(1788) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome III « LIBRO III — CAPO IV. La drammatica nel secolo XV fa ulteriori progressi in Italia. » pp. 47-73
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(1788) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome III « LIBRO III — CAPO IV. La drammatica nel secolo XV fa ulteriori progressi in Italia. » pp. 47-73

CAPO IV.
La drammatica nel secolo XV fa ulteriori progressi in Italia.

Due ben differenti aspetti, all’apparenza contradittorj, presentano agli osservatori quelle nazioni che si renderono chiare per le cose operate o patite nella pace e nella guerra. Mirate dal punto che discopre i loro progressi nelle scienze e nelle arti, sembra che un’ aurea pace abbia fornito tutto l’agio a’ filosofi ed agli artefici tranquilli per gir tant’ oltre. Viste poi dal punto che tutte manifesta le loro politiche e militari turbolenze, si temerà pel destino delle arti e delle scienze. Ma simili dubbj e timori giusti nelle distruttrici inondazioni de’ barbari, ben di rado si avverano nelle guerre de’ popoli culti, nelle quali la nazione che soffre, fida nel sovrano che vigila pel tutto, e conta ne’ casi avversi sulla moderazione del vincitore; ond’è che gli artisti e i letterati non intermettono i loro lavori.

Arse l’Italia nel XV secolo di un alto incendio di guerra in più luoghi: ma le contese de’ Pisani co’ Fiorentini, de’ Veneziani co’ duchi di Milano, degli Angioini cogli Aragonesi, non impedirono l’avanzamento degli studj e delle arti, nè il favore e la munificenza di tanti principi e ministri verso i coltivatori di esse (Nota XIII). Quindi è che dedicaronsi quasi generalmente gli uomini di lettere ad apprendere profondamente le due più famose lingue de’ dotti, ed anche a disotterrar nelle lontane regioni i codici Greci e Latini, ed a moltiplicarne le copie, a correggerli, a confrontarli, ad interpetrarli. Si raccolsero da per tutto diplomi, medaglie, camei, statue, iscrizioni ecc. Stabilironsi accademie, università, cattedre novelle, biblioteche pubbliche e stamperie. Si promosse lo studio della filosofia di Platone. Risorse l’epopea. Si coltivò l’una e l’altra eloquenza ed ogni genere di erudizione, specialmente per le cure del famoso segretario e consigliere de’ re Aragonesi Napoletani Giovanni Pontano, e del precettore di Leone X Agnolo Ambrogini detto il Poliziano, e del regnicolo Giulio Pomponio Leto.

Chi non sa che nel XV secolo foriero dell’aureo seguente divenne l’Italia l’emporio del sapere: chi nella propria casa non vide spuntar altrettanta luce, stenterà a credere42 che dentro delle alpi gli studj teatrali nelle mani di molti cospicui letterati fossero divenuti comuni e maneggiati con maggior arte. Ebbero intanto gl’ Italiani in tal periodo 1 farse per lo più italiane sacre e profane, 2 drammi regolari latini e 3 componimenti eruditi dettati in volgare idioma.

Quanto alle farse non cessarono in Roma le rappresentazioni de’ misteri, ma si fecero con maggior sontuosità. Scritta in volgare fu la rappresentazione di Gesù Cristo, a cui lavorarono il Fiorentino Giuliano Dati vescovo di S. Leo, il Romano Bernardo di Mastro Antonio e Mariano Particappa, e s’ impresse in Milano per Valerio e Girolamo di Meda fratelli, e si ristampò in Venezia l’anno 1568 per Domenico de’ Franceschi43. Altre ne scrisse anche in volgare Feo Belcari, di cui l’Isacco composta in ottava rima fu la prima volta recitata in Firenze nel 144944. Posteriore alle nominate ma appartenente al medesimo secolo fu la Conversione di S. Maria Maddalena di Jacopo Alamanni divisa in cinque atti. La Conversione di S. Paolo si rappresentò in Roma verso il 1380 d’ordine del cardinal Riario. Si vogliono al medesimo secolo riferire le sette farse spirituali inedite recitate in Napoli da me descritte nelle Vicende della Coltura delle Sicilie 45; come ancora le favole drammatiche allegoriche recitate da’ Fiorentini nel 1442 nell’ingresso trionfale di Alfonso I di Aragona in Napoli; e i misteri della Passione ivi fatti rappresentare nella chiesa di Santa Chiara con magnifiche decorazioni dal medesimo re nella settimana santa l’anno 1452, in cui vennevi Federigo III imperadore; ed anche le farse buffonesche inedite di Antonio Caracziolo rappresentate per lo più alla presenza di Ferdinando I; e finalmente li gliuommere nel dialetto napoletano di Jacopo Sannazzaro e la farsa toscana del medesimo della presa di Granata rappresentata in quella reggia in presenza di Alfonso duca di Calabria nel 148946. In questo secolo ancora, e propriamente nel 148947, da Bergonzo Botta gentiluomo Tortonese si diede in Tortona quella tanto magnifica festa nelle nozze d’Isabella d’Aragona figlia di Alfonso duca di Calabria con Giovanni Galeazzo Maria Sforza duca di Milano, nella quale, per quanto vedesi presso il Corio ed altri, la poesia, la musica, la meccanica e la danza spiegarono tutte le loro pompe48.

Passando poi a’ componimenti veramente scenici latini composti in tal secolo da non volgari ingegni, troviamo una tragedia di Gregorio Corraro patrizio Veneto morto nel 1464 composta in versi latini nell’età di soli anni diciotto, intitolata Progne, alla quale fanno plauso, secondo Lilio Gregorio Giraldi, moltissimi eruditi del XVI secolo, e nel nostro col marchese Maffei altri letterati ragguardevoli. Si produsse la prima volta in Venezia nel 1558, ed il Domenichi la tradusse in Italiano, spacciandola come cosa propria.

Un’ altra tragedia latina sulla Passione di Cristo compose in questo secolo Bernardino Campagna dedicata dall’autore al pontefice Sisto IV, della quale fa menzione il lodato Maffei nella Verona illustrata.

Un’ altra tragedia latina in versi giambici dedicata al duca di Ferrara Borso da Este fu composta da Laudivio cavaliere Gerosolimitano nativo di Vezzano nella Lunigiana49, il quale fu della famiglia Zacchia ed ascritto all’Accademia del Panormita, benchè dal Pontano poco pregiato. Si aggira sulle vicende del famoso condottiere conte Jacopo Piccinino, arrestato improvvisamente nel 1464, e poi l’anno seguente ucciso per ordine di Ferdinando re di Napoli. Vidi il codice Estense di tal tragedia in Modena nel fermarmivi per alcune ore nel 1779, ma non avendo l’agio necessario per leggerla interamente, degnò trasmettermene un breve estratto e qualche verso l’umanissimo cav. Tiraboschi. Eccone il titolo De Captivitate Ducis Jacobi tragædia. Contiene cinque atti senza divisione di scene, e solo in margine si segnano i personaggi che parlano, e qualche volta s’indica l’ argomento della scena. Nell’atto I leggesi nel margine Rex Borsius loquitur; ed in fatti egli seco stesso parla a lungo delle prodezze del Piccinino; indi sopraggiugne un sacerdote che narra varii funesti prodigi, e dopo aver molto l’uno e l’altro cianciato termina l’ atto con un coro. Trattasi nel secondo de’ mali apparsi dopo la pace fatta, e gl’ interlocutori sono un augure, il coro ed un messo che nulla dice di più degli altri. Nel terzo la scena passa da Ferrara a Napoli, ed in esso un ambasciadore del Piccinino al re Fernando dà avviso della venuta del generale, ed il re promette accoglierlo onorevolmente. Termina quest’atto col coro che canta le lodi di Drusiana moglie del Piccinino. Il quarto atto è il più bizzaro. Il re alterca col carnefice, esaminando se debba uccidersi il Piccinino tosto che fidando nel trattato venga in suo potere. Il carnefice insinua che si uccida, e la di lui eloquenza prevale. Si vede poscia il Piccinino nella prigione. Il carnefice viene ad intimargli l’ordine della di lui morte:

Dux Jac.

En jam satelles adest, meque petit.

Satel.

Dux, martis auctor potens, bellis inclyte,
Piget, dicam, piget: tibi fero necem:
Sic rex jubet, jam colla tende gladiis.

Il duce si sottopone alla condanna ed è ucciso; dopo di che dice il carnefice:

Quam graviter diram constans tulit necem.
Indolui huic tam duram sortem accidere.
Sed redeo ad regem; jam perfectum est scelus.

L’atto termina col coro che in compagnia di Drusiana compiange la prigionia del Piccinino. Nel quinto atto la scena torna a Ferrara. Un messo racconta al duca Borso la sventura del Duce, e la tragedia termina con un coro. E’ un componimento languido e difettoso; nè la condotta, nè lo stile invita a desiderarsene l’impressione; ma pure è tragedia, ed ha il pregio di essere una delle prime di argomento tratto dalla storia moderna nazionale.

Giovanni Sulpizio da Veroli, il quale sotto il pontificato d’Innocenzo VIII teneva scuola di belle lettere in Roma, vi fece rappresentare un’ altra tragedia. Secondo ciò che ne scrive lo stesso Sulpizio nella dedicatoria delle sue Note sopra Vitruvio al cardinal Raffaello Riario nipote di Sisto IV, essa fu la prima veduta in Roma dopo molti secoli. Pietro Bayle, citando il P. Menestrier, afferma che questa tragedia fu cantata come un’ opera musicale d’oggidì, fondandosi sulle parole del medesimo Sulpizio: tragædiam quam nos agere & cantare primi hoc ævo docuimus. A me sembra però che il Menestrier e ’l Bayle facciano significar troppo a quell’agere & cantare. Potrebbero, è vero, tali voci indicare che la tragedia tutta si fosse cantata, a somiglianza delle moderne opere in musica dal principio sino al fine. Ma potrebbero forse avere due altri significati, in ciascuno de’ quali sparisce ogni idea di opera. Perchè in prima non potrebbero esprimere rappresentare e declamare? Cantare dicesi pur da’ latini e da noi il recitar versi, per quella specie di canto con cui si declamano; ed ogni poeta dice de’ suoi versi, io canto. Perchè poi non potrebbe dirsi che Sulpizio avesse voluto dinotar coll’ agere il rappresentar nudamente la tragedia, e col cantare il cantarne con vera musica ciò che va cantato, cioè i cori, la qual cosa direbbesi acconciamente e con latina proprietà agere & cantare tragœdiam, senza convertirla in melodramma moderno? Sopra simili fondamenti il P. Menestrier e ’l Bayle, seguiti pochi anni fa dal cav. Planelli, veggono l’opera in musica dovunque cantaronsi versi, ne’ canti de’ pellegrini di Parigi, nelle sacre cantate delle Chiese, nelle cantilene riferite dal Mussato. E potevano allungarne la lista co’ versi cantati da’ Mori prima delle giostre, con i corei Messicani, colle musiche Peruviane, co’ rustici canti de’ selvaggi, e con che no? Ma i moderni alla voce operæ aggiungono un’ idea complicata e talmento circostanziata che la diversificano, non che dalle cose accennate, dagli stessi pezzi drammatici de’ Greci e de’ Latini, a’ quali pur s’avvicina. Aggiungasi che dicendo Sulpizio di aver dopo molti secoli fatta rappresentare in Roma una tragedia, ci fa retrocedere col pensiere almeno sino a’ Latini, nè possiamo concepir altrimenti la tragedia di cui fa motto, se non come quella degli antichi. Ciò che solo con certezza si deduce dalle di lui parole, si è, che quel componimento fu una tragedia. Che poi questa si cantasse tutta, come pretese il Menestrier, ovvero se ne cantassero i soli cori, come noi stimiamo, ambedue queste opinioni sono arbitrarie, ed hanno bisogno di nuova luce istorica.

Verso la fine del secolo, cioè nel 1492 Carlo Verardo da Cesena nato nel 1440 e morto nel 1500, che fu arcidiacono nella sua patria e cameriere e segretario de’ Brevi di Paolo II, di Sisto IV, d’Innocenzo VIII e di Alessandro VI, compose due drammi fatti rappresentare in Roma solennemente dal mentovato cardinal Riario. Parla del Verardi e del suo Fernandus servatus Apostolo Zeno nelle Dissertazioni Vossiane; ma non pare che avesse conosciuto la prima edizione in quarto fatta de’ di lui drammi in Roma per Magistrum Eucharium Silber, alias Franck nel 1493 a’ 7 di maggio50. Vi si trova impresso il Fernandus servatus, la Historia Bætica, e una ballata in fine colle note musicali. Il piano del Fernando fu dal Verardo ideato in occasione dell’ attentato di un traditore contro la vita del re che per miracolo di San Giacomo sanò della ferita; ma fu disteso in versi esametri da Marcellino suo nipote. Carlo dedicò il componimento all’arcivescovo di Toledo e primate delle Spagne Pietro Mendoza, e l’intitolò tragicommedia. Dicesi nella dedicatoria che fu ascoltata con sommo applauso dal pontefice e da’ cardinali e prelati. Nell’azione che non ha divisione di atti, intervengono Plutone, Aletto, Tisifone, Megera, Ruffo (ch’è il traditore), la Regina, una Nutrice, San Giacomo, il Re, il Cardinal Mendoza, il Coro. Nel parlarsi da Plutone della religione di Cristo e di Maometto si frammischiano i nomi e i fatti di Piritoo, Castore, Oreste, ed Ercole. Questa mescolanza poco plausibile è compensata dall’unità dell’azione, che è condotta regolarmente nel giusto tempo con gravità, e con facilità e nitidezza, se non con tutta la maestosa eleganza Virgiliana51. L’altro componimento intitolato Historia Bætica rappresenta l’ evenimento dell’espugnazione di Granata, ed è scritto in prosa, eccetto l’ argomento ed il prologo che sono in versi giambici. Anche si fece rappresentare dal cardinal Riario nel suo palazzo in un teatro erettovi espressamente, e fu ascoltata con grande applauso. Dicesi nel prologo:

Requirat autem nullus hic comœdiæ
Leges ut observentur, aut tragœdiæ;
Agenda nempe est historia, non fabula.

Ed in fatti par che l’autore si proponesse di narrare in un dialogo continuato l’azione esposta nell’argomento. In fine di questa composizione si trova scritto: Acta ludis Romanis, Innocentio VIII in solio Petri sedente, an. a Nat. Salvatoris MCCCCXCII, undecimo kalendas maii.

Leonardo Bruni che da Arezzo sua patria si disse Aretino, nato nel 1369 e morto nel 1444, avea composta una commedia intitolata Polixena stampata più volte in Lipsia nel principio del secolo XVI. Leon Batista Alberti nato secondo il Manni e il Lami nel 1398, e secondo il Bocchi nel 1400, e secondo che con maggior probabilità congettura il Tiraboschi, nel 1414, scrisse in prosa latina nell’età di venti anni una commedia intitolata Philodoxeos, creduta per due lustri opera di un antico scrittore, perchè ha non poco dello stile degli antichi comici, e mostra lo studio fatto dall’Alberti della latina favella. E benchè poi giunto l’autore all’età di trent’anni l’avesse ritoccata e divulgata col suo nome, dedicandola al marchese di Ferrara Leonello da Este, non per tanto Aldo Manuzio il giovane volle pubblicarla nel 1588 sotto il nome di Lepido comico poeta antico. Alberto da Eyb ne inserì molti squarci nella Margarita Poetica, ma chiamò l’ autore Carlo Aretino. Nella medesima opera dell’Eyb si mentova un’ altra commedia latina di quel tempo di Marcello Ronzio Vercellese intitolata De falso hypocrita & tristi, adducendosene molti passi. Ugolino Pisani Parmigiano52 compose alcune commedie latine, per le quali da Angelo Decembrio vien chiamato valoroso imitatore dello stile Plautino 53. Una ne presentò al nominato Leonello succeduto al padre nel 1441, nella quale confabulavano le masserizie di cucina, secondo il medesimo Decembrio. Un’ altra in prosa intitolata Philogenia 54 trovasi manoscritta nella R. Biblioteca di Parigi e nella Vaticana55, e nell’Estense benchè senza nome dell’autore56. Quella che ne ho veduta nella Biblioteca di Parma s’intitola Ephigenia 57. Secco Polentone, ossia da Polenta, cancelliere della repubblica Padovana, chiamato dagli scrittori di que’ tempi Sico o Xicus Polentonus, cui i Padovani aggiungono il cognome di Ricci, compose pure latinamente verso la metà del secolo una commedia in prosa intitolata Lusus ebriorum, la quale serbasi manoscritta fra’ codici di Giacomo Soranzo.

Ma non composero gl’ Italiani altro che farse e componimenti latini in questo secolo? Non ne scrissero alcuno in volgare che loro assicuri l’anteriorità anche per questa via? Ve ne furono almeno dodici recitati e stampati, che qui recheremo, sebbene per esperienza io sia certo che neppure un solo vogliano vederne i Lampigliani, tra’ quali con rincrescimento sembraci che si debba noverare il Signor Andres.

Appunto dal nominato Lusus ebriorum venne la più antica commedia volgare che abbiasi alle stampe. Modesto Polentone ne fece una traduzione Italiana, intitolandola Catinia da Catinio protagonista della favola, e pubblicolla in Trento nel 147258.

Venne poi l’Orfeo del Poliziano, nel quale dee riconoscersi la prima pastorale tragica fra noi composta in volgare con qualche idea di regolata azione. L’autore non oltrepassava l’anno diciottesimo di sua età, quando la scrisse in tempo di due giorni (com’ egli accenna in una lettera a Carlo Canale) intra continui tumulti a requisizione del Reverendissimo Cardinale Mantuano Francesco Gonzaga, in occasione che questi da Bologna, ove risedea Legato, portossi a Mantova sua patria, ov’era vescovo, nel 1472, come col Bettinelli stabilisce il lodato P. Affò, o almeno prima del 1483, nel quale anno morì il Cardinale, come bene osserva il Tiraboschi. Il Bibliotecario di Parma nel 1776 fe pubblicarlo in Venezia, così intitolandolo: L’Orfeo tragedia di Messer Angiolo Poliziano tratta per la prima volta da due vetusti codici, ed alla sua integrità e perfezione ridotta ed illustrata. Precede al dramma un argomento rinchiuso in due ottave. Ciascuno de’ cinque atti, ne’ quali è diviso, porta un titolo particolare. Chiamossi il primo Pastorale, il secondo Ninfale, il terzo Eroico, il quarto Negromantico, il quinto Baccanale.

Contiene il primo un’ ecloga amorosa di Aristeo, che poi va in traccia della ninfa Euridice. Nel secondo egli la trova, e le corre dietro, ed indi a poco una Driade piangendo annunzia alle compagne la morte di Euridice, e vedendosi venir da lungi Orfeo, la Driade manda le altre a coprir di fiori la morta ninfa, ed ella ne reca a lui l’ amara novella. Nel terzo esce Orfeo ignaro della sua sventura cantando un tetrastico latino ad Ercole, che incomincia Musa, triumphales titulos, & gesta canamus, e s’interrompe alla venuta della Driade da cui ode la morte di Euridice punta dal morso velenoso di un serpente. Istupidito dal dolore parte Orfeo senza far motto alla maniera di Sofocle, rimanendo in iscena il Satiro Mnesillo, indi ritorna piangendo la consorte, e risolve di calar giù nell’inferno,

A provar se laggiù mercè s’impetra.

Trattasi nel quarto di ciò che avvenne ad Orfeo nell’inferno. Ma quì si chiederà, come debba concepirsi la scena, passando tutta l’azione in due luoghi. Giudica il prelodato P. Affò essersi dovuta in Mantova formar la scena ad imitazione delle antiche, che figuravano a un tempo stesso più luoghi, e mostrar da un lato la via che faceva Orfeo nell’avvicinarsi alla reggia di Plutone, e dall’altro l’inferno stesso. Ma tale scena bipartita converrebbe all’atto IV, e non al rimanente. I sospiri d’Aristeo, i lamenti delle Driadi, il pianto d’Orfeo, cose che passano negli atti precedenti, e l’ammazzamento del poeta amante eseguito nel quinto dalle Baccanti, esigono un’ apparenza diversa da quella dell’atto IV. Dovè dunque cangiarsi la scena nella guisa che oggi avviene ne’ drammi musicali, servendo all’azione. La scena dell’atto I dovea rappresentare una campagna a piè d’un monte con una fonte, presso di cui era Aristeo:

. . . . appresso a questa fonte
Non son venuti in questa mane armenti,
Ma ben sentii mugghiar là dietro al monte;

ed in tale scena potevano passare anche il II e III atto parlandovisi del medesimo monte. Rappresentò forse il IV il dilettevole orrore della dipintura di tante pene infernali sospese al cantar di Orfeo (siccome l’ espresse il Poliziano seguendo Virgilio), e la reggia di Pluto, e la strada tenuta da Orfeo. Nel V potè tornare la mutazione de’ primi tre atti, accennandovisi eziandio il monte, questo monte gira intorno, ovvero cangiarsi il teatro in una foresta su questo monte destinata dalle Baccanti alla celebrazione de’ loro riti. Che se di tutte queste cose volesse idearsi una scena stabile, non riuscirebbe difficile il compartirvele; ma allora sorgerebbe un dubbio inevitabile, cioè, come mai ninfe e pastori scorrendo per ogni banda, non si sono avveduti della via che mena all’inferno e delle apparenze dell’atto IV? Lascio poi stare il poco artificio di tener sotto gli occhi dello spettatore per tutta la rappresentazione la più vistosa decorazione della reggia di Pluto, mentre altrove espongonsi cose assai men vivaci. Adunque la scena nell’Orfeo fuor di dubbio cangiossi, servendo anche allo spirito di magnificenza del secolo XV, in cui amavansi all’estremo (e ben l’accenna l’erudito annotatore) le maravigliose rappresentazioni e le macchine sorprendenti. In quest’atto Orfeo implora il ritorno di Euridice tra’ vivi; Proserpina intercede per lui; e Plutone gliela concede a condizione, che non abbia a volgersi indietro per mirarla per tutta la via infernale. Sembra che dopo ciò dovesse chiudersi la porta ferrata della reggia. Orfeo lieto seguito da Euridice profferisce un altro tetrastico latino:

Ite triumphales circum mea tempora lauri:
Vicimus: Euridice reddita vita mihi est.
Hæc mea præcipue victoria digna corona.
Credimus, an lateri juncta puella meo?

L’ultimo pentametro indica la curiosità d’Orfeo, che contro il divieto si volge a mirar la moglie, e torna a perderla per sempre. Euridice sentendosi tirar indietro, stende invano le braccia al marito, ed è tratta di nuovo nel regno della morte. Il Poliziano anche quì calcando l’orme Virgiliane così la fa parlare:

Aimè! che troppo amore
Ci ha disfatti ambidua!
Ecco che ti son tolta a gran furore,
E non son or più tua.
Ben tendo a te le braccia, ma non vale,
Che indietro son tirata. Orfeo mio, vale.

Orfeo vuol tornare per ridomandarla, ma vien respinto da Tisifone. Nel quinto atto Orfeo vaneggiando per lo dolore risolve di non mai più innamorarsi d’ alcuna donna; ed era questo un natural sentimento nella disperazione in cui si trovava. Ma dovea il Poliziano farlo passare ad abborrir le donne, che non aveano a lui mancato, e a detestarle con certe espressioni solo convenienti ad alcun Orlando tradito da qualche Angelica? Dovea mettergli in bocca que’ versi che mostrano l’autor del dramma proclive al più detestabile sfogo della lascivia? Questi sono errori dell’età giovanile, o di quegl’ ingegni vivaci che troppo a se fidando mettono giù i loro parti senza scelta e senza lima a somiglianza de’ verseggiatori estemporanei59. I sentimenti di Orfeo ingiuriosi al sesso femminile muovono a sdegno le Menadi furibonde che ne risolvono ed eseguiscono la morte, e con una canzonetta ditirambica termina la favola (Nota IX). Egli vi si vuol notare ancora che molte cose dovettero cantarsene, spezialmente alcuni pezzi delle scene di Orfeo, e le canzoni de’ cori.

Due altre azioni teatrali volgari leggonsi nelle Rime del Notturno poeta Napoletano, le quali appartengono a questo periodo. La prima s’intitola Tragedia dil maximo & dannoso errore in che è avvilupputo il fragil & volubil sexo femineo, la quale nella Drammaturgia dell’Allacci s’intitola Errore femineo. In questa pretesa tragedia si trovano alcune scene comiche. Il metro è vario, contenendo arbitrariamente ottave e terze rime, ed alcune strofe anacreontiche con un intercalare cantato da quattro musici60. La seconda azione scenica del Notturno è detta commedia nuova nell’edizione Milanese, ed in alcune Veneziane Gaudio d’amore; ed il di lei carattere è nel basso comico, seguendo la condizione de’ personaggi antichi, servi, ruffiani, parassiti, meretrici. Ma tempo è di accennare alcuni altri passi teatrali dati in altre città Italiane, e singolarmente in Roma ed in Ferrara.

In Milano il duca Ludovico Sforza fe aprire in questo secolo un magnifico teatro, di cui si parla in un epigramma di Lancino Corti61. In Firenze il celebre traduttore di Tito Livio Giacomo Nardi, secondo il Fontanini, al più tardi produsse nel 1494 la sua commedia composta in vario metro intitolata l’Amicizia. In Roma senza verun dubbio uno de’ principali autori del risorgimento della drammatica fu il rinomato Calabrese Pomponio Leto. Per quanto leggesi nella di lui Vita composta da Marcantonio Sabellico, cominciò il Leto a farvi recitare ne’ cortili de’ prelati più illustri le commedie di Terenzio e di Plauto ed anche di qualche moderno, insegnando egli stesso ad alcuni civili giovanetti il modo di rappresentarle. A tempo di Paolo Cortes, per quanto egli stesso racconta, fecesi anche sul colle Quirinale la recita dell’Asinaria. Nel Diario di Jacopo Volterrano pubblicato dal Muratori62 si parla di un dramma intorno alla vita di Costantino rappresentato a’ cardinali nel carnovale del 1484, nel quale sostenne il personaggio di Costantino un Genovese nato e cresciuto in Costantinopoli, che da quel tempo sino alla morte fu chiamato sempre l’imperadore.

Con maggior magnificenza ancora cominciarono nel 1486 a rappresentarsi in Ferrara feste e spettacoli teatrali sotto la direzione dell’infelice Ercole Strozzi figlio di Tito Vespasiano Ferrarese63, e niuno vi ebbe (dice il Tiraboschi) che nella pompa di tali spettacoli andasse tant’oltre quanto Ercole I Duca di Ferrara principe veramente magnifico al pari di qualunque più possente sovrano. A’ venticinque di gennajo del nominato anno, secondo l’antico diario Ferrarese, questo splendido duca fe rappresentare in un gran teatro di legno innalzato nel cortile del suo palazzo la commedia de’ Menecmi di Plauto, alla cui traduzione egli stesso avea posto mano64. A’ ventuno poi del medesimo mese del seguente anno vi si rappresentò la favola di Cefalo divisa in cinque atti e scritta in ottava rima dall’ illustre guerriero e letterato Niccolò da Correggio (che non so perchè vien detto dal Bettinelli Reggiano); ed indi a’ ventisei dello stesso mese l’Anfitrione tradotto in terza rima da Pandolfo Collenuccio da Pesaro, il quale a richiesta parimente di Ercole I compose la sua commedia, o a dir meglio azione sacra, intitolata Joseph impressa poi in Venezia nel 1543, e nel 1555, e nel 1564 corretta da Gennaro Gisanelli. Sotto il medesimo duca e pel di lui teatro Antonio da Pistoja della famiglia Camelli secondo il Baruffaldi e secondo altri della Vinci, compose alcuni drammi, e specialmente la Panfila tragedia in terza rima ed in cinque atti stampata in Venezia nel 150865. Pietro Domizio scrisse un’ altra tragedia pel medesimo teatro, che dovette rappresentarsi nel 149466. Per uso dello stesso teatro furono tradotte anche in terza rima da Girolamo Berardo Ferrarese la Casina e la Mostellaria stampata in Venezia. Il famoso Matteo Maria Bojardo conte di Scandiano, ad istanza del medesimo duca, compose in terza rima e in cinque atti il Timone commedia tratta dal dialogo così chiamato di Luciano, la quale trovasi impressa la prima volta senza data, ma certamente si scrisse prima del 1494, anno in cui seguì la morte dell’autore, e se ne fece nel 1500 una seconda edizione67.

Non ci curiamo di recare in questo secolo le due commedie Italiane di Giovanni di Fiore da Fabbriano, e l’altra di Ferdinando di Silva Cremonese intitolata l’Amante fedele rappresentata nelle nozze di Bianca Maria Visconti col conte Francesco Sforza68. A noi basti l’aver mostrato ad evidenza con altri non ambigui monumenti ciò che incresce a’ Lampigliani, che l’Italia può vantarsi d’aver coltivata la drammatica ad imitazione degli antichi con quella felicità che altri non ebbe. Aggiugneremo con pace del Signor Andres, che essa parimente prevenne le altre nazioni Europee in produrre i primi indubitati pezzi teatrali in lingua volgare (giacchè è piaciuto a quest’autore altro non potendo ricorrere a quest’asilo) nè solo coll’ Orfeo, ma con altri drammi eziandio, per cui vedere basterebbe agli apologisti oltramontani rileggere i nostri libri senza gli occhiali colorati di Plutarco. E chi allora metterebbe più in confronto una ventunesima parte di una novella in dialogo, che ebbe nel secolo vegnente per altra mano il compimento e mai non si rappresentò, a tanti per propria natura veri drammi Italiani, rappresentati con plauso e per tali riconosciuti, cioè alla Catinia, al Cefalo, al Gaudio d’amore, alla Panfila, ai Menecmi, all’Anfitrione, alla Casina, alla Mostellaria, all’Amicizia, al Timone? Passiamo a vedere lo stato della drammatica tra gli oltramontani.