pubblichi le sue tragedie la Lucrezia e l’Alidoro. Stimola nella ventesima il Signor Antonio Scutellari a produrre la tragedia di Giacomo suo fratello intitolata l’Atamante, la quale, ei dice, è nobilissima e perfetta. Dell’Alessio tragedia di Vincenzo Giusti censurata parimente dall’Ingegnieri parlasi nella lettera 31 scritta a Udine ad Erasmo di Valvasone, e nella 161 scritta all’istesso Giusti; e se ne favella ancora insieme coll’ Eraclea tragedia di Livio Pagello pur criticata dall’ Ingegnieri. Nella 181 indirizzata ad Orazio Ariosto a Ferrara si rammemorano alcuni suoi componimenti non impressi, un poema epico, una tragedia e una commedia. In fine nella 346 scritta al Signor Muzio Sforza a Venezia desidera che gli si mandi un esemplare della traduzione di Girolamo Moncelli del Cristo, avendo saputo di essersi stampata.

Furonvi allora altre due tragedie di penne non volgari rimaste inedite, l’Edipo principe traduzione di quello di Sofocle di Bernardo Segni, e le Fenicie di Euripide recata in latino da Pietro Vettori, che con altre di lui produzioni pur manoscritte si trovava in Roma nel 1756 in potere del commendatore Vettori parente di Pietro102.

Rimettiamo i leggitori alle drammaturgie, all’opera del Quadrio ed a qualche altro che si ha presa la cura di spolverarli nelle biblioteche ove si tarlano, molti drammi sacri parte impressi e parte inediti del medesimo periodo. Tra essi possono togliersi dalla folla i due che soggiungo perchè ridotti alle leggi della vera tragedia, cioè Jefte di Girolamo Giustiniano Genovese impresso nel 1583, e l’altro Jefte di Scipione Bargagli pubblicato in Venezia nel 1600. Il nome di Giammaria Cecchi fa che rammentiamo ancora l’Esaltazione della Croce di lui opera rappresentativa recitata nelle nozze de’ GranDuchi di Toscana e stampata presso il Martelli nel 1592. Alcune tragedie Cristiane perdute si vuole che scrivesse ancora il Benedettino Mantovano Teofilo Folengo morto nel 1544, bizzarro ed ingegnoso autore delle poesie maccaroniche sotto il nome di Merlin Cocajo e del raro poema romanzesco l’Orlandino pubblicato col nome di Limerno Pitocco, del quale nel 1773 fece in Parigi una elegantissima edizione, pochi giorni prima di partirne, il dotto nostro amico Don Carlo Vespasiano sotto il nome Arcadico di Clariso Melisseo, corredandolo di curiose ed erudite note. Lo stesso Folengo, ad istanza del Vicerè di Sicilia Don Ferrante Gonzaga, compose in Palermo, ove erasi rifugiato, un’ azione drammatica intitolata la Pinta, o la Palermita intorno alla creazione del mondo e alla caduta di Adamo.

Col bellissimo soggetto del greco Cresfonte maneggiato dal conte Pomponio Torelli col titolo di Merope possiamo chiudere la storia delle tragedie Italiane del cinquecento. Fioriva in Parma verso la fine del secolo l’Accademia degl’ Innominati, di cui era il Torelli uno de’ principali ornamenti. Egli vi recitò cinque sue tragedie la Merope, il Tancredi, la Galatea, la Vittoria, il Polidoro, spiegandone eziandio l’artifizio in due grossi volumi di Lezioni sulla Poetica di Aristotile, che trovansi manoscritti nella Ducal Biblioteca di Parma. Cita Mons. Fontanini nell’Eloquenza Italiana l’edizione della Merope e del Tancredi fatta in Parma nel 1598, e poi quella di tutte le cinque tragedie del 1605, cioè tre anni prima della morte dell’autore. Ma la Merope s’impresse prima del 1591, per quel che ne scrisse il prelodato Manfredi a’ 18 di gennajo di quest’anno: Ora (egli disse) che il Signor Conte Pomponio Torelli vi ha fatta la strada collo stampare la Merope; la qual cosa confermò nelle seguenti 19 e 20.

Noto n’è l’argomento e i punti interessanti dell’azione, che debbonsi al greco inventore; ma la regolarità, l’economia, la gravità delle sentenze, l’eleganza dello stile, e la vivace dipintura de’ caratteri e delle passioni debbonsi prima di ogni altro al Torelli, onde merita la sua tragedia di collocarsi fralle buone Italiane. Può singolarmente notarsi fin dalla prima scena assai bene espresso il carattere di Merope agitata ed oppressa dal pensiero di esser pur giunto il tempo prefisso alle sue nozze col tiranno; e nell’atto II lo stato del tiranno tormentato anche in pace da mille moleste cure. Egregiamente vi si disviluppa il di lui tirannico sistema e la ragion della forza che giustifica le scelleraggini. Ecco in qual guisa argomenta contro del Capitano della sua guardia:

Le leggi e ’l giusto, di che tanto parli,
E per parlarne assai poco ne intendi,
Non hanno sovra i principi potere,
Che mal si converria, s’essi le fanno,
Ch’essi all’opera lor fosser soggetti.
Ma quella legge che in diamante saldo
Scrisse di propria man l’alma natura,
Sola può dare e variar gl’ imperi.
Per questa sola tremano i potenti,
A questa sola ogni gran re s’inchina.
Ella comanda che colui prevaglia
Che di genti, di forza, e di consiglio,
Di stato e di ricchezze gli altri avanzi.
Che mal si converria che un uom sì degno
Obedisse a chi men di lui potesse ecc.

Di maniera che l’ingiustizia mai non trascura di prevalersi a suo pro della massima d’Achille, il quale

Jura negat sibi nata, nihil non arrogat armis.

Notabile sembrami parimente nell’atto V l’artificio del poeta nel rendere verisimile l’ardito colpo di Telefonte. Per ordine del tiranno fa che i satelliti rimangansi all’entrata del tempio, e che Gabria nel darne e farne eseguir gli ordini vada esortando i fedeli amici di Merope, mostrando loro Telefonte, instigando gli audaci, spirando ardire a tutti; e preparato in tal guisa il colpo, lo fa scoppiare:

Già morte eran le vittime, e le fibbre
Erano apparse liete alla regina.
Fa condur Polifonte un bianco toro
Con le corna dorate: a Telefonte
Che s’appresenti accenna: ei la bipenne
Alzando, disse; o sommo Giove, prendi
Questo che per mio scampo t’offerisco.
Ciò detto a Polifonte che rivolto
Mirava fiso la regina nostra,
Con improvviso colpo il capo fiede.
Senza difesa far, senza parola
Traboccò nel suo sangue singhiozzando.

Non ho addotti gli squarci delle situazioni somministrate dall’antico argomento, bastando animare la gioventù ad osservarle, colla sicurezza di trovarle egregiamente rappresentate. In somma se un movimento più vivace rendesse l’azione di questa tragedia meno riposata e più teatrale: se le robuste sentenze non fossero talvolta quasi ravviluppate in una soverchia verbosità: se Merope tentasse di uccidere il figlio, tale non credendolo, con una situazione più verisimile e più vigorosa: se Polifonte col most arsi un innamorato sì fido e costante, a segno di attendere dieci anni la conchiusione delle nozze, non venisse a combattere colla propria ambizione, affetto in lui dominante, e a debilitare il suo carattere essenziale di usurpatore avido di sangue: finalmente se Merope dopo il sommo odio mostrato contro Polifonte in tutta la tragedia non iscendesse fino a piangerlo nella di lui morte e a dirgli,

Fosti leal, fosti fedele amante:

se tutto ciò, dico, non contrastasse con tanti pregi che ha, potrebbe questo componimento contarsi fra gli eccellenti. Ma quanto al metodo greco che vi si tiene, ed al coro continuo che spesso nuoce a’ secreti importanti della favola, è un difetto comune alla maggior parte delle tragedie di quel tempo. Non ne vanno esenti le altre tragedie del Torelli, e nè anche la Victoria e ’l Tancredi, le quali per altro debbono esserci care essendo nel numero di quelle che si allontanano dagli argomenti greci, e dipingono, siccome insinuava il gran Torquato103, costumi non troppo da noi lontani; e l’ultima singolarmente si rende pregevole per l’attività di purgare le passioni, per la qual cosa il Conte di Calepio stimava doversi preferire alla stessa Merope.

Da questa ragionata narrazione, e non da arbitrarie decisioni, può ricavarsi l’indole della tragedia Italiana del XVI secolo. Ella fu un nobile ritratto della Greca, da cui riportò qualche neo e qualche lentezza, volendola troppo imitare; ma ella non si arrestò a’ soli argomenti greci, come talvolta da’ critici moderni si è asserito. Per lei divenne più ricco il teatro cogli argomenti della Sofonisba, del Torrismondo, della Semiramide, del Tancredi, della Tullia, dell’Orazia, ignoti a’ Greci, e somministrati a’ posteri dagl’ Italiani del cinquecento. Ma quando anche queste nuove favole non si dovessero all’ Italia, non basterebbe per eternarla l’aver fatto risorgere in tante guise il greco teatro (Nota XII)? Imitare, emulare con aurea eleganza e purità di stile i tragici antichi, inventare a loro norma favole eccellenti, farne risonare le scene per tante città, quando il rimanente dell’Europa altro quasi non avea che mostruose farse in lingue tuttavia rozze e e barbare, era l’unico opportuno espediente per diffondere il vero gusto della tragedia, e il fecero gl’ Italiani, contuttochè non avessero, come indi non ebbero mai, teatro tragico fisso e permanente, nè speranza di lucro e di premio. E da qual altra cosa doveano essi incominciare, se non dallo studiare e ritrarre talora con più recenti colori le bellezze de’ greci esemplari? E che pedanteria ed affettazione transalpina è quella di tacciare senza riserva di pedanteria e di greca affettazione i tragici Italiani del cinquecento? E senza prima osservare le vestigia de’ migliori, quando mai i moderni si sarebbero inoltrati sino all’odierna delicatezza di gusto che rende ingiusti ed altieri ancor certuni che non saprebbero schiccherare una sola meschina scena, e che pur sono i più baldanzosi a regger giustizia e a dettar leggi teatrali? Ed a chi se non all’Italia si debbe l’aver fatte risorgere le sagge regole del teatro? Or non sognava Voltaire allorchè scrisse: Les Français son les prémiers d’entre les nations modernes qui ont fait révivre les sages regles du théâtre; les autres peuples ont été long-temps sans vouloir recevoir un joug qui paraissoit si sévére? Non dovea sovvenirsi di ciò che fecero gl’ Italiani un secolo e mezzo prima di Cornelio introduttor delle regole tra’ Francesi? Non pensò, ciò scrivendo, a quello che erano nel XVI secolo nella drammatica i suoi nazionali (Nota XIII)?

Conviene intanto osservare che i soprallodati ingegni Italiani, benchè per far risorgere la tragedia si avvisassero di seguire l’orme de’ Greci, pure la spogliarono quasi totalmente di quella musica, qualunque ella sia stata, che in Grecia l’ accompagnò costantemente. Si contentarono i nostri di farne cantare i soli cori, come si fece in Vicenza, in Roma, in Ferrara, nel rappresentarsi Sofonisba, Orbecche ec.. Essi altro allora non si prefissero se non di richiamare sulle moderne scene la forma del dramma de’ Greci, e non già l’intero spettacolo di quella nazione con tutte le circostanze locali, che a’ nostri parvero troppo aliene da’ tempi e da’ popoli, al cui piacere consacravano le loro penne.

Ma per essere stata spogliata della musica dovea dirsi che la tragedia moderna non sia tale? E pure anche questo ha voluto avanzare a’ giorni nostri l’Avvocato Mattei ornamento del paese ammaestrato da Pitagora. Questa (egli dice104) che noi ora chiamiamo tragedia, è una invenzione de’ moderni ignota del tutto agli antichi. Crede egli dunque che il canto esclusivamente la costituisca tragedia? Con sua buona pace egli s’ inganna. Dessa è tale per l’azione grande che interessa l’intere nazioni, e non già pochi privati, per le vicende della fortuna eroica (secondo la giudiziosa diffinizione di Teofrasto), per le passioni fortissime che cagionano disastri e pericoli grandi, e pe’ caratteri elevati al di sopra della vita comune. Per tali cose essenziali le greche tragedie che noi leggiamò, si chiamano così, e non già perchè si cantarono in Atene. Euripide e Sofocle non sono meno tragici nella lettura e nella nuda recita che in una rappresentazione cantata. Ora i nostri imitarono la tragedia greca appunto in quello che ne costituisce l’essenza; mostrando con ciò maggior saviezza che non volea dargliene il Signor Mattei, il quale osò ancora oltraggiare que’ valentuomini con parole poche urbane, per non dir temerarie. Essi vollero (dice degl’ Italiani il nuovo interprete de’ Greci tragici) lavorare le loro tragedie all’uso de’ Greci, senza sapere che fossero le Greche tragedie. Un Tasso! Un Trissino! uno Speroni! E sa il Signor Mattei quello che dice egli stesso? Ma come non seppero essi che cosa fossero le greche tragedie? Non furono i primi nostri scrittori, specialmente del cinquecento, quelli che mostrarono all’Europa l’erudizione del greco teatro? Non insegnarono essi tutto ciò che poi si è ripetuto in altre e simili guise di là da’ monti? E che si è scoperto di più a’ giorni nostri? Qual nuova cosa ci ha rivelato la singolare erudizione del Signor Mattei? Forse che la tragedia e la commedia greca si cantava? Ma quante e quante fiate si è ciò ripetuto a sazietà intorno a tre o quattro secoli prima che nascesse il Signor Don Saverio!

III.
Teatri materiali.

Conobbero così bene e fondatamente per tutte le sue parti gl’ Italiani la greca erudizione, che seppero allora mettere alla vista fin anche nel teatro materiale l’antico magistero.

Qual vanto per una privata, benchè nobile accademia, e per la città di Vicenza, che non è delle maggiori d’Italia, il possedere un teatro come l’Olimpico sin dal 1583 costruito alla foggia degli antichi? Ma essa ebbe la ventura di aver veduto dentro il recinto delle sue muraglie nascere un Trissino, che mostrò all’Europa il sentiero della vera tragedia, e insegnò l’architettura all’incomparabile Andrea Palladio. La figura di questo teatro non è un semicircolo, ma una semiellissi: ha una scalinata di quattordici scaglioni di legno senza precinzioni, senza aditi, senza vomitorj: su di essa posa una loggia di colonne Corintie con una balaustrata ornata di statue: la scena è di pietra a tre ordini, e mostra nel prospetto tre uscite, e due laterali. Sussiste ancora a’ nostri dì questo teatro ben conservato per diletto de’ viaggiatori, e per gloria de’ Vicentini.

Non è così ben tenuto il teatrino di Sabbioneta che pure sussiste; ma è parimente di forma antica e bellamente architettato dal rinomato Scamozzi, il quale avea terminato il teatro Olimpico sul disegno del Palladio. Fu eretto questo teatro dall’istesso Vespasiano Gonzaga Duca di Traetto, che fabbricò Sabbioneta, uomo dottissimo e fautore de’ letterati, nato nel regno di Napoli in Fondi l’anno 1531 e morto nel 1591. Vide ancora la famosa città di Venezia eretti nel medesimo secolo teatri semicircolari ideati su gli antichi modelli, e costruiti da’ più chiari ingegneri il Sansovino e ’l Palladio, i quali perchè furono di legno, già più non sussistono. Essi servirono per le compagnie de’ Sempiterni, degli Accesi e della Calza. Quello del Sansovino si alzò in Canareggio, e quello del Palladio nella Carità. In quest’ultimo si rappresentò l’Antigono tragedia di M. Conte di Monte Vicentino stampata nella stessa città nel 1565; ed in esso furono dipinti dodici gran quadri dal celebre pittore Federico Zuccaro105.

In Andria si costruì ancora un teatro nel 1579; e il famoso cieco Luigi Groto che ivi sortì i natali, compose per tal teatro una delle sue commedie intitolata l’Emilia.

Essendo così grande il numero d’ogni sorte di drammatici componimenti rappresentati in tante città Italiane, vi si videro alle occorrenze eretti moltissimi teatri. Le accademie degl’ Infocati, degl’ Immobili e de’ Sorgenti in Firenze, e quelle de’ Rozzi e degl’ Intronati in Siena, ebbero i loro teatri. Nella corte di Ferrara, dove fin dal secolo precedente fiorirono gli spettacoli scenici, il duca Alfonso da Este fece innalzare un teatro stabile secondo il disegno che ne diede l’immortale Ludovico Ariosto. Ma di questi ultimi teatri non sapremmo dire in quali parti avessero seguiti gli antichi, ed in quali altre se ne fossero allontanati.