CAPO VIII.
Continuazione del Teatro Greco.
Oltre alle favole tragiche e comiche coltivarono i Greci altre specie di drammi che nomaronsi diversamente. I Satiri, l’Ilarodia, la Magodia, la Parodia, i Mimi, i Pantomimi, i Neurospasti, appartengono alla scena.
I.
Satiri.
Chiare tracce dell’antica origine della poesia drammatica osservansi in quel dramma che da’ Satiri trasse il nome. Sileno e i Satiri che formavano il corteggio di Bacco, erano i naturali interlocutori della poesia satiresca che partecipava del tragico, del buffonesco e del pastorale. I poeti tragici più illustri in essa dovettero esercitarsi, perchè la Tetralogia colla quale si aspirava alla corona teatrale, conteneva, come si è detto, tre componimenti tragici ed un satirico. Tralle favole di Euripide citansi otto drammi Satirici; ma il solo Ciclope ci è pervenuto intero. A chi non potesse consultar l’originale, o increscessero le versioni Latine letterali, o non avesse alla mano l’Italiana del dottissimo Anton-Maria Salvini, presentiamo l’annessa analisi di questa favola, di cui Omero fornì l’ argomento nel IX libro dell’Odissea. Spinto Ulisse da una tempesta in Sicilia non lungi dalla spelonca del Ciclope Polifemo, per salvarsi dalle di lui mani, dopo che ha perduto alcuni compagni, lo sbalordisce e addormenta col dargli a bere del vino generoso, l’ accieca, e fugge con tutto il coro de’ Satiri, i quali intervengono nella favola con Sileno, Ulisse e Polifemo.
Atto I. Sileno vecchio si trattiene seco stesso delle giovanili sue imprese e de’ travagli che sta soffrendo in vecchiaja, per aver voluto per affetto verso Bacco seguir le tracce de’ pirati Tirreni, i quali favoriti da Giunone aveano rapito questo nume a lui caro. Senza ciò egli non avrebbe corso il mare e patita la fiera tempesta che il gettò fra saffi dell’Etna in cui signoreggiano i Ciclopi che pasconsi di carne umana; non servirebbe in quelle caverne attendendo a preparar la cena a Polifemo; nè i suoi figliuoli menerebbero i di lui armenti a pascolare per quelle terre. Gli vede scendere dal monte cantando, e mesto dice,
E’ questa, oime! l’antica illustre danza?Questi quei cori son che al nostro BaccoSi cantavano un tempo? In tal TimeleCanterà il nostro coro!
Si avanzano i Satiri lamentandosi della loro vita laboriosa e piena di pericoli, e cantano un coro, il quale naturalmente adduce un giuoco di teatro che risulta dal guardar le capre e richiamare quelle che si scostano dalla greggia, e dà a conoscere il carattere del dramma misto di pitture pateti che, campestri e comuni.
Atto II. Sileno interrompe il coro additandogli un legno di Greca costruzione approdato al lido, dal quale sono discesi alcuni uomini che portano vasi per provvedersi d’acqua. Compiange gl’ infelici che sono quivi capitati ignorando i costumi de’ Ciclopi. Ulisse viene fuori coll’ intento di fornirfi d’acqua e di viveri, e si mar aviglia al vedere i Satiri in tal luogo. Il dialogo di Sileno e di Ulisse nel darsi vicendevolmente contezza de’ proprj casi e di quanto importa al secondo per propria instruzione, è giusto, naturale, preciso, degno di Euripide. Nè l’uno nè l’altro prende a parlare per mezz’ora almeno senza dar luogo al compagno, come suol farsi da non pochi drammatici moderni. Quì ogni proposizione non eccede un giambico, e le domande e le risposte sono così acconce, che il lettore tratto tratto è obbligato a confessare a se stesso che non si poteva chiedere nè rispondere più a proposito. Di questa precisione e aggiustatezza abbiamo pochi esempj tra’ moderni, i quali per lo più fanno rispondere a’ personaggi quel che comanda la rima o l’armonia de’ versi. Ulisse si rende benevolo Sileno dandogli del vino. Morde questo licore? (dice Ulisse); ti solletica dolcemente la gola? Per bacco (risponde) mi è arrivato fino a’ piedi. Il vecchio si mette in allegria, bee, ribee, domanda notizie di Troja, di Elena: Voi l’aveste pur tralle mani codesta bagascia perfida e carnajuola. E che ne faceste? Passò ella di mano in mano? Oh avesse avuto a far meco questa sorella di Polluce! avrebbe trovato scarpa pel suo piede! Affè che le avrei dato il premio delle sue belle opere. Ulisse l’interrompe per la venuta del Ciclope, e Sileno lo fa nascondere. Il dialogo di Polifemo che chiede il solito latte per cenare, e di Sileno che ha bevuto, è grossolano ed assai conveniente a’ tali personaggi. Si avvede Polifemo dei capretti legati e del latte portato fuori da Sileno per Ulisse nella scena precedente, cose che indicano un furto. Osserva ancora che Sileno è rubicondo fuor dell’usato. Chi ha legati questi capretti? Chi ti ha dato de’ pugni sul viso? Parla. Sileno sbigottito accusa Ulisse, dicendo che voleva rubarli, e per essersi egli opposto, n’è stato così mal concio. Ulisse si discolpa narrando il vero e accusando Sileno, ma il coro favorendo il padre lo smentisce. Patetiche ed eloquenti sono le preghiere di Ulisse, e se un Ciclope poteva intenerirsi, l’avrebbe conseguito. Ma questi gonfio della propria robustezza e potenza prende il linguaggio di uno spirito-forte e beffeggia gli dei nominati da Ulisse. Descrive poi la propria felicità e le ricchezze pastorali di cui abbonda: Per me solo pasce questa greggia immensa; per me si scanna, per questo ventre per questa gola, e non già per alcuno di questi tuoi numi. Il ventre è più vicino di Giove: trescare, ingollare, empiere la pancia, ecco la mia religione. A queste impietà aggiugne il comando funesto di entrare nella spelonca per esser pasto gradito del suo gran ventre. Alle querele e preghiere che Ulisse indirizza a Pallade, succede il canto del coro il quale sospetta di ciò che dentro farà il Ciclope. Egli senza dubbio taglia le membra di quegl’ infelici sulle mense; altre ne destina ad esser bollite, altre in arrosto; l’odore scellerato già ne va insino al cielo, e Giove ancora nol fulmina!
Atto III. Narra Ulisse al coro pateticamente la strage de’ suoi compagni divorati da Polifemo, indi il pensiere suggeritogli per avventura da qualche nume di dargli del vino in copia, per mezzo di cui potrà vendicarsene. Il coro vuol concorrere al disegno e fuggir seco. Ulisse manifesta il pensiero di acciecare il Ciclope con un legno bruciato nella punta per renderlo più duro e penetrante. Il coro lo seconda, e per dissimulare canta in lode del Ciclope.
Atto IV. Polifemo pieno di vino esce brancolando, e secondato dal coro canta una specie di ecloga invitando la sua Galatea. Dice poi di voler far parte del vino ai Ciclopi suoi fratelli, dal che Ulisse e ’l coro il dissuadono. Polifemo rimane persuaso, e si fa mettere accanto il vaso del vino. E’ buffonesco l’artifizio di Sileno che tenta di berne di nascosto, e vi si pruova più di una volta, e sorpreso nel fatto si scusa con varj ridicoli pretesti. Il Ciclope bee senza veruna misura e perde totalmente la ragione. Io veggio (dice già ubbriaco) girar la terra, il mare e ’l cielo; veggio il trono di Giove e seco tutta la folla degli dei. Oh ve’! Si alza Ciprigna per venire ad abbracciarmi. Si animano i congiurati a compiere l’opera; poichè entrato Polifemo nella spelonca si mette a giacer supino e russa fortemente. Parte del coro entra per eseguir l’impresa, e parte rimane al cospetto degli spettatori.
Atto V. Esce Polifemo acciecato urlando e gemendo. Ulisse allorchè fu domandato del suo nome, rispose di chiamarsi Niuno; ed ora il Ciclope fremendo si querela di Niuno che l’ha acciecato. Il coro domanda, chi abbia in lui commesso quest’eccesso? Niuno, ei risponde. Di chi dunque ti lagni, ripiglia il coro, se niuno colpa al tuo male? Oimè! (dice il Ciclope) il forestiere mi ha fatto bere, ed è egli quel perfido Niuno che mi ha privato del lume dell’ occhio. Egli poi si mette all’entrata della caverna, perchè non ne esca alcuno. Ma il coro l’avverte che vanno uscendo. Da qual parte? . . . . Volgi a man destra . . . no no, corri alla sinistra . . . di quà, di là, di nuovo alla destra . . più su, ora più giù. Il Ciclope si volge a seconda delle parole del coro brancolando; ed essendo in tal guisa aggirato Ulisse ha luogo di uscire, e con tutti i compagni, col coro e con Sileno si salva sulla nave, deridendo il Ciclope che inutilmente minaccia.
II.
Ilarodia.
Non molto diversa dalla tragedia era l’ilarodia o ilarotragedia. Per l’idea lasciatane da Ateneo era una favola festevole di lieto fine, nella quale intervenivano personaggi grandi ed eroici, ma vi si dipingevano i fatti che ad essi accadevano come uomini, e non come eroi. Il Tarantino Rintone che visse sotto Tolommeo Lago, sembra che avesse accresciuto il numero degli spettacoli teatrali de’ Greci con queste nuove favole, che dal suo nome chiamaronsi ancora Rintoniche. Ateneo cita il di lui Anfitrione, e l’Ercole recandone un frammento. Giulio Polluce nomina tre altre favole di Rintone, cioè due Ifigenie in Aulide e in Tauri ed il Telefo. In qual guisa egli maneggiasse questi argomenti tragici scostandosi dalla tragedia senza cadere nella commedia, non si divisa da que’ pochi frammenti che se ne adducono. Un altro elegante scrittore d’ilarodie fu Simo Magnesio, del quale favella Aristocle presso Ateneo, e da questo Simo gli attori ilarodi chiamaronsi ancora simiodi. Coltivò parimente questo genere Scira nativo di Taranto, di cui Ateneo stesso dice che fu uno de’ poeti Italici, e si sa che Italiche si dissero ancora le favole del di lui compatriotto Rintone. Il Meleagro è una favola di Scira di cui recammo un frammento nel citato tomo I delle Vicende della Coltura delle Sicilie.
III.
Magodia.
Approssimavasi l’ilarodia alla tragedia, e la magodia non molto si allontanava dalla commedia. Aristosseno affermò che l’ilarodia era il dramma più importante dopo della tragedia, e la magodia dopo della commedia. Da principio questa farsa limitavasi a rappresentare gli artificj e le imposture de’ maghi e de’ medici. Secondo Ateneo127 essa non esigeva nè molta fatica nè molta spesa, e gli Spartani se ne compiacevano come di uno spettacolo assai proprio per la loro frugalità. Essi v’ introducevano ladroni che rubavano frutta e cose simili, e medici specialmente forestieri. Dicelisti chiamavansi fra gli Spartani gli attori magodi: fallofori presso i Sicioni: voloni o volontarj fra’ Tebani: autocabdali dagli altri Greci orientali: e fliaci nella Magna Grecia. Egli è intanto cosa degna di notarsi come in tante regioni abitate da’ Greci si fossero congiunte verso i medesimi soggetti le stesse idee d’imposture mediche e magiche. Ma i Greci non furono soli ad accoppiarle. Vedremo appresso che gli Arabi aveano dialoghi, ne’ quali satireggiavano gl’ impostori medici, maghi ed astrologi128. Nel Nuovo Mondo tra’ selvaggi medico e mago erano quasi sinonimi. Uno de’ primi e più intendenti storici dell’America (dice Robertson129) restà sommamente colpito in vedere questa connessione fra la magia e la medicina in mezzo ai popoli della Ispaniola. Ciò però non era particolare ad essi soltanto. L’Alexis, il Piayas, l’Autmoins, o qualunque fosse il nome che distingueva i loro indovini, o ciurmatori in altre parti d’America, erano tutti medici delle loro rispettive tribù nella stessa maniera che i Buhistos nell’isola Ispaniola.
IV.
Parodia.
La Parodia, di cui credesi inventore Ipponatte, non fu in Grecia soltanto un artifizio usato di passaggio nelle loro favole da Epicarmo, Carcino, Eupoli, Ermippo, Aristofane ed altri comici, i quali, come si è detto, convertivano in ridicole le più energiche espressioni tragiche con lievi cangiamenti; ma formò eziandio uno spettacolo e una farsa particolare così chiamata. Nel secolo di Filippo il Macedone il più celebre parodista fu Eubeo Pario sommamente ammirato da’ Siciliani. Caro però oltre ogni credere fu agli Ateniesi certo Egemone Tasio soprannominato Lenticula scrittore e attore di parodie citato da Camaleone Pontico130. Rappresentava un giorno nel teatro di Atene quest’industrioso attore una sua parodia, quando dalla Sicilia vennero le amare novelle di una disfatta luttuosa, e quantunque la maggior parte degli spettatori piangesse coprendosi il capo per avervi perduto qualche parente, tutti però si trattennero nel teatro, sia per occultare agli altri Greci la loro perdita, sia per certa spezie di riguardo avuto per questo favorito parodo. Fu egli una volta chiamato in giudizio come reo; ma Alcibiade di propria mano cancellò gli atti formati contro di lui.
V.
Mimi.
Dal verbo μιμέομαι imitor, ricavasi la voce Mimo; e quello che appartiene a tutte le arti d’ immaginazione, non che alla poesia drammatica, siccome bene avvertì Giulio Cesare Scaligero131, divenne poi nome particolare di un picciol dramma, e quindi di una specie di attori. Erano da prima i Greci mimi un’ azione morale dialogizzata e nulla aveano di osceno e buffonesco. Sofrone Siracusano figlio di Agatocle e di Dannasillide contemporaneo di Euripide si esercitò felicemente in questi piccioli onesti mimi, che si chiamavano ηθολογοι, morali. Secondo le dipinture che vi si facevano appartenenti ad uomini o a donne, i suoi mimi scritti nel dialetto Dorico si dissero Virili o Femminili. Suida, Esichio e Aristotile col Castelvetro, il Riccoboni, il Robortelli, il Minturno, pretesero ch’egli scrivesse in prosa. Francesco Patrizio coll’ autorità di Demetrio Falereo e di Ateneo dimostra di aver Sofrone composto in versi; e versi infatti sono i frammenti che si conservano de’ suoi Trofei Femminili e Virili. Il Mazzoni, il Vettori, il Beni, il Nisieli sono dell’ avviso del Patrizio. Niccolò Calliachio vorrebbe conciliare tali dispareri, dicendo esser probabile che i mimi di Sofrone fossero scritti parte in prosa e parte in versi, come la Satira Menippea di Terenzio Varrone ed il libro di Petronio Arbitro132. Simili questioni in altri tempi accendevano vive guerre tra’ critici; ed oggi si ascoltano, nè senza ragione, come ciance pedantesche, e pascolo di una curiosità passeggiera. Platone che dalla sua repubblica escludeva i poeti, pregiava altamente i mimi di Sofrone. Diogene Laerzio afferma che egli se ne serviva per ammaestrare e migliorare gli Ateniesi, e Quintiliano che egli si addormentava tenendo il di lui libro sotto il guanciale133. Stazio dà a Sofrone l’ aggiunto d’implicito (Sophronaque implicitum) dovendo parere il di lui stile astruso e difficile, benchè condito dell’ingegnosa socratica ironia. Figliuolo di Sofrone fu Senarco parimente mimografo commendato dagli antichi. Suida lo chiama comico, e ci dice che egli ad insinuazione del tiranno Dionisio tacciò i Regini di codardia134. Gli antichi rammentano ancora un mimografo nomato Filistione; ma Suida pretende che fosse stato contemporaneo di Socrate, ed Eusebio di Cesarea afferma che viveva trecento anni dopo, cioè a’ tempi di Augusto. Non sarebbe (dice M. Le Fevre) strana cosa che Eusebio si fosse ingannato; ma potrebbero parimente due diversi scrittori di mimi, l’uno coetaneo di Socrate l’altro di Augusto, aver portato lo stesso nome. Certo è però che il meno antico di essi, se furon due, non inventò i mimi, come erroneamente asserì Cassiodoro che ne fu ripreso dal Calliachio135.
Appresso degenerarono i mimi in rappresentazioni buffonesche e basse, e gl’ itifalli, specie di attori mimici, rappresentavano ubbriachi, adulteri, ruffiani, e meretrici. Erano da prima attaccati alla commedia, e si recitavano o nel principio formandone una specie d’introduzione, o nel mezzo come tramezzo, o nel fine come conchiusione dello spettacolo; ma a poco a poco vennero a separarsene. Ecco come ne favella Diomede coll’ autorità di un frammento di Svetonio: Ne’ primi tempi quanto introducevasi nella scena s’incorporava alla commedia. Pantomimi, Pitauli e Corauli tutti in essa cantavano e confabulavano. Ma questi rappresentatori non potevano mostrar sempre la loro eccellenza, perchè quando i comedi rendevansi celebri nell’ arte, pretendevano passar per capi e regolatori di tutto lo spettacolo. Di quì nacque che non volendo gli attori mimici esser tenuti da meno nell’arte di rappresentare, si divisero dalla commedia, e l’esempio eccitò altri rappresentatori ancora a separarsene, lasciando ai comedi la nuda commedia, e così ciascuna specie di attori diessi a rappresentar separatamente le proprie farse.
Si confuse intanto la voce mimo, e quando dinotava un dramma così chiamato, e quando un attore buffonesco. Nell’ultimo significato la prese Diodoro Siculo parlando dell’indole di Agatocle portata a buffoneggiare. Per basso attore ridicolo l’usò ancora Polibio presso Ateneo, allorchè scrisse del re Antioco Epifane, che si avviliva tra’ mimi, e con esso loro gettavasi nel suolo, gestiva e ballava.
VI.
Pantomimi.
Tra tanti attori mimici che separaronsi da’ comedi, spiccarono in seguito i Pantomimi, istrioni ballerini che presero il nome dal contraffare con atteggiamenti senza parlare tutte le cose. Lasciando a parte la riferita ambizione di tanti diversi rappresentatori, ciascuno de’ quali cercò di distinguersi da se, vuolsi riflettere all’osservazione che soggiugniamo. La rappresentazione e la danza composero sempre un corpo solo con la musica e la poesia. Versi non potevano cantarsi dal coro che non si animassero con misurati atteggiamenti. Ma la poesia rappresentativa meglio sviluppata negli episodj, si appropriò certi attori più esperti nel declamare, cioè nel recitare i versi con azione naturale e con un canto parlante, il quale sebbene accompagnato dagli stromenti non lasciava di appressarsi più al favellare che al canto del coro. Allora questa classe ad altro non attese che ad animare con vivace energica rappresentazione la poesia, usando di una musica semplice moderata, la quale contenendo la voce nell’armonico sistema de’ tuoni produceva un’ armonia regolata nel salir dal grave all’acuto o nel calar dall’acuto al grave, che imitava artificiosamente il parlar naturale. Rimase al coro il pensiero d’intrecciar carole cantando; e in questo il canto fu vera melodia spiegandovi la musica tutte le sue forze e gli artificj con sempre nuove combinazioni di tempi e di movimenti; la poesia per accomodarsi al canto fu più lirica ed ornata; e la rappresentazione per servire al ballo fu meno naturale. Ma i movimenti ginnastici del saltatore il quale era nel tempo stesso cantore136, bentosto ingrossavano il fiato, e ne rendevano debole la voce; per la qual cosa convenne dividere tutti gl’ individui del coro in istrioni musici dediti al solo canto e in istrioni ballerini destinati alla danza. La rappresentazione continuò a serpeggiare per entrambi gli esercizj, perchè tutto abbisognava di espressione; ma nel canto animato dalle parole con alcuni movimenti regolati, qual è quella de’ cori tragici o comici, ebbe minor parte che nel ballo figurato così propriamente detto, il quale privo delle parole tutto cercò dall’azione. A misura che le arti imitatrici si perfezzionavano, il ballo si prestava alle leggi del buon senso, e da una capricciosa saltazione senza perchè, si volse ad imitare azioni vivaci e più simili al vero, e lo spettacolo ne fu più desiderato. Quindi uscì l’arte pantomimica portata dagli antichi all’ eccellenza. Avanti di quest’epoca, cioè avanti che la rappresentazione indirizzasse il ballo ad imitar favole compiute o comiche o tragiche o satiresche, e a dire in tal guisa per mezzo de’ sensi qualche cosa allo spirito, altro non era la danza che una saltazione quasi senza oggetto, come il piruettare de i Dervisi Turchi. Presso gli antichi Coribanti e Cureti essa era un rito strepitoso e bellico più che un ballo leggiadro. I Traci spiccarono nella saltazione bellica, della quale facevano uso ne’ gran conviti. Senofonte137 ci dice che i Traci saltarono armati scuotendo e vibrando le spade nel convito di Seute; e che infine un ballerino finse di essere percosso, e fu creduto morto e compianto dagli astanti, con tanta verità si espresse la finta pugna e l’ammazzamento. Si vuole che Androne di Catania sia stato il primo che sonando la tibia vi accompagnasse i passi e il movimento del corpo in cadenza; e perciò presso gli antichi σικελιζειν significò saltare 138. Del rimanente la saltazione è un esercizio che trovasi presso tutti i popoli ancor barbari e selvaggi, e Frigj e Cretesi e Indiani ed Etiopi ed Egizj e Traci ed Arabi ed Americani, tutti hanno avuto il loro Androne, cioè uno che prima di ogni altro si avvisò di saltare e di muoversi a seconda del suono. Il graziosissimo Luciano dopo di avere ironicamante commendata la saltazione, fino a lodare come esperto ballerino l’eroe Merione celebrato da Omero per l’agilità e destrezza onde scansava i colpi de’ nemici, passa a nominare le tre principali spezie di danze introdotte nella scena, la Cordace, la Scinnide, e l’Emmelia. Apparteneva la cordace alle commedie ed era a tal segno ridicola e lasciva che da essa venne la parola oscena cordacizo, e il cordacismo nominato da Demostene nelle Filippiche 139. La Scinnide conviene propriamente a i Satiri, i quali ne furono indi chiamati Scinnisti, e se ne crede autore Sicinnone barbaro o Cretese, benchè altri l’attribuisca a Tersippo. Pare che la Scinnide fosse anche saltazione comica usata anticamente da’ Frigj nella festa di Dionisio Sabazio. L’Emmelia era saltazione tragica. Di tali cose possono consultarsi le opere di Giulio Polluce, Dionisio Alicarnasseo, Ateneo, e Suida che distesamente ne favellano.
I Pantomimi dal Mitileneo Lesbonace presso il medesimo Luciano si chiamavano χειρισοφοι, manu sapientes. Fino a cinque maschere solea cangiare un solo pantomimo per contraffare tutti i personaggi di una favola; la qual cosa avendo osservata uno straniere, quest’abile danzatore c’inganna, esclamò; poichè avendo un sol corpo, mostra di aver più anime. Il cinico Demetrio disprezzava i pantomimi parendogli inutile e irragionevol cosa imitare col solo gestire quello che ottimamente esprimeva la poesia e la musica, senza che la favola ne divenisse più perfetta. Della quale osservazione poco contento un ballerino assai celebre a’ tempi di Nerone, pregò quel filosofo a compiacersi di vederlo danzare senza soccorso delle parole e della musica, e quindi, ove giusto gli sembrasse dispregiasse pure la danza e il danzatore. Condiscese il filosofo, ed il pantomimo prese ad esprimere l’avventura di Venere e di Marte scoperti dal Sole e accusati da Vulcano, le insidie di questo zoppo affumicato marito, la rete che annodava gli amanti, i numi presenti allo spettacolo, il rossore di Venere che si raccomandava a Marte, e quanto altro apparteneva a questa favola, ma con tale perspicuità, con tanta leggiadria, che Demetrio attonito e rapito proruppe in queste voci: Io ti ascolto, attore insigne, non che ti veggo.
VII.
Neurospasti.
Quali ordigni, quante molle non mette in opera il bisogno che ha l’uomo di riposare e divertirsi! Fra tanti magnifici ingegnosi spettacoli de’ Greci ne troviamo uno assai puerile. Non mancava la Grecia di ciurmatori, e tra questi alcuni che portavano il nome di neurospasti. Essi lo prendevano da quelle immaginette cui per mezzo di nervi e cordicelle occulte davano movimento, facendole gestire, muovere e camminare come se fossero animate. Tali fantocci da’ volgari d’Italia nominati pupi, dagli Spagnuoli titeres e da’ Francesi marionettes, dicevansi da’ Greci neurospasta 140. Potino neurospasto soleva colle sue figurine (benchè con rincrescimento de’ buoni cioè de’ pochi) rappresentare alcune burlette o spezie di mimi in Atene e in quel medesimo teatro dove declamavansi le immortali tragedie di Euripide141. Or che perciò? Volgo, idioti, fanciulli di dieci, di trenta e di settantacinque anni (che sono i peggiori) trovansi in ogni popolo. N’ebbe Atene, n’ebbe Roma, ne hanno le patrie de’ Newton, dei Des-Cartes, de’ Galilei e de’ Borelli. Criticastri infelici, che non meritando neppure, per la vostra superfizialità, di essere ascritti tra volgari eruditi, vi vantate orgogliosamente sacri ministri della filosofia che nominate sempre e non conosceste mai, oserete voi gonfiando la bocca rinfacciare i Potini ad Atene, gli orsi e i funamboli a Roma, i duelli de’ galli e il teatro delle teste di parrucche di M. Fout a Londra, gli spettacoli delle fiere e de’ baluardi a Parigi (Nota XXII) e l’arlecchino all’ Italia? Scrivete pure, cianciate, stampate a vostra posta, che sarete sempre una dimostrazione evidente dell’ esistenza del volgo e de’ fanciulli canuti della vostra nazione.