CAPO III.
Teatro Latino intorno alla seconda guerræ
Punica.
Nè presti furono nè grandi i progressi del teatro Latino. Roma dedita alle armi favoriva poco le arti che potevano ammollire il valore, e trascurò la drammatica. Se non molto amandola pure ne tollerò lo spettacolo, non permise però che vi si mettessero sedili (Nota III) affinchè il popolo obbligato a goderlo in piedi anche nel divertimento mostrasse virilità e robustezza71. Nell’anno di Roma 558 il Senato tuttavia assisteva allo spettacolo misto tra ’l popolo. Nel 599, essendo Censori M. Valerio Messala e C. Cassio Longino, vollero costruire nella città un teatro, ma il Console P. Cornelio Scipione Nasica vietò che si terminasse, e fece vendere all’incanto tutti i materiali a tale oggetto da essi accumulati72. Cresciuta poi la potenza Romana, le ricchezze apportatrici d’ozio e di riposo rendettero più necessarie le arti di pace. Allora gli spettacoli scenici si riguardarono più favorevolmente e si cercò l’agio degli spettatori col difenderli dal sole colle tende, si assegnò al Senato un luogo distinto dalla plebe, e si rimunerarono e protessero i poeti teatrali.
I.
Tragici di quest’epoca.
Quando l’onore le alimenta, le arti prendono il volo, e si elevano sino all’altezza che può comportare un clima. Ciò avvenne al teatro Latino intorno alla seconda guerra Punica, trovandosi la lingua nel colmo dello splendore. Piena come è di gravità e maestà, servì felicemente coloro che impresero con coraggio a coltivar la tragica poesia. Calzarono allora con particolar lode il coturno Marco Pacuvio, Lucio Accio ovvero Azzio, Cajo Tizio, e secondo alcuni anche il Sessano satirico Cajo Lucilio.
Marco Pacuvio nato in Brindisi secondo Plinio da una sorella del prelodato Quinto Ennio, per concorde attestato de’ Latini scrittori, conservò la riputazione acquistata di dotto anche nell’età di Augusto73. Marziale motteggia sull’uso ch’ei faceva delle parole antiche; ma Varrone il più dotto de’ Romani, e giudice più competente di Marziale in fatto di lingua Latina, ne esalta l’ubertà della locuzione, nè si atterrisce dei di lui arcaismi. Cicerone prese da lui l’esempio di un ottimo tragico74; e nel dialogo dell’Amicizia rammenta gli encomii dati a una di lui tragedia ove introdûsse Pilade ed Oreste. Dalla sua Medea e da qualche altra non isdegnò Virgilio di trarre alcun verso75. Quintiliano lo commenda per la degnità e pel decoro de’ personaggi, per la forza dell’espressione e per la gravità de’ pensieri. Si riconobbe in lui qualche rozzezza nello stile; ma a’ suoi di non si fecero versi più colti. Nella raccolta de’ Frammenti degli antichi tragici Latini fatta dallo Scriverio colle note del Vossio si nominano le seguenti tragedie di Pacuvio: Anchise, Antiope, Atalanta, Crise, Duloreste, Ermione, Finide, il Giudizio delle armi, Ilione, Medea, Medo, Niptra, Paolo, Peribea, Pseudone, Tantalo, Teucro, Tieste. Vi si leggono altri di lui frammenti di favole incerte; ma non quello del sagacissimo imitatore degli antichi poeti Antonio Moreto che fu da lui stesso composto76. Pacuvio al pari di Ennio coltivò ancora la poesia satirica prima di Lucilio. Fu altresì pittore non ignobile, e dagli antichi si trova commentata la pittura che fece pel tempio di Ercole nel Foro Boario77. Egli morì quasi nonagenario in Taranto; e si è conservato l’epitafio ch’egli fece a se stesso come sommamente puro e degno della sua elegantissima gravità, oltre al pregio della verecondia che manca a quelli di Nevio e di Plauto, siccome altrove abbiamo pur detto78:
Adolescens, tametsi properas, hoc te saxum rogat,Ut se adspicias: deinde quod scriptum est, legas.Hic sunt Poetae Pacuvii Marci sitaOssa. Hoc volebam, nescius ne esses: vale.
Mentre ritirato in Taranto Pacuvio vi menava tranquillamente gli ultimi suoi giorni (Nota IV), capitovvi Lucio Azzio altro famoso tragico che passava in Asia. Pacuvio l’avea conosciuto in Roma, perchè essendo egli di ottant’anni avea data una sua favola ai medesimi Edili, a’ quali Azzio ne avea presentata un’ altra non contandone più che trenta79. Azzio almeno cinquant’anni più giovane di Pacuvio, secondo la Cronaca Eusebiana, avea avuto il padre schiavo in Roma. Nell’andare in Asia non mancò di visitare il vecchio tragico che cortesemente l’albergò per molti giorni. Trattenendosi un dì di cose teatrali Pacuvio mostrò desiderio di ascoltar l’Atreo di Azzio e fu compiaciuto. Grande e sublime ne parve lo stile al vecchio tragico, benchè alquanto duro ed acerbo. Lo veggo anch’io, ripigliò il giovane, nè me ne incresce; i pomi duri ed acerbi stagionandosi diventano dolci; quelli che da principio nascono teneri e quasi vizzi, crescendo in vece di maturarsi imputridiscono. Così sono gl’ ingegni: bisogna che si lasci al tempo l’ agio di ridurli a una maturità perfetta80. Niuno degli antichi tragici Latini giunse a superar la fama e il merito di Azzio. Era talmente rispettato, che per avere ardito un istrione soltanto di nominarlo in teatro, ne fu severamente castigato. Decimo Bruto che nel 615 fu console e nel 623 trionfò per tante vittorie riportate in Ispagna, fu l’amico e il protettore di Lucio Azzio. Egli de’ di lui versi che sommamente pregiava, volle ornare l’ingresso de’ tempj e de’ monumenti ch’egli fece costruire delle spoglie de’ nemici81. Lo stesso Azzio conosceva la propria superiorità su i contemporanei, e la sosteneva con degnità, se di lui favella Valerio Massimo82. Venendo (egli narra) nel collegio de’ poeti Giulio Cesare personaggio decorato nella repubblica non meno che di lettere adorno, Accio nonmai si levò in piedi; non già per noncuranza della di lui maestà, ma perchè a lui sovrastava ne’ comuni studj letterarii, gareggiandosi colà co’ libri non con le immagini degli antenati83.
Certamente gli antichi ne hanno favellato con molto onore. Cicerone l’esalta molte volte, e solo nel primo delle Leggi parla con disprezzo di un poeta nominato Accio, e forse quì intende di qualche altro. L’elevazione, la grandezza, la forza formano il carattere dello stile di questo tragico. Orazio distinse Pacuvio per la dottrina, Azzio per la sublimità:
aufertPacuvius docti famam senis, Accius alti.
Quintiliano riconosce nell’uno e nell’altro due chiarissimi scrittori di tragedie. La nitidezza però (aggiugne) e l’ultima mano nel limare i loro parti sembra di esser loro mancata, nè tanto per loro colpa, quanto del tempo in cui fiorirono. Da coloro che vogliono parere eruditi si attribuisce ad Accio maggior forza, a Pacuvio maggior dottrina84. Acrone interprete di Orazio passò più oltre, e antipose Accio allo stesso Euripide. Columella nomina come i più gran poeti Latini Azzio e Virgilio. Le tragedie di Azzio sono: Clitennestra, Andromaca, Filottete, Andromeda, Atreo, Meleagro, la Tebaide, le Troadi, Tereo, la Medea. A quest’ultima appartengono i versi citati da Cicerone85, ne’ quali si descrive la maraviglia di un pastore, che non avendo mai veduto un vascello, scoperse dall’alto di una montagna quello che portava gli argonauti, siccome apparisce da’ Frammenti de’ tragici Latini. Oltre a questi argomenti che Accio trasse da’ Greci, compose una tragedia interamente Romana intitolata Bruto. Paolo Manuzio86 pretende che questa fosse rappresentata celebrandosi i giuochi Apollinari, a’ quali presedè il fratello di Marco Antonio in vece di Bruto che si era allontanato da Roma. Mà Pietro Bayle colla II e IV epistola del XVI libro di Cicerone ad Attico dimostra, che la tragedia di Azzio allora rappresentata fu Tereo; e aggiugne essersi ciò ignorato da tutti gli altri comentatori, perchè Maturanzio credeva che vi fosse stato rappresentato l’Atreo, e Beroaldo e Hagendorphin il Bruto. Ma la poesia scenica guadagna cosa alcuna in discutere siffatte cose con gravità e lungamente? Non se ne ricava altro vantaggio se non il generale che sempre diletta, di porre alla vista senza errori un fatto istorico. Delle tragedie di Azzio fanno menzione Nonnio Marcello, Varrone, Aulo Gellio e Macrobio. Il Vossio trattando de’Poeti Latini afferma che Azzio scrisse ancora qualche commedia, e ne cita due, le Nozze e il Mercatante.
Cajo Tizio Cavaliere Romano oratore e poeta tragico visse intorno all’ anno di Roma 590. Erano, dice Cicerone87, così piene di esempj, di arguzie e di piacevolezze le sue aringhe, che sembravano quasi scritte in istile Attico, benchè ignorasse il Greco. Ma queste arguzie ch’ei volle trasportare con molta acutezza nelle tragedie, nocevano alla gravità del coturno. Tizio fu contemporaneo di Lucilio, ed aringò al popolo a favore della legge proposta dal console Fannio contra i festini. Macrobio ne ha conservato un frammento, nel quale vigorosamente dipingonsi gli eccessi della ubbriachezza de’ giudici Romani88.
Di un altro nobile oratore fa menzione Cicerone nel medesimo dialogo del Bruto, il quale sorpassò nell’eloquenza i predecessori e i contemporanei. Fu questi Cajo Giulio figlio di Lucio e contemporaneo di P. Cetego. Non era la veemenza il carattere del suo aringare, ma bensì l’urbanità, la grazia e la dolcezza. Egli scrisse alcune tragedie del medesimo gusto: somma grazia di stile ma senza nerbo.
Attilio che fiorì verso il cominciar del settimo secolo di Roma, scrisse pel teatro tragedie e commedie. La sua tragedia Electra non si reputò del tutto immeritevole di esser letta da Cicerone medesimo che lo chiama poeta durissimo 89. Ma egli prevalse nel genere comico, e Volcazio Sedigito l’antiponeva a Terenzio.
Uno de’ rinomati poeti di quest’epoca fu Cajo Lucilio Cavaliere Romano avolo materno di Pompeo Magno, o bisavolo per parte di Lucilia di lui madre, o, secondo Antonio Agostino90, di lui prozio materno, eslendo stata la madre di Pompeo figlia di un fratello di Lucilio. Egli nacque nella città di Suessa degli Aurunci91 posta nella Campania di là dal Liri92, nel primo anno dell’olimpiade CLVIII, secondo Eusebio, e morì in Napoli nel secondo anno dell’olimpiade CLXIX, che cade nell’anno di Roma 651. Osserva però il Bayle che Lucilio mentova la legge Licinia stabilita l’anno 656; dunque egli visse cinque o sei anni di più. Egli militò nella guerra di Numanzia sotto Publio Scipione Numantino93. Secondo Francesco Patrizio nella sua Poetica Lucilio compose epodi, inni, tragedie ed una commedia intitolata Nummularia, di cui pur si conserva qualche frammento. Ma celebre singolarmente si rendè per trenta libri di satire, nelle quali, allontanandosi da Ennio e da Pacuvio, usò l’esametro senza mescolanza di altri versi nel medesimo componimento, benchè altri ne avesse scritti in versi ora giambici ora trocaici. Morse egli senza verun riguardo Rutilio Lupo, Carbone, L. Turbolo ed altri illustri Romani, e punse e motteggiò eziandio i poeti drammatici suoi contemporanei. A’ tempi di Quintiliano ebbe Lucilio molti ammiratori, i quali, non che a tutti i satirici, ad ogni altro poeta lo preferivano. Orazio intanto affermava scorrere la di lui poesia limacciosa e trovarvisi più cose da sopprimersi94. Non convengo con que’ suoi lodatori, diceva Quintiliano, ma discordo ancora da Orazio, perchè scorgo in Lucilio un’ erudizione maravigliosa, una libertà intrepida, acerbità e copia di sale (Nota V). I frammenti Luciliani si raccolsero dagli Stefani, e dal Douza furono illustrati con alcuni scolii e impressi in Lione nel 1597. Bayle però avverte che oltre alla diligenza del Douza essi aveano bisogno di essere anche rischiarati da qualche altro dotto comentatore.
II.
Comici del medesimo periodo.
Fiorirono intanto nel genere comico, oltre al poc’anzi nomato Attilio, Quinto Trabea del quale Nonnio Marcello cita la commedia intitolata Ergastulum, Turpilio di cui Varrone pregia assai la commedia detta i Fuggitivi, C. Licinio Imbrice collocato dal Sedigito dopo di Nevio, cioè nel quarto luogo, e Luscio che presso lo stesso critico occupa il nono ed è preferito a Quinto Ennio. Ma oltre a questi e a Titinio, Aquilio, Ostilio, Pomponio e Dorsenno, de’ quali si conserva alcun frammento, la poesia comica Latina si gloriava di un Cecilio, di un Terenzio e di un Afranio.
Cecilio il quale dalla condizione di servo, come afferma Aulo Gellio, acquistò il cognome di Stazio che presso i Romani antichi era un nome di schiavo, per consenso di tutti gli antichi fu acclamato come il primo e il più eccellente di tutti i comici Latini per la felicità della scelta e per l’ottima disposizione degli argomenti; il che rende ben rincrescevole la perdita delle di lui favole. Nato però e allevato fuori dell’Italia nella regione Gallica inserì sovente ne’ suoi drammi voci non latine, e per tal mescolanza fu da Cicerone chiamato malus latinitatis author 95. Tullio stesso96 cita i di lui Sinefebi, e Aulo Gellio la commedia intitolata Plozio, favole di Menandro da Cecilio imitate. Egli è vero, che Gellio, come dicemmo, pruova ch’egli fosse inferiore al suo modello; ma l’essere stato concordemente preferito, non che a Nevio e ad altri comici, a Plauto ed a Terenzio, ad onta della sua poco pura latinità, ci sveglia dei di lui talenti ben vantaggiosa idea. Due suoi versi dal medemo Gellio recati potrebbero dar motivo a’ fisici di rinnovare l’antica ricerca, se il parto, senza essere abortivo, possa anticipare, ovvero differire l’uscita dal seno materno oltre a’ soliti nove mesi. Menandro nella commedia detta Plozio o Monile 97 affermò che il parto perfetto viene dopo il decimo mese, la qual cosa ripete Plauto nella Cistellaria. Cecilio nella sua Plotium pensò diversamente:
Insoletne mulier decimo mense parere?Pol nono, etiam septimo, atque octavo 98.
Cecilio molto amico di Ennio godette una riputazione sì grande e sì bene stabilita, che quando Terenzio presentò agli Edili l’Andria, gli s’impose di leggerla prima a Cecilio. Si dice ancora che il novello autore male in arnese arrivò in tempo che Cecilio giaceva per cenare, ed a principio si fece sedere in una panca accanto al letto; ma dopo alquanti versi maravigliato Cecilio, e dall’eleganza e proprietà dello stile rapito, l’invitò a cenar con lui, e dopo la cena si proseguì l’intera lettura della commedia con somma continuata ammirazione del vecchio poeta. Quest’ abboccamento di Cecilio e Terenzio viene riferito da Elio Donato o da Suetonio autore della Vita di Terenzio. Dall’altra parte secondo la Cronaca Eusebiana Cecilio morì un anno dopo di Ennio, cioè l’anno di Roma 585, e la commedia dell’Andria fu rappresentata ne’ Ludi Megalensi l’anno 587, essendo consoli M. Claudio Marcello e C. Sulpizio Gallo. Adunque non potea essere stata letta prima a Cecilio già morto da un anno e più ancora. Il chiar. Tiraboschi99 con prudente ambiguità propone che quanto narrasi avvenuto con Cecilio debba intendersi di qualche altro rinomato poeta che allora ci vivesse. Non pertanto lo scrittore della Vita di Terenzio a chiare note parla di Cecilio e non di altri. L’Abate Arnaud eccellente letterato Francese nella Gazzetta Letteraria di Europa nel mese di luglio del 1765 ricorre a un Edile nomato Acilio, al quale pretende che Terenzio andasse a leggere l’Andria, e non a Cecilio; insinuando che il passo di Donato o Suetonio sia guasto e vi si debba leggere Acilio per Cecilio. Ma le parole del biografo son queste: Andriam cum Ædilibus daret, jussus ante Cælicio recitare, nelle quali sono ben distinti e gli Edili a’ quali la commedia si presentò e il poeta a cui per loro ordine si lesse. Che se Cecilio si converte in Acilio, il quale era nel numero di quegli Edili, si attribuisce al precitato biografo un modo di esprimersi alquanto fosco e poco felice, facendogli dire, cum Ædilibus daret, jussus ante Acilio recitare, non apparendovi la relazione che dovrebbe naturalmente vedervisi, della persona di Acilio col numero degli Edili. Oltre a ciò tutto il racconto e della non curanza da prima avuta del nuovo poeta, a cagione dell’ abito, da colui che stava cenando, e dell’attenzione che in lui cagionarono i primi versi, e della giustizia subito renduta al merito, e dell’ammettersi il giovane poeta a cenare confidentemente, e dell’ammirazione colla quale dopo la cena fu ascoltata la commedia, tutto ciò, dico, sembra meglio adattarsi a un veterano conoscitore di poesia comica di pari condizione col novello scrittore, che ad un Edile di classe più elevata. Finalmente noi sappiamo per un prologo dello stesso Terenzio che a’ suoi tempi destinavasi dal magistrato un poeta di nome per ascoltare i drammi prima di rappresentarsi, ed infatti egli dovè leggere al poeta Luscio la migliore delle sue commedie; ma non parmi che gli Edili si assumessero mai la carica di giudici letterarii delle poesie teatrali, carica che in appresso, come diremo, si vide addossata a cinque censori. Ora tutto questo c’induce a rifiutare la correzione dell’erudito Ab. Arnaud adottata pure da M. Millet, ed a credere che Cecilio ben due volte nominato nel passo del biografo fosse stato l’ascoltatore dell’Andria. E se quando mancano le storiche testimonianze lecito fia il congetturare, seguendo l’ordine naturale delle cose, piuttosto che cangiare il poeta revisore o sostituirgli un Edile, potrebbe dirsi che l’Andria per ordine degli Edili fosse stata anticipatamente letta al poeta Cecilio, e che questi dopo averla approvata si morisse prima che nel 587 si rappresentasse. É forse improbabile che passassero varii mesi ed anche un anno dal pensare e disporre lo spettacolo che solea farsi con tanta spesa, all’esecuzione di esso, e che intanto Cecilio si morisse? è improbabile che il giovane Cartaginese senza credito avesse bisogno di raccomandarsi a più di uno prima di venire a capo del suo intento?100.
III.
Teatro di Terenzio.
Quindi si scorge qual alta impressione facessero nell’animo di Cecilio pochi soli versi di Terenzio. Ma poteva mancar d’incantare un dotto e consumato conoscitore quella venustà di stile che indi rapì dalla scena gli animi tutti de’ più volgari spettatori? quell’eleganza che dopo tanti secoli conserva la medesima imperiosa forza su i posteri più remoti (Nota VI)? quella proprietà e purezza di locuzione approvata e imitata, non che da altri, da un Tullio e da un Orazio? quell’arte, quel giudizio, quelle sentenze tratte dalla più profonda filosofia e rendute proprie del teatro comico? quella prodigiosa maniera di rendersi originale traducendo ed imitando? quella vezzosa urbanità nel motteggiare? quella delicatezza e matronal decenza che trionfa nelle dipinture ch’ei fa de’ costumi? Le sei commedie che ne abbiamo leggonsi da’ fanciulli (o da quei che sono tali a dispetto degli anni) con una specie d’ indifferenza propria di quell’età: dagli uomini maturi con istupore e diletto: e con entusiasmo da’ vecchi instruiti. I letterati più accreditati, gli Erasmi, gli Scaligeri, gli Einsii, terminano la vita con Terenzio alla mano. Sembra inutile il dar pieni estratti delle sue commedie per essere troppo note, e temerità il tradurne alcuni squarci per la difficoltà di conservarne le bellezze. Non pertanto faremo su di esse qualche riflessione passeggiera101.
L’Andria. Fu questa la prima sua commedia rappresentata nell’additato anno di Roma 587 dalla compagnia comica di L. Ambivio Turpione e di Attilio Prenestino colla musica di un certo Flacco figlio di Claudio o di lui liberto, come vuole Madama Dacier, benchè non apparisca donde l’abbia ricavato. Menandro scrisse su di un medesimo argomento due commedie, l’una intitolata Andria dall’isola di Andro, l’altra Perinthia da Perinto città della Tracia. Terenzio si prevalse di entrambe nell’accozzar la sua favola, e ritenne il titolo della prima. L’argomento si aggira intorno agli amori della fanciulla Gliceria venuta da Andro e del giovane Panfilo disturbati per le nozze che Simone padre di costui gli prepara con una figlia di Cremete, prima per finzione indi da buon senno. Lo scioglimento avviene col conoscersi Gliceria per un’ altra figlia del medesimo Cremete chiamata Pasibola. I giovani studiosi debbono ammirare nella prima scena dell’atto primo il modo di raccontare con grazia, eleganza, precisione, e, quel che monta più, con passione:
. . . . . . . . Funus interimProcedit: sequimur: ad sepulchrum venimus:In ignem posita est: fletur. Interea hæc soror,Quam dixi, ad flammam accessit imprudentiusSatis cum periculo. Ibi tum exanimatus PamphilusBene dissimulatum amorem & celatum indicat.Accurrit, mediam mulierem complectitur.Mea Glycerium, inquit, quid agis? cur te is perditum?Tum illa, ut consuetum facile amorem cerneres,Rejecit se in eum flens quam familiariter.
Tutto è qui animato dall’affetto, tutte le parole sono scelte e naturali, senza affettazione, senza superfluità. Osservisi ancora con quanta grazia e verità nell’atto stesso incontrandosi Panfilio colla serva Miside, le dice, quid agit? senza esprimere il nome di Gliceria; e di qual altra cercherebbe Panfilo con premura? Sommamente patetica ivi ancora è la preghiera di Criside moribonda narrata da Panfilo, che io ardisco di tradurre in simil guisa:
Mis.
Merita, io questo so, la poverina,Panfilo, che di lei tu ti sovvenga.Pan.
Ch’io di lei mi sovvenga? Ah in mezzo al cuoreImpresse io porto le preghiere estremeChe per Gliceria Criside mi porse.Presso a morir mi chiama, io mi avvicino,Voi gite, noi restiamo; ella mi dice:Panfilo, amato Panfilo, tu vediLa beltà di costei, la giovanezza,E non ignori che a guardar l’onore,A conservar la roba entrambe sonoArmi assai frali. Deh per questa destra,Per l’indole gentil, per quel bel cuore,Per la tua fe, per questa istessa, Panfilo,Derelitta fanciulla, io ti scongiuro;Deh non l’abbandonar, se qual fratelloSempre io ti ami, s’ella te solo apprezza,Per te respira, a’ cenni tuoi s’acqueta.Prendila, a te la do, tu a lei saraiAmico, protettor, marito e padre.Sì a me l’affida, e spira. Io l’accettai,Io serberò la fede.
Bella e ingegnosa è parimente la scena quinta dell’atto quarto, nella quale Miside dopo avere esposto il bambino sulla porta di Simone per consiglio di Davo, è sorpresa da Cremete, e non sa come contenersi nelle risposte non vedendo più Davo. Ma l’astuto finge di sopraggiugnere e maravigliarsi del fanciullo, e colle sue pressanti richieste aumenta l’imbarazzo di Miside. Ella vorrebbe riconvenirlo sottovoce: ma Davo all’incontro vuol che risponda apertamente confessando la verità. Ognuno vede quanto sale contenga questo comico artificio. Ella gli dice con voce bassa, non tute ipse . . . . Ma Davo con alta voce e con volto che esclude ogni sospetto d’intelligenza, l’interrompe dicendo, concede ad dexteram. E perchè? Per quel che io ne penso, per farla avvicinare a Cremete, affinchè nulla egli perda di quanto ella dica. Ma l’annotatore Farnabio interpreta all’opposto, che Davo a lei parli sommessamente, e la faccia passare a destra per allontanarla da Cremete che si trova alla sinistra. Non si accorse quell’erudito ch’ egli distruggeva il disegno del poeta, Più volte e Plauto e Terenzio hanno in una scena usato questo colore di dire alcuna cosa a voce alta ed altre con poca voce. Ma in questa Terenzio lavora con maggior delicatezza. Egli vuole che Miside senza veruna prevenzione manifesti in presenza di Cremete la verità del parto, affinchè collo scoprirsi vada in fumo il contratto nuzziale. Il fargliene Davo qualche motto sottovoce scemerebbe il pregio del ritrovato e la grazia della scena. Davo nella precedente alla prima si accinge a scoprire a Miside la trama, Move ocius te, ut quid agam, porro intelligas; di poi vede venir Cremete e cangia consiglio, Repudio consilium quod primum intenderam . . . . tu ut subservias orationi, utcumque opu’ sit verbis, vide. Miside rimanendo nell’incertezza gli dice, Ego quid agas, nihil intelligo. Ma perchè mai Davo si appiglia al partito di esporre la serva senza prevenirla? Perchè pensa con ragione che costretta a rispondere quel che il caso esige, la verità senza il belletto dell’ arte più vivace si presenterà agli occhi di Cremete. E così avviene. Il vecchio ne rimane sì persuaso, che pensa di rompere il contratto, e a tal fine va in traccia del padre di Panfilo. Partito Cremete, Davo in segno di allegrezza vuole accarezzar Miside, che sdegnata lo ributta, dicendo, non mi toccare, furfante. Davo per giustificarsi le dice:
Hic socer est, alio pacto haud poterat fieri,Ut sciret hæc quæ volumus.
Ma replica Miside, perchè non avvisarmelo, hem prædiceres; e Davo ripiglia egregiamente:
Paullum interesse censes, ex animo omnia,Ut fert natura, facias, an de industria?
Ecco il bellissimo pensiero del poeta di far parlar la natura; ed accennarle qualche cosa di soppiatto, come pretendeva Farnabio, avrebbe ripugnato a tal disegno. Alcuni critici ancora hanno detto, che questa favola conteneva due azioni, una degli amori di Panfilo, l’altra di quelli di Carino. Strana critica: perchè da un’ azione seguono due matrimonj, si dirà che sia doppia? Se si rappresentasse il ratto delle Sabine, sarebbero tante le azioni quanti i matrimonj che produrrebbe? L’ azione dell’Andria è quest’una, l’esito felice degli amori di Gliceria collo scoprirsi cittadina Ateniese e figliuola di Cremete; e se quindi nasce ancora la prosperità di Carino, questo non è narrare o rappresentare un’ altra azione, ma si bene accennar della vera e sola azione della favola una fortunata natural conseguenza. Fece di sì vaga commedia una elegante libera imitazione in prosa il Capuano Marco Mondo, l’ultimo de’ Segretarii della Città di Napoli che illustrarono la loro carica colla dottrina e colle lettere. Egli fe imprimerla verso il 1704 da Giuseppe Sellitto con altri poetici componimenti col titolo le Nozze. La divise in tre atti, diede a’ personaggi nomi e costumi moderni, e trasportò l’azione a’ tempi correnti e nella città di Livorno102.
La Suocera. Questa commedia di Apollodoro prende il titolo di Ἐκυρα, socrus, secondo Donato, dalla gran parte che hanno le suocere nell’azione. Apparentemente l’umore di Sostrata suocera di Filomena sembra aver dato motivo alla discordia e alla separazione. Ma non è così. Filomena che aveva avuta la sventura di essere una notte violentata da un giovane sconosciuto, va alle nozze di Panfilo già incinta di due mesi, colla speranza di attribuir poscia al marito la gonfiezza del suo ventre. Sventuratamente Panfilo distratto negli amori di Bacchide, punto non le si appressa, comechè pel di lei bel costume prenda ad amarla; indi per impossessarsi di una eredità parte dalla patria, e dimora lontano dalla moglie sino al giorno in cui Filomena partorisce. Si avvicina il parto e Filomena col pretesto di stare inferma abbandona la casa del marito, torna alla paterna, e nè anche vuole ammettere la visita della buona e innocente suocera. Torna Panfilo tutto acceso dell’amor della moglie nel punto che questa partorisce, nè di lui al suo credere. Mirrina madre di Filomena gli narra la disgrazia accaduta alla figlia prima di maritarsi, e lo prega a tacere il caso, quando non voglia ritener la moglie. Panfilo si obbliga al silenzio, ma ricusa di ripigliarla; e per non esservi astretto dal padre si vale del pretesto della madre che non è di accordo colla moglie. All’incontro il padre di Filomena crede che l’amore di Bacchide tenga Panfilo avvolto negli antichi lacci, e il renda avverso al contratto nodo conjugale. Se ne querela con Lachete padre di Panfilo, il quale ne va a far romore con Bacchide. Costei co’ più solenni giuramenti si giustifica, e Lachete le insinua di persuaderne le donne. Ella che non è delle peggiori del suo mestiere, condiscende. Visita le donne portando in dito un anello a lei donato da Panfilo. Quest’anello avea egli tolto a una fanciulla una notte che la sforzò senza conoscerla; e questa fanciulla è per l’appunto la stessa Filomena. Panfilo adunque è il padre del nato fanciullo. Le donne riconoscono l’anello, e Panfilo venuto in chiaro del successo con estremo piacere ripiglia la moglie. Si osservi che il poeta nell’atto quinto fa che Bacchide entri in casa di Mirrina, e narri ed ascolti più cose, e ne avvenga la felice riconoscenza dell’anello, e che indi n’esca; ma intanto non si sono recitati che foli dodici versi, ne’ quali dee supporsi trascorso il tempo richiesto al congresso di Bacchide in quella casa.
Le bellezze di questa favola si presentano in folla, e noi ne accenneremo alcune colla speranza di eccitare la gioventù a leggere gli antichi con maggior riflessione, se vogliono ritrarre dalla drammatica quel diletto che ben di rado si prova nella lettura delle moderne favole. Mirabile nella seconda scena dell’atto primo è il ritratto della buona moglie che giugne a cancellare dal cuore di un marito l’amor di una cortigiana:
. . . . . . Atque ea res multo maxumeDisjunxit illum ab illa, postquam & ipse se,Et illam, & hanc, quæ domi erat, cognovit satis,Ad exemplum ambarum mores earum æstimans.Hæc, ita ut liberali esse ingenio decet,Pudens, modesta, incommoda, atque injuriasViri omneis ferre, & tegere contumelias,Hic animus partim uxoris misericordiaDevictus, partim victus huju’ injuriis,Paulatim elapsu st Bacchidi, atque huic transtulitAmorem, postquam par ingenium nactus est.
L’atto terzo riesce sommamente interessante e dilettevole. Panfilo mesto nella prima scena per la discordia della madre e della moglie, riflette alla sua miseria:
. . . . Matrem ex ea re me aut uxorem in culpa inventurum arbitror:Quæ cum ita esse invenero, quid restat, nisi porro ut fiam miser?Nam matris ferre injurias me, Parmeno, pietas jubet:Tum uxori obnoxius sum: ita olim suo me ingenio pertulitTot meas injurias, quæ nunquam in ullo patefecit loco.
Mentre Parmenone si studia di consolarlo, ecco sentesi in casa della moglie un mormorio, un movimento, un andare avanti e indietro, onde essi pongonsi in curiosità e apprensione. Si avvicinano per ascoltare; odono alcun clamore; Mirrina esorta la figliuola a tacere, tace obsecro, mea gnata. Questa è la voce di Mirrina, dice Panfilo; nullus sum . . . . perii. Parmenone dice di avere udito, Philumenam pavitare nescio quid. Egli ha frainteso; le donne dovevano aver detto paritare. Paventa bene Panfilo di qualche grande sciagura, e corre su dalla moglie. Nella seconda scena la buona Sostrata vorrebbe andar di nuovo a visitar la nuora inferma. Parmenone ne la distoglie, e le dà notizia del ritorno di Panfilo. Esce egli dalla casa della moglie pieno di tristezza, e al veder la madre si sforza di dissimular la sua pena, benchè i segni ne scappino fuori ad onta della sua industria. Il loro dialogo non può essere più vago. Se ne ammiri l’eleganza, la verità, il patetico:
. . . . . . .Soft.
O mi gnate.Pam.
Mea mater, salve.Soft.
Gaudeo venisse salvom, salvan’Philumena est?Pam.
Meliuscula est.Soft.
Utinam istuc ita Dii faxint.Quid igitur lacrumas? aut quid es tam tristis?Pam.
Recte, mater.Soft.
Quid fuit tumulti? dic mihi: an dolor repente invasit?Pam.
Ita factum est.Soft.
Quid morbi est?Pam.
Febris.Soft.
Quotidiana?Pam.
Ita ajunt.I, sodes, intro, consequar jam te, mater mea.Soft.
Fiat.
Così tormentato dalle innocenti richieste materne rimanendo solo riflette con libertà sull’avventura della moglie e sul proprio stato. Egli si trova di lei innamorato, e pensa infanto che non può ritenerla per sua, avendo ella partorito di un altro. Per giunta non può palesare il vero, per la parola datane a Mirrina. Tale angustia è ben maneggiata in questa terza scena, e l’espressioni son tutte dettate dalla passione che vi domina. Egli ripete a se stesso il fatto, animandolo colle più patetiche immagini. Entra improvviso; le serve si rallegrano alla prima, indi si turbano, si scompigliano. Comprende da qual morbo la moglie sia oppressa, e piangendo vuol tornare in dietro. Lo segue Mirrina sciolta in lagrime, gli si butta a’ piedi, e palesa la disgrazia. Tutte le circostanze di questa scena presentano quadri vivacissimi, pieni di affetto, e non già semplici parole, o concettuzzi mendicati, o tratti di spirito leccati. Egli in fine che ha promesso di tacere, così conchiude:
Pollicitus sum, & servare in eo certum est, quod dixi, fidem;Nam de reducenda, id vero neutiquam honestum esse arbitror:Nec faciam: & si amor me graviter, consuetudoque ejus tenet.Lacrumo, quæ posthac futura est vita, cum in mentem venit,Solitudoque. O fortuna, ut nunquam perpetuo es bona!
Del pari interessante è la scena quinta di Panfilo col padre e col suocero, nella quale egli si trova in angustia per voler serbare la fede a Mirrina, e per addurre alcuna onesta ragione da ricusar la moglie. Degna è pure di notarsi la seconda scena dell’atto quarto di Panfilo con Sostrata. La madre il prega perchè ripigli in casa la moglie, proponendo di ritirarsi ella in campagna. La proposta di una madre sì buona aumenta il dolore del figlio. Lo stato di Panfilo va poi peggiorando a’ momenti. Fidippo ha saputo che Filomena ha partorito, e nella quarta scena viene a dirgli, che se vuol rompere il contratto, il faccia pure, purchè si prenda il bambino. Lachete si rallegra del nipotino che gli è nato. Panfilo sempre più si attrista, che se prima di esser nato il bambino poteva esitare intorno al riprendersi la moglie, e nel caso di riprenderla poteva esporre il bambino, e seppellire nell’obblìo l’accaduto, oggi però che è palese ch’ella abbia partorito, non dee riceverla, o nel riceverla dee riconoscere per suo un bambino che di lui non nacque:
Etsi jamdudum fuerat ambiguum hoc mihi,Nunc non est, cum eam consequitur alienus puer.
Ma dall’altra parte che cosa risponderà egli a Lachete che fa premura che accetti il bambino? Con qual pretesto il rifiuterà? Questa nuova giunta al di lui dolore egregiamente si maneggia in questa scena. Lachete ascrive la di lui ritrosìa agli antichi amori. Panfilo replica, Dabo jusjurandum, nil esse istorum, tibi. E Lachete adirato ripiglia:
Redue uxorem, aut quamobrem non opus sit, cedo.Pam.
Non est nunc tempus.Lac.
Puerum accipias: nam is quidemIn culpa non est: post de matre videro.Pam.
Omnibus modis miser sum, nec quid agam, scio.
Questa bella favola ha un patetico proprio della commedia nobile: vi si piagne ma un pianto conveniente alle domestiche discordie delle famiglie cittadinesche, e non già quel pianto corrispondente agli atroci delitti o inventati da una fantasia alterata per disonorare l’umanità, o ricavati da’ più famosi e rari processi criminali, secondo la pratica degli ultimi strani drammatici Inglesi, Francesi e Alemanni. Debbe nell’ Ecira ravvisarsi un ottimo modello della commedia tenera, la quale richiede un poeta di cuore assai sensibile e dilicato; genere che presso gli accennati oltramontani è degenerato in una poco plausibile e ben difettosa commedia larmoyante. Può sì vaga favola Terenziana tenersi per una delle più interessanti dell’antichità, ed anche potrebbe dirsi la prima e la migliore, se vi si trovasse moto e vivacità maggiore, così felicemente n’è scelto il punto onde incomincia l’azione, e vi sono sì maestrevolmente maneggiate le passioni. Non ha garbugli, non furberie servili, non buffoneria; ma ciò appunto manifesta che in tutt’altro può consistere la vera piacevolezza scenica. I personaggi sono tutti buoni; non di quella bontà immaginaria della scuole morali, nè dell’eroica che ha luogo nelle tragedie, ma di quella civile bontà che ci allontana dalle colpe senza preservarci dalle debolezze. Essa fu rappresentata più volte in Roma. La prima volta essendo Edili Curuli Ses. Giulio Cesare e Cn. Cornelio Dolabella, e per quel che dicesi nel prologo che ora la precede, il popolo impaziente per lo spettacolo de’ ballerini da corda e de’ pugili non si curò di vederla o di comprenderla. Alluse Orazio all’evento dell’Ecira, quando attribuì all’ardore che inspiravano simili spettacoli, lo scoraggimento de’ poeti:
. . . . . . media inter carmina poscuntAut ursum, aut pugiles. his nam plebecula gaudet.
La seconda volta si rappresentò anche imperfettamente ne’ giuochi funebri di L. Emilio Paolo, essendo Consoli Cn. Ottavio e T. Manlio, e neppur piacque, o per meglio dire neppure si ascoltò, perchè recitato appena l’atto primo che fu bene accolto, si levò un romore, che davansi i giuochi gladiatorj, ed ecco che il popolo abbandona il teatro e si affolla a prender luogo all’anfiteatro. La terza volta si rappresentò, essendo Edili Q. Fulvio e L. Marzio, dal famoso istrione L. Ambivio Turpione, il quale tolse sopra di se il carico di fare il prologo per raccomandarla al popolo, L’istrione accreditato, colle parole dell’incomparabile autore, nel bellissimo prologo mette in vista gli antichi suoi meriti; e siccome per opera sua alcune favole di Cecilio alla prima rigettate si riprodussero, e col meglio conoscersi riceverono migliore accoglimento, così si lusinga che abbia in questa di Terenzio a rinnovarsi il passato esempio, fidando nella benignità e nel silenzio degli ascoltatori. Piacque questa terza volta, e ciò avvenne nell’anno di Roma 588, e si replicò poi nel 589.
Il Tormentatore di se stesso. Non cambiò Terenzio il titolo di Heautontimorumenos a questa commedia di Menandro trasportandola interamente nell’idioma Latino. Ma come dice di averla fatta doppia di semplice ch’essa era?
Duplex quæ ex argumento facta est simplici.
Giulio Scaligero dice che il poeta la chiamò doppia, perchè una metà se ne rappresentò la sera, e scorsa la notte ne’ giuochi si terminò all’ apparir dell’alba103. Passi che una commedia di giusta mole siasi recitata in Roma in due giorni, cioè la sera dell’uno i due primi atti e il rimanente all’albeggiar dell’altro, cosa, per quanto si sa, mai più non avvenuta, e di cui non potrà rendersi veruna adeguata ragione, siccome è stato anche da altri avvertito104. Ma questa cosa potrebbe fare che un poeta assennato chiamasse doppia una favola di argomento semplice? Tommaso Farnabio rigettando l’opinione di Scaligero giudica che il poeta dica di averla fatta doppia, perchè nella commedia di Menandro essendo uno il vecchio, uno il figliuolo, una la giovane, uno il servo, Terenzio raddoppiò nella sua tutti questi personaggi, introducendo due vecchi, due figliuoli ecc. Ma un comico di tanto valore e sì amico della proprietà delle voci, avrebbe senza sconcezza chiamata doppia una favola per averne raddoppiati i personaggi? E qual grazia avrebbe prodotto questo inutile raddoppiamento? Provisi poi chiunque ad eseguirlo in qualche favola, e vedrà di quali freddi oziosi personaggi riempirà la scena. Scorge da ciò ognuno non essere stata più felice l’interpretazione del Farnabio. Secondo me Terenzio, nel servirsi del semplice argomento Greco, v’ inserì al suo solito la traccia di un’ altra azione forse di sua invenzione, per fare la favola più ravviluppata, accomodandosi al piacere del popolo, cui già increscevano gli spettacoli troppo semplici, come suole avvenire allorchè il buon gusto comincia a vacillare. E quindi con tutta ragione la chiamò doppia, perchè in fatti doppia la favola ne divenne. L’argomento Greco consisteva negli amori di Clinia per Antifila, nello scoprimento della vera condizione di questa fanciulla, e nel carattere del vecchio Menedemo che si punisce della severità usata col figliuolo, mettendosi come un povero contadino a lavorar la terra colle proprie mani. Terenzio a questo aggiunse gli amori di Clitifone con Bacchide, e l’artifizio del servo nel cavar danaro dalle mani del vecchio Cremete. Si vede che questi sono due argomenti dal poeta connessi con molta arte, i quali formano una commedia ravviluppata e doppia, che sarebbe semplice senza il secondo. A qualche preteso veterano del Parnaso incresceranno simili osservazioni forse opposte a quanto egli avrà pensato delle opere teatrali; e quindi di se sicuro magistralmente, senza consultare l’urbanità, affermerà di non averle io ben lette o bene intese. Ma chi sa (dicasi ciò con buona pace di certe pretese divinità terrestri) che il male non consista, anzi che ne’ miei giudizj, in quel che da tanti anni pose nelle loro teste salde radici? Chi sa che a tali campioni emeriti di Elicona non debbano riferirsi le parole di Petronio Arbitro, quod quisque perperam discit, in senectute confiteri non vult?
Questa favola è scritta con particolare eleganza e purezza di lingua, e se ne vanta lo stesso autore nel prologo. Ma i critici vi desidereranno le famose unità di tempo e di luogo. Si offende quella di tempo perchè l’atto primo con qualche scena del secondo esige il giorno, viene poi la notte nella quale si celebrano le Feste Dionisie, e nell’atto terzo fa giorno. Un periodo però di 24 ore o poco più potrebbe contenere l’azione che vi si dipigne. Nuoce all’unità del luogo la comparsa di Menedemo che zappa, la qual cosa suppone un campo; e la necessità di una strada pubblica con varie case che richiede il rimanente della commedia105. Ma questa opposizione non avrebbe luogo, se si concepisse un teatro alla maniera di Liveri. Possono in essa notarsi diverse bellezze; ma noi accenneremo soltanto alcuna cosa della terza scena dell’atto secondo, la quale contiene venustà di più di un genere. Clinia attende la sua Antifila ch’egli lasciò povera con una sola fante. Vengono i servi che sono iti a prenderla, e dicono fra loro di aver lasciato indietro le donne con tutta la folla delle serve che le precedono e le seguono, e cariche di oro e di vesti di gran valore. Antifila oro, vesti e calca di fantesche! Quali palpiti per un innamorato ch’è stato assente! Egli esclama: væ misero mihi, quanta de spe decidi! Ma è un equivoco artifiziosamente condotto dal poeta, che all’apparenza giustifica le querele di Clinia. Siro però non soffre ch’egli più lungamente si attristi per un falso sospetto. Antifila è la stessa che era prima; ed eccone l’elegantissimo racconto che rasserena l’amante. Il poeta spiega in esso la sua maestria nel dipignere i costumi, e c’insegna l’arte di sviluppare i caratteri:
Ubi ventum ad ædes est, Dromo pultat fores:Anus quædam prodit. hæc ubi aperuit ostium,Continuo hic se confert intro, ego consequor:Anus foris obdit pessulum, ad lanam redit.Hic sciri potuit, aut nusquam alibi, Clinia,Quo studio vitam suam te absente exegerit:Ubi de improviso est interventum mulieri.Nam ea res dedit tum existimandi copiamQuotidianæ vitæ consuetudinem,Quæ cujusque ingenium ut sit, declarat maxume.Texentem telam studiose ipsam offendimus,Mediocriter vestitam veste lugubri,Ejus anuis causa, opinor, quæ erat mortua;Sine auro tum ornatam, ita uti quæ ornantur sibi,Nulla mala re esse expolitam muliebri.Capillus passus, prolixus, circum caputRejectus negligenter, pax! 106
Si rappresentò da prima questa favola dal soprallodato L. Ambivio Turpione e da L. Attilio Prenestino, essendo Edili L. Cornelio Lentulo e L. Valerio Flacco colla musica di Flacco di Claudio figlio o liberto. Di poi si replicò cambiandovisi le tibie; e finalmente sotto il consolato di M. Giuvenzio e T. Sempronio si recitò la terza volta nell’anno di Roma 591.
Il Formione. Apollodoro cui appartiene questa favola, scrisse una commedia intitolata Epidicazomenos, e un’ altra detta Epidicazomene dal nome della fanciulla di cui in essa si tratta. Il Formione deriva da quest’ultima, e Donato, il più utile forse di tutti i comentatori antichi e moderni delle commedie Terenziane, osserva che l’autore Latino errò nel dire che la sua nasceva dall’Epidicazomenos, avendo dovuto dire dall’Epidicazomene. Formione è il nome di un parassito, che maneggia il più importante dell’azione. Egli dà ad Antifone il consiglio di farsi citare in giudizio, come se fosse prossimo parente della fanciulla Fannia rimasa povera, ad oggetto di essere in virtù di una legge astretto a sposarla; ed egli difende la pretesa parentela altercando con Demifone padre di Antifone. Finge poi di accordarsi a prender Fannia egli stesso per moglie, per uccellare il vecchio e per trarne trenta mine ovvero trecento scudi da dare a Fedria per liberare dalle mani del ruffiano la sua diletta sonatrice di cetera. Egli anche sapendo il secreto di Cremete che in Lenno sposò un’ altra moglie, essendo già marito di Nausistrata, e divenne padre di Fannia, fa tremare questo vecchio, e al fine scopre il tutto alla stessa Nausistrata; onde avviene che Antifone rimane sposo della sua Fannia riconosciuta dal zio per figlia.
É questa una delle commedie Terenziane pessimamente divisa nell’edizioni di Einsio e di Farnabio. L’atto primo a patto veruno non può terminare colla scena quarta e col verso, Succenturiatus, si quis deficiet. Ph. Age. Per comprenderlo, basta saperne l’azione. Geta annunzia a Fedria e ad Antifone il ritorno di Demifone. Antifone lo vede egli stesso da lontano nella piazza, e si ritira non avendo animo da presentarglisi. Rimane Geta e Fedria; e il servo dice, io mi occulto in questo luogo per soccorrere a tempo, e spinge Fedria ad incontrare il vecchio. Geta dunque rimane in iscena, ma nascosto, e Fedria sotto gli occhi dello spettatore attende l’arrivo di Demifone suo zio. Or come può quì terminare l’atto? Come la dissonanza musica non risoluta, finchè non cada in tuono, sembra un errore nemico dell’armonìa, così l’ azione quì disposta non soffre sospensione, ed è forza che si risolva; e la venuta di Demifone è la risoluzione della scena. Ed avendo Fedria e Geta con Demifone conchiuso che si chiami Antifone e Formione, que’ due partono per eseguirlo, e Demifone s’incamina verso la sua casa Deos penates salutatum. Quì sì che termina l’azione incominciata, e può essere acconciamente la fine dell’atto. I codici della Vaticana giustificano questa osservazione, e contraddicono alla divisione dell’edizioni comunali. Altro inconveniente nasce ancora dal collocarsi per prima dell’atto II la scena che incomincia, Itane tandem uxorem duxit Antipho injussu meo? Geta va in traccia di Formione; Demifone parte dopo aver recitati quattro soli versi, e Geta ha eseguito già l’ incarico, ha trovato Formione, e gli ha narrato l’accaduto. Ma se l’ atto II incomincerà dalla scena di Formione con Geta, tutto procederà con ogni verisimiglianza; lo spazio che corre da un atto all’altro darà luogo alla ricerca di Formione fatta da Geta e al racconto del fatto. Tuttavolta nel dividersi in tal guisa pare che non regga il rimanente, nè possa terminar l’atto II colla scena quarta, e col verso, Sed eccum ipsum video in tempore huc se recipere; inconveniente nè anche sfuggito da’ mentovati codici della Vaticana. Che se Geta cercando Antifone il vede venire sì opportunamente e l’attende, come mai può qui terminar l’atto II e cominciare il III Enim vero Antipho? E che hanno fatto frattanto Geta e Antifone che si è enunciato? Hanno dormito, mentre i Ludii o altri pantomimi saltavano? Converrà dunque congiungere le tre scene che ora formano l’ atto III con quelle del II, le quali non permettono veruno interrompimento. Ma ciò facendo sparirà l’atto II, ed il Formione sarà composto di quattro soli atti. Quanto a me io non vi troverei veruno sconcerto; ma i Latini furono più scrupolosi de’ Greci, come apparisce dal noto verso di Orazio,
Neve minor quinto, neu sit productior actuFabula,
e allora leverebbonsi a romore i pedanti tutti. Madama Dacier comprese la difficoltà, e per evitare che gli atti diventassero quattro, e per lasciare il teatro vuoto ragionevolmente nella fine dell’atto, pensò di sopprimere il verso sudetto Sed eccum ipsum. Così sciogliesi il nodo alla foggia marziale di Alessandro. Egli ve n’ha un’ altra più giusta che consiste in ben dividerne gli atti senza mutilar la favola. Ed a me sembra potersi ciò fare in due sole maniere ragionevoli. Ecco la prima.
Atto I incominci col verso Amicus summus meus ecc.; e termini con questo, Puer heus nemon huc prodit? Cape, da hæc Dorcio:
Atto II incominci da Adeon’ rem rediisse, ut qui mihi, ecc., e termini, Ut no imparatus sim, si adveniat Phormio:
Atto III incominci, Itane patris ais conspetum veritus, e termini, Ph. Qua via istuc facies? Get. Dicam in itinere; modo te hinc amove:
Atto IV incominci, Dem. Quid? qua profectus causa, e termini, De. Rogabo. Ch. Ubi illas ego nunc reperire possim, cogito:
Atto V Quid agam ecc.
L’altra divisione che regge ugualmente, e lascia i giusti intervalli all’azione senza veruna violenza, è questa.
Atto I incominci, Amicus summus, e termini, Ut ne imparatus sim, si adveniat Phormio:
Atto II incominci, Itane patris ais conspectum, e termini, Qua via istuc facies? Get. Dicam in itinere; modo te hinc amove.
Atto III incominci, Quid? qua profectus causa? e termini, Rogabo. Ch. Ubi illas ego nunc reperire possim, cogito:
Atto IV incominci, Sos. Quid agam? quem amicum inveniam, e termini, De. At tu intro abi. Ch. Heus ne filii nostri quidem hoc resciscant, volo:
Atto V Lætus sum, ut ut meæ res se se habent.
Questa seconda divisione è stata avvertita ancora dall’autore delle Note alla mentovata edizione di Terenzio fatta in Roma nel 1767107.
Molti passi assai vaghi possono notarsi in tal commedia. Leggiadra è la descrizione della bellezza senza artificj nella persona di Fannia nella scena seconda dell’atto primo; ed è preceduta da un patetico racconto fatto con ammirabile naturalezza, In quo hæc discebat ludo, ex adverso ei loco ecc., che qui riferiremo cogli eleganti versi del lodato Mons. Fortiguerra:
Si stava dirimpetto a questa scuola,Ove andava ella, certa barberia.Ivi lei solevamo quasi sempreAspettar, mentre sen tornava a casa.Ora quivi sedendo, ecco ad un tratto,Che in noi si abbatte un giovan che piangeva.Abbiam di ciò stupore; e lui preghiamoA dirci la cagione. Egli: non maiMi è paruto, come or, misero e gravePeso la povertade; ho visto adessoIn questo vicinato una donzellaMisera, che facea tristo lamentoPer la sua madre morta, che giacevaAd essa dirimpetto, e niuno amicoAveva, o conoscente, o di suo sangue,Che desse mano al funerale, in fuoraDi una sol vecchierella: io mi sentiiMuovere a compassione. Avea la stessaFanciulla il volto bello a meraviglia.Ma che più dico? Eravam noi già tuttiCommossi. Quando subito AntifoneComincia: vogliam noi colà portarciPer lei vedere? Un altro: andiamci pure:E tu ne mena adesso. Andiam, torniamo,Veggiamo. La fanciulla è bella molto.E tanto bella più tu la diresti,Quanto nulla ha, che sua bellezza aiti:Scarmigliati i capelli, i piedi nudi,Incolta, rozza, e col pianto sul viso,Vestita malamente: alla per fine,Se in essa il fior della beltà non era,Avrian tai cose ogni bellezza estinta.
Bella è la quarta scena dell’atto I, in cui Geta e Fedria cercano di animare Antifone abbattuto dalla venuta del padre. Non sum apud me, egli dice; e Geta:
. . . . atqui opus est nunc cum maxume, ut sis, Antipho.Nam si senserit te timidum pater esse, arbitrabiturCommeruisse culpam.
E perchè, per quando gli si dica, egli rimane sempre più costernato, que’ due fingono di voler partire e lasciarlo; alla qual cosa Antifone si scuote, s’incoraggia, e si sforza di far buon viso. Le parole non ricevono soccorso da veruna prosa marginale, che ne dichiari l’azione, e pure essa chiarissimamente si comprende; il che convince d’ignoranza qualche moderno mal instruito pedante, che crede essere state le antiche tragedie e commedie mutilate da’ gramatici di quella ideata prosa che notava le azioni de’ personaggi. E chi di grazia ha rivelato a costui sì bel secreto, che gli autori nel pubblicar le loro favole l’empivano di noterelle, come fanno oggidì i moderni? Gli autori Greci ed alcuni de’ Latini ne erano per lo più gli attori, nè abbisognavano di tali soccorsi marginali. Essi di più erano persuasi, che un poeta dovesse talmente nel dramma manifestate i proprii concetti, che facesse comprendere, di quale azione dovesse animarla e abbellirla il rappresentatore. Quelli che leggono con intelligenza e riflessione, non ne abbisognano; e sono le desiderate noterelle del pari inutili per le teste leggere di coloro che leggono pettinandosi o amoreggiando. Osservinsi le parole che seguono:
Quid si assimulo? satin’ est?Get.
Garris.An.
Voltum contemplamini, hem,Satine sic est?Ge.
Non.An.
Quid si sic?Get.
Sat est.Hem istuc serva.
È chiaro che Antifone avrà accompagnato l’azione e il volto ad ogni espressione, cangiandosi sempre per piacere al servo. E che avrebbero fatte qui alcune meschine note marginali? Senza dubbio foscamente avrebbero accennato quel che con più vantaggio si lascia all’abilità dell’attore e al discernimento di chi legge. Questa scena è tanto più vaga, quanto le cose umili sembrano meno capaci di grazia e leggiadria. Per buona ventura nel fermarmi la state del 1779 in Parma, vidi manoscritta la versione Italiana del Formione fatta dall’elegantissimo traduttor di Teocrito, Mosco e Bione, il chiar. P.M. Giuseppe Maria Pagnini Pistojese Carmelitano, Professore di eloquenza in quella università, il quale si compiacque di permettermi di decorare la mia nuova storia teatrale con qualche frammento della sua bella versione e del di lui nome sì degno, sì noto, sì caro alle muse Italiane. Egli me ne trasmise a Madrid qualche scena. L’anno 1784 poi, mentre io già mi trovava in Napoli, si rappresentò nel Regio Ducal Collegio de’ Nobili da’ giovani studenti della nominata università, e dalla stamperia Reale si pubblicò col testo di Terenzio corredato di un nuovo prologo latino dell’incomparabile traduttore. Ecco intanto la versione dell’additata scena:
Get.
Geta, per te è finita, se non troviQualche pronto ripiego. Ora mi veggoCento trappole intorno all’improvviso,Nè so come schifarle, o come uscirne.La nostra furberia non può più a lungoTenersi ascosa.Ant.
Oh come è mai turbato!Get.
Nè mi resta a pensar più che un momento.Il padron m’è a ridosso.Ant.
Che ha costui?Get.
Quando il saprà, come farò a calmareIl suo furor? Se parlo, si riscalda;Se taccio, imbestialisce; se mi scolpo,É un gettar voci al vento. Oh me tapino!Per me ho paura, e il povero AntifoneMi strazia il cuor; mi fa pietà; per luiSono in travaglio. In grazia sua non svigno.Se non fosse per lui, l’avrei sbrigata.Avrei ben provveduto a’ casi miei.L’ira del vecchio mi daria di barba:Avrei fatto fardello, e preso il trotto.Ant.
Qual fuga, o latrocinio in testa ordisce Costui?Get.
Ma dove troverò Antifone?Per quale strada mi farò a cercarlo?Fed.
V’ha nominato.Ant.
Ah sì, che me l’aspetto,Di sentirmi annunziar qualche gran male.Fed.
Siete impazzito?Get.
Orsù torniamo a casa.Ei vi sta per lo più.Fed.
Chiamiamlo indietro.Ant.
Fermati lì.Get.
Poffare, un grande impero,Sia chi vuol.Ant.
Geta.Get.
E’ quel cui cerco appunto.Ant.
Di’ per pietà, che nuove porti; e sbrigati,Se puoi, ’n una parola.Get.
V’ubbidisco.Ant.
Su parla.Get.
É al porto.Ant.
Il mio?Get.
Ci avete colto,Ant.
Son morto.Fed.
Eh via.Ant.
Che dovrò far?Fed.
Che dici?Get.
Ho veduto suo padre, vostro zio.Ant.
Qual riparo porrò quì su due piediAlla rovina mia? S’io sono astrettoA dovermi, da te, Fania, staccare,Non so che far della mia vita.Get.
O via,Antifon, s’è così, vie più doveteStar bene all’erta. La fortuna ai fortiAjuto dà.Ant.
Non sono in me.Get.
BisognaOr più che mai, che siate in voi. Se il padreS’avvedrà, che voi siate spaurito,Farà giudizio, che voi siate in frodo.Fed.
É ver.Ant.
Non so cambiarmi.Get.
E se dovesteQualc’altra cosa far più faticosa?Ant.
Non posso questa, men potrei far quella.Get.
Questo è nulla e tutt’un. Fedria, è finita.Perchè gettiamo il tempo? Io voglio andarmene.Fed.
Anch’io.Ant.
Per poco in grazia. E s’io mostrassiQuesto sussiego? E’ assai?Get.
Ciance.Ant.
GuardatemiIn volto. Ehi, così basta?Get.
No.Ant.
E così?Get.
Quasi quasi.Ant.
E così?Get.
Così va bene.Tenete su le carte, e rimbeccateOgni suo detto, ogni parola, ond’egliIncollorito colle sue bravateNon v’abbia a sopraffar.Ant.
Capisco.Get.
A forzaLa Legge, la Sentenza v’obbligò.Avete inteso? Ma chi è quel vecchio,Che veggo là nel fondo della piazza?Ant.
E’ desso? Non ho cuor di rimanere.Get.
Ehi, che fate, Antifon? Qui, qui restate.Ant.
Il mio debol conosco, e il mal ch’ho fatto.Raccomando a voi Fania e la mia vita. ecc.
Artificiosa finalmente è la scena di Geta e Formione, ascoltando da parte Demifone, che nelle communi edizioni è la terza dell’atto II, e nella lodata edizione della versione del P. Pagnini è la seconda del medesimo atto, ed incomincia, En unquam cuiquam contumeliosius. Eccone la di lui traduzione:
Dem.
Avete inteso mai, che altr’uomo al mondoAbbia sofferto un più villano oltraggio?Ajutatemi in grazia.Get.
E’ forte in collera.For.
Bada a te: zitto. Io leverogli il ruzzo.Poter del mondo! e Demifon sostiene,Che questa Fania non è sua parente?Sostiene, che costei non gli è parente?Get.
Sì certo.Dem.
A quel ch’io penso, ecco quel furbo.Venite meco.For.
Ed ei non sa chi fosseIl genitor della fanciulla?Get.
No.For.
Egli non sa chi fu Stilfon?Get.
No certo.For.
Perchè è rimasta povera e mendica,Non si vuol più conoscere suo padre;Di lei non si fa conto. Osserva un pocoQuel che fa l’avarizia.Get.
Se tu ardisciD’avarizia tacciare il mio padrone,Ti darò ben risposta.Dem.
Oh che sfrontato!Ei fin s’inoltra a querelarsi il primo.For.
Io già non ho motivo di lagnarmiDel giovin, se contezza non ne avea;Perchè quel poveretto già attempato,Guadagnandosi il vitto con le braccia,Per lo più se ne stava alla campagna,Ov’egli aveva preso un poderettoDi mio padre in affitto. E quel buon vecchioA me più e più volte ha raccontato,Che questo suo parente a lui voltateAvea le spalle. E che buon uomo! Io certoA’ miei giorni il miglior non ho veduto.Get.
Vedi bel paragon di te e di lui.For.
Che ti venga la rabbia. E s’io per taleTenuto non l’avessi, espor vorreimiCon questa vostra casa a nimicizieSì fiere per sua figlia, che in un modoTanto villano tuo padron disprezza?Get.
E continui ancora, o lingua fracida,A strapazzare il mio padrone assente?For.
Ben gli sta.Get.
Vuoi chetarti, galeotto?Dem.
Geta.Get.
Furfante, storcileggi.Dem.
Geta.For.
Rispondi.Get.
Chi mi chiama? Oh ....Dem.
Bada a te.Get.
Costui non ha fatto altro in vostra assenzaChe affibbiarvi tutt’oggi delle ingiurie,Da voi non meritate, a lui dovute.Dem.
Finiamla. Io prima vi domando in grazia,Quel giovine, se pur non v’è d’incomodo,Che mi diate risposta, e mi spieghiateChi è quel vostro amico, e in qual manieraSi dichiarava d’essermi parente.For.
Lo cercate da me, come se a voiNon fosse noto.Dem.
Noto a me?For.
Di certo.Dem.
Io vi dico di no. Voi, che voleteChe mi sia noto, fate che mi torniAlla memoria.For.
Eh via. Com’ è possibileChe quel vostro cugin non conosceste?Dem.
Voi mi fate crepar. Ditemi il nome.For.
Il nome? Volentier . . . .Dem.
Perchè nol dite?For.
Oh me tapino! m’è sfuggito il nome.Dem.
E così?For.
Geta, il nome suggeriscimi,Se ti sovviene, che abbiam detto or ora.Eh, eh non lo vò dir. Voi vi voletePigliar gioco di me, come se voiNol sapeste.Dem.
Io pigliarmi di voi gioco?Get.
Stilfone.For.
Alfin, che importa a me? Stilfone.Dem.
Chi?For.
Stilfone, vi dico, era a voi noto?Dem.
Nè io costui giammai conobbi, e alcunoParente di tal nome io mai non ebbi.For.
Possibile? Oh vergogna! Ah s’egli avesseLasciato mai qualche migliar di scudi.Dem.
Che ti colga il malanno.For.
Allor sarestePrimo a dir su a memoria il vostro stipite,Facendovi dal nonno e dal bisnonno.
Fu questa commedia rappresentata, essendo Edili L. Postumio Albino, e L. Cornelio Merola, dalla compagnia comica di L. Ambivio Turpione e L. Attilio Prenestino colla musica di Flacco. La quarta volta si recito nel consolato di Gn. Fannio Strabone e M. Valerio Messala l’anno di Roma 593. Il poeta memore della disgrazia dell’Ecira implora nel prologo il silenzio degli spettatori, dicendo:
Ne simili ut amur fortuna atqueusi sumus,Cum per tumultum noster Grex motus loco est,Quem actoris virtus nobis restituit locum,Bonitasque vestra adjutans atque æquanimitas.
Potrebbe aggiugnersi che la quinta volta fu nella stessa Roma nel secolo XVI dell’era Cristiana fatta rappresentare da nobili attori per ordine del Cardinale Ippolito da Este il giovane, e vi premise il prologo il celebre Antonio Mureto. La sesta volta sarebbe questa che si è rappresentata in Parma da’ giovani studenti di quell’università l’anno 1784, e vi fece un nuovo prologo il prelodato P. Pagnini, che per l’eleganza e la venustà secondo me merita di rendersi sempre più noto:
Ætate nostra pol nihil frequentius.Ubique locorum, quam qui faciant comicamExtra theatra. Nonne in hemycycliis,In officinis, in tabernis, in foro,In ædibus potentium, ac, si diis placet,Ipsis in aulis principum quamplurimiSuis relictis non suas partes agunt,Ut sapientes, ut nobiles, ut divites,Ut docti appareant incautis, non sineRei qua privatæ incommodo qua publicæ?Nec ipsi turpiora officia despuunt,Notos, ignotos fallere, assentarierSupremis, imis, plenos fidei perdere,Supponere acta, scripta, sycophantiasMoliri, ac si quid hisce est impudentius,Modo id sua cum re sit. Heu scelus! Heu nefas!At nemo jure crimini aut probro duitHuic nostro adolescentum ingenuorum cœtuiSine pretio prodire ornatu scenico,Moresque vitæ deteriores fingere,Non ut cuiquam incommodet, sed ut simulSpectatorum delectet animos & iuvet,Terentiana agetur ergo fabula,Cui Phormio nomen. ecc.
L’Eunuco. Questa commedia che Terenzio trasse da Menandro, fu dagli Edili comperata al prezzo esorbitante di ottomila nummi, cui verun’ altra mai non pervenne, e si rappresentò dalla solita compagnia di Turpione ed Attilio colla musica di Flacco. La seconda volta si recito nel consolato di M. Valerio Messala e Gn. Fannio Strabone l’anno di Roma 593. Non per tanto dalla Dacier e dal Fabro si vuole che non si fosse rappresentata la seconda volta nel suddetto consolato, ma bensì due volte in un medesimo giorno, così interpretando essi quell’acta II. Convengo non essere improbabile, che sì bella commedia piacesse a’ Romani per tal modo, che se ne volessero ripetere il diletto nel medesimo giorno, come avviene di qualche aria eccellente ne’ nostri teatri musicali. Ma la nota Romana II è molto frequente nelle iscrizioni, Consul II, Consul III, Pontifex VII, e s’interpreta la seconda, la terza, la settima volta; or perchè solo in questa favola vuolsi che significhi bis, puntellandola con supplirvi la parola die? Bis acta est, dice lo scrittore della di lui vita; e perchè ciò direbbe (argomenta il Fabro) se non s’intendesse nel medesimo giorno? L’Eunuco si sarà rappresentata diverse volte, e perchè far menzione di due sole? Potrebbe però rispondersi in prima, che il biografo intenda di dire, che siasi rappresentata due volte in poco spazio di tempo (non già in un giorno, perchè questo farebbe stato un avvenimento ben raro in Roma, e tale che avrebbe richiesto un racconto speciale) senza poi tenersi più ragione di altre ripetizioni, cosa che sarà avvenuta ad altre commedie di Cecilio, di Plauto ecc. E tale breve spazio di tempo ben potrebbe ristrignersi all’anno del riferito consolato, non essendovi maggior verisimiglianza nell’interpretazione del Fabro II die, che in questa II anno. L’analogia poi esige che s’interpreti la seconda volta, e non già due volte. Nel Tormentatore di se stesso si dice acta III nel consolato di Sempronio e di Giuvenzio, e si spiega la terza volta; nel Formione dicesi facta IV sotto Fannio e Valerio, e s’interpreta la quarta volta; nell’Ecira troviamo scritto relata III, e s’intende la terza volta. Or perchè mai solo l’ acta II dell’Eunuco ha da ricevere la spiegazione di due volte in un dì?
Che che sia però di questo, dobbiamo osservare che Terenzio in tutte le sue favole, e con ispecialità in questa, si scaglia contro il poeta Luscio Lavinio suo detrattore. Egli ne riprende due commedie tratte dalla Fantasima e dal Tesoro di Menandro; e ci racconta, come dopo che gli Edili ebbero comperata la commedia dell’Eunuco, Luscio si adoperò per modo che ottenne la facoltà di esaminarla (inspiciundi) e che si cominciò a recitare, forse dallo stesso Terenzio, in presenza del magistrato. Allora l’invidioso maledico Luscio chiamò Terenzio ladro e plagiario, gridando ridicolamente, come pur fassi a’ nostri dì quando altro non si sa dire: la sua sostanza è tutta tolta dal Colace, favola scritta da Nevio e da Plauto. Terenzio nel prologo si discolpa, negando di aver mai saputo che Nevio e Plauto l’avessero posta in iscena; ma confessa ancora colla ingenuità che accompagna sempre gli uomini che non iscarseggiano di merito, che dal Colace di Menandro egli ha tratto i personaggi del parassito e del soldato. L’azione dell’Eunuco consiste in un dono fatto da un suo amante a Taide di una fanciulla ch’ella sa esser cittadina Ateniese, e in un altro dono, fattole da un altro suo innamorato, di un Eunuco, in vece di cui vi è menato un vivace giovanetto preso repentinamente dalla bellezza di quella fanciulla, la quale di poi gli diventa moglie. La favola è condotta con buona economia e con ispecial grazia e vaghezza. Ma sopra ogni altra cosa le pitture degl’ innamorati Fedria e Cherea sono così vere e leggiadre, che diventano una tacita satira di quasi tutti gl’ innamorati scenici moderni, i quali o sogliono essere sofistici e ghiribizzosi metafisici, come nelle commedie Spagnuole, o manierati belli-spiriti, come nelle Francesi, o fantastici trovatori di ardite metafore, di studiati epigrammi e di strani rettorici pensamenti, come nelle Italiane specialmente di una gran parte del XVII secolo. Si sgomenta ogni scrittor di buon gusto nel voler prestare i concetti a un innamorato, rammentandosi di Fedria sulla soglia di Taide. Quattro versi che danno principio a questa favola, sono la disperazione degli scrittori teatrali intelligenti. Trascriverei di buon grado l’intera prima scena originale, ma per compiacere qualche volta a chi si conforma più volentieri all’uso Francese di addurre delle lingue morte i frammenti tradotti, ne recherò una mia versione qualunque essa siasi, sempre inculcando di leggersi i versi stessi di Terenzio:
Fed.
Che farò dunque? Non vi andrò? NemmenoOr che di suo volere a se mi chiama?O mi armerò piuttosto di costanza,Per non soffrir mai più d’esser trastulloDi femminacce lusinghiere e false?Mi scacciò . . . . mi rappella . . . .!Tornerò? . . . No, per dio, no, se venisseA mani giunte a domandar mercede.Par.
Purchè il possa tu far, non v’ha di questaNè più gloriosa, nè più forte impresa.Ma pensa ben, che se cominci, e cessiA mezza strada, se da lei lontanoDimostri che la vita ti rincresca,E senza esser chiamato, e nel più forteDel cruccio, da te stesso ti presentiAlla sua soglia, e l’amor tuo palesi,E quanto in odio a lei, te stesso abborri,Tu sei perduto. Si avvedrà che schiavo,Che in lacci sei, che ti dibatti invano,E del suo fasto diverrai lo scherno.Pensaci ben, padrone, or che vi è tempo.Ciò che in se non ha modo nè consiglio,Guidar colla prudenza invan presumi.Queste vicende e questi vizii tuttiAccompagnan l’amor: sospetti, ingiurie,Inimicizie e tregue, e guerre e paci.Tu se tai cose instabili con fermaNorma regger vorrai, sarà lo stessoChe volere impazzir colla ragione.E quel che irato or nel tuo cuor rivolgi:Io lei? che quel . . .? che me? . . . che non . . .? Vedrai . . .Oh! pria morrò; saprà qual uom mi sia.Tutto questo apparecchio di disdegnoIn fede mia ammorzerà repenteSolo una insidiosa lagrimucciaChe, dopo lungo strofinarsi d’occhi,In essi a stento imbambolar vedrai.E tu anzi reo del meritato sdegnoTi chiamerai, chiedendo in grazia ancoraUn supplicio che lavi ogni tua colpa.Fed.
Ribalda, indegna! Or sì conosco beneLa sua nequizia, e la miseria mia,E me ne incresce, e di amor muojo, e il veggo,E il so, nè mi trattengo, e da occhi aperti,Corro a morir, nè so che far mi debba.Par.
Non sai che far? La libertà perdutaAl minor prezzo che possibil fiaCerca di riscattar; e se non puoiCon poco, abbi l’intento ancor con molto,E con quanto possiedi, e ti consola.Fed.
Così tu pensi?Par.
E così far tu devi,Se saggio sei, nè rendere maggioriI mali e le molestie dell’amore,E alla meglio soffrir quelle che ha seco.Ma la tempesta de’ poderi nostriEcco fuori sen vien, che i dolci fruttiChe noi coglier dobbiam, via se ne porta.
Della bellissima scena seconda di Taide con Fedria e Parmenone potrebbero addursi varii squarci pregevoli; ma basti il seguente, che sempre più può ammaestrare gli scrittori teatrali ad esprimere col vero linguaggio il pensare di un innamorato. Addio, mia bella Taide (dice Fedria) sino a che passino questi due giorni. Addio, mio caro Fedria; vuoi tu da me qualche altra cosa? Ed egli:
. . . . . . Egone quid velim?Cum milite isto præsens, absens ut sies:Dies, noctesque me ames, me desideres,Me somnies, me expectes, de me cogites,Me speres, me te oblectes, mecum tota sis.Meus fac sis postremo animus, quando ego sum tuus.
I quali pensieri così ha felicemente espressi il Fortiguerra:
. . . . . . . Quel che vogl’ io?Vò che presente a codesto soldatoTu stia come lontana: e notte e giornoMe ami, me desti, me sogni e aspetti,A me pensi, in me speri, e in me ti allegri,In somma che di me tutta tu sii,Quando io son tutto tuo.
Grande, forte, difficile ad esser raffrenata o a soggiogarsi è la passione di Fedria; ma infocata, vivida, impetuosa è quella del giovinetto Cherea. Che maestrevole varietà nel maneggiare un medesimo affetto! Odasi in qual maniera egli favelli nel volgare idioma per mezzo del medesimo Fortiguerra, e dalla bellezza della copia si argomenti la vivacità del colorito originale, e si confrontino:
Son morto: mi è sparita la fanciulla:Ed io che fino a qui le tenni d’occhio,Più non la vedo. E dove or cercherolla?Ove rintraccerolla? E a qual personaDomanderonne? E qual terrò camino?Non sollo. Ma quest’unica speranzaMi resta, che dovunque ella si sia,Non potrà lungo tempo star celata.O bellissimo volto! In questo puntoCancello dal mio cuor tutte le donne,Che mi fan noja i visi del paese.
Leggansi in quest’altro passo tradotto dalla medesima mano le di lui espressioni dopo essere stato in casa di Taide, donde esce pieno di giubilo e dolcezza:
Evvi alcun qui dappresso? Non vi è alcuno.Evvi alcun che mi seguiti? Nessuno.Or dunque potrò io liberamenteTutta sfogar l’interna mia allegrezzaO Giove, adesso è il tempo certamenteChe soffro in pace, se mi fai morire,Acciochè a lungo andare alcuno affannoNon contamini questo mio piacere.Ma vorrei pure abbattermi in talunoChe curioso mi venisse appresso,E mi ammazzasse con cento domande,Dove io vada? donde esca? e che pretenda?Perchè tanta allegrezza e tanto brio?Da chi preso abbia questo vestimento?Se sto in cervello, o se sono impazzito?
Noi non rechiamo queste poche bellezze, se non per eccitare gli studiosi giovani alla lettura ragionata delle commedie di Terenzio, nella quale si abbatteranno in moltissime altre che lasciansi alla loro diligenza, abbondandone questa bella favola forse la migliore tralle Latine. Non vediamo però su qual ragionevol fondamento abbia l’autore delle Note della soprannominata edizione Romana di Terenzio del 1767 voluto opporsi alla solita divisione degli atti dell’Eunuco. A suo credere l’atto I non dee terminare colle parole di Taide, Concedam hinc intro, atque expectabo dum venit. Dice quest’erudito: Probari qui potest eorum sententia, qui finem huic actui imponunt (quod cœteroquin in omnibus fere Terentii comœdiarum editionibus fieri animadverti), quum adhuc Phædria & Parmeno scenam occupent. Suppone l’annotatore che Fedria e Parmenone, mentre Taide favella, stiano ancora in iscena, e quando quella n’è partita, proseguano il discorso tenuto dell’ancella e dell’eunuco da condursi nella di lei casa. Ma l’azione parmi che avvenga diversamente da quello ch’egli pensa. Fedria parte dal proscenio dopo il verso, Meus fac sis postremo animus, quando ego sum tuus, e con Parmenone entra nella propria casa per accingersi al picciolo viaggio che vuol fare in villa per passarvi il biduo penoso. Taide rimane affliggendosi di non esser creduta da Fedria ch’ella ama di buon senno; accenna di volere col dono della fanciulla che attende dal soldato, rendersi benevolo il di lei fratello; entra in sua casa; e così termina benissimo l’atto primo. Nel II esce Fedria con Parmenone, e, come a tutti gli uomini avviene e spezialmente agl’ innamorati, in procinto di andar via ripete al servo che eseguisca i suoi ordini intorno al menare l’ancella e l’eunuco a Taide. In tale azione così condotta e distribuita non havvi cosa irregolare per la quale abbiasi a rifiutare la comune divisione. L’unico motivo che ebbe l’annotatore di censurarla, è che Fedria parla della medesima cosa accennata con Taide. Ma sarebbe strano che in due parole la ripetesse nel momento di partire? Lascio poi da parte che la divisione da quel letterato proposta senza verun bisogno, mi sembri sproporzionata, perchè egli vorrebbe che i due primi atti ne formassero un solo, ed il II delle solite edizioni si dividesse in due ben piccioli.
Gli Adelfi. Non so come mai i gramatici che da varii passi degli antichi raccolsero le notizie appartenenti alla vita di Terenzio, abbiano francamente asserito che questa favola fosse tratta da una di Menandro. Niun critico, per quanto io sappia, ha considerato che Terenzio stesso a chiarissime note ha detto di doverla al comicissimo Difilo, e intitolarsi in Greco Synapothnescontes, che i comentatori interpretarono devoti, consecrati a correre la stessa sorte col loro sovrano. Ci dice in oltre che Plauto dalla favola di Difilo trasse la sua intitolata Commorientes; ma che avendo in essa lasciata intatta l’avventura del giovane che tolse a viva forza una meretrice a un ruffiano, egli ha voluto approfittarsi di questa parte non toccata, per tessere questa sua commedia. L’intitolò Adelphi per avervi introdotti due bellissimi caratteri di due fratelli di umore e di costumi opposti, i quali formano un piacevolissimo contrasto comico. Mizione e Demea sono gli originali di moltissime copie moderne di caratteri che graziosamente si combattono sulle scene. Mizione senza moglie, senza figli, pieno di comodi e di ricchezze, urbano, indulgente, piacevole, benefico: Demea ammogliato, con due figliuoli, pieno di cure, laborioso, severo, burbero, tenace. Quegli sempre tranquillo e lieto, questi sempre agitato e collerico. Mizione per sollevare alquanto il fratello adotta Eschino il primo de’ di lui figliuoli, e con una educazione dolce e indulgente, sebbene gli dà la facilità di soddisfare a’ suoi capricci giovanili, almeno l’incamina all’ingenuità e fasselo amico. Demea rigido e molesto coll’ educazione aspra, zotica e nojosa data a Ctesifone, senza correggerne i vizii della giovanezza, l’obbliga a ricorrere alla dissimulazione e all’ipocrisia, e da se lo aliena. Demea ignorando le passioni, il pensare e la vita del figlio da lui educato, lo crede dedito interamente alle cose rusticali e lontano dalle solite debolezze giovanili, e si occupa solo nel pensiero della vita menata da Eschino, e ne censura e riprende il fratello Mizione. Egli ha saputo che Eschino ha violentata la casa di un ruffiano, bastonandolo e togliendogli una meretrice. Ma egli ignora che questa donna è l’amata da Ctesifone, cui Eschino ha preteso favorire col torla al ruffiano. Crede egli che Ctesifone sia in villa, mentre si trova colla sua donna e con Eschino in casa di Mizione. Ognuno vede qual fonte di piacevolezza contenga il carattere di questo vecchio severo che s’immagina di essere abbastanza vigilante, e di sapere gli sconcerti di sua casa prima di ogni altro, quando egli è il solo che n’è sempre all’oscuro:
Primus sentio mala nostra, primus rescisco omnia,Primus porrò obnuncio. Ægre solus, si quid fit, fero.
Egli sel crede, e n’è deriso da Siro:
Rideo hunc, primum ait se scire, is solus nescit omnia.
Ne’ casi di Panfila fatta madre da Eschino gli avviene lo stesso. Ei tardi n’è instruito da Egione, e più tardi ancora e fuor di tempo ne viene a schiamazzare col fratello allorchè tutto è quieto, e si sono conchiuse le nozze di Eschino e di Panfila. Eccita parimente il riso quando, accorgendosi che l’indulgenza di Mizione lo rende a tutti caro ed accetto, pensa d’imitarlo, benchè a spese del fratello; e sforzando il proprio naturale lo consiglia ad usare varie liberalità ed a congiungersi in matrimonio con Sostrata. Tralle bellezze più degne di notarsi in questa commedia si vogliono collocare le ottime regole di educazione che si ricavano dalla prima scena, le quali usate colla dovuta moderazione incaminerebbero i giovani alla sincerità e alla candidezza, là dove l’educazione rigida e indiscreta gli scorge all’ ipocrisia e alla doppiezza. Dice Mizione:
. . . . . . Quæ fert adolescentia,Ea ne me celet, consuefeci filium:Nam qui mentiri, aut fallere insuevit patrem, autAudebit, tanto magis audebit cæteros.Pudore & liberalitate liberosRetinere satius esse credo, quam metu.
Demea mio fratello (soggiugne Mizione) oltre al dovere è duro e severo:
Et errat longe, mea quidem sententia,Qui imperium credat gravius esse aut stabilius,Vi quod fit, quam illud quod amicitiæ adjungitur.Mea sic est ratio, & sic animum induco meum;Malo coactus qui suum officium facit,Dum id rescitum iri credit, tantisper cavet,Si sperat fore clam, rursum ad ingenium redit.Ille quem beneficio adjungas, ex animo facit;Studet par referre, præsens, absensque idem erit.Hoc patrium est, potius consuefacere filium,Sua sponte rectè facere, quam alieno metu.Hoc pater ac dominus interest, hoc qui nequit,Fateatur se nescire imperare liberis.
Io mi credo che questi aurei versi ben ponderati risparmierebbero a molti la fatica di accumular volumi sull’ educazione domestica. Per ciò che riguarda la comica piacevolezza merita di osservarsi la scena terza dell’atto III di Demea con Siro. Applaudesi il vecchio della propria maniera di pensare, e censura quella del fratello, coll’ occasione del trascorso di Eschino; ed il servo con graziosa ironia loda la di lui saviezza, il prudente antivedere, le massime assennate. Il vecchio entrato a far l’elogio di se stesso non la finisce mai, e il servo fa una parodia delle di lui sentenze applicandole alla sua cucina. Veggasi questo passo nella versione del Fortiguerra.
Dem.
Oh in questo ci sto tutto, e non mai lascioPassargliene veruna, e in guisa taleA bene oprar l’avvezzo. FinalmenteGli comando, che come in uno specchioEgli contempli di ciascun la vita,E quindi apprenda dalle azioni altruiA farsi esempio e regola a se stesso.Questo, dico, è da farsi.Sir.
Bene al certo.Dem.
Quest’altre è da fuggirsi.Sir.
Con giudizio.Dem.
Questo degno è di lode.Sir.
Util consiglio.Dem.
Questo di biasmo.Sir.
Insegnamento raro.Dem.
Ma per meglio spiegarmi . . . .Sir.
Non ho tempoOr di ascoltarti, che mi son compratiQue’ pesci a gusto mio, e a me si aspettaLo stare attento, onde non vadan male:Che tanto a noi si ascriverebbe a colpaUna tal negligenza, quanto a voiQuelle cose non far, che avete detto.Però nel modo stesso a’ miei conserviChe al figlio tu comandi, io pur comando.Questo è troppo salato: arsiccio troppoÈ questo: e lavato han poco quest’altro;Quello è squisito, raro: un’ altra voltaChe tu lo debba cuocer, ti rammentaDi non mutare intingoli; ed a tutti,Per quanto so, do regole e precetti.Insin comando lor che fissin gli occhiNelle stoviglie, come in uno specchio,E mostro lor come hansi a contenere.
Siro stesso nella seconda scena dell’atto quarto, per allontanarlo da quelle vicinanze e dalla casa del fratello dove si trova Ctesifone, lo manda a cercar Mizione altrove, insegnandogli un camino lungo e intralciato, sì che non ne esca in tutto il giorno. Ciò è stato imitato da qualche commediografo Italiano, e spezialmente dal Porta. Nella quinta scena del medesimo atto quarto è notabile la riprensione moderata e savia che fa ad Eschino il buon Mizione, e che recheremo parimente colle parole del più volte lodato elegante traduttore:
. . . . . . . Or dimmi un pocoIn qual città ti credi tu di stare?Facesti oltraggio ad una verginellaCui di toccar nessun diritto avevi.Già questa ella è gran colpa,Ma pure umana, e che commiser molti,E delle volte ancor que’ che fur buoni.Ma perchè, dimmi, dopo fatto il maleTu non pensasti a dargli alcun rimedio?Forse da te cercasti a provvederci?O già che ti prendea di me vergogna,Nè da te stesso mel volesti dire,Di alcun cercasti acciochè mel dicesse?E in mezzo a queste tue tante incertezzeEccoti dieci mesi già passati:Così te stesso e quella sventurataHai rovinato, ed anco il tuo figliuolo,Per quel che ti appartenne. Ti credevi,Che a te, dormendo colla pancia all’aria,Dovessero gli dei porgere aita?E menarti la sposa insino al letto?Non ti vorrei nel resto delle coseNegligente, conforme fosti in questa.Ma stammi allegro. Avrai costei per moglie.
Non è da omettersi la grazia della escandescenza di Demea, e l’epilogo delle disgrazie e dei delirii della sua famiglia che egli fa nella scena ultima del medesimo atto quarto coll’ impeto consueto del suo carattere:
. . . . . . . . . . . O jupiter?Hanccine vitam? hoscine mores? hanc dementiam?Uxor sine dote veniet: intus psaltria est:Domu’ sumptuosa, adolescens luxi perditus:Senex delirans: ipsa si cupiat SalusServare prorsus, non potest hanc familiam.
L’ultima favola fu questa che Terenzio espose sulle scene Romane. Ciò avvenne, secondo l’epigrafe apposta alle comuni edizioni, ne’ giuochi funebri di L. Emilio Paolo fatti da Q. Fabio Massimo e P. Cornelio Africano sotto il consolato di L. Anicio Gallo e M. Cornelio Cetego l’ anno di Roma 593, secondo il Fabro de ætate Terentii, essendo rappresentata dalla compagnia di Attilio Prenestino e da Minuzio Protimo colla musica di Flacco. Anche questa commedia fu nel nativo linguaggio recitata nell’Italia moderna nel secolo XVI, allorchè si recò a Ferrara il Pontefice Paolo III, da i più nobili attori della corte del Duca Ercole II, cioè da’ medesimi di lui figliuoli.
Questo comico elegantissimo si vuole nato in Cartagine circa l’anno di Roma 560 nove anni prima della morte di Plauto. Fenestella affermò esser egli nato e morto tra il fornire della seconda guerra Punica e l’ incominciar della terza, cioè al terminar del sesto secolo. Dunque dopo non molto della recita degli Adelfi morì Terenzio, o per meglio dire sparì, nè altro se ne seppe dal consolato di Cn. Cornelio Dolabella e M. Fulvio Nobiliore in poi, che cade nell’anno 594. Vuolsi che di anni trentaquattro in circa s’imbarcasse per la Grecia o per l’Asia. Alcuno asserisce ch’ei morisse povero in Stinfalo di Arcadia; altri ch’egli naufragasse di ritorno dalla Grecia, e perissero con lui cento e otto commedie greche che avea tradotte. Ma chi leggerà attentamente le sei da lui con tanta eleganza e delicatezza composte in Roma, crederà con somma difficoltà che avesse potuto scrivere commedie a centinaja, senza supporre che vissuto fosse sino all’ultima vecchiaja in Grecia, e che avesse trascurato di tornare in Roma dove le sue fatiche erano così bene premiate ed onorate. E a qual altro oggetto avrebbe egli recate nella latina lingua tante greche ricchezze?
Afranio compose pel teatro comico dopo Terenzio, ma cercò d’imitarlo, e ’l tenne per incomparabile, siccome attestò nella sua commedia intitolata Compitalia,
Terentio similem non dices quempiam.
Egli studiossi ancora d’imitar l’oratore e tragico soprallodato Cajo Tizio; e Cicerone che ce ne istruisce, esalta l’ingegno, l’argutezza e l’eleganza di Afranio108. Anche Quintiliano109 lo commenda assai senza lasciar però di riprenderlo per l’oscenità degli amori da lui recati sulle scene. Suetonio mentova una di lui commedia togata detta l’Incendio, nella quale, quando si ripetè ne’ Giuochi Massimi celebrati da Nerone, quest’imperadore permise per magnificenza che gli attori saccheggiassero la suppellettile della casa che ardeva. Orazio ne dice che appo i Romani Afranio si considerava come il comico che più si avvicinava a Menandro,
Dicitur Afrani toga convenisse Menandro.
Senza dubbio lo studio che posero tali scrittori, e singolarmente Nevio, Plauto, Cecilio, Terenzio ed Afranio, in imitare i Greci, portò in Roma l’arte comica a un certo lustro notabile. Ma forse per non avere essi ad altra gloria aspirato che a quella di traduttori ingegnosi, si rimasero indietro, mostrando nell’ordinar le cose tolte a’ Greci una immaginazione più tosto temperata e giudiziosa che originale ed atta ad inventare. Quindi è che Quintiliano ingenuamente confessava esser la commedia la parte più debole de’ Romani110, e Giulio Cesare nell’urbana censura fatta a Terenzio riconosceva in lui Menandro ma dimezzato, e Aulo Gellio111 nel paragonar Cecilio con Menandro, Posidio, Apollodoro ed Alesside, vedeva ad occhi le latine favole, al confronto de’ greci originali onde traevansi, indebolirsi e scemar di pregio (Nota VII).
IV.
Splendidezza della scena Latina, e Censori
teatrali.
Ma già era cessata in gran parte la disistima in cui i Romani tennero per lungo tempo i poeti teatrali, secondochè affermò Cicerone112. I gran personaggi della repubblica già pregiavansi di esser detti amici de’ Terenzii tuttochè stranieri e servi. Già la scena spiegava tutto il lusso, il fasto e la magnificenza conveniente a un popolo arricchito delle spoglie di tanto mondo. Cajo Pulcro l’abbellì colla varietà de’ colori; Cajo Antonio la coprì tutta di argento, Petrejo di oro, Catulo di avorio; i Luculli la renderono versatile; Pompeo il grande, cui si attribuisce il primo teatro stabile fabbricato in Roma, colla frescura delle acque che fecevi serpeggiare, vi attemperò gli ardori estivi; e Marco Scauro v’introdusse una sontuosità straordinaria ne’ vestiti e nelle decorazioni, e fe costruire il suo magnifico teatro ricco di marmi e di cristalli, e pomposamente ornato di trecentosessanta colonne, il quale era capace di più di ottantamila spettatori113. Finalmente non istimarono i bellicosi Romani sconvenevole alla loro grandezza stabilire una deputazione di cinque censori destinati a rivedere i drammi da rappresentarsi, per contenere i poeti ne’ limiti dovuti. Senza l’approvazione di alcuno di essi non compariva sulla scena componimento veruno. I loro congressi facevansi nel tempio di Apollo o delle Muse, ove i poeti recavansi a recitar le loro favole. Spurio Mecio o Mezio Tarpa era il più assiduo e diligente de’ cinque censori. Cicerone parla di lui nella prima epistola del settimo libro delle Famigliari, ed Orazio ne fa menzione nella satira decima del primo libro:
. . . . . . . hæc ego ludo,Quæ nec in æde sonent certantia, judice Tarpa 114.