NOTE E OSSERVAZIONI DI D. CARLO VESPASIANO in questa edizione accresciute.
Nota I.
Gli Etruschi che da’ Greci furon detti Tirreni, vennero in Italia, secondo l’opinione di dotti uomini, dalla Fenicia, e secondo Erodoto, dalla Lidia; e perciò disse Orazio lib. 1, sat. 6
Non quia, Mecænas, Lydorum quidquid HetruscosIncoluit fines, nemo generosior est te.
Che l’Etruria fosse fiorita prima della Grecia, e che a questa dato avesse molte arti e scienze, viene quasi ad evidenza provato con autorità e ragioni dal ch. Monsignor Guarnacci nel lib. VII dell’Origini Italiche, e sostenuto da altri nostri valentuomini di questo secolo. Che i Greci ricevuto avessero dagli Etruschi diverse cerimonie ed istituzioni religiose, apertamente è asserito da Platone nel lib. V delle Leggi.
Nota II.
Ove stesse situata l’antichissima, e da molti secoli distrutta Rudia, si è in questa età disputato assai (Calogerà Raccolta d’Opuscoli T. IV, V, XI). Il Tafuri con molta probabilità pretende che fosse nelle vicinanze della città di Taranto, e che dalle ruine di essa sorgesse la terra delle Grottaglie. Altri anche con assai verisimiglianza sostiene, che fosse nel tenimento di Francavilla, ove oggi vedesi Rodia, che ne ha conservato il nome, e che trovasi a sei miglia ugualmente distante dalle montuose città d’Oira e di Ceglie, e diciassette in circa da Brindisi.
Nota III.
Ovidio nel principio del libro I de arte amandi dice, siccome traduce l’Ab. Metastasio, che
Le disposte senz’arteSemplici là del Palatino colleNatie piante selvagge, eran la scena
delle prime rappresentazioni teatrali che si fecero in Roma. Egli è certo, che i Romani molto tardi ebbero teatri stabili, e che le favole drammatiche in tempo de’ Ludi si rappresentavano nel Foro dove con statue e pitture che dagli amici, ed anche dalla Grecia soleano gli Edili Curuli, cui apparteneva la cura degli spettacoli, farsi prestare, ornavano il luogo in modo di scena. Olim enim (così ci lasciò scritto Asconio Pediano nell’Azione 3 contro Verre) cum in Foro ludi populo darentur, signis ac tabulis pictis partim ab amicis, partim a Græcia commodatis utebatur ad scenæ speciem, quia adhuc theatra non fuerant.
Nota IV.
Pacuvio, al dir di S. Girolamo in Chronico Eusebii, morì quasi nonagenario in Taranto: Marcus Pacuvius Brundusinus poeta Romæ picturam exercuit, & tabulas vendidit. Inde Tarentum transgressus, prope nonagenarius obiit. Chi ne desidera più ampla e distinta notizia, legga la dissertazione intorno alla vita di Pacuvio pubblicata in Napoli l’anno 1763 dal Canonico Annibale di Leo.
Nota V.
L’Imperadore Adriano antiponeva Lucilio a tutti quanti i tragici con quello stesso gusto depravato di antiquario che antipor solea Catone a Cicerone, Ennio a Virgilio, Celio a Sallustio; egli preferiva pure Antimaco ad Omero. Vedi Spartiano nella vita di Adriano.
Nota VI.
Terenzio imitatore e pressochè copista di Menandro, e perciò chiamato da Giulio Cesare dimidiate Menander, non si studiò tanto di piacere come Plauto al popolo quasi tutto, quanto agli Scipioni, a i Lelj, a i Furj, e ad altri nobili uomini di buon gusto, da’ quali, per quello che fin dal suo tempo si credeva, veniva ajutato a scrivere, o come è più verisimile, a ripulire le sue commedie (leggasi il prologo degli Adelfi e Donato). Il celebre Michele Equem Signor di Montaigne nel lib. II, c. 10 de suoi Saggi, parlando di questo elegantissimo comico Latino, ebbe a dire: les perfections & les beautès de sa façon de dire, nous font perdre l’appetit de son subjet. Sa gentillesse & sa mignardise nous retiennent par tout. Il est par tout si plaisant,
. . . . liquidus, puroque simillimus amni(Horat. lib. II, Epist. 2. v. 120).
& nous remplit tant l’ame de ses graces, que nous en oublions celles de sa fable. Non vi ha dubbio che la bellezza dell’ elocuzione sì nel verso, come nella prosa, imbalsimi sempre tutti i componimenti ingegnosi; ma nel genere comico richiedesi pur anche gran vivacità e piacevolezza, grazia e naturalezza, verità ed arte con un’ azione, una favola, e un vero ritratto de’ costumi del tempo:
Un vers heureux & d’un tour agréableNe suffit pas; il faut une action,De l’interet, du comique, une fable,De moeurs du temps un portrait véritable,Pour consommer cette oeuvre du démon,
dice benissimo il Signor di Voltaire.
Nota VII.
“Noi (dice Gellio lib. II, c. 23.) leggiamo le commedie de’ nostri poeti prese e tradotte da quelle de’ Greci, di Menandro cioè, di Posidio, di Apollodoro, di Alessi, e di altri. Or quando noi le leggiamo, non ci dispiacciono esse già; che anzi ci sembrano con lepore e con eleganza composte. Ma se tu prendi a paragonarle cogli originali Greci, da cui furono tratte, e ogni cosa di seguito e diligentemente tra lor confronti, cominciano le Latine pur troppo a cader di pregio e a svanire al paragone, così sono esse oscurate dalle commedie Greche cui in vano cercano di emulare“. Orazio, giudiciosissimo poeta e precettore (scrive Anton Maria Salvini) rende ragione, perchè i Comici Latini non abbiano aggiunto all’ eccellenza de’ Greci, zoppicando in questa parte la commedia Latina, per usare in questo proposito la frase di Quintiliano, uomo di squisito giudicio, seguito in ciò dal Poliziano nell’erudita Selva de’ poeti, dice, che di questa infericrità n’è cagione, che i Latini non hanno amata la fatica della lima, e stati sono impazienti d’indugio, mandando fuori troppo frettolosamente i lor parti, ne’ quali più ingegno che studio si scorge. Fin quì il Salvini. Ma lo svantaggio de’ Comici Latini a fronte de’ Greci deesi più che ad altro attribuire al poco onore, in cui dagli antichi bellicosi Romani per lungo tempo (secondochè ci attesta Cicerone Quæst. Tuscul. lib. I, n. 2) si tennero i poeti, che per la maggior parte furono di vil nascita e stranieri. Tiraboschi nella Storia della Letter. Italiana T. I, P. III., lib. II.
Nota VIII.
Athenæus (scrive Isacco Casaubono nel suo dotto trattato della Satira) fabulas a Sylla compositas, quæ vel Atellanæ fuerunt, vel Tabernariæ, aut certe Mimi quidam, appellat Satyricas Comœdias. Dicesi che L. Cornelio Silla amasse così eccessivamente i buffoni, o sia attori di farse, che quando essi riuscivano di suo gusto, regalava loro in ricompensa molte moggia di terra.
Nota IX.
Di Pomponio Secondo, che fu amico di Seneca, racconta Plinio il giovane lib. VI, epist. 17, che allor quando alcuno de’ suoi amici esortavalo a far qualche cambiamento nelle sue tragedie, e che egli nol giudicasse opportuno, soleva provocare al giudizio del popolo, e ritenere ciò che esso col suo applauso approvasse. Ma nelle materie letterarie è sempre miglior consiglio l’attenersi al sentimento de’ giudici saggi e di buon gusto, i quali son pochi, e la cui maniera di pensare trae seco finalmente quella del pubblico. Orazio nella Satira X del libro I così consiglia:
Sæpe stylum vertas iterum, quæ digna legi sintScripturus, neque, te ut miretur turba labores,Contentus paucis lectoribus.
In fatti sono assai pochi coloro che sanno, spezialmente in teatro, discernere e distinguere in un dramma gli errori di lingua, i versi cattivi, i pensieri falsi, e ciò che non conviene, e quell’ incantesimo che fin anco nelle cose non buone possono e sogliono produrre gli abili e destri rappresentatori e le decorazioni. Il n’y a que les connaisseurs, dice bene il Signor di Voltaire, qui fixent à la longue le mérite des ouvrages.
Nota X.
Siccome i Greci non si stomacarono della Medea di Euripide, contuttochè l’ autore per l’oro de’ Corintj ne avesse affatto cambiato la storia che allora non era troppo antica, così Cicerone, così Quintiliano, e così altri Romani non rimasero nauseati nè della Medea di Ennio, nè di quella di Ovidio, nè delle due altre Medee di Pacuvio e di Azzio, nè probabilmente di questa di Seneca; perchè il gran segreto della scena tragica, come saviamente pensa un nostro chiarissimo scrittore, in due parole è compreso: grandi affetti e stile.
Nota XI.
Leggansi le savie riflessioni del dotto Brumoy citato dal nostro Autore poste dopo il confronto da lui fatto tra l’Ippolito di Euripide e la Fedra di Racine. Pur della tragedia di Seneca parlando per incidenza Luigi Racine, dotto figlio dell’immortal tragico Francese Giovanni, parmi che troppo severamente ne giudichi, quando nelle sue osservazioni sopra la Fedra del Padre, e l’Ippolito di Euripide, fassi a dire: Cet auteur s’écartant entierement d’Euripide, n’observe ni conduite, ni caractére. Sa Piece, qu’on ne doit pas nommer tragedie, n’est qu’un tissu de sentences brillantes; & de descriptions poetiques, mises hors de leur place, parmi les quelles cependant on trouve quelques beaux traits.
Nota XII.
Il celebre Marc-Antonio Mureto nelle varie lezioni lib. XVI, c. 15 dice: Ex omnibus Senecæ tragœdiis plurimum mihi semper placuerunt Troades.
Nota XIII.
L’eloquente Ferrarese Bartolommeo Riccio, insigne Gramatico della lingua Latina, il quale morì d’anni 79 nel 1569, è di sentimento nel libro I de Imitatione, che Seneca ne’ suoi Cori, non solo per l’ abbondanza e per la gravità delle sentenze ch’essi contengono, ma per aver saputo formarli a cantare di ciò che, come dice Orazio, proposito conducat & hæreat aptè, abbia superato tutti i tragici Greci.
Nota XIV.
Giusto Lipsio sopra l’Ercole Eteo così dice: Profecto tota hæc fabula præter cæteros argutatur, imò tumet, & cum poeta nubes & inania captat . . . Ejusmodi nimirum in hac tragœdia complures ampullæ & utres.
Nota XV.
Il Conte di Calepio, parlando del decoro, osserva in questa tragedia dell’ Ercole Eteo, che con giudizio vien mitigato da Seneca il discorso che secondo Sofocle fa al figliuolo per obbligarlo ad esser parricida e divenire consorte della concubina paterna. Vi si osserva di più, che Seneca, per dar lieto fine alla sua favola, ne scioglie ragionevolmente il nodo per macchina, facendo comparire Ercole deificato a consolare e rallegrare Alcmena sua madre.
Nota XVI.
Il Gregge o la Caterva, fu chiamato da Orazio nella Poetica Cantor, perchè cantando e sonando (siccome nel fine degli atti si costumava) chiedeva al popolo il favor dell’ applaudere. Son quest’esse le sue parole:
. . . . . . & usqueSessuri, donec cantor, vos plaudite, dicat.
Nota XVII.
Non è cosa rara, nè strana, il sentire oggigiorno più che mai così rid colose scempiaggini in Parigi, ove fra tante arti e scienze siede e trionfa coll’ ignoranza, presunzione e vanità, la ciarlataneria letteraria. Ritrovandomi io un giorno in un luogo, in cui erano parecchi giovani alterosi di quella solita superficiale tintura di lettere, che basta in Francia a farsi ammirare dall’immensa turba degl’ infarinati, gl’ intesi discorrer sul merito degli antichi e moderni comici. Uno di loro antiponendo Moliere ad ogni altro, francamente vantavasi di aver letto tutte le commedie di Menandro. Gli altri anch’essi, per non parer meno eruditi, davansi lo stesso vanto; e tutti ce tamente non avrebbono scrupoleggiato di accertare sulla lor fede d’aver letto eziandio le commedie di Eupolide, Cratino, Filemone, Difilo, Apollodoro, Turpilio, Trabea, Cecilio, e tutte quelle altre de’ Greci e Latini, di cui o pochissimi frammenti o appena i nomi, rimasti ci sono. Un cert’altro letterato Francese di tal fatta, in un circulo d’uomini e di donne, gravemente affermò ancora, aver letto con sommo piacere l’Euripide di Sofocle. Queste non sono, e lo giuro, di quelle storiette e cantafavole che molti Francesi sogliono per natural malignità, e per porger grata pastura alla loro nazione, inventare e spargere nel descrivere i loro Viaggi d’Italia, di Spagna &c.
Nota XVIII.
Io sono d’avviso (dice il P. Bianchi) che sebbene appresso i Romani il nome di strione fu reso ancora comune agli attori delle commedie e delle tragedie, contuttociò costoro furono esenti da quella macchia d’infamia, di cui erano notati i veri strioni, i quali senz’ordine de’ magistrati, e fuora de’ Ludi sagri, facevano i loro giuochi. Egli è certo, che quando Tiberio cacciò da tutta Italia gl’ istrioni per la loro somma petulanza e immodestia, e che quando Nerone medesimo, alcun tempo dopo averli richiamati, fu costretto per timor di qualche grave periculo a bandirli da Roma, non cessarono le rappresentazioni delle favole teatrali, segno evidentissimo che non vennero compresi nel bando sotto il nome d’ istrioni i tragedi e comedi, cioè coloro che recitavano e cantavano drammi regolati.
Nota XIX.
Tertulliano chiamò il teatro concistorium impudicitiæ, S. Basilio communem & publicam lasciviæ officinam, e S. Gregorio Nanzianzeno scholam fœditatis. E sin da’ principj del terzo secolo il Cristiano Avvocato di Roma Minucio Felice così favella de’ Mimi verso il fine del suo Ottavio. In scenis etiam non minor furor, turpitudo prolixior; nunc enim mimus vel exponit adulteria vel monstrat; nunc enervis histrio amorem dum fingit, infligit. Item deos vestros stupra, suspiria, odia dedecorant. E un secolo dopo ebbe a dire il Cicerone del Cristianesimo Cajo Lattanzio Firmiano nel lib. VI delle sue Divine Istituzioni: Quid de Mimis loquar corruptelarum præferentibus disciplinam, qui docent adulteria, dum fingunt, & simulatis erudiunt ad vera? Lo stile in cui si scrivevano questi Mimi, si accostava al nostro Bernesco, secondochè pretende il dotto Ab. Arnaud.
Nota XX.
Presso i Romani chiamavansi Pantomimi coloro i quali accompagnati da’ suoni appropriati esprimevano senza parlare ed animavano co’ gesti, segni, passi, salti, movimenti, e colle attitudini non pur le figure, o i personaggi ch’essi imitavano, ma le passioni, i caratteri, e gli avvenimenti ancora. Erano così destri e maravigliosi in ciò fare, che Manilio d’un d’essi ebbe a dire:
Omnis fortunæ vultum per membra reducet,. . . . . . . cogetque viderePræsentem Trojam, Priamumque ante ora cadentem;Quodque aget, id credes, stupefactus imagine veri.
Nota XXI.
Dalla citata Iscrizione lapidaria fatta al nominato Lucio Acilio archimimo che fiorì nel tempo di M. Aurelio, siamo anche istruiti, che vi erano allora Compagnie o Collegj liberi di Mimi, e che in quelle si aggregavano coloro che volevano servire alla scena, o nel rappresentar mimiche azioni, o nel saltare in teatro, e che costoro latinamente chiamavansi adlecti scenæ, ed aveano certo sacerdozio, per cui si diceano Parassiti di Apollo, il che si raccoglie ancora da altre lapidi. Dalle leggi che pubblicarono gl’ Imperadori Cristiani del IV e V secolo intorno agli scenici e agli spettacoli teatrali, ricaviamo che le rappresentazioni mimiche di parole, di canti, di gesti e di salti, erano divenute anco a’ loro tempi così necessarie in alcune festive solennità, che doveansi esibire da’ magistrati maggiori non solo nelle principali metropoli dell’Imperio e in Occidente e in Oriente, ma eziandio nelle città municipali da i Duumviri, o magistrati minori.