CAPO PRIMO.
Ritorno delle rappresentazioni teatrali dopo
nate le lingue moderne.
L’Orrore e la desolazione che alla venuta de’ barbari settentrionali si distese per le provincie del Romano impero, nè le sole furono nè le più fatali conseguenze di quel rapido incendio di guerra che le sconvolse. Col tempo si riparano le rovine, gli edificj si rialzano, ripopolansi i paesi, quando il nuovo signore lascia intatti i costumi, e molto non altera la natura del governo. Egli stesso in tal caso parrà in certo modo conquistato dal popolo vinto; la qual cosa avvenne in fatti agli ultimi Tartari conquistatori della China, i quali ritenendo la polizia, la legislazione e i costumi del paese, diventarono i primi Cinesi. Ma i figli degli antichi Tartari che inondarono l’impero Romano sotto i nomi di Goti, Unni, Eruli, Gepidi, Vandali e Longobardi, con istabilir nelle conquiste una nuova forma di governo assai peggior dell’antica, ci tolsero i patrj costumi ed il linguaggio, e ci trasformarono nella loro barbarie. Ed oh quanto tardi il tempo col soccorso di molte favorevoli circostanze giugne a distruggere gli effetti perniciosi di sì luttuose vicende! Alzò sulle nostre rovine il suo trono il governo feudale, tremenda polizia sino a quel punto a noi ignota e per natura poco propizia all’ordine e alla pubblica tranquillità. Usciti que’ conquistatori da paesi, ove regnava l’ indipendenza, ove i primori riconoscendo un capo della nazione conservavano una gran parte de’ loro diritti, stabilirono fra noi un governo fatto per dividere in vece di unire. Le regioni conquistate formarono un corpo di varie picciole signorie col nome di feudi, le quali appena in tempo di guerra si congiungevano per bisogno, e nella pace nulla fra loro convenivano e poco si attenevano al tutto1. L’ Italia, la Spagna, l’Inghilterra empieronsi di piccioli tiranni gelosi degli acquisti e sempre pronti a guerreggiar sotto di un capo contro gli stranieri, o ad avere in conto di stranieri ora i compagni ora lo stesso sovrano per difendere i proprj diritti. Quindi il continuo sospetto che alimentava la discordia delle parti: quindi vennero quelle fortezze e castella opposte ad ogni nemico domestico o straniero, delle quali e nella Spagna e nel regno di Napoli ed altrove scorgonsi tuttavia in piedi su ripide balze grosse reliquie: quindi tante guerre intestine e tanti diritti di Leudi e Antrustioni, di Fedeli o Comiti e Gastaldi, di Ricos-hombres e Infanzones: quindi i guidrigil o tasse degli uomini, per le quali un uomo ucciso valutavasi tal volta al vilissimo prezzo di venti soldi: quindi le misere condizioni di tanti vassalli angarj, parangarj, schiavi prediali, censili, terziarj, filcalini ed altre specie di servi ed aldioni 2.
Ora quando trovansi gli uomini in una mutua guerra, quando poca è la sicurezza personale e pressochè nulla la libertà, quando gli spiriti gemono agitati dal timore e depressi dall’avvilimento, come mai coltivar le scienze e le arti, polire i costumi e le maniere, e richiamare il gusto? Spazia allora senza ritegni una cieca e stupida ignoranza, e tutto è rozzezza, oscurità e squallore. Era tale presso a poco l’aspetto dell’ intera Europa sino all’undecimo secolo.
In mezzo a tanta barbarie pur non mancò in alcune regioni qualche solitario allievo della sapienza, il quale appressandosi al solio di Carlo Magno potè co’ suoi consigli eccitarlo alla magnanima impresa d’ingentilire e illuminare i popoli. Essendo in età di anni trenta calato questo gran principe in Italia nel 773, sfornito de’ rudimenti gramaticali della latina lingua, conobbe in Pavia il diacono Pietro da Pisa ed esser volle suo discepolo. Dopo sette anni in circa apprese dall’Inglese Alcuino la rettorica, la dialettica, l’aritmetica e l’astronomia; e così iniziato ne’ misteri del sapere concepì il bel disegno di spargere la coltura ne’ suoi vasti dominj, che oltre la Francia stendevansi in gran parte dell’Italia, della Germania e della Spagna. Il primo che in Francia tenne scuola nel di lui palagio, fu lo stesso Pietro Pisano. Altri maestri di canto, di gramatica, di aritmetica e di tutte le sette arti liberali, vi chiamò dall’Italia ad insegnare, mosso probabilmente da Paolo Diacono e da Paolino II di Aquileja, due uomini de’ più dotti del suo tempo. In simil guisa pervenne questo sovrano ad inspirar ne’ suoi sudditi l’amore delle scienze3. Alfredo intanto attese con pari ardore a rischiarare la Gran-Brettagna. Ma questo barlume passeggiero sparso per le provincie oltramontane sparì sotto i successori dell’uno e dell’altro principe, e si ricadde nell’oscurità primiera. Dimenticate le leggi scritte, il dritto Romano, i capitolari, sorsero da per tutto le costumanze4. La giudicatura cadde nelle mani di uomini senza lettere, i quali non di rado venivano dalle parti astretti a pruovar coll’ armi la propria integrità e la giustizia della sentenza profferita, per la qual cosa in essi richiedevasi più forza di corpo che di mente. La maggior parte degli ecclesiastici intendeva a stento il breviario (Nota I). La lingua latina non solo degenerò negli scrittori imbarbariti, ma pugnando con cento idiomi oltramontani si cangiò in certi nuovi parlari gergoni, i quali presero un carattere nazionale e distinto in Italia, in Francia e nelle Spagne.
Chi avrebbe mai allora indovinato che in queste nuove lingue dovea col tempo rifiorire la più sfoggiata eloquenza Ateniese e Romana? che tutte le muse doveano abbellirle di tutte le loro grazie (Nota II)? E pure il corso naturale delle nazioni apportò rivoluzione sì vaga e sì mirabile. Per un flusso e riflusso costante avverato da’ fatti corrono le nazioni dalla barbarie alla coltura, indi da questa a quella, giunta che sia l’una e l’ altra al grado estremo. L’estrema barbarie produce inopia, e questa col divenir per forza industriosa reca successivamente ricchezza e coltura. L’ estrema coltura degenera in lusso eccessivo, il quale diventa padre della mollezza e poltroneria, ed allora trascuransi le arti, si deprava il gusto e si rientra nella barbarie5.
L’Italia governata da’ savj pontefici Romani e in gran parte dagl’ imperadori Greci, per consenso degli stessi oltramontani, prima d’ogni altro popolo emerse dalle ombre. Eravisi meglio conservato l’uso della scrittura ed i semi dell’industria6. Venezia, Genova, Pisa, Amalfi ed altre città Italiane furono senza contrasto le prime a vedere il camino d’arricchire per mezzo del commercio (Nota III). In questi paesi (dice Robertson nell’ introd. alla Stor. di Carlo V) i più coltivati e civilizzati di tutta l’Europa, scendevano i crocesignati prima di passare in Asia, e vi lasciavano immense somme pel trasporto verso Terra Santa7. Le guerre d’Asia poi, la presa di Costantinopoli fatta da’ Latini, il passar che fecero le più fertili isole dell’arcipelago con una gran parte del Peloponneso sotto il dominio de’ Veneziani, de’ Genovesi e d’altri Italiani, produssero lo stabilimento del commercio in Italia come nella sua più nobil sede. E questa sorgente di ricchezza ridestò fra noi il sopito natural desiderio di libertà, sotto i cui soli auspici escono gl’ ingegni dalla stupidezza e dall’inazione. Al commercio fiorente si dovettero i mezzi di scuotere il giogo de’ signori e di stabilire un governo libero ed eguale che agli abitanti assicurasse la proprietà de’ beni, accrescesse la popolazione e incoraggisse le arti. Uno spirito generoso d’indipendenza e di libertà fermentava nel cuor dell’ Italia con tal vigore, che prima di terminare l’ultima crociata tutte le città considerabili aveano dagl’ imperadori comperati e ottenuti tanti privilegj che si potevano chiamar libere 8.
Qual maraviglioso insolito spettacolo non fu allora agli oltramontani l’ Italia florida e coraggiosa che osava la prima assalire e battere l’orribil mostro del governo feudale! La Francia vicina (dice il lodato Storico Inglese) prima di ogni altra regione verso il XII secolo approfittossi del bell’ esempio, il quale di mano in mano si comunicò all’Alemagna, indi alla Spagna, all’Inghilterra ed alla Scozia. Così dietro le ardite tracce dell’ Italia libera videsi quel terribil mostro in tanti luoghi perseguitato e mortalmente ferito. Così venne a indebolirsi l’ indipendenza de’ baroni; le corone accrebbero la propria prerogativa; ed il popolo spezzate le sue catene diede allo stato cittadini utili ed industriosi. Ed ecco che intorno a questo tempo cominciarono i talenti a mettersi in movimento, e fiorirono in copia i versificatori volgari Provenzali, Piccardi, Siciliani e Toscani. Lusingossi qualche apologista straniero di partecipar delle glorie Italiane di quel tempo col seminar dubbj pedanteschi sulla nascita di qualche scrittore e col procurare di appropriarlo alla sua nazione presupponendo scambi di sillabe ne’ codici adulterati. Non si curino gl’ Italiani di segnalarsi in queste ridevoli picciole guerre di lettere posposte, le quali sprezzate risolvonsi in nulla. Basti alla moderna Italia il pregio singolare, non efimero, non equivoco, non mendicato con sofismi, reticenze ed artificii Lampigliani, nè con invettive e declamazioni de’ sedicenti filosofi, nè con villanie e tagliacantonate; ma certo, veduto e confessato da classici scrittori transalpini, cioè quello di avere insegnato alle nazioni ad esser libere.
Rinate colla libertà le opere dell’ingegno svegliossi lo spirito imitatore e rappresentativo. Fece il commercio stabilir le fiere, nelle quali ad oggetto di chiamarvi e trattenervi il concorso s’ introdussero le danze e i divertimenti ludrici. Il clero cui importava che i popoli non venissero distratti dalla divozione, alla prima proscrisse siffatti spettacoli, indi cangiando condotta e seguendo lo stile delle precedenti età, quando ad onta dei divieti si videro introdotti nelle chiese, ne ripigliò egli stesso l’usanza, esercitando l’ arte istrionica e mascherandosi e cantando favole profane nel Santuario9. Teodoro Balsamone autore del XII secolo sul canone 62 del Concilio Trullano che proibisce agli uomini il prender vesti femminili e coprirsi con maschere, osserva che a suo tempo ancora nel natale di Cristo e nell’epifania i chierici si mascheravano in chiesa. Mediante però la legge del pontefice Innocenzo III riportata nel citato capitolo del decretale si conseguì finalmente nel principio del XIII secolo l’abolire questa contaminazione de’ templi. Restovvi tuttavia la musica e l’uso di celebrarvi con una specie di rappresentazione certe feste bizzarre, le quali oltramonti ebbero più il carattere di follia che di giuoco. Era notabile nella cattedrale di Roano il dì di natale la sesta asinaria, nella quale compariva Balaam su di un’ asina e varii profeti che aveano predetta la venuta del Messia, e Virgilio e la Sibilla Eritrea e Nabucdonosor e i tre fanciulli nella fornace10. Correva il popolo volentieri alla festa de’ pazzi che si celebrava dal natale all’epifania in molte chiese greche e latine. In Costantinopoli l’ introdusse verso il X secolo il patriarca Teofilatto11: si celebrava in Francia in Dijon, in Autun, in Sens, in Viviers: in Inghilterra anche verso il 1530 trovavasi nella chiesa di Yorck un inventario, in cui si parla della mitra e dell’anello del vescovo de’ pazzi 12. Non riusciva men cara a’ popoli di quel tempo la festa degl’ Innocenti, che era un tralcio di quella de’ pazzi e si celebrava nel dì de SS. Innocenti13.
Posero in oltre i monaci di mano in mano in dialogo le vite de’ santi, come quella di S. Caterina recitata nel convento di S. Dionigi. Altri simili dialoghi senza numero in Francia, in Alemagna, in Italia e nelle Spagne, recitaronsi nelle chiese o ne’ cimiteri dove passava il popolo dopo la predica.
Ma sino al principio del XIII secolo, fra tante poesie nella Piccardia, nella Provenza, nella Sicilia e nella Toscana, non si rinviene cosa veruna appartenente al teatro. Si favella di tragedie e commedie di Anselmo Faidits nella poco esatta storia de’ poeti Provenzali del Nostradamus (Nota IV) ma quell’ Anselmo fiorì nel XIII secolo, essendo morto nel 1220. Non ostante poi il titolo di tragedie e commedie, le di lui favole altro esser non doveano che meri monologhi o diverbii per lo più satirici, senza azione, posti in musica da lui stesso, e cantati insieme colla moglie che egli menava seco in cambio de’ ministrieri, e de’ Giullari (Nota V). L’Heregia dels Preyres è il titolo rimastoci di uno de’ dialoghi del Faidits, che si vuole che fosse una commedia da lui recitata in Italia stando al servigio del Marchese Bonifazio da Monferrato.
I mentovati ministrieri erano compagni de’ trovatori, e per lo più giravano per li castelli de’ signori per divertirli nell’ora del desinare, cantando su proprii stromenti de’ versi accompagnati da musica da loro composta. Inglesi, Scozzesi e Danesi ebbero ancora i loro ministrieri, che cantavano i proprii versi14, e forse precedettero a i Bardi ed agli Scaldi (Nota VI). Due fatti istorici manifestano in quale stima essi erano ne’ primi tempi appresso i Sassoni e i Danesi. Alfredo gran re d’Inghilterra in un tempo di barbarie, cioè nell’878, volendo spiare la situazione dell’armata Danese che avea fatta irruzione nel suo reame, prese le vesti di un ministriere, e si presentò al campo Danese. Fu veramente conosciuto per Sassone, ma pel carattere rispettato di ministriere fu introdotto alla presenza del re e cantò molti versi, e poscia esaminato il campo formò un piano di assalto, col quale tagliò a pezzi il di lui esercito. Sessanta anni dopo, cioè nel X secolo, Anlaff re di Danimarca collo stesso travestimento volle osservare il campo di Atelstan re d’Inghilterra, ma lo stratagemma riuscì infruttuoso15.
Tornando al secolo XIII fiorivano in Alemagna i minnesoenger, ovvero cantori d’amore, nelle cui poesie tuttavia esistenti non si rinviene pezzo veruno teatrale. Si mentovano nelle Spagne i versi cantati da’ pellegrini che visitavano in Galizia il sepolcro dell’ Apostolo San Giacomo, da’ quali seppe Don Blàs de Nasarre rintracciar la famosa origine delle orazioni de’ ciechi. Fiorì però in tali paesi a quel tempo il monaco Gonsalo Berceo forse il più antico Spagnuolo che poetò in lingua Castigliana. Pure nè anche vi si trovano poesie teatrali.
L’Italia che già contava varj dotti poeti, come Guitton d’Arezzo che perfezzionò il sonetto invenzione degl’ Italiani, Dante da Majano, l’Abate Napoli, Cino da Pistoja, Guido Cavalcanti, Brunetto Latini ed il migliore di tutti Dante Alighieri, pare che sia l’unica nazione che ci presenti qualche teatral monumento del secolo XIII. Nel 1230 si celebrò in Piacenza nel borgo e nella piazza di S. Antonino un giuoco, che nella cronaca Piacentina16 così seccamente si enuncia: Fuit Ludus Imperatoris, & Papiensium, & Regiensium, & Patriarchæ. Apparentemente fu questo un ludrico spettacolo, in cui s’introdusse Federigo II co’ suoi aderenti i Pavesi, i Reggiani ed il Patriarca17. Ma sulle riferite parole non può assicurarsi che fosse rappresentazione animata dalle parole. Apostolo Zeno chiaro per erudizione, probità ed accuratezza ricavò da varie cronache, che in Padova nel Prato della Valle fecesi una rappresentazione spirituale nel dì di Pasqua di Resurrezione del 1243 o 124418. Pretese il Bumaldi che Fabrizio da Bologna nel 1250 componesse volgari tragedie; ma ciò afferma perchè nel libro di Dante della Volgare Eloquenza Fabrizio è chiamato poeta di stile tragico, la qual cosa ognun sa che in Dante vuol dir sublime, e non già autore di tragedie19. Quel che però non ammette dubbio veruno, è che in Roma nel 1264 fu istituita la Compagnia del Gonfalone, che per oggetto principale si prefisse il rappresentare i misteri della passione di N. S., siccome per lungo tempo continuò ad eseguire nella settimana santa20. Un’ altra rappresentazione de’ misteri della passione di Cristo trovasi fatta dal clero con molto applauso nel Friuli l’anno 1298 nel dì di pentecoste21.
Il dottissimo storico della Letteratura Italiana argomenta giustamente sopra varie feste fatte per mezzo degli strioni e buffoni nel secolo XIII rammentate dal Muratori22, asserendo non potersi mettere in conto di teatrali. Vuole altresì con fondamento che il nominarsi versi recitati su’ teatri non sempre additi un’ azione drammatica. Passa in oltre a dubitare che le accennate rappresentazioni di Padova, del Friuli, della Compagnia del Gonfalone, sieno state eseguite con dialogo, stimandole semplici apparenze mute figurate dal clero in tempo di pasqua e di pentecoste. Veramente noi che reputiamo drammatiche ed espresse con parole quest’ultime, non possiamo recarne nè squarcio che il dimostri, nè testimonio sincrono che espressamente l’ affermi. Tuttavolta la parola ludus usata da’ cronisti par che più favorisca il nostro avviso che il dubbio del celebre storico. Forse non si direbbe con ogni proprietà ludus un mistero espresso con un groppo di statue; nè perchè in vece di quelle statue si mettessero degli uomini, tal rappresentazione diventerebbe un giuoco. Ma ciò lasciando, la Compagnia del Gonfalone istituita nel XIII secolo per rappresentare i misteri, ne’ tempi più a noi vicini ciò fece con parole a tenore del suo istituto. Nel XV secolo rappresentava pubblicamente nel coliseo di Roma la passione; e le parole del dramma si composero dal vescovo di S. Leo Giuliano Dati Fiorentino che fiorì circa il 1445, e per gran parte del XVI seguitò esso a rappresentarsi nella stessa guisa, siccome attesta Andrea Fulvio23. Verisimilmente ciò che continuò a farsi nel XV e XVI, praticossi nel XIV, e venne dal XIII quando surse la Compagnia. Che se le parole vi fossero introdotte non già dal XIII, come a noi sembra, ma dal XV, in cui si compose indubitatamente il dramma del Dati, nell’imprimersi che si fece nel declinar del secolo XVI il libro degli statuti della Compagnia, non avrebbe in essi dovuto esprimersi questa varietà essenziale, cioè che le rappresentazioni da mute che furono nel XIII, passarono poscia ad animarsi con parole? Appresso. Il Ludus Paschalis de adventu & interitu Antichristi recato dal Muratori24 e poi dal Tiraboschi25 e da me nel tomo precedente, fu senza contrasto azione drammatica atta a recitarsi. Qualche altra ne accenneremo appresso dell’Alemagna. Vedrassi nel seguente capo che in Francia sin dal tempo di Filippo il Bello vi fu una festa simile con canti e con parole. Alcuni squarci di simili misteri fatti in Napoli nel tempo degli Angioini recammo nel III volume delle Vicende della Coltura delle Sicilie. Or perchè quelli del XIII secolo debbono soltanto essersi rappresentati mutamente? Forse perchè niuno se n’è conservato26? Ma per essere periti tanti drammi greci e latini potrà negarsi che si composero e recitaronsi nella Grecia e nel Lazio, e che rassomigliavano a quelli che ci rimangono? Egli è vero che in Francia, nelle Fiandre ed altrove furonvi alcuni misteri rappresentati alla muta per le strade; ma gli scrittori che ne parlano, dicono espressamente che si esposero solo alla vista; or quando poi tal circostanza non si specifica, sembra ragionevole il credere che allora si parli di rappresentazioni cantate e recitate. Per altro non può negarsi quel che osserva il medesimo chiar. Cavalier Tiraboschi, cioè che siffatti misteri, ed i versi cantati su’ teatri dagl’ istrioni e giocolieri a que’ tempi, non meritino rigorosamente nome di vere azioni teatrali. Con tutto ciò debbono entrare nella storia drammatica come primi saggi che ricondussero a poco a poco in Europa la poesia scenica. I cori Dionisiaci in Grecia non erano vere azioni teatrali; nè tal fu la ludrica degli Etruschi introdotta in Roma; ma di quelli e di questa si conservano le memorie da quanti imprendono a favellare dell’origine e del progresso della poesia teatrale greca e latina; essendo come le povere scaturigini de’ gran fiumi, che con ogni diligenza e con diletto curiosamente si rintracciano.