(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO VII. Continuazione del Teatro Greco. » pp. 149-268
/ 1560
(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO VII. Continuazione del Teatro Greco. » pp. 149-268

CAPO VII.
Continuazione del Teatro Greco.

I.
Primi passi della Commedia Antica.

Frattanto la parte ridicola e satiresca de’ cori che precedettero la poesia Tespiana, appartata dalla tragedia come scoria di niun pregio errava per li villaggi sotto nome di commedia preso dal vocabolo κομη che nel Peloponneso significava la villa, o da κομαζειν, banchettare. Ma il diletto che quantunque grossolano recava a tutti questo spettacolo, mosse alcuni comici industriosi a migliorarne la forma togliendo per esemplare la tragedia. Ed osservando poi che questa si arricchiva ne’ poemi eroici di Omero, vollero anch’essi giovarsi delle fatiche di questo gran padre della poesia, e presero ad imitare l’aria urbana, salsa e graziosa del di lui Margite. Vennero allora in tanta fama che furono chiamati e ammessi a rappresentare in città ed al pari de’ tragedi ottennero dal governo le spese delle decorazioni necessarie pel Coro (Nota XVII). Così quelle notturne querele, che secondo lo scoliaste d’Aristofane i villani oppressi da i ricchi andavano spargendo per gli villaggi indi per la città, trovarono ne’ poeti comici tanti zelanti avvocati de’ loro diritti offesi, ed il magistrato Ateniese permise che si pubblicassero i loro oltraggi in teatro, ed animò con ciò i poeti ad infamar poscia impunemente i cattivi e i prepotenti (Nota XVIII).

Se la voracità del tempo avesse rispettato il trattato della Commedia Antica di Camaleone o la Storia teatrale scritta da Juba re della Mauritania citata da Ateneo nel quarto libro, saremmo forse meno di quel che siamo incerti in molte cose necessarie per illustrarla. Questi libri ci avrebbero somministrati lumi maggiori e sull’origine della commedia e sull’ordine cronologico de’ poeti comici. Tuttavolta la diligenza di molti valentuomini ha supplito in alcun modo alla perdita di quella preziosa storia e di quel trattato. Lilio Gregorio Giraldi, Isacco Vossio, Giovanni Meursio, Francesco Patricj, squadernando i libri de’ comentatori, de’ lessicografi, degli scoliasti, de’ cronisti e de’ gramatici, e approfittandosi di quelli di Ateneo, Suida, Esichio, Giulio Polluce, Stobeo, Plutarco, gettano in tanta oscurità qualche barlume. Chi ami di essere minutamente informato di siffatte cose, consulti le opere de’ riferiti scrittori: noi intanto limiteremo le nostre cure a rilevare quelle notizie più sicure che appaghino la curiosità e rischiarino sobriamente la storia de’ predecessori di Aristofane senza opprimere la studiosa gioventù con rancide discussioni.

Secondo il soprallodato scoliaste di Aristofane ed il gramatico Diomede, il primo ad uscire sulla comica scena fu Sufarione o Sannirione d’ Icaria seguito da Rullo o Nullo e da Magnete. Aristotile però nella Poetica ci dice, che i Megaresi di Sicilia pretesero che Epicarmo fosse stato l’inventore della commedia regolare e che di non poco spazio preceduto fosse a Connida e a Magnete. Fiorì Epicarmo insigne filosofo non meno che comico illustre in Siracusa a’ tempi di Gerone il vecchio. Platone nel Teeteto lo decorò col titolo di principe della commedia, e Teocrito lo chiamò inventore di essa, avendogli data forma coll’introdurre nel teatro Siciliano il dialogo e gli attori. Il carattere delle di lui favole consisteva nel seminarvi acconciamente la sapienza Pitagorica e nella piacevolezza de’ motteggi, e Plauto secondo Orazio nell’una e nell’altra cosa calcò le di lui vestigia. Licone presso Suida attribuiva ad Epicarmo trentacinque favole; ma Giovanni Meursio ne raccolse quaranta titoli, anzi dal racconto del medesimo Suida deduce che ne avesse prodotte intorno a cinquantadue. A cagione dei nomi di Niobe, Busiri, Filottete, Prometeo, Pirra, Atalanta, i Persi ecc. che si registrano tralle favole di Epicarmo, volle Martino Del Rio collocarlo tra’ poeti tragici. Ma tale argomento è manifestamente fallace, perchè quanti comici antichi conosciamo introducevano i numi e gli eroi della mitologia, ma essi vi facevano però la meschina ridicola figura di scrocconi, di tagliacantoni, di mezzani, di paltonieri, siccome la fanno in Aristofane Ercole, Bacco, Mercurio91. Essendo Epicarmo già vecchio era giovanetto Magnete Icariese, il quale, secondo il medesimo Suida, compose nove commedie, e rimase due volte vincitore. Formide, Evete, Eussenide, Milo, non furono di molto ad Epicarmo posteriori. Dromone comico mentovato da Ateneo fiorì dopo di Sannirione, ed è diverso da Drumone o Drimone, il quale secondo Eusebio92 fu più antico di Omero. A’ giorni di Sannirione e di Filillio si vuole che scrivesse Diocle Ateniese o Fliasio. I titoli che ci rimangono delle di lui favole sono: Talatta nome di una meretrice secondo Ateneo, Thyestes, Bacchae, Melittae, Oniri. Corse fama secondo Suida di aver Diocle inventata certa armonia tratta dal suono di alcuni vasi di creta percossi con una bacchetta di legno.

Coltivarono l’antica commedia varj altri comici non molto da i nominati lontani, come Cratete, Archesila, Cherilo, Erifo, Apollofane, Ipparco, Timocle, di cui Ateneo ci ha conservato un frammento in lode della tragedia nel quale afferma essere agli uomini utilissima, e Timocreonte, il quale ebbe nimistà con Simonide Melico e con Temistocle Ateniese, contro di cui scrisse una commedia. Altri se ne possono nominare, i quali o di poco prevennero Aristofane, o vissero contemporaneamente o non molto dopo di lui. Tali sono Ermippo, Antifane, Eubolo, di cui Grozio rapporta qualche picciolo frammento della commedia intitolata Antiope, Efippo che scrisse una commedia intitolata Saffo, e Frinico comico più volte motteggiato da Aristofane, e che fiorì verso l’olimpiade LXXXVI. Alceo comico figlio di Micco era di Mitilene, e rinunziò alla patria per dirsi Ateniese. Lasciò questi dieci favole, una delle quali s’intitolava Pasifae, e con essa, secondo l’interprete di Aristofane nell’argomento del Pluto, contese con questo comico rinomato nel quarto anno dell’olimpiade XCVII. Ma Cratino, Eupoli ed Aristofane furono i più chiari comici di questo periodo.

Trovavasi il teatro Ateniese nel colmo della gloria nell’olimpiade LXXXI, quando cominciò a fiorir Cratino poeta di stile austero, mordace e assai forte ne’ motteggi, dal quale si dee riconoscere il lustro di quel genere di commedia caustica e insolente chiamata Satirica e Antica. Una delle di lui favole intitolavasi Eolosicone, nella quale si satireggiavano Omero e i poeti tragici. Cratino che visse novantasette anni, fu seguito e imitato da Eupoli poeta più grazioso il quale compose diciassette commedie, ma solo sette volte riportò la corona teatrale. La commedia antica però ricevè tutta la perfezione dall’Attico Aristofane, che sempre colla grazia e colle facezie temperava l’amarezza della satira.

Osserviamo intanto in generale che l’emulazione de’ poeti, la natura del governo e la prosperità stessa della repubblica Ateniese diedero a questo genere di commedia i pregi e i vizj che la caratterizzano.

Ebbero appena i comici imitando i tragici data forma e disposizione al lor poema, che gonfj della riuscita presero a gareggiare co’ loro modelli, e ne sostennero arditamente il paragone e colla magnificenza dell’apparato e colla pompa poetica de’ cori. Impazienti poi dell’ uguaglianza ambirono di sovrastare, e per iscemare l’ammirazione che sino a quel punto aveano riscossa i loro emoli, valendosi delle proprie armi, cercarono di attenuare il merito de’ passi migliori delle tragedie col renderli ridicoli per mezzo di alcuni leggieri maliziosi cangiamenti. In ciò consisteva la parodia che fu l’anima della commedia antica. La vittoria si dichiarò per gli comici, se ad altro non si miri che al pregio dell’ invenzione e al piacere prodotto dalla novità degli argomenti. Imperciochè i tragici ricavavano i loro soggetti dalle favole di Omero e dalla mitologia: ma i comici soccorsi soltanto dalla propria immaginazione gli traevano, per così dire, dal nulla, e presentavano uno spettacolo tutto nuovo. Di là uscirono quelle maravigliose dipinture allegoriche le quali incantavano la Grecia. Accoppiavansi in esse alla esatta imitazione della natura i voli più bizzarri della fantasia e si nobilitavano colla più vigorosa poesia, colla morale più sana e colla politica più profonda i soggetti all’apparenza i più frivoli e meno interessanti. Con tale artificio erano lavorati quegli strani Uccelli geroglifici eloquenti di certi cittadini viziosi nati in Atene; quelle Vespe immagini de’ magistrati ingordi e venali; quelle Rane simboli de’ molesti verseggiatori ciclici; quelle Nuvole colle quali satireggiavasi l’ipocrisia morale e l’inutilità de’ calcolatori fantastici.

Ma se l’emulazione rendè gloriosa questa commedia, la fece oltremodo ardita il governo popolare Ateniese, nel quale i comici e gli spettatori erano membri della sovranità. Osò per questo un poema così straordinario internarsi impunemente nel segreto dello stato, trattar di pace, di guerra, di alleanze, beffeggiare ambasciatori, screditar magistrati, manifestare i latrocinj de’ generali, e additare i più potenti e perniciosi cittadini, non solo con una vivace imitazione de’ loro costumi, ma col nominarli e copiarli al naturale colle maschere.

E per ultimo riuscì tal commedia fuor di misura sfacciata e insolente a cagione della prosperità della Repubblica. La felicità continuata corrompe gli animi, spogliandogli del timore, potentissimo freno delle passioni eccessive. Atene che trovavasi in sì alto punto di prosperità, e per conseguenza di moral corruzione, mirò senza orrore il fiele che sgorgava da questo fonte, si compiacque della indecenza che vi regnava, vedendovi il ritratto fedele de’ suoi costumi, e applaudì a quella malignità che mortificava i potenti che essa abborriva, e i virtuosi che la facevano arrossire. Qual maraviglia adunque che i comici insolentissero a segno non che d’insultare i Cleoni poderosi, ma di offender Pericle (Nota XIX), di perseguitare in Socrate la stessa virtù, di motteggiare empiamente la religione, e di rimproverare a tutti i cittadini ciò che leggesi nel dialogo tenuto nelle Nuvole dal Ragionar Dritto e dal Torto93?

Risulta da queste cose che ciò che ora chiamiamo commedia, non rassomiglia punto alla Greca Antica, Allegorica, Satirica, la quale per invenzione, per novità, per grandezza di disegno, per sale e per baldanza si allontana da ogni favola comica moderna. I frammenti che ci rimangono de’ primi comici, non basterebbero a darne una compiuta idea, se il tempo non avesse rispettate undici delle commedie di Aristofane, le quali a sufficienza ce ne istruiscono. Non voglionsi però leggere colla speranza di trovarvi avventure piacevoli, intrighi amorosi, dipinture di caratteri simili a quelle delle commedie de’ nostri tempi. Altr’aria, altre mire, altri comici ordigni vi campeggiano, i quali non appariscono senza la fiaccola de’ principj sin quì riferiti, senza la cognizione della polizia e de’ costumi Ateniesi, e senza la pratica necessaria delle Vite di Plutarco e della guerra del Peloponneso che durò ventisette anni, e che fu così stringatamente e con tanto politico sapere descritta da Tucidide.

Non sarà forse senza profitto della gioventù, per ben conoscere il teatro Greco e l’arte usata da que’ repubblicisti nel maneggiare la loro commedia antica, il presentare ad essa qualche estratto un poco più circostanziato che non feci nella Storia impressa nel 1777, delle favole di Aristofane da tutti nominato, da pochi letto, e forse da pochissimi compreso.

II.
Teatro di Aristofane.

La poesia di questo comico vivace, animata, fantastica, faceta, e al tempo stesso acre, maligna, licenziosa e spessissime volte triviale, appartiene alla commedia bassa e alla farsa. Ma serpeggiano nelle sue favole tali tinte veramente comiche, tali politiche vedute, e tal conosenza de’ costumi e dello stato degli Ateniesi, che, mal grado delle bassezze e delle oscenità, piaceranno in ogni tempo a chi saprà trasportarsi a quello del poeta. Senza ciò qual commedia piacerà mai? Qualunque produzione d’ingegno porta la divisa del proprio secolo, del costume e del gusto corrente, impressavi con caratteri indelebili. Ma la commedia principalmente che dipinge per gli spettatori presenti e non per gli futuri, è sopra ogni altra esposta all’abbandono e al disprezzo, in cui cadono le mode già passate. Una commedia Italiana o Francese, dopo tre o quattro lustri con difficoltà diletta nelle scene nazionali senza notabili cangiamenti. Or che diverrà di una Greca di ventidue secoli indietro, se nelle nostre contrade tanto cangiate da que’ tempi remoti prendasi a leggere senza gli accennati requisiti? Questo basti ai giovani per non lasciarsi spaventare dalle critiche pedantesche del per altro dotto Nisieli contro Aristofane o dagli oltramontani ancor più ridicoli censori di tutta l’antichità. Mai abbastanza a costoro non si ripete che il tuono decisivo e inconsiderato è quello della fatuità, e che debbono apprendere e ritenere, per sovvenirsene nelle loro decisioni, che questo Aristofane era un Ateniese, e che fioriva sul principio del quarto secolo di Roma nell’olimpiade LXXXV, pochi anni meno di quattro secoli e mezzo prima dell’Era Cristiana.

Cinquanta e più commedie compose Aristofane, delle quali per la maggior parte è perita ancora la memoria. Di alcune si conserva qualche picciolo frammento, come dell’Anfiarao e del Cocalo; e delle undici intere che ne rimangono, son questi i nomi: la Pace, i Cavalieri, gli Acarnesi, gli Uccelli, Lisistrata, le Concionatrici, le Nuvole, le Cereali, le Rane, le Vespe, il Pluto.

La Pace (Ειρηνης). Nulla pruova con maggior evidenza che nel comico teatro de’ Greci agitavansi le quistioni politiche correnti, quanto i drammi di Aristofane. L’unico oggetto del poeta nella Pace si è di ritrarre con pennellate vivaci i danni della guerra posti al confronto de’ vantaggi della pace. Del sale comico di questa favola il lettore prenderà diletto a misura che si avvezzerà all’artificio dell’allegoria.

Trigeo lavoratore disgustato della guerra va esclamando: o Giove, metti giù quella granata, non iscopare la Grecia, lasciala stare in pace. Ma parendogli di non esserne inteso risolve di volare in cielo per lamentarsi con lui più da vicino. I servi e le figliuole di questo Greco Don-Chisciotte cercano rimoverlo dal proposito, temendo che si abbia a rompere il collo, o che ne divenga matto del tutto. Tu cascherai nel mare (gli dicono), ne rimarrai zoppo, darai motivo ad Euripide di far di te una tragedia. Tutto è inutile; egli è fermo nel suo pensiero; si congeda, cavalca uno scarafaggio sull’ autorità di un apologo di Esopo, e gli pare di essere arrivato alla Rocca di Giove. Olà (grida in aria) non mi aprite? Mercurio gli domanda chi sia. Sono, dice, Trigeo Atmoneo buon vignajuolo, che non sono nè spione nè ladro. Mercurio gli dice che se vuol parlare a Giove, è venuto a mal tempo, essendo fuori di casa con gli altri dei, per cedere alla Guerra la propria abitazione, e lasciare agli uomini il pensiero di se stessi. Dove sono essi andati? dice Trigeo. Più in alto (risponde Mercurio) per non veder combattere i Greci, nè ascoltar quelli che gli porgono suppliche. Aggiugne che per la loro ostinazione essi non vedranno più la Pace, che dalla Guerra è stata gettata in una profonda spelonca, coprendola e serrandola con gran sassi. Nè contenta questa fiera nemica della Pace ha fatto condurre nella celeste dimora un gran mortajo, dentro del quale vuol pestare le città. Questa immagine conviene al comico più basso; ma subito mostra popolarmente le perniciose conseguenze di tal flagello dell’umanità. Odesi intanto il suono del terribil mortajo, nel quale si è buttato il porro (in greco πρασον, donde viene il nome di Prasia città della Laconia) e l’aglio, particolar produzione di Megara. Comparisce la Guerra minacciando le Greche città:

Guer.

O Megara, Megara, tu sarai tosto schiacciata.

Trig.

Oimè, oimè, che la Guerra annunzia grandissimi guai a’ Megaresi!

Guer.

O Sicilia, in mal punto ti trovi tu nel fondo del mio mortajo; tu sarai pesta come ogni altro paese infelice. Io vò mettervi ancor dentro un poco di mele Attico.

Trig.

No, per dio, non fare; mettivi qualche altro mele, e risparmia l’Ateniese, ch’è di gran prezzo!

La Guerra però non bada alle parole di Trigeo, e chiama Cidemo perchè le porti un pistello. Cidemo finge di non trovarne nè presso gli Ateniesi, nè presso i Lacedemoni, che l’hanno prestato a’ Traci. Entratasene la Guerra, Trigeo intraprende di trarre la Pace dalla caverna, eccitando all’opera lavoratori, fabbri, mercatanti. Tutti di buon grado si accingono all’impresa, pregando Mercurio perchè non si opponga. Ma Trigeo dove ha trovati alla mano questi compagni? non era egli sulla Rocca di Giove? Non si sa veramente come veggasi sì bene accompagnato. Con tutto ciò la più vaga allegoria di questa favola consiste nel Coro che fa sforzi grandi, tirando alcune corde per ismuovere le gran pietre che chiudono la bocca della caverna, senza punto avanzar nell’opera. Alcuni tirano da un lato, altri dall’ opposto, e si ritarda l’esecuzione; il che allude alle discordie delle città Greche, per le quali sussiste la guerra. I soli agricoltori tirano concordemente e con sincerità, e co’ loro sforzi giungono a smuovere le pietre e a sprigionar la Pace; savia lezione di politica e di commercio. Tutti ne gongolano, e Mercurio fa osservare che le città prima miseramente saccheggiate durando la guerra, ora pacificate conversano insieme assai amichevolmente. I lavoratori con piena sicurezza tornano a’ loro campi senza spade e senza lance, e si rallegrano colle loro famiglie. Trigeo invita il coro a salutar la dea. Dopo il canto egli vuol sapere da Mercurio, onde avvenne che la Pace abbandonò la Grecia? Mercurio ne dà la prima colpa a Fidia indi a Pericle, il quale (ei soggiugne) accese il fuoco fralle città gettandovi dentro la picciola scintilla del visentimento di Megara, e in questa guisa destò un incendio così grande, che tutti i Greci per lo fummo ne lagrimavano, tutte le vigne ardendo strepitavano, tutto era orrore, travaglio, movimento, e la Pace si fuggì via. Così istrutto Trigeo pensa a partire. Il coro prende occasione di favellare degli spettacoli scenici di Atene, e di lodare il suo poeta, il quale (ei dice) è ottimo compositore di commedie e pieno di gloria. Rammenta come egli sia stato il primo ad acchetare gli uomini che contendevano, si calunniavano e combattevano per frascherie. Egli ha bandito (soggiugne) dal teatro gli Ercoli mangiatori, famelici, poltroni, ingannatori, come altresì que’ servi sempre piangenti che mostrano le piaghe ricevute e le lividure del bastone. Da ciò si ricava, che quanto i comici Latini dicevano di se e de’ poeti contemporanei ne’ prologhi, i Greci facevano dire in qualche parte de’ cori. Trigeo arrivato tra’ suoi narra varie cose vedute in aria quando ha volato. Si prepara un sacrifizio, e si fanno nuove preghiere alla Pace. All’odore del convito viene l’indovino Jerocle coronato di alloro. Spia, chiede, s’insinua, ma non gli è dato retta. Il ghiottone impostore usa ogni artifizio, e comincia a predicare e mostrare di esser volontà degli dei che non si cessasse dal guerreggiare avanti che il lupo menasse in moglie una pecora. Altercando con Trigeo asserisce che non potrà mai farsi che un gambero cammini dritto, che un guscio di castagna non sia irsuto, e nega di partecipare de’ licori adoperati nel sacrifizio, perchè non l’ha comandato la Sibilla. Ognuno vede quanto graziosamente quì si ridicolizzi l’aria di oracolo che prendono gl’ impostori, profferendo con affettata gravità sentenze enimmatiche e concetti oscuri. Ognuno vi apprende con diletto che il linguaggio dell’ impostura è sempre misterioso. Questo sacro impostore accumula sentenze e parole vuote di sostanza, per mostrarsi uomo grave, inspirato, interprete della divina volontà. Vedendo poi le vivande preparate vuole la sua parte delle interiora. Ma Trigeo gli risponde lepidamente:

Trig.

No amico, non possiamo fartene parte prima che il lupo meni moglie.

Jer.

Vi supplico.

Trig.

No fratello, tu supplichi invano: tu non farai mai liscio e polito un riccio di castagna. Mangiamo pur noi, amici miei.

Jer.

Ed io?

Trig.

Oibò, mangia tu la tua sibilla.

Il ribattere le altrui parole è un artificio scenico pieno di sale che sempre riesce vivace e dilettevole e ne’ gravi e ne’ lepidi drammi. Altra gente arriva in mezzo al tripudio per far vedere le felici conseguenze della pace. Un artefice di falci ringrazia Trigeo, perchè se prima non vi era chi comprasse falci nè anche a vilissimo prezzo, ora le vende a cinquanta dramme, cioè intorno a sei ducati Napoletani ognuna. Fabbri di celate, di aste, di corsaletti, di lance e di trombe guerriere, vengono a lamentarsi che muojono di fame nella pace, e i contadini gli deridono e seguitano a godere, cantare, saltare. Si vede trasgredita in questa favola l’unità del tempo in varie guise. Gli effetti partoriti dalla pace non possono vedersi eseguiti nel giorno che si pubblica. In oltre Trigeo dice appena di voler andare in cielo che vi si trova: appena vuol tornar fra’ suoi, che parla alla sua famiglia. Nè anche l’unità del luogo vi è osservata, perchè Trigeo si vede prima in Atmone, indi in aria, poscia in certe balze. Vi si trovano ancora varie immagini schifose, che svegliano idee di sporcizie puzzolenti da fuggirsi da ogni scrittore che sa rispettare il pubblico. Il lettore sagace lascerà tali difetti e bassezze al popolaccio Ateniese che le tollerava, e si appiglierà solo alle molte finezze comiche, delle quali abbonda la Pace non meno che al buon senno e all’amor patriotico che vi campeggia. Ma che censura è quella dell’erudito Nisieli94? La pace, ove consiste tutta la favola, non dice mai una parola. Non dice mai una parola, ed è pure il fondamento della favola; or che perciò? qual convenienza, qual regola in questo si trasgredi ce? Non sempre il titolo indica un interlocutore, benchè sempre manifesti l’argomento. La Casina di Plauto presa a difendere dal Nisieli contra l’Einsio, è l’oggetto interessante di tutta la favola, è la persona in cui cade una riconoscenza, e non dice mai una parola.

Lisistrata (Λυσιϛρατη). L’oggetto di questa favola è d’inspirar la pace come nella precedente, ma l’argomento n’è indecentissimo. L’Ateniese Lisistrata moglie di uno de’ primi magistrati si fa capo delle donne Greche, e ordisce una congiura per ridurre gli Ateniesi a pacificarsi cogli Spartani. Per riuscirvi si avvisano le donne di vietare a’ loro mariti di valersi dei diritti del contratto nuzziale, astringendovisi con un solenne giuramento. Un giuoco di teatro curioso nasce dall’atto del giur re fatto colle formalità tragiche, mettendo, in vece di sangue, del vino in uno scudo. I comici non lasciavano occasione alcuna di contraffare quanto esponevano sulla scena i tragici. La formola del giuramento dettata da Lisistrata e ripetuta a spezzoni da Calonica, è tale: Giuro di non badare alle carezze di uomo veruno, sia amico o marito: se mi verrà caldo, me ne starò a casa senza farmi toccare: mi metterò la vesta del più vago colore che mi abbia, mi raffazzonerò, mi farò trovare gaja ed ornata per destar le fiamme del consorte, ma insensibile a’ suoi ardori, tutto metterò in opera per non condiscendere. Veramente essa abbonda di pitture oscene, abominevoli e per niun modo confacenti per portare il nome di catechismo, come può dedursi dalla sola esposizione dall’argomento. E che laido catechismo non sarebbe la sfacciata e sozza scena di Mirrina con Cinesia suo marito nell’atto quarto? Le donne per mezzo di quel ritrovato la vincono, e costringono gli uomini a far la pace. Di passaggio in questa commedia è motteggiato Pisandro (Nota XX) che per avere occasione di rubare il pubblico danajo, consigliò e promosse la discordia e la guerra. I Pisandri non mancano in ogni tempo; mancano bensì gli Aristofani abili derisori e vindici delle pubbliche lagrime.

Le Concionatrici (Εκκλεσιαζουσαι). Una continuata ironia drammatica contro le donne sfacciate, altiere, ambiziose, si ravvisa in questa favola. Si ridicolizza la loro stravagante pretensione di togliere agli uomini il reggimento delle pubbliche cose. Mostra in prima il poeta la loro scempiaggine nel modo da esse eletto per ottenerlo. Si mascherano con abiti virili, lasciano crescere la loro lanugine, e si appiccano al mento delle barbe posticcie, per andare al Consiglio. Espone poscia la loro imperizia nel concionare. Prassagora stessa che se ne fa capo e sembra la meno sciocca, aringa stranamente valendosi de’ più ridicoli argomenti nel dimostrare che per migliorar la città debba concedersene alle donne il dominio. Con tal disegno e colle spoglie degli uomini s’incaminano al Consiglio. Un vecchio chiamato Blepiro viene fuori con una veste di donna indosso, essendogli stata dalla moglie portata via la propria. Egli è costretto a venir fuori da un bisogno naturale, per fare in piazza ciò che la decenza prescrive di farsi nel più segreto della propria casa. Le commedie sono la storia de’ costumi e delle maniere; e se Aristofane non ha commesso un errore nel costume, in questa scena si scopre la grossolana libertà e schifezza di que’ popoli. Blepiro in vero si discolpa per esser di notte: ma eravi in Atene tal costume di venire espressamente in istrada per siffatte cose? Di più se è di notte, sì che non possa esser veduto, ond’è che sopravviene un altro che lo ravvisa? e che vede il colore della veste che ha indosso? Non parlando ora dell’indecenza di tali scene, nei sono questi, durezze, negligenze da correggersi, se si vuol procacciáre un’ opportuna illusione in chi vede o legge. Noi di buon grado le notiamo, come faremo in seguito in ogni occorrenza, perchè si avveggano una volta coloro, cui incresce il nostro rispetto verso la dotta antichità, che noi in quest’opera collo spirito d’imparzialità che ne governa e con giusto sforzo (non so se felice) intendiamo di cogliere dagli scrittori di ogni tempo il più bel fiore per ispirare il buon gusto, e di osservarne anche i difetti che potrebbero guastarlo: differenti in ciò totalmente da certi moderni pedanti che si fanno gloria di esagerare tutti i difetti degli antichi e di negligentarne le bellezze. Blepiro adunque con naturale ma schifosa dipintura, e quel che è peggio, inutile per l’azione, si dispera per non potersi alleggerire del peso del ventre. Cremete viene dal Consiglio a raccontare quanto vi è passato, quali oratori hanno aringato, e la concione di certo giovanetto (una delle donne mascherate) il quale diffondendosi nelle lodi delle donne, ha dimostrato doversi dar loro il governo della città. Vengono indi le donne frettolose per metter giù i pallii, i bastoni e le scarpe de’ loro mariti. Quello di Prassagora la riprende di essere uscita sì di buon’ ora senza di lui saputa. Ella si discolpa col pretesto di avere assistito un’amica che volea partorire. Intende poi dal medesimo marito come sia stato conceduto alle donne il dominio della città. Ecco l’oggetto del poeta, far vedere gli sconcerti che ne seguirebbero. Prassagora che se ne rallegra, afferma che in tal guisa se ne correggeranno gli errori, e ne dimostra il modo. Bisogna (ella dice) mettere tutti i beni in comune, e da questo fondo della nazione prendere il sostentamento di ciascuno; perocchè non mi piace che uno straricchisca, mentre un altro manca del bisognevole: che uno possegga moltissima terra, intanto che un altro non ne abbia pure una spanna per esservi sepolto: che uno sia circondato da una folla di schiavi e un altro per bisogno sia costretto a servire. Vita comune, uguaglianza; questo è il mio progetto . . . . Tutte le cose adunque, terra, argenti, mobili, stabili faranno un tesoro comune, dal quale saranno tutti pasciuti. Ella non eccettua da questa comunità nè anche le donne. Se le oppone che tutti vorranno attaccarsi alle più belle. Ma a queste (ella risponde) non si passerà se non da chi avrà prima trattenute le più sparute e le vecchie. Si oppone ancora che non si conosceranno i figliuoli di ciascuno. Ma qual pro da questo? dice Prassagora. Così i vecchi passeranno per padri di tutta la gioventù. E chi lavorerà la terra? I servi . . . . In somma (conchiude) io voglio fare della città nostra una sola famiglia: Questo progetto suole in ogni paese trovarsi nella bocca de’ poveri che non posseggono, per invidia de’ ricchi e per rincrescimento della fatica. Ora il poeta sagace, per mostrarne l’insussistenza, lo fa uscire da teste femminili e poco ragionatrici, e con una satira graziosa ne espone comicamente gli assurdi. Quanto gusto e dottrina non ci vuole per discutere sulla scena col riso nella bocca le quistioni politiche, e per distruggere i pregiudizj sì che i volgari vi si ammaestrino senza tediarsi della lezione! Uno de’ principali inconvenienti che il poeta mette in vista, è che molti avvezzi a possedere non vorranno spogliarsi del proprio e defrauderanno il pubblico. L’altro inconveniente che subito manifesta la stranezza del progetto, nasce dall’uso delle donne. Le vecchie si bellettano, e stanno attendendo i giovani; le giovanette altercano con esso loro; i giovani vogliono avvicinarsi alle fanciulle senza tracannare l’amarezza delle stagionate. La commedia termina con una gran cena. Non è meno licenziosa e sfacciata della precedente, e secondo gl’ intelligenti lo stile è più sollevato che nelle altre, e si avvicina al tragico. Vi sono nominati e derisi Argeo, Jeronimo, Trasibulo, Cefalo, Neoclide, nè vi si risparmia la bruttezza ed il naso di Lisicrate, e l’effemminatezza di Nicia.

Le Cereali (Θεσμοφοριαζουσαι). La satira de’ poeti contemporanei, e spezialmente de’ tragici, era uno de’ principali oggetti della commedia antica, non leggendosi favola veruna, ove contro di essi non si avventino strali di fuoco, e non si facciano de’ loro versi continue parodie. Una delle satire più vivaci contro delle invenzioni tragiche contiene questa commedia la quale prende il titolo dalle feste di Cerere e dal soprannome di Tesmoforo (legislatrice) dato a questa dea. Vi si tratta una comica difesa di Euripide allora vivente contro le accuse delle donne satireggiate da questo tragico che quì vien motteggiato a tutto potere.

Atto I. Mnesiloco suocero di Euripide si consiglia con lui e va cercando il modo di difenderlo dalle donne irritate, le quali nel celebrarsi le feste accennate debbono giudicarlo. Ambedue picchiano alla porta del giovane tragico Agatone per supplicarlo di prendere fralle donne la difesa di un suo compagno. Viene fuori il servo di Agatone, il quale colle sue comiche espressioni si dimostra preso (come ordinariamente avviene a’ servi de’ letterati) dalla smania di far da bell’ ingegno ad imitazione del padrone: Osservate, o popoli, un silenzio religioso ora che il coro delle muse disceso nel gabinetto del mio padrone gli sta inspirando nuovi poemi: ritenete, o venti, i vostri fiati: sospendete, o flutti, il mormorio.

Mnes.

Capperi!)

Eur.

Non taci?)

Ser.

E voi, augelletti, fate pausa a’ vostri gorgheggi: e voi, fiere selvagge, cessate di agitar correndo le boscaglie.

Mnes.

Cospettone!)

Ser.

Ecco il mio gentil padrone . . . . si accinge a verseggiare.

Ad istanza di Euripide viene fuori Agatone cantando. Mnesiloco è rapito dalla melodìa; indi maravigliato della di lui attillatura e mollezza, Donde sei (gli domanda) o tu che non sembri uomo del tutto? quale è la tua patria? che foggia di vestire adopri tu? che vivere ambiguo? come accoppi tu lo specchio e la spada? di che spezie sei tu? parla: hai tutto quello che sta bene ad uomo? Tu sembri allevato come una donna; ma dove sono le poppe? Questo tragico assettatuzzo risponde, che un poeta aver debbe i costumi convenienti alle favole che maneggia; e chi ne fa delle effemminate, uopo è che accomodi se stesso a quei costumi . . . . Ibico, Anacreonte Tejo ed Alceo versatissimi nella musica portavano creste femminili e ballavano alla Jonica; e Frinocoo che appariscente e vago era, vestiva leggiadramente; la natura fruttifica secondo i semi. Mnesiloco che è alquanto buffone risponde: Perciò dunque Filocle ch’è disonesto, compone disonestamente, e Senocle ch’è malvagio, sorive perversamente, e Teognide ch’è freddo, freddamente verseggia. Dopo ciò vien pregato di accompagnar Mnesiloco, e di parlare a favore di Euripide accusato come nemico delle donne. Agatone se ne scusa, ed è forza che il solo Mnesiloco tolga sopra di se l’ impresa. Euripide gli rade la barba e gli brucia i peli non senza dolore del vecchio, e in presenza dello spettatore lo trasforma in donna cogli abiti di Agatone. Fatto ciò, dopo di un giuramento di Euripide di non abbandonarlo nel pericolo, Mnesiloco affettando i modi e ’l portamento femminile vassi a mescolar tralle donne. Un coro composto di donne insieme col banditore invoca le deità tutte, pregando che muoja di mala morte colui che tende insidie al popolo, o che maltratta le donne, o che fa tregua o amicizia con Euripide, o che pensa di farsi tiranno della patria, o che manifesta qualche donna che espone un fanciullo, o la serva ruffiana che svergogna il padrone, o la messaggiera bugiarda che porta notizie e speranze false, o quell’indegno che inganna e non paga le donne, o la meretrice che tradisce il drudo, o le vecchiarde che regalano i loro mercenarj amanti.

Atto II. Il banditore intima l’aringa contro Euripide. Sorge una donna a concionare e va noverando tutti gl’ improperj detti dal tragico contro il loro sesso, e le debolezze e gli artificj donneschi da lui propalati. Un’ altra donna l’accusa di ateismo e che coll’aver negato l’esistenza degli dei, ella che vender solea ghirlande per gli sacrifizj, dopo le di lui tragedie, non vende la metà delle corone che prima vendeva. Appresso levasi Mnesiloco, e contraffacendo la voce femminile, e usando de’ tuoni acuti, sottentra ad aringare a favore di Euripide, e mostra quante e quante altre cose ha taciute quel tragico, le quali poteva pubblicare in isvantaggio e disonore delle donne. E quì il comico spiega tutta l’amarezza della satira contro il bel sesso, facendo raccontare a Mnesiloco mille e mille furberie donnesche alla giornata praticate. Tale aringa solleva l’assemblea femminile contro la finta oratrice che vien minacciata di esser pelata col fuoco. Continua non per tanto Mnesiloco a riferire gl’ inganni femminili, e i parti supposti, e i regali dati alle ruffiane nelle feste Apaturie, e i beveraggi apprestati ai mariti per farli impazzire ed altro. Il romore che eccita questa maligna orazione, è sospeso dall’ arrivo di Clistene (cui il poeta dà il nome di putto a cagione dei di lui costumi) il quale fa sapere alle donne di aver udito nel foro che Euripide ha inviato nel tempio di Cerere il vecchio suo suocero vestito da donna a prendere la sua difesa e a spiare i loro consigli. L’angustia di Mnesiloco vicino ad essere scoperto dovea produrre uno spettacolo assai piacevole. Egli si spaventa e l’assemblea si pone in iscompiglio. Chi sarà mai? vanno dicendosi le donne. Dove sarà questo vecchiaccio disgraziato? è costei? e quell’ altra? Cade infine il sospetto sulla finta donna, per non essere essa da veruno di loro conosciuta. Fanno sopra di lui tutte le necessarie ricerche per assicurarsi del sesso, e toccando la verità lo prendono per consegnarlo al magistrato. Un giuoco di teatro ben vivace dovea risultare dal movimento di tutta l’adunanza, e dalle diligenze che faceva il coro per accertarsi, se altri vi fusse ancora così mascherato.

Atto III. Il suocero di Euripide non so come si sviluppa e si distriga dalle donne che lo custodiscono, e strappata dalle braccia di una di esse una bambina tenta di fuggire. E con aria minaccevole, facendo forie una parodia di qualche scena tragica, No, dice, non sia che mai più tu allatti questa fanciulla, se non sono lasciato in libertà; con questo ferro le taglierò le vene, farò che ne sgorghi tutto il sangue e ne rosseggi quest’ara. La donna chiama le altre in soccorso, e minaccia di farlo bruciare. Mnesiloco furibondo si accinge a svenare la bambina: Incolpa o misera fanciulla (dice a lei rivolto), incolpa della tua morte la spietata tua genitrice: mori . . . . Che veggio? La bambina è diventata un’ otre di vino, ed ha le scarpe alla Persiana! Di quì Mnesiloco prende argomento per inveire contro l’ebrezza e intemperanza donnesca. Quello che rende più satirico e piacevole questo colpo teatrale, è che l’ azione si rappresenta nel terzo giorno delle Tesmoforie, le quali duravano cinque dì, e quello di mezzo era consacrato alla penitenza, e le donne lo passavano in un rigoroso digiuno. Ora il poeta dà ad intendere in qual modo esse digiunavano, e mette in vista la loro ipocrisia, mentre, provvedendo in segreto al loro ventre, osservano all’ apparenza le pratiche della religione. Adunque Mnesiloco per vendetta vuol forare la pelle dell’otre; ma Mica tenera madre della bambina implora la di lui clemenza, e chiama Mannia, perchè rechi almeno un vase da raccoglierne il sangue. Altre donne sopraggiungono, e Mica affrettasi di far noto al magistrato il di lui delitto. Mnesiloco vedendosi a mal partito incide su di un legno il proprio pericolo con intenzione di affrettare Euripide in suo soccorso. Il coro giustifica il proprio sesso, ed accusa gli uomini degli eccessi delle donne.

Atto IV. Mnesiloco aspettando invano il genero tenta la fuga, fingendosi Elena moglie di Menelao. Una donna lo rimprovera per questa nuova follìa; ma egli senza darle retta pronunzia alcuni versi tragici come se veramente fosse Elena. Questi versi non possono essere imitazione di alcun passaggio di tragedia? Questo dubbio può renderci cauti in non tacciar così spesso il comico di avere molte volte innalzato lo stile. Viene Euripide in forma di Menelao, e la scena è tragica e graziosa. Tutto ciò che vedesi sul teatro, viene da essi adattato alla storia di Elena: il paese diventa Egitto, il tempio chiamasi casa di Proteo, l’altare vien detto sepolcro, la donna ch’è presente detta Critilla, è presa per Teonoe figlia di Proteo. Dopo ciò il finto Menelao e la finta Elena fanno vista di ravvisarsi e riconoscersi. Ecco un dialogo ed un’ agnizione tragica, che accompagnata dalla parodia e caricata con azione buffonesca solea produrre sì piacevole effetto sulle scene Ateniesi. La donna intanto che custodisce il colpevole, annunzia la venuta di un arciero o fante della giustizia, ed Euripide si ritira. Mnesiloco è legato, ed il coro con balli e canti conchiude l’atto.

Atto V. Euripide non comparisce più, ed il suocero freme. Si avvede poi che di lontano gli fa qualche cenno, dal quale intende (per altro con poca verisimilitudine) che vuole che si finga Andromeda. Euripide torna vestito da Ecco, e la finta Andromeda recita alcuni versi tragici. Euripide la consola. Chi sei tu? gli dice Andromeda. Io sono Ecco che ripete i suoni e le parole; e seguita la scena della ripetizione delle parole. Ecco sen fugge con maraviglia della finta Andromeda. Ma Euripide ritorna in forma di Perseo; e da questo nuovo travestimento nasce un nuovo passaggio tragico. E’ chiaro che tutte queste trasformazioni tendevano a contraffare e ridicolizzare le tragedie più rinomate. Il coro invoca Pallade, ed Euripide dice alle donne, che se vogliono venir seco a patti, e liberar Mnesiloco, egli promette con giuramento di non dir mai più male di loro. Le donne sono di accordo, ma temono che il custode abbia ad opporsi; al che Euripide si traveste per l’ultima volta da una vecchia accompagnata da una giovanetta, per mezzo di cui adesca il custode, lo disvia, scioglie Mnesiloco, e si fugge con lui. La bellezza de’ tre primi atti non pare agli occhi miei continuata ne’ due ultimi; ma il comico contava certamente sulla varietà delle imitazioni e parodie, le quali presso la posterità già sazia delle trasformazioni degli zanni scemano di pregio in ragion del tempo che va tramezzandosi fra essa ed il comico. Anche in questa favola osserva il gran poeta Cesareo (nel capitolo V dell’Estratto della Poetica di Aristotile) che l’ azione incomincia in istrada, poi passa, continua e finisce nel tempio di Cerere. Ma se la scena si figuri, come agevolmente poteva eseguirsi nel vasto teatro Ateniese, che comprendesse due membri, de’ quali l’uno rappresentasse parte di una strada, e l’altro il tempio di Cerere adjacente, il luogo in tal caso sarebbe uno.

Le Rane (Βατραχοι). Eschilo, Sofocle ed Euripide erano già trapassati, quando fu composta e rappresentata questa favola, nella quale di que’ tragici si giudica, e si fa spezialmenre la comparazione di Eschilo ed Euripide, dandosi al più antico la preferenza, comechè vi sieno amendue acremente motteggiati. Vi s’introduce Bacco vestito ridicolosamente da Ercole, e si finge molto poltrone, per deridere probabilmente qualche poeta che era mal riuscito a vestire e a caratterizzare il figliuolo di Alcmena. Bacco in compagnia di Santia suo servo che porta alcuni vasi, il letto ed altro, batte alla porta di Ercole, e gli dice che in leggendo l’Antromeda di Euripide erasi invogliato di trarre questo tragico dall’inferno ed averlo seco. E che vuoi tu farne? gli dice Ercole:

Bac.

Vò che ritorni al mondo, perchè i tragici che vi sono rimasti, sono ignoranti.

Erc.

Tutti ignoranti? Ma non vive Jofone?

Bac.

Questo è l’unico che sia passabile; ma non so dire ove ei sia.

Erc.

Non sarebbe meglio portar què Sofocle anteriore ad Euripide?

Bac.

Io non vò altri che Euripide, perchè un furbo, com’ egli è, saprà contribuire dalla sua banda a far sì che io possa agevolmente condurlo meco.

Erc.

Ed Agatone dove egli è ito?

Bac.

Mi ha lasciato questo poetino tanto desiderato dagli amici.

Erc.

In che parte sarà andato?

Bac.

Nel convito de’ beati.

Erc.

Senocle poi?

Bac.

Egli è morto.

Erc.

E Pitangelo? . . . . E tanti altri giovani, i quali sono autori di più di diecimila tragedie e sono più loquaci di Euripide?

Bac.

Sono tutti cianciatori che fanno vergogna al mestiere.

Questo squarcio ne dà la storia de’ tragici che sopravvissero a Sofocle, fra’ quali, al dir di Aristofane, il meno cattivo era Jofone. Bacco poi vuole che Ercole gl’ insegni la via da calare speditamente all’inferno; ma vuole che gliene additi una che non sia nè troppo calda nè troppo fredda:

Erc.

Te ne additerò una bella, cioè quella di un legno ed una corda, impiccandoti.

Bac.

Oibò, questa via suffocatoria non mi piace.

Erc.

Ti dirò quella di un pistello e di un mortajo.

Bac.

Intendi tu con manipolare qualche veleno?

Erc.

Sì certo.

Bac.

No no, questa mi farebbe subito gelar le gambe.

Erc.

Ne vuoi tu sapere una speditissima?

Bac.

Dì su.

Erc.

Andrai al Ceramico.

Bac.

E poi?

Erc.

Vi vedrai più bassa una lampada, e se chi ti vede vorrà farti la carità di mandarti giuso, vi andrai.

Bac.

Dove?

Erc.

Abbasso.

Bac.

Tu vuoi che ti rompa la testa. Io non vò miga andar per siffatte vie.

Erc.

E perchè?

Bac.

Perchè vò gire per quella che tu facesti.

Erc.

Oh! per quella avrai molto travaglio. Bisognerà calare in una palude profonda.

Bac.

E come la passerò io?

Erc.

Un vecchio barcajuolo ti tragetterà, se gli darai due oboli.

Bac.

Oh oh! anche nell’inferno hanno forza le monete? Ma in che modo vi andasti tu?

Erc.

Mi guidò Teseo ecc.

Ercole gli dice poi tutto il cammino e le difficoltà che incontrerà e parte. Bacco rimane fermo nel proposito di andarvi, ma Santia vorrebbe almeno ajuto da alcuno per portar la carica. Veggono un morto condotto a seppellirsi, e gli domandano, se voglia portar que’ vasi; il morto dice che gli porterà per due dramme. Due dramme a Bacco sembrano troppe; non convengono, e s’incamminano soli senza cercar di altri. Trovano Caronte che ammette solo Bacco nella sua barca, e Santia è costretto a fare a piedi il giro della palude. Si sente il molestissimo coro delle Rane, le quali coll’ ingrato gracidare Brecececex coax coax fanno montar la stizza a Bacco. Questa scena molto corta, ed il coro delle Rane, il quale, secondo lo Scoliaste, neppure compariva in iscena, ha dato il titolo alla favola. Finisce la navigazione, scende Bacco, ed incontra il servo. Domandagli se ha veduto tutte le cose accennate da Ercole. Santia risponde di no, e stima che le abbia dette per ispaventarlo; ma egli è bravo, non conosce timore. Sente però uno strepito, e comincia a temere. E’ curiosa in questo luogo la descrizione dell’Empusa, o sia della Fantasima, che per ventura possiamo far conoscere colla versione dell’eruditissimo Signor Abate Cesarotti95:

San.

Zitto, che non so che d’intorno rombami.

Bac.

Dove?

San.

Dietro le spalle.

Bac.

E bene arretrati.

San.

Non più dietro, è dinanzi.

Bac.

Avanza.

San.

Ob canchero.
Io veggio colà giù la gran bestiaccia.

Bac.

Cos’ è?

San.

Tutto.

Bac.

Che tutto?

San.

Un cento-facce,
Un cento-forme: or è cavallo, or pecora,
Or bue cornuto, ed ora una freschissima
E bella giovinotta.

Bac.

Ah ch’io la brancichi.

San.

La giovinotta è già sparita, e restati
Per conforto una cagna, or vanne, e stringila.

Bac.

Oimè! questa è l’Empusa!

San.

Affè ch’io credolo.
Ve’ ve’ che il viso come bragia avvampale,
E una gamba ha di bronzo, e l’altra ....

Bac.

Io palpito.
Di sterco?

San.

Appunto.

Bac.

E’ dessa! ove rimpiattomi?

Un coro di sacrificatori canta di poi le lodi di Bacco, e dice quali sono i perversi, i furfanti, i traditori, che debbono star lontani da i cori sacerdotali. Qui campeggia tutta la mordacità del comico. Bacco batte alla porta di Plutone, e si annunzia per Ercole. Ercole? (risponde Eaco furibondo), colui che rubò il nostro cane Cerbero? Bacco s’impaurisce e prende il partito di cangiar vesti con Santia che mostra più coraggio di lui. Ma viene una fantesca di Proserpina, la quale accoglie Santia, credendolo Ercole, con molta cortesia e affabilità, e pensa di presentargli un buon pranzo; la qual cosa udendo Bacco, per goderne, riprende la clava e la pelle di leone. Vengono però altri servi che lo prendono per un rubatore, ed egli dice a Santia che torni ad esser Ercole. Torna Eaco, e per sapere quale di essi due è il ladro e quale Ercole, immagina questo espediente: colui che soffrirà le bastonate senza dar segno di dolore, sarà certamente Alcide. E’ battuto or l’uno or l’altro: vogliono lamentarsi, ma si trattengono, temendo di peggio. Questa scena è propria de’ pulcinelli e degli arlecchini, ma è vivace e ridicola. Un pianto, uno sdegno che convenga occultare, un riso o dissimulato o sforzato, ogni affetto in somma che sia conosciuto dallo spettatore, ma che si debba reprimere, produce in teatro un effetto assai piacevole. Al fine Eaco risolve di condurli al cospetto di Plutone e di Proserpina. Dopo il coro lo stesso Eaco parlando con Santia accenna la contesa di Eschilo ed Euripide, per la quale havvi tra’ morti un gran contrasto. E’ una legge dell’inferno che il più eccellente in un’ arte occupi la sede di Plutone, pronto a cederla a un altro di maggior nome che sopravvenga:

E perchè dunque (dice Santia) Eschilo è così adirato?

Eac.

Perchè-egli avea la sede onorifica delle tragedie come ottimo artefice.

San.

Ed ora chi la possiede?

Eac.

Euripide . . . . . .

San.

E non n’è stato ancora discacciato?

Eac.

No, ma il popolo grida, e pretende che si esamini qual de’ due sia il più insigne.

San.

E Plutone che cosa ha deliberato?

Eac.

Farne l’esame.

San.

Ma Sofocle perchè non ha occupato il posto tragico?

Eac.

Quando egli discese giù, porse la mano ad Eschilo, lo baciò, e non volle aspirare al trono . . . . Ora che sa che si contende pel primato, ha risoluto di confermare ad Eschilo la cessione in caso che rimanga vincitore; se poi egli perda, fa conto di combattere contro di Euripide.

Si commette a Bacco il giudizio. Vengono i poeti altercando e ingiuriandosi. Bacco cerca di farli acchetare. Non è dovere, ei dice, che poeti, uomini di lettere, si vituperino, e dicansi villanie come due donnicciule che vendono del pane. Eschilo protesta di aver pena di contendere con un emulo la cui poesia è morta coll’ autore, dovechè la sua è ancor viva. Comincia la disputa.

Euripide in prima taccia l’emulo come superbo: gli rimprovera che in lui il coro solea guastar l’ordine del canto, quattro volte tacendo: ne censura l’uso delle parole strane ignote agli spettatori. A quest’ultima cosa Bacco aggiugne che in fatti egli avea un’ intera notte vegliato, per sapere che mai fosse un Equigallo. Ma a ciò Eschilo risponde: O ignorantissimo, impara che questa era una dipintura capricciosa fatta sulle navi. Segue Euripide: Non ho fatto io così, che avendo ricevuta l’arte da te che eri gonfio e pieno di jattanza, e che adopravi parole inintelligibili, primieramente l’ attenuai, le tolsi ogni turgidezza, le diedi un linguaggio più umano, più naturale, più adattato alle varie persone che imitai. Son io (soggiugne) che ho insegnato a parlare agli Ateniesi: son io che ho fatto discepoli migliori de’ tuoi; perochè tu non hai che Formisio, Menegeto, e Sarcasmo, ed io ho Clitofone e Teramene. Toccando ad Eschilo a favellare così prosegue il dialogo:

Esc.

Or dimmi tu, perchè si loda e si ammira un poeta?

Eur.

Per la destrezza e per l’ammonizione, sendo nostro dovere il render gli uomini migliori nelle città.

Esc.

Or tu all’incontro di buoni gli hai fatti divenire scellerati. Non così io che in vece di renderli sofisti, ciarloni, astuti come tu, gli ho fatti generosi e inclinati all’armi, di modo che chiunque ha veduti i Tebani, ha desiderato esser guerriere . . . . Facendo rappresentare i Persi, ho stimolato i compatriotti ad addestrarsi a superare gli avversarj con opere generose. Io non ho fatto come quest’ Euripide le Fedre meretrici, ne le Stenobee; anzi mi sono astenuto sempre di ritrarre donne innamorate. In oltre io non solo ho dato come conveniva parole magnifiche à semidei, ma gli ho ancora vestiti di abiti tragici, gravi e assai più nobili di quelli che comunemente usiamo; dovechè tu distruggendo questo bel ritrovato gli hai abbigliati trivialmente.

Dopo ciò Euripide riprende i prologhi di Eschilo, e in prima quello della tragedia intitolata Orestia. Eschilo ancora motteggia di quelli di Euripide; ed in qualunque cosa essi dicano, Bacco frammischia qualche facezia sullo stile de’ nostri zanni istrionici e de’ graziosi della commedia Spagnuola. Passano indi alla censura de’ canti o sia della musica apposta alla loro poesia. Sembra che Euripide ripetendo uno squarcio di qualche dramma di Eschilo, lo declami colla cantilena da Eschilo usata, esprimendola col ripetere per modo d’intercalare Flatto tratto flatto trat, come noi diciamo laralara laralà, e forse motteggiandola di monotonia. Ed Eschilo lo paga della stessa moneta, riprendendo la cantilena di Euripide Ei ei ei ei. Tali critiche benchè esagerate che Aristofane mette in bocca ai due tragici, ci conservano il giudizio de’ Greci contemporanei sulle tragedie, e non parrà nojosa e inutil cura l’averle quì opportunamente rapportate. In fine Bacco pone questi emuli a un nuovo cimento, volendo che profferiscano a vicenda un verso, per esaminare qual sia di maggior peso; ma vi buffoneggia su al solito, prendendo la parola peso materialmente, e dando la palma a colui che nomina in esso cose più gravi. Giudice siffatto dà la precedenza ad Eschilo, il quale si accinge a tornar tra’ vivi; ma prima dice a Plutone che conceda la sede tragica a Sofocle, affinchè gliela conservi, in caso che dovesse egli ritornare all’inferno, non istimando altri degno di occuparla in sua vece. Il giudizio derisorio, ed il fondamento della sentenza pronunziata da Bacco manifesta che Aristofane volle burlarsi di ambedue, benchè con più asprezza malmenasse Euripide. Il dotto Nisieli ha rilevate le sconcezze del viaggio fatto da Bacco in sì poco tempo dalla superficie della terra al centro, passando il semidiametro di essa di 3436 miglia; dalla qual critica s’impara il sito dell’inferno de’ Greci. Sarebbe a desiderarsi che i critici in ogni censura domandassero a se stessi, a qual genere appartiene la favola che io esamino? La maggior parte delle osservazioni di questo erudito contro Aristofane svanisce al considerarsi che egli volle misurare le di lui favole colla squadra della commedia, e dovea adoperarvi quella della farsa: egli non vide se non il teatro comico Fiorentino del secolo XVI, e dovea risalire al teatro allegorico Ateniese, e spiarne l’indole e le vedute.

Le Nuvole (Νεϕελαι). La più artificiosa, la più salsa, la più abbondante di colori comici tralle commedie di Aristofane, è questa intitolata le Nuvole composta nel nono anno della guerra del Peloponneso, la quale diede agli Ateniesi oziosi materia di ragionare anche due mesi prima che l’autore ottenesse la licenza di porla in teatro. Per gustarne le grazie e l’artifizio senza detestarla, altro far non bisogna se non che al nome del virtuoso Socrate che astiosamente vi è malmenato, sostituirne un altro fantastico di qualche impostore malvagio corruttore della gioventù. Non fu già vero ciò che s’imputò al poeta, cioè di essere stato subornato e pagàto da maligni sacerdoti professori di eloquenza Anito e Melito per comporre questa commedia col fine di procurar per tal mezzo la condanna del buon filosofo. Di ciò non v’ha pruova nè verisimiglianza. Socrate fu sentenziato ventidue anni dopo, ed il suo credito non iscemò punto per la rappresentazione delle Nuvole. Può ben dirsi però che in essa il comico temerario osò attaccare la stessa virtù e preparare gli animi degli spettatori a udir senza ribrezzo calunniare un uomo di merito eminente e a vederlo poscia denunziare all’Areopago, o sia al Consiglio de’ Cinquecento. Sappiamo dall’altra parte da Eliano accusatore di Aristofane, che Socrate non frequentava i teatri ed il Pireo, se non quando rappresentava e gareggiava Euripide il tragico più abborrito da Aristofane. Sappiamo ancora dal medesimo Eliano, che Socrate affatto non apprezzava i comici poeti, odiando come giusto e probo e sapiente la velenosa mordacità e l’indecenza della commedia antica. Ora non bastavano tali cose per accendere nell’animo di Aristofane un desiderio di vendicarsene in una commedia? Eliano stesso dice chiaramente, και ταῦτα οὺν της κωμωδιας ην αυτῶ τα ἀσπὲρματα, e queste cose (cioè il disprezzo che facea Socrate de’ comici maledici) furono ancora l’origine della commedia di Aristofane. Tutto l’altro che aggiugne della subornazione, non ha fondamento istorico, e lo asserisce per congetture ch’egli stesso distrugge col soggiugnere, ma queste cose non possono sapersi se non dal solo Aristofane. Basti ciò per l’origine di tal commedia bella insieme e scellerata, e passiamo a darne un estratto accompagnato da qualche passeggiera riflessione.

Atto I. Strepsiade padre di Fidippide si vede oppresso da i debiti contratti per compiacere al figliuolo. Mentre tutti dormono, e il figliuolo sogna cavalli e carrette, egli vigila rivedendo i suoi conti. Va rimembrando lo sproposito fatto nell’essersi egli uomo di campagna voluto ammogliare colla nipote di Megacleo donna avvezza alla vita molle e oziosa e a una libertà eccessiva, e a raffazzonarsi, imbellettarsi, profumarsi. Eccovi tre comici caratteri da piacere in tutti i tempi nelle più colte città: una donna vana che dameggia, un figliuolo di un villano che fa da cavaliere e si occupa di carrette (ed ora diremmo di carrozze) a due, a quattro ed a sei cavalli, e un contadino mal accasato che a suo dispetto si tratta da gentiluomo e si carica di debiti e di angustie. Da questo matrimonio disuguale cominciarono a buon’ ora le discordie de’ consorti, che Strepsiade va rivangando nella prima scena. Il primo contrasto avvenne per lo nome che portar dovea il figliuolo. Io voleva chiamarlo Fidonnide dal nome dell’avolo, ed ella voleva che il nome terminasse in ippo, che dinota nobiltà e generosità 96, e si chiamasse o Santippo o Carippo o Callippide. Al fine come al ciel piacque ci accordammo nel dirlo Fidippide. Ella di poi toglieva in braccio questo figliuolo e accarezzandolo diceva: E quando, o caro, verrà quel dì che tu fatto grande condurrai il cocchio in città come faceva Megacleo vestito di seta e di panni fini? Io all’incontro gli diceva: E quando menerai tu le capre da Felleo come faceva tuo padre vestito di grosso panno? Che comici contrapposti graziosissimi! I moderni non ne hanno immaginato di più veri nè di più vaghi. Con questi principj materni non è maraviglia che il figliuolo sia cresciuto con inclinazione al lusso, alla vanità, ai cavalli, alle carrette, ed abbia fatto caricar di debiti il padre. Bramoso intanto Strepsiade di uscire di guai sveglia Fidippide, il quale si mostra verso il padre molto rispettoso, e ciò ne darà motivo in appresso di ammirare l’arte del poeta. Gli dice che bisogna mutar vita e costumi, mettere da banda la cavalleria, e diventar discepolo di Socrate per imparare a rispondere a’ creditori. Non vi si accomoda il figliuolo; il bisogno stringe; e Strepsiade risolve di andare egli stesso a studiare. Batte alla porta di Socrate, e un discepolo che viene a veder chi picchia, lo sgrida perchè ha interrotte le sue meditazioni. Questo solo colpo di pennello manifesta subito lo spirito della casa; che se il servo o discepolo affetta tanto l’uomo d’ingegno e di conseguenza, che sarà il padrone o maestro? Strepsiade vuol sapere in che trovisi attualmente occupato il maestro. Ed il discepolo lo prega a conservare il segreto, e gli confida che sta misurando quanti de’ proprj piedi una pulce ha saltato dalla fronte di Cherefonte alla testa di Socrate. Strepsiade domanda in qual modo possa venirne a capo. Socrate, colui ripiglia, ha liquefatto della cera, e vi ha calata la pulce, e poichè si è raffreddata, ha tolto quella spezie di calzari di cera formati ai di lei piedi, e con essi ha misurato lo spazio corso nel salto. Strepsiade esclama:

O Giove! che prodigiosa acutezza!

Disc.

E che dirai di quest’altra? . . . . . Domandato da Cherefonte, se la zanzara canti per la bocca o per lo foro posteriore, Socrate dopo lunghe e seriose esperienze è giunto a sciorre sì gran problema, e si è assicurato, che il canto venga per la parte deretana.

Strep.

Il di dietro adunque delle zanzare è una tromba?

Con simili inezie il poeta in due pennellate avvilisce le ricerche minute intorno a certi insetti di niun uso continuate per una serie di anni da’ pseudonaturalisti, i quali appo il volgo vogliono passare per ingegni rari applicandosi a indagare con affettata diligenza le meno importanti produzioni della natura. Di simili comiche sferzate si ha bisogno oggidì ancora in più di un luogo, ove l’impostura coglie le palme riserbate alla scienza: ma dove sono gli Aristofani? Il discepolo apre la porta, e sembra che Strepsiade sia introdotto nella scuola senza partire dal cospetto degli spettatori; siccome anche in simil guisa si è veduto nella propria casa, indi nella strada. In Grecia la vastità de’ teatri dava il comodo agli attori di agire in più luoghi contigui successivamente senza uscire dalla scena. All’aprirsi della scuola Strepsiade si maraviglia de’ visacci e degli strani gesti de’ discepoli, de’ quali altri incantato guarda al suolo, altri stralunato si affisa al cielo. Osserva indi le statue che rappresentano la geometria, e l’astronomia, e i mappamondi, su i quali gli va il discepolo mostrando Atene, l’Eubea, la Laconia. Vede in fine il maestro Socrate assiso in un cesto che sta sospeso, e gli domanda in prima che cosa faccia in quel cesto. Socrate risponde che egli va colla mente spaziando per l’aere e meditando sul sole, cosa che far non potrebbe se co’ piedi toccasse la terra, perchè questa attrarrebbe a se l’umore delle sue cogitazioni, le quali non avrebbero forza di elevarsi alla contemplazione delle cose superiori. Non sembra che favelli un cerretano che vada affastellando gran paroloni ch’egli stesso non comprende, per acquistar fama di scientifico appo di chi ne sa quanto lui? L’impostura de’ falsi coltivatori degli studj severi è bene antica, e si perpetuerà massime in que’ paesi che sono privi di teatro perfetto, ove possano senza pericolo smascherarsi con grazia ed essere esposti alla pubblica derisione. Strepsiade pieno del suo disegno, più non badando alle di lui ciance, il prega perchè voglia insegnargli ad aringare esponendo di trovarsi oppresso dalle usure e di avere impegnata tutta la sua roba per essere stato consumato da un maledetto morbo cavalleresco, e promette di rimunerarlo giurando per gli dei. Che sorte di dei giuri tu? ripiglia Socrate. Tu dei sapere che la prima cosa che quì s’insegna, si è che non vi sono dei. Ecco le conseguenze della falsa filosofia: la vera insegna ai Newton a provare l’esistenza di Dio dalle cose fatte97; e la falsa che tutto ignora il mirabile magistero dell’universo, manca del mezzo naturale per sollevarsi da esso gradatamente alla cognizione di un ente creatore, e si appiglia al partito di negarlo. Quest’ateo adunque da Aristofane introdotto con malignità col nome del buon Socrate, insegna che non vi sia altro nume fuor delle Nuvole, alle quali fa una preghiera con parole incomprensibili per aggirare l’ignorante Strepsiade, affinchè degnino mostrarsi a questo nuovo discepolo. Odesi quì il canto del coro delle Nuvole accompagnato o preceduto dallo scoppio del tuono; nel che si noti come i comici. Greci si approfittavano di ogni occorrenza per appagar l’occhio colla magnificenza delle decorazioni. Questo canto è lavorato con forza e arricchito d’immagini poetiche. Strepsiade domanda che cosa sono queste Nuvole, e se son regine? No, dice Socrate, sono Nuvole celesti, dee sublimi, che agli uomini pacifici e studiosi come noi siamo danno forza per meditare e disputare, fecondano la mente, e somministrano gloria, sapere, eloquenza. Questa è adunque la ragione, ripiglia Strepsiade, per cui udendo la loro voce io mi sento una voglia di volar su, di dir cose sottili, disputar del fumo, attaccarmi alle paroluzze, seminare equivoci, e contraddire. Vuole indi veder le Nuvole, e Socrate gli dice, che si volga verso il monte Parnaso, donde potrà vederle venire. Quì a poco a poco andavano esse empiendo il teatro, comparendo in sembianza di donne. Stupisce il candidato, perchè queste Nuvole non rassomigliano a quelle che ei suol vedere in aria, avendo queste l’aspetto donnesco, e quelle che volano per l’aria sembrando tanti volumi di lana che ondeggia. O sciocco, gli dice Socrate, non hai tu alcune volte veduto in cielo le Nuvole simili a un centauro, a un pardo, a un lupo, a un toro? Esse si trasformano in quello che vogliono. Se vedono uno zotico come Senofonte, prendono la forma di centauri: se un rapace come Simone, diventano lupi: se il poltrone Cleonimo, si fanno cervi: ed ora che hanno aocchiato l’ effemminato Clistene, si sono cangiate in femmine. Ecco in qual guisa seminavano i comici la sa tira personale e nominavano i viventi. Sparge indi il poeta varie empietà, facendo che Socrate neghi Giove, per renderlo odioso, giusta l’oggetto che si ha prefisso. Ma Giove, dice Strepsiade, non fulmina gli spergiuri? Ciance (replica Socrate): se ciò fosse vero, a quest’ora non avrebbe incenerito Simone, Cleonimo, e Teoro spergiuri e mancatori spacciati? Giove non fulmina se non il suo tempio, la cima della rocca Ateniese e le quercie.

Strep.

E perchè questo? le quercie forse giurano sul falso?

Socr.

Abbi per certo che non vi sono se non se queste tre cose, il caos, le Nuvole e la lingua.

Strepsiade promette di non più sacrificare, purchè col mezzo delle Nuvole diventi un esperto parlatore da poter aggirare i giudici e deludere i creditori. Le Nuvole gliel promettono ordinando che si dia in potere delle loro fantesche e si adatti ad obedirle. Socrate comincia a spiegare la sua dottrina; ma Strepsiade uomo materiale nulla ne comprende. L’atto si chiude con un coro, ma prima del canto vi si osserva una novità. Non solo il poeta mette in bocca di una delle persone del coro le proprie lodi, come si è veduto nella Pace, ma egli stesso si caccia avanti a favellar di se. E’ questo l’equivalente di un vero prologo che i Latini premisero alla favola. I Greci però sono scusabili, perchè il loro coro si fingeva composto di una parte del popolo per cui si rappresentava, e potevano i poeti trarne fuori chiunque per farlo ragionare, e tra tanti non sarà sembrato strano che venisse fuori lo stesso autore come un individuo di quel popolo. Tuttavolta il coro delle Nuvole si suppone composto di esseri immaginarj, ed il poeta che si presenta alla scoperta, pare che ne distrugga ogni illusione. Che che sia di ciò, egli parla di se stesso, loda le proprie invenzioni e satireggia quelle de’ suoi competitori e antepassati; dice di esser questa la migliore delle sue favole, e spera che l’uditorio l’accolga benignamente, tanto più che egli è in possesso della sua cortesia, da che non avendo l’età propria da presentar commedie (richiedendosi per legge che il poeta contasse almeno trent’anni, e, secondo altri, quaranta) ne produsse una anonima la quale fu ottimamente ricevuta. Spera adunque che la presente sia ugualmente accetta, perchè niuna indecenza nè bassezza porta seco, come quelle degli altri comici, i quali fanno uso di vesti lacere . . . per far ridere i fanciulli. Essa non si avvilisce a svillaneggiare i calvi, non a far dipinture e balli osceni, non a introdurre un vecchio che va col bastone percotendo quanto incontra, non a venire con siaccole alla mano a guisa di una furia. ma se ne viene unicamente adorna di bellezze naturali. In oltre io non cerco (egli aggiugne) come gli altri d’ingannarvi, riproducendo in iscena con poche apparenti variazioni due e tre volte la medesima favola. Io m’ingegno di comporne sempre delle nuove e spiritose con tal cura che l’una all’altra non rassomigli. E se una volta ho battuto Cleone, non torno a saltargli addosso mentre che giace in terra. All’incontro gli altri avondo preso a pungere Iperbolo non cessano mai di trargli de’ calci. Eupoli nella sua commedia intitolata Marica, altro non fece che trasformare la mia che nominai i Cavalieri, e solo vi aggiunse una vecchia ubbriaca che faceva un ballo lascivo, e questa ancora egli tolse da Frinico. Ermippo poi l’ introdusse di nuovo in iscena, scagliandosi contro Iperbolo 98, e contro Iperbolo parimente si accanirono tutti gli altri, saccheggiando varie mie commedie. Un lungo coro termina l’atto.

Atto II. Socrate adirato contro Strepsiade che poco comprende, e nulla ritiene, lo chiama per dargli una lezione. La scena è molto salsa e piacevole:

Socr.

Orsù che cosa vuoi tu prima imparare di tante che ne ignori? Vuoi tu studiare di misure, di parole, o di canti?

Strep.

Di misure; perchè ultimamente da un venditor di formento sono stato burlato di mezzo stajo.

Socr.

Non ti parlo io di questo, ma di misure metriche, Dimmi quale stimi tu miglior metro, il trimetro o il tetrametro?

Strep.

Per me non v’ha cosa migliore del semisestario.

Socr.

Tu dici delle bestialità.

Strep.

O non è egli tetrametro il semisestario?

Socr.

Va alle forche, che tu sei troppo tondo e grosso. Queste cose non sono pe’ denti tuoi. Potresti pià tosto imparar di canto.

Strep.

O o, che giovano i canti alla farina?

In fine egli si dichiara di voler solo apparare il modo di persuadere l’ ingiustizia. Socrate replica, che prima bisogna apprendere molte altre cose; ma si affatica invano, perchè l’uomo di grossa pasta accomoda alle cose materiali tutte le fantastiche dettegli dal maestro. Finalmente conoscendo questi che per lo capo del vecchio altro non si aggira che il non rendere le usure, il persuade a raccorsi in se stesso e a meditare per rinvenire qualche espediente. Strepsiade si pruova, e poi dice:

Strep.

O Socrate carissimo, ho trovato il modo di non pagare.

Socr.

E quale è questo?

Strep.

Dimmi un poco.

Socr.

Che mai?

Strep.

Se io pagando una maliarda di Tessaglia tirassi giù di notte la luna e chiusala in un vaso rotondo me la serbassi?

Socr.

E che ti gioverebbe?

Strep.

Se non nascesse più la luna, non arriverebbe il tempo del pagamento.

Propone indi Socrate un’ altra questione:

Socr.

Se ti fosse scritta una pena di cinque talenti, a che modo la scancelleresti tu?

Strep.

A che modo . . . a che modo . . .! E’ cosa da cercare . . . Oh! l’ho trovata; è bellissima. Vedi tu, o Socrate, questa pietra de’ venditori di farmachi sì rilucente, colla quale si accénde il fuoco?

Socr.

La chiami tu vetro?

Strep.

Sì.

Socr.

E bene?

Strep.

Se piglierò questa pietra, quando il Notajo sta imprimendo le lettere della pena, e mettendomi al sole farò struggere la cera e scancellar la scrittura.

Per simili puerilità e per la di lui smemoraggine Socrate s’ infastidisce, e le Nuvole consigliano il vecchio a menare alla scuola qualche figliuolo già grande se l’ha, non essendo egli più in età di apprendere. Strepsiade dice di aver bene un figlio, ma che non vuole imparare. Il coro replica che lo costringa, ed il vecchio va a chiamarlo.

Atto III. Non meno piacevole è la scena di Strepsiade col figlio. Il sale comico di questa, per avviso del dotto Brumoy, non è dissimile da quello della scena del Bourgeois-Gentilhomme, quando M. Giordano fa lezione alla moglie e alla serva. Ma se la copia (aggiugne l’avveduto scrittore) è più conforme a’ nostri costumi, non per tanto essa è men vivace dell’ originale. Strepsiade parlando al figlio impiastriccia alla rinfusa tutto quello che ha udito da Socrate di gallo, di gallina, di Giove che non esiste, del turbine che regna in sua vece ecc.; di sorte che il giovane crede che il padre sia diventato matto, e sta pensando, se debba farlo legare e menare in casa a forza. Strepsiade al fine l’obbliga ad andar da Socrate per imparar ciò che è giusto e ingiusto, o almeno solo l’ingiusto. Socrate per fare che il giovane impari più facilmente, vuole che ascolti il favellare del Dritto e del Torto. Vengono fuori due attori che rappresentano questi esseri allegorici, e diconsi di molte ingiurie aspramente altercando. Non v’è giustizia, dice il Torto; che se vi fosse, Giove che ha legato il padre, sarebbe stato punito. Il coro si frappone, e vuole che tanto il Dritto che ha insegnato a’ tempi antichi, quanto il Torto che insegna a’ giorni nostri, dicano pacatamente le loro ragioni, sicchè Fidippide e gli ascoltatori possano giudicare con fondamento. Il Dritto aringa lungamente a favore degli antichi semplici costumi. Il Torto mette in ridicolo siffatte cose come rancide e fuor di moda, per le quali l’uomo si priva di ogni piacere e delizia della vita. Risponde il Dritto che se i giovani prestassero orecchio a ciò che dice il suo nemico, diventerebbero tanti infami cinedi. E se ciò avvenisse, replica il Torto, che mal sarebbe? E quì il poeta lancia i più amari e velenosi tratti, rimproverando come impudenti cinedi tutti gli oratori, capitani, legati, magistrati e poeti tragici Ateniesi; e ardisce fin anche di andarli segnando a dito nell’uditorio, e dimostra di esser essi in così gran numero, che il Dritto stesso si confessa vinto, e passa dalla parte degli spettatori. Fidippide rimane in casa di Socrate per essere istruito. Le Nuvole esortano il popolo a pregiarle e tenerle per dee, mostrandogli i beneficj che da loro può ricevere, dispensando a tempo la piova e la serenità, e i danni all’ incontro che gli arrecheranno non essendo da esso onorate.

Atto IV. Vedendo Strepsiade avvicinarsi il tempo di pagare corre a chiamar Fidippide alla scuola. Secondo il racconto di Socrate il giovane è già perfettamente ammaestrato a negare il debito a fronte di mille testimonj. Il vecchio ne gongola. O care le mie viscere (gli dice vedendolo venire) io scorgo nella tuà fronte cert’aria novella d’impudenza che non avevi: tu hai un aspetto franco ed un colore degno di un impostore Ateniese. Sagace osservazione del poeta, per far rilevare al popolo il cangiamento di Fidippide. Egli dovette venir fuori con una baldanza e sfacciataggine totalmente contraria a quel modesto rossore, che, secondo Catone presso Plutarco, è il colore della virtù. Il gaudio del vecchio va crescendo a dismisura all’udire le cavillazioni e le risposte furbesche che dà il figliuolo. Si noti che questo Fidippide baldo, trincato, calunniatore, è diverso dal Fidippide modesto che il poeta maestrevolmente ci presentò nella prima scena, per mostrarci ora il frutto della corrotta scuola di un falso filosofo. Egli fa trapelare ancora, che per l’avvenire questo sfacciato andrà più oltre. Entrato il padre e ’l figliuolo nella propria casa, viene un creditore a domandare i suoi danari. Strepsiade nega, sfugge di rispondere con semplicità, si burla del giuramento fatto per gli dei, si vale delle follie apprese da Socrate, e lo discaccia. Ne sopravviene un altro; ma Strepsiade, in vece di rispondere congruamente, gli domanda, se pensi egli che Giove faccia piovere ognora acqua fresca, o se il sole attragga a se di bel nuovo l’acqua piovuta? Il creditore risponde che nulla sa di ciò, nè cura saperlo. Come dunque (ripiglia il debitore) ardisci domandare i tuoi danari, se nulla sai delle cose di sopra? Dammi almeno l’interesse (replica il creditore). L’interesse? (riprende Strepsiade); Or dimmi un poco: il mare è più pieno di quello che è stato prima? Io credo (il creditore) che sia sempre lo stesso. Come? (conchiude il mal pagatore) il mare non cresce col concorso di tanti fiumi, e pretendi tu che il tuo danajo si aumenti colle usure? E’ adunque discacciato ancor quest’altro. Il coro riflette alla malizia di questo vecchio, ed al figliuolo divenuto sommamente destro a guadagnare i litigj; ma chi sa (aggiugne) che il padre non abbia un giorno a piagnere e a desiderare ch’ei fosse mutolo!

Atto V. Questo è quello che il poeta insegna nell’ultimo atto. Un giovane così corrotto dalla malvagità del padre e dalla perversa scuola del precettore, avvezzandosi a difendere l’ingiustizia, se ne innamora, e tosto arriva alle scelleraggini. Egli batte il padre, e colla solita sfrontatezza vuol dimostrare che sia ben fatto. Con mille ridicoli sofismi va puntellando l’empia proposizione, e aggiugne, prendendo ad ogni parola nuova baldanza, che sia lecito battere la madre ancora. Va scellerato (gli dice il padre tardi accorto del proprio errore), con tali eccessi ti getterai da te stesso col tuo abominevole maestro nel baratro infernale. O Nuvole, o Nuvole, questo mi avviene per voi. No (riprendono le Nuvole) tu sei stato a te stesso fabbro di questi mali. O perchè (replica il vecchio) non mi dicevate allora quello che mi dite adesso, in cambio di aggirare e ingannare come faceste un povero vecchio idiota ignorante? Noi (quelle ripigliano) facciamo sempre così, qualora conosciamo alcuno che è inclinato al male, fino a tanto che non lo gettiamo in qualche disgrazia per insegnargli a temer gli dei. Oimè! (conchiude Strepsiade) voi fate del male, ma non senza una spezie di giustizia! Ora mi accorgo che bisognava rendere i danari altrui ed esser giusto. Egli risolve di vendicarsi del perfido maestro; chiama i servi, si fa dare una fiaccola e attacca fuoco alla casa di Socrate che insegna i delitti, e ingiuria gli dei.

Così termina la più eccellente e artifiziosa commedia dell’antichità, ma la più infame ancora per esservi stato calunniato il più virtuoso degli uomini allora viventi. Detestabile adunque è per questo il comico. Ma travede l’eruditissimo Nisieli nel censurarlo e oltraggiarlo, perchè (a suo credere) Aristofane induce la gente a conculcare e perseguitare gli uomini giusti, sapienti ed utili 99. Ciò non è vero. Aristofane induce la gente a conculcare e a perseguitare i corruttori della gioventù, gl’ impostori irreligiosi e i precettori di sofisticherie e cavillazioni, ed in ciò fece gran senno essendo il suo disegno utile e lodevole. Ma egli per malignità voleva far passare Socrate per tale, e ne merita l’indignazione de’ posteri. Nisieli non seppe distinguere questi due delitti: 1. calunniare un buono, 2. insegnare a perseguitare e a conculcare i giusti. Il primo fu il delitto di Aristofane, e vuolsi perciò detestare come maligno accusatore: il secondo che lo renderebbe un nemico del popolo, un distruttore de’ principj di giustizia e di morale non può imputarglisi senza ingiustizia, perchè l’ impostore da lui dipinto in tal guisa meriterebbe l’odio universale.

Stupirono alla prima gli Ateniesi a tale rappresentazione, non essendo preparati a uno spettacolo così strano. Ma lo stupore sì dissipò a poco a poco per l’arte del poeta, e le Nuvole furono avidissimamente ascoltate. E tali e tanti applausi egli ne riportò, che fu a pieni voti dichiarato vincitore, e s’impose a’ giudici, che niun altro nome a quello dell’autore delle Nuvole si preponesse100. Cartaud de la Vilade moderno preteso legislatore filosofo e storico del Gusto (cioè del proprio gusto) il quale nè arte nè ordine riconosceva in questa favola e si rideva della semplicità di Madama Dacier che l’ avea letta quaranta volte 101, si sarebbe egli mai immaginato che contenesse tante bellezze, e tant’ arte, mal grado di alcuni pochi difetti che vi si notano, e dell’empia calunnia che la deturpa? Ma i Cartaud vogliono aver il piacer di giudicare, quantunque non sieno avvezzi a durar la fatiga di leggere con riflessione.

Si rappresentò questa favola nella festività de’ Baccanali con un prodigioso concorso di Greci e di forestieri. Socrate stesso vi assistette di proposito, sapendone il contenuto102. Or quale spettacolo meritava più gli applausi della Grecia, l’arditezza di un comico calunniatore che insolentiva contro la probità, o la tranquillità di un saggio che assisteva in piedi alla rappresentazione per farsi ravvisare da’ forestieri curiosi? Essi domandavano, chi fosse quel Socrate? Io sono Socrate (par che egli dicesse serenamente): vi pare che io sia quel malvagio corruttore che quì si morde? La virtù trionfa della malignità: ma oimè! la malignità opprime i virtuosi!

Gli Uccelli (Ορνιθες). Questa favola ha per oggetto gli affari politici di quel tempo colla Laconia, dove erasi rifuggito Alcibiade accusato in Atene. Essa abbonda di circostanze locali e di fatti particolari, piacevoli senza dubbio per gli contemporanei che ne comprendevano l’allusione, ma perduti per gli posteri, pe’ quali le bellezze sono divenute tenebre. Chi è quell’uccello raro di Fenicia dimorante nelle paludi chiamato Fenicottero? Chi l’uccello Medo che vaga alteramente per lo monte? Chi quell’uccello divoratore variamente dipinto? Chi quel Nibbio che signoreggiava la Grecia? Chi quel Cucco che dominava in Egitto e nella Fenicia? Tutte queste cose, mal grado de’ comentatori e degli scoliasti, oggi sono a noi indifferenti ed allora rapivano gli animi de’ Greci. L’argomento è una sollevazione degli uccelli contro gli dei per consiglio di un uomo. Dalla lettura delle commedie antiche e dal sapere qual religione professassero i popoli che le applaudivano, risulta una delle contradizioni delle nazioni. Atene venerava Giove e gli altri numi, e perseguitava i miscredenti; ma intanto facevano la delizia di Atene certe commedie, che inspiravano l’ateismo e l’irreligione.

Pistetero trasportato nel regno degli uccelli è una copia de’ viaggiatori progettisti che vanno disseminando novità negli altrui paesi per raccorne cariche e tesori. Mostra egli a’ volatili come essi sieno stati i primi regnatori delle regioni abitate, e che sieno più degli dei meritevoli di venerazione. Persuade loro che imprendano a edificarsi una gran muraglia, ad innalzarsi una nuova città, cui dà il nome di Nefelococcigia, a fare scorrerie in aria e ad intimar guerra a Giove. Cattivo esordio è questo certamente per cominciar gli Esercizj Spirituali al popolo Ateniese. Nel coro si ragiona del caos che precedette la creazione. Era prima di ogni altra cosa il caos, la notte, l’erebo e l’immenso tartaro. Non era la terra, non l’aere, non il cielo, ma ne’ golfi interminabili dell’erebo la notte, che ha le penne negre, partorì un uovo pieno di vento, dal quale nacque l’ amore dalle ale dorate. Quest’amore si accoppiò col caos alato nel tartaro, e produsse la razza degli uccelli. Come poi ebbe amore mescolata ogni cosa insieme, ne venne il cielo, l’oceano, la terra e l’incorruttibile generazione degli dei. Così noi uccelli siamo i più antichi di tutti i beati . . . Tutti i beni più grandi (proseguono) sono da noi compartiti a i mortali . . . Noi ad essi siamo Ammone, Delfo, Dodona, Febo, o Apolline . . . A noi destinar potrete aruspici ed are. Noi dalle nuvole sederemo al pari di Giove, e vi saremo propizj, dandovi salute, felicità, pace, vita, riso, gioventù, ricchezza. Gli argomenti poi onde invitano ed allettano gli uomini al loro culto, son questi. Se alcuno di voi, o spettatori, volésse per l’avvenire menar giorni felici e tranquilli, venga a vivere con noi uccelli. Ogni cosa turpe fra voi vietata per legge, diviene lecita e innocente nelle nostre contrade. Se è cosa abominevole e scellerata fra gli uomini il battere il padre, appresso gli uccelli è cosa utile e ben fatta. Questi esercizj spirituali sono pieni di pietà ed unzione. Questo coro grottesco di uomini con maschera di uccelli di varie spezie, imitava al possibile la fisonomia di coloro che si volevano additare e mordere; ed oltre a fare una capricciosa decorazione, serviva a dar motivo alla musica di essere varia e piacevole coll’ imitazione del canto di varj uccelli. Si trovano in questo coro ed anche in una scena antecedente di Epope alcune strofe, nelle quali le parole vengono alternate colla cantilena tiotio tiotinx e poi con quest’altra totototo totototo tototinx. Si prepara un sacrifizio alle nuove pennute divinità. Sopraggiugne in prima un verseggiatore cianciatore, il quale a forza di seccarlo cava dalle mani di Pistetero qualche vestito; indi un impostore che si spaccia per interprete degli oracoli; appresso un geometra che pretende misurar l’aria, compartir le strade, mischiare in tutto il suo compasso, a cui Pistetero insinua a misurar solo se stesso: ottima lezione per uno stuolo di sedicenti matematici. Tutti questi oziosi vengono discacciati, come anche uno spione ed uno che si spaccia per giureconsulto e venditore di giudizj. Dopo il canto del coro viene un messo a riferire le gran fabbriche alzate da soli uccelli nella nuova città. Il verisimile drammatico viene offeso in questa favola manifestamente, formandosi il progetto ed eseguendosi così presto e mostrandosene le conseguenze. Ma si vuo! riflettere che non è già una commedia di Menandro o di Moliere o di Ariosto, ma una farsa allegorica, dove quasi tutto si opera per macchina. L’azione prende poscia nuovo movimento per un altro avviso di una formidabile spedizione minacciata da Giove e dagli altri dei. Viene Iride a dire che bisogna sacrificare agli dei.

Pist.

A quali?

Ir.

A quali! A noi che siamo dei del cielo.

Pist.

Voi dei?

Ir.

Ve ne sono forse altri fuori di noi?

Pist.

Gli Uccelli sono presentemente dei, e ad essi, e non a Giove, si ha da sacrificare.

Ir.

O pazzo, o scellerato, non voler tentare gli dei, se non vuoi vedere la tua malvagia generazione giustamente oppressa e incenerita dalla potenza di Giove.

Pistetero la schernisce, minaccia il suo Giove, e la manda via. Riceve poi notizie degli applausi e onori fattigli da tutti a cagione de’ beni loro apportati colla nuova città e religione. Accorrono ad abitare fra gli Uccelli fortunati, ma ne sono esclusi, un malvagio che pensa di poter secoloro percuotere impunemente il padre, un ridicolo verseggiatore ditirambico chiamato Cinesia, e un calunniatore che vorrebbe le ali per far del male e guadagnare illecitamente. Dopo il coro comparisce Prometeo:

Prom.

Oimè! . . . . Che Giove non mi vegga! . . . Dov’è Pistetero?

Pist.

Che cosa è questa? Chi è costui che viene così coperto?

Prom.

Vedi tu alcuno degli dei che mi seguiti?

Pist.

Non veggio alcuno io. Ma tu chi sei tu?

Prom.

Che ora abbiamo?

Pist.

E’ un poco più del mezzodì. Ma dico chi sei tu?

Prom.

Boleto, o Peretero . . .

Pist.

O che mai dì tu!

(conoscendolo per Prometeo)

Prom.

Che fa Giove? Dà serenità o nuvole agli uomini?

Pist.

Povero il mio Prometeo! . . .

Prom.

Taci di grazia, che mi scopriranno!

Pist.

Caro Prometeo, io . . .

Prom.

Non gridare, ti dico.

Pist.

Perchè?

Prom.

Non nominarmi; me la pagherai, se per tua colpa sarò scoperto da Giove. Ma affinchè io possa tutto narrarti, prendi questo parasole, e tienlo sopra di me sì che non sia veduto daglì dei.

Pist.

Ottima invenzione e di te degna. Ecco ti copro. Di su ora senza timore.

Prom.

Odi adunque.

Pist.

Ti ascolto.

Prom.

Fa conto che Giove sia morto.

Pist.

Morto!

Prom.

Morto.

Pist.

E quando?

Prom.

Quando voi prendeste ad abitare in aria. Già niuno più sacrifica agli dei. ecc.

Prometeo prosegue il discorso narrandogli che fra poco verranno a lui ambasciatori di pace da parte di Giove; ma l’avverte a star saldo, e a non sacrificargli, se prima Giove non prometta di rendere l’imperio agli Uccelli e di dare a lui per consorte certa donzella che sta presso Giove e dispone di tutto; col quale avviso e consiglio Prometeo mostra al folito benevolenza verso gli uomini e avversione agli dei. Gli ambasciatori annunziati sono Nettuno, Ercole e un Triballo. Ercole viene di mal talento e bravando e minacciando di volere strangolare quell’ ardito ribelle che con un muro ha chiuso fuori gli dei. Nettuno gli ricorda che essi vengono per trattar di pace. Si propone in prima una tregua, e poi la pace, a condizione che Giove e gli Uccelli godano unitamente il dominio dell’universo, e che Pistetero abbia a congiungersi colla donzella accennata da Prometeo. Dopo qualche disparere tra Ercole e Nettuno si accordano, e dispongonsi le nozze del felice ed empio progettista Pistetero, e terminano gli esercizj spirituali dell’empietà. In questa favola che parmi la più strana e bizzarra e la più irregolare di ogni altra, si nominano e motteggiano Spintaro, Essecestide, Clistene, Cleonimo come divoratore delle pubbliche sostanze, e Metone Astronomo.

Le Vespe (Σφηκες) I giudici vengono in questa farsa caratterizzati come vespe. Vi si dipinge la follia di Filocleone giudice, che mal grado della debolezza della mente pretende tuttavia esercitar la sua carica, ed è rinserrato da Bdelicleone suo figliuolo per tentarne la guarigione. I servi alla bella prima prevengono l’ uditorio della strana malattia del vecchio, e dell’espediente preso dal figliuolo di tenerlo chiuso; e intanto parlano con gli spettatori della qualità della favola. Non aspettino (dice un di essi) da noi gli spettatori nè il riso rubato da Megara, nè le noci gettate da un servo in mezzo dell’uditorio, nè Euripide ingannato e burlato nella cena, nè la magnificenza di Cleone da noi motteggiata. Pur non vo’ lasciare di dirvi cosa che forse non vi piacerà, cioè che la commedia satirica è la più giudiziosa e la più dotta. Filocleone cerca ad ogni patto di sprigionarsi per andare a giudicare. Il coro delle Vespe ode le di lui querele, e si presta a soccorrerlo, facendolo calar giù da una finestra. Avvertitone il figliuolo accorre co’ suoi famigli. Filocleone implora il soccorso delle Vespe amiche. O giudici, o Vespe acutissime, volategli sopra, pungetegli di su di giu il viso, gli occhi, le mani. I servi e le Vespe attaccano briga. Bdelicleone vorrebbe senza lite comporre l’affare. Le Vespe lo rimproverano di tirannia. Egli riprende il carattere sospettoso degli Ateniesi e il loro costume che si andava disusando ed ora torna a venire alla moda, cioè d’incolpare per ogni poco di tirannia. Trovasi questo passo tradotto dal chiar. Ab. Cesarotti103.

Fra noi, siano le colpe o grandi, o picciole,
Tutte congiura son, tutte tirannide.
Eran già forse cinquant’anni, che io
Non udiva un tal nome, ora si dà
Più a buon mercato del salume, e aggirasi
Tutto giorno per piazza. Se alcun compera
Una triglia per cena, e non vuol muggine,
Tosto grida il vicino pescivendolo,
Gnaffe! cena costui cene tiranniche.
Tal, poichè il pesce comperò, per giuntu
Domanda un porro per la salsa; bieco
Lo guata l’erbajuola, e porro porro,
Dice, tu osi domandarmi? Oibò!
Vuo’ tu farti tiranno? Eh! la repubblica
Ha forse a mantenerti anche d’intingoli?

Dopo varie altercazioni la contesa si riduce a parole, ed il giudice stravagante s’industria di provare l’autorità e superiorità che hanno i giudici nella città esercitando la loro carica, ed il figliuolo vuol provare che essi sono meri schiavi. Quest’ultimo riesce più felicemente nell’impresa; e benchè il coro alla prima si era rallegrato dell’ aringa del padre credendo di non potervisi replicare, all’udir poscia il figliuolo cangia di avviso, approva quanto questi ha detto, e così riprende se stesso: Non voler mai giudicare prima di avere ascoltato ambedue le parti. Persuaso il coro e convinto il padre, il figliuolo lo prega a desistere dal giudicare in pubblico ed a contentarsi di esercitare il suo impiego nella propria casa e nelle domestiche occorrenze. E per mantenere in certo modo appagato il vecchio che pargoleggia, gli prepara il ridicolo giudizio di un cane che ha rubato un formaggio di Sicilia. Tutto è ordinato colle formalità giudiziarie di Atene, e si tratta con tutta la serietà il gran litigio. E’ reo il cane? La legge lo condanna. L’accusatore è un altro cane. A tale attore e a tal reo ben conveniva un giudice mentecatto. Al giudizio precede l’usato sacrifizio agli dei; nel che si noti che quasi sempre sul teatro soleva introdursi la pompa di un sacrifizio. Dopo l’aringa dell’accusatore, si dà il termine delle difese al reo, si esaminano i testimonj, si fa in somma quanto può caratterizzar per matto il giudice, e per ridicolo, stravagante e non più udito il giudizio. Mi viene in mente a tal proposito un altro litigio agitato in un intermezzo sul teatro Spagnuolo avanti di un ridicolo giudice pedaneo, o sia Alcalde di un picciolo villaggio. Un cane avea bevuto una gran quantità di oglio in una casa. Il padrone dell’oglio volea esser pagato dal padrone del cane. Il giudice per procedere con ordine comanda che si prenda la dichiarazione e deposizione del cane; indi decreta che al cane reo sia ficcato dove meglio stia uno stoppino e che si accenda e si consumi l’ oglio a beneficio dell’attore. M. Racine dalle Vespe cavò i suoi Plaideurs, ma non potè seguire l’originale nel copiare le minute formalità de’ tribunali, nè anche valersi della piacevolezza che nella Greca farsa risulta dal processo allegorico, nè introdurvi il cane accusatore, che appartiene unicamente alla commedia antica. Oltre a ciò in Racine il reo è veramente un cane, ed il cappone rubato non è altro che quel che si dice; là dove in Aristofane il cane rubatore di un formaggio di Sicilia allude a un capitano, il quale avendo condotte le truppe in quell’isola, si se corrompere co’ formaggi, cioè co’ regali di quel paese104. Simili circostanze e allusioni per noi perdute accrescevano pregio alle finzioni di Aristofane, e fanno in generale rimaner la copia Francese di gran lunga superata per vivacità e interesse dal Greco originale. Io non seguirò il prelodato erudito Fiorentino Nisieli per tutte le critiche fatte aspramente ad Aristofane. Egli sempre lo condanna co’principj della commedia nuova ed io sempre dovrei ripetere che questa differisce di molto dalla farsa allegorica, cioè dalla commedia antica di Atene. I personaggi principali derisi nelle Vespe sono Alcibiade, Cleonimo, Teoro, Cleone, Filosseno, Eschine, Fano, Acestero, e Mesato poeta tragico figliuolo di Carcino.

I Cavalieri (Ιππεις). L’oggetto del poeta in questa favola denominata da un coro di Equiti o Cavalieri che vi s’introduce, fu di fare sul teatro una denunzia di stato contro Cleone cittadino potente, manifestando le di lui estorsioni e ruberie. Quale ardire! accusare ridendo un uomo che disponea del popolo, come suol dirsi a bacchetta! Osò il comico poeta assalirlo nel tempo ch’egli era più rispettato e temuto. Osò accusarlo a dispetto di ogni difficoltà, avendo gli artefici timorosi ricusato di farne la maschera, e niuno attore volendo montare in iscena a rappresentarlo. Aristofane non perdè coraggio. Assunse egli stesso la cura di far la parte di Cleone, e tingendosi il volto di feccia ne imitò alla meglio la fisonomia, e la foggia di vestire; e riuscì così bene nella favola a svelarne i ladronecci e gli artifizj, che il popolo condannò Cleone a pagar cinque talenti, cioè intorno a tremila scudi che furono regalati al poeta. Si finge in questa commedia che Demostene e Nicia capitani mentovati insieme con Cleone da Diodoro Siculo e da Tucidide, sieno schiavi in compagnia di Cleone, ma di lui nemici occulti. Essi l’abborriscono e lo temono. Servono a un padrone (sotto la cui immagine si adombra il popolo Ateniese) colerico, iracondo, maremmano, fastidioso, ciarlone, mangiator di fave (cioè avido di giudicare e dar voto per mezzo delle fave, colle quali davasi il sì ed il no nelle deliberazioni) e debole anzi che no per la vecchiaja e quasi sordo. Con quale ardita satirica allegoria dipingevasi dalla scena un popolo principe! Noi oggidì favelliamo con altro rispetto, e per lo più con manifesta adulazione anche de’ popoli che servono nelle monarchie o nelle aristocrazie. Questo nostro padrone (aggiugne Demostene) al principio del passato mese ha comprato uno schiavo tintore di pelli, di nazione Paflagone, calunniatore e ribaldo105. Costui che ha ben conosciuto il carattere e la maniera di vivere del padrone, non risparmia riverenze, inchini, umiliazioni e lusinghe; e tal volta con regalucci di pezzi di corame tiene soddisfatto il vecchio sbalordito. Egli poi allontana tutti gli altri schiavi dalla di lui presenza, si fa bello di quello che gli altri fanno di buono, accusa e calunnia i compagni e ne carpisce danaro, se vogliono ch’egli loro non rechi nocumento. Questa anticipazione del carattere di Cleone è giudiziosa e piena d’arte. Un poeta che cerchi dirigere l’attenzione di chi ascolta al proprio scopo, non riuscirà se non imiti sì gran maestro nel preparare l’uscita del personaggio principale. Per far cadere il loro nemico pensano gli schiavi congiurati di valersi di un oracolo che annunzia la rovina di Cleone per mezzo di un venditore di salcicce. Agoracrito è tale, ed essi gli persuadono che si addossi l’impresa di far fronte a Cleone, e di accusarlo in faccia al popolo, dandogli speranza di signoreggiare nel foro, ne’ porti, nel consiglio, nell’ esercito. In qual modo avverrà tutto questo (domanda Agoracrito), se io non sono che un venditor di salcicce? Giusto per questo tu diverrai grande, risponde Demostene. Ma io (dice l’altro) non sono uomo molto dabbene, ignoro colla musica ogni bell’ arte, appena so leggere. Baje (replica Demostene); questo è il tuo vero merito l’essere odioso, vile, ignorante: anzi è sventura che tu conosca, benchè a stento, l’abicì. Ma (il salcicciajo) come volete che io sappia il modo di regolarmi nel governare il popolo? E Demostene: Non v’ha cosa più agevole. Fa quel che fai ora delle tue salcicce; scomponi e rattoppa a tua posta, purchè abbi cura di cattivarti l’animo del popolo, indolcendolo con belle parolette, a somiglianza de’ cuochi. Animo; nulla a te manca di ciò che può rendertelo benevolo; hai la voce chioccia e spiacevole, sei cattivo, sei plebeo, e gli oracoli ti favoriscono. E chi mi ajuterà? dice Agoracrito. I ricchi hanno timore di Cleone, e de’ poveri non si fa caso. Demostene: Havvi un migliajo di cavalieri dabbene che odiano Cleone, e ti ajuteranno; havvi un buon numero di ottimi discreti cittadini e di spettatori che ti proteggeranno, ed io con tutti questi ti spalleggerò. Non temere no; che sebbene per la paura che si ha della di lui potenza, niuno degli artefici finora ha osato di farne la maschera, pure sarà siffattamente imitato, che verrà tosto conosciuto, essendo questo teatro pieno di spettatori savj e sagaci. Or in queste parole non sembra che la finzione tutta svanisca, e si converta in verità? Si passa dal teatro alla repubblica, dallo schiavo Paflagone immaginato al vero cittadino tolto di mira. Al comparir di Cleone si sgomenta Agoracrito e vacilla; ma al vedere che una parte del coro l’insulta ed oltraggia, ripiglia l’ardire non altrimenti che Pulcinella divenuto principe a forza e Sganarello fatto medico a suo dispetto, i quali con dispiacere e ripugnanza entrano nell’impresa, ma poi con baldanza la proseguono. Agoracrito adunque è stato in parte il modello di queste moderne farse. Egli si avanza a poco a poco ad accusarlo cogli altri, sempre più rinforzando le grida e gli schiamazzi e rimproverandogli varj furti. Dopo una viva altercazione vanno al Pritaneo, ed il coro esorta il suo campione salcicciajo a portarsi arditamente, incolpandolo, mordendolo, mangiandogli il collo. Intanto il coro si trattiene a favellare del poeta. Degno di lode (ei dice) è questo nostro al pari de’ poeti antichi, perchè egli abborrisce que’ medesimi che noi detestiamo, e perchè non teme di dire confranchezza ciò che è giusto . . . Egli è vero, che da alcuni di voi, o spettatori, gli è stato amichevolmente insinuato di astenersi dal troppo accusare; ma egli ne ha imposto di rammentarvi la gran difficoltà di comporre ottime commedie atte a piacere, e quanti pochi sinora vi sieno riusciti. Magnete, per quant’arte usasse, non bastò a sostenersi fino alla vecchiaja, perchè cessò di dir male. Cratino che meritò sì gran lode, stette in fiore finchè fu mordace; ma perchè ora altro non fa che cianciare, si vede andar con una corona secca e morto di sete; e pure per le vittorie riportate meriterebbe di bere nel Pritaneo. E quanto non sofferse dal vostro sdegno il comico Cratete, che pure profferiva tante e sì belle e urbane sentenze? Voi adunque benignamente compatite e perdonate al nostro poeta, e animandolo con applauso strepitoso fate che parta lieto dal teatro. Torna Agoracrito vittorioso dal consiglio ed è ricevuto con festa. Arriva ancora Cleone, il quale dopo nuove villanie invita l’avversario a parlare al popolo, e Agoracrito baldanzoso non ricusa il nuovo cimento. Cleone che conosce l’indole del popolo che ama di esser lusingato con parolette melate, si sforza di mostrargli il suo amore; ma l’emulo usa il medesimo artifizio con maggior felicità. Il dotto traduttore di Demostene altre volte lodato106 trasporta colla solita grazia alcuni squarci di questa scena per mostrare le smancerie adoperate da ambedue verso quel vecchio rimbambito:

Cle.

Popol mio, babbo mio, esci.

Salc.

Sì, escine,
Popoluccio, belluccio.

Pop.

E chi mi chiama?

Cle.

Son io, son desso, il tuo Cleon, che a torto
Da costui son battuto.

Pop.

E perchè questo?

Cle.

Perchè ti sono spasimato amante,
Perchè ti adoro.

Pop.

E tu chi sei? rispondi.

Salc.

Son di costui rivale, e ti amo, e bramoti
Da lungo tempo, e di giovarti struggomi.

Ecco poi le offerte che essi gli fanno a gara:

Salc.

Oimè, tu siedi in queste dure pietre,
Nè costui n’ha pietà. Sorgi, io ti arreco
Un buon guanciale sprimacciato, adagiati
Bellamente su questo, onde non abbia
A logorar le Salaminie natiche.

Pop.

Chi sei tu valent’uomo? or se’ tu forse
Della schiatta di Armodio? ah questo al certo
Fu un atto generoso e democratico.

Cle.

Vedi con che moine ei lo si ha compero!
Ma 107 non mi vincerai ) Voglio, o mio Popolo,
Che sfaccendato colle mani a cintola
Tu sorba una scodella capacissima
Di un brodetto Eliastico 108.

Salc.

Ed io porgoti
Un alberello pien di unguento, ond’ungerti
Gli stinchi incancheriti.

Cle.

Ed io vo’ svellerti
Ad uno ad uno i grigi peli, e renderti
Un giovinastro rigoglioso.

Salc.

Or abbiti
Questa coda di lepre, o caro, e forbiti
Dagli occhietti la cispa.

Cle.

Ah se ti moccica
Talora il naso, o mio buon babbo, in grazia
Spazzati nel mio capo.

Salc.

Anzi nel mio.

Cle. )

Nel mio, nel mio.

Salc. )

Nel mio, nel mio.

Il popolo finalmente disingannato per le cose dette dal venditore di salcicce, si avvede di essere stato lungo tempo aggirato da Cleone, e gli ritoglie l’anello che aveagli dato, discacciandolo dal suo servizio. L’ultima contesa si aggira intorno agli oracoli. Cleone propone i suoi interpretandoli a suo favore: Agoracrito i suoi altresì, distruggendo la spiegazione di Cleone. Finalmente si verificano nella persona del salcicciajo tutte le circostanze dell’oracolo, e Cleone rimane convinto, ed è costretto a cedergli la corona e ad esercitare il di lui mestiere vendendo trippe, salcicce e carne cotta in una bottega di piazza. Oltre a’ nominati pongonsi in berlina ne’ Cavalieri Iperbolo, Tufane, Cleonimo, Clistene, Stratone, Cratino comico, Morsimo tragico, e Lisicle che succedette a Pericle da mercatante di montoni che egli era, e sì buono che il poeta lo nomina per terzo dopo Cinna e Salabacca, due famose meretrici di que’ tempi. Nisieli al solito inveisce contro Aristofane chiamandolo stoltissimo d’invenzione per aver ordinato un vilissimo pizzicagnolo per governatore del popolo Ateniese. Atene però che dovea intendersi meglio del Nisieli delle qualità richieste ne’ suoi governatori, premiò l’autore per questa commedia. Il dotto critico ciò scrivendo non badò alla costituzione democratica di Atene; ed obbliò quanto poco bastava per divenirvi cittadino ed influire nel di lei governo, avendo danajo ed eloquenza. Cleone era cuojajo, Iperbolo artefice di lanterne e l’anzi nominato Lisicle co’ suoi montoni non era pet origine più illustre dell’ allegorico pizzicagnolo de’ Cavalieri.

Gli Acarnesi (Αχαρνεις). In questa favola ancora si vuole insinuar la pace, mostrandone i vantaggi confrontati coi disastri della guerra. Diceopoli, il quale par che rappresenti il personaggio del poeta, gode di aver fatto punir Cleone colla multa di cinque talenti per mezzo della commedia de’ Cavalieri; ma si attrista, perchè la città non si curi di trattar di pace nel Pritaneo. Egli vede ammessi i Legati del re, e disperando della pace per l’intera nazione, pensa di mandare Amfiteo a conchiudere co’ Lacedemoni una tregua particolare per se e per la sua famiglia. Questo Amfiteo tornando avvisa che gli Acarnesi lo perseguitano co’ sassi per aver portata la pace alla famiglia di Diceopoli. La deliberazione di costui, la partenza di Amfiteo, il di lui ritorno col trattato di pace conchiuso, e le conseguenze che ne risultano, sono cose dal poeta aggruppate con poca verisimiglianza per lo tempo che dovrebbe corrervi in una commedia regolare; ma gli Ateniesi ed Aristofane erano tacitamente convenuti di stendere i confini della verisimiglianza un poco più oltre nella farsa allegorica. Diceopoli per la pace ottenuta ordina un sacrifizio in ringraziamento, celebrandosi le feste Dionisie. Sopraggiungono gli Acarnesi, e vogliono lapidarlo, ed a stento egli ottiene di essere ascoltato. Per prepararsi alla concione va a battere alla porta del tragico Euripide, e lo prega di prestargli alcune vesti cenciose della tragedia antica per aringare al popolo. Ottiene quelle di Telefo, colle quali si abbiglia per rassembrare un povero. Con tal vestito favella al popolo, alterca con Lamaco, e gli riesce di convincere gli ascoltatori della sua innocenza per aver procurato di ottenere per se solo la pace. Havvi un coro che parla a favore del poeta ed accenna il pericolo ch’egli corse l’anno precedente per aver detto la verità agli Ateniesi accusando Cleone. Vi si trova un colpo che caratterizza l’indole di que’ repubblicani amici di esser piaggiati, e facili a prendersi colle lodi esagerate. Trovo questo squarcio tradotto ancora bellamente dal Sig. Ab. Cesarotti109:

Quando gli ambasciatori della Grecia
Bramano di accappiarvi a qualche trappola,
Vi chiamano violi-ghirlandi-feri.
All’udir questa voce melatissima
Di gioja vi traballano le natiche.
Che se poi vezzeggiandovi vi aggiungono,
Mia grassa Atene, ogni domanda accordasi
Sol per quel grasso, e il popolo ne gongola,
Che di un majale riportò la gloria.

In vece di majale trovasi nel testo nominato il pesce apua assai celebrato dagli Ateniesi. Le lodi di portatori di ghirlande di viole e l’aggiunto di grassa, lusingavano sommamente la vanità e puerilità Ateniese. Disbrigatosi Diceopoli felicemente della molestia che gli dava il coro per la pace fatta, ne va godendo i frutti. Prima conseguenza di tal pace si è la libertà del commercio per lui, e non già pel bellicoso Lamaco. Si vede una dipintura naturale del mercato di Atene per decorare la favola, e vi accorrono varj venditori di Megara e della Beozia. Tra questi un povero Megarese, il quale trasforma due sue donne in guisa che sembrino porci per farne mercato, e l’esorta a contraffare il grugnito porcino per invitare alla compera. Questa è una scena episodica del comico più basso e triviale, che forse per qualche allusione potè allora piacere agli Ateniesi, e che ha dato al Nisieli motivo di declamar fortemente, quasi in essa consistesse tutto il pregio della farsa degli Acarnesi. L’abbondanza colma la casa del pacifico fortunato Diceopoli arricchito dal commercio. Il coro riflette che a lui tutto va a seconda ed ogni bene corre dietro, e che accade il contrario a chi ama la guerra. Diceopoli commendando la pace amica di Venere e delle Grazie, fa preparare un magnifico convito, e il coro ammira la copia e la squisitezza de’ cibi, la diligenza e lo zelo di coloro che servono, e i preziosi regali che da ogni banda gli vengono tributati. Intanto sopravviene un messo a Lamaco e un altro a Diceopoli, e ne nasce una scena piacevole e artificiosa, nella quale si mostrano le ore tranquille che si passano nella pace, e gli agitati momenti della vita di chi si trova in guerra. Si avvisa Lamaco, che tenga pronte le schiere, perchè i ladroni Beoti minacciano di volerli assaltare. Si avvisa Diceopoli da parte del sacrificatore che venga a cena, tutto essendo pronto, tavole, letti, coscini, corone, unguenti, confetture, meretrici e ballerine.

Lam.

Servo, cava fuori la mia sporta.

Dice.

Serva, portami i miei cestoni.

Lam.

Dammi del sale e delle cipolle.

Dice.

Dammi i miei manicheretti, che le cipolle m’increscono, ecc.

Così l’inevitabile frugalità del soldato contrasta colla dovizia del cittadino che gode la pace. Lamaco va a combattere, Diceopoli a cenare e a dormire. Un nuovo nunzio avvisa la famiglia di Lamaco che prepari lenzuola, balsami, empiastri, e bende da fasciar piaghe, trovandosi Lamaco ferito in una gamba e colla testa rotta. Giugne egli stesso lamentandosi e considerando per cordoglio maggiore che se Diceopoli il vede così piagato, si riderà di lui. Quest’amator della pace, il quale in fatti si è di lui avveduto, per fare vie più manifesto il suo trionfo si rallegra a misura che Lamaco si lamenta. Forse il Nisieli non si avvide di questo artifizio, allorchè asserì, che in questa favola era una confusione di cose parte orribili e parte ridicole. Così termina la commedia degli Acarnesi, nella quale dal principio al fine si scorge, lo scopo principale del comico spettacolo Greco essere stato di maneggiarvisi le questioni politiche, le quali secondo gli affari correnti si agitavano in Atene. Espongonsi principalmente in essa alla pubblica derisione Lamaco generale della repubblica soverchiamente appassionato della guerra, Teoro orgoglioso senza fondamento, Ctesia calunniatore, Lisistrato mendico benchè impostore, Artemone codardo, Stratone e Clistene effemminati, Euripide introduttore di vestiti laceri e meschini nella tragedia, Amfiteo povero e fiero dell’albero genealogico della sua schiatta, oltre a Cleone prepotente, a Cleonimo ingordo, e al freddo poeta Teognide e al comico Cratino, i quali entrano pressochè in tutte le favole di Aristofane.

Il Pluto (Πλουτος). Quarant’anni dopo che Aristofane produsse sotto l’Arconte Diotimo la prima sua favola sulle scene Ateniesi, fu scritta la commedia del Pluto in un genere comico totalmente nuovo. De’ pubblici affari non vi si favella punto nè poco: havvi un coro di villani nulla mordace: vi si ritraggono e satireggiano ben pochi particolari, pochissimi vi si nominano: la maldicenza antica cede il luogo alla finzione, la quale sola ne forma tutta la piacevolezza. La spoglia allegorica di questa favola cuopre un tesoro di filosofiche verità, e mette in azione, sotto l’aspetto piacevole e popolare di una favoletta anile; quanto nel profondo discorso sulle grandi ricchezze ragionò con vigor sommo e salda dottrina l’immortale filosofo non mai abbastanza ammirato e sospirato l’Ab. Antonio Genovesi. Ecco la materia e la traccia dell’azione. Cremilo uomo dabbene povero e disgraziato si consiglia coll’ oracolo di Apollo intorno al modo di migliorare la propria condizione, e al genere di educazione che dovrà dare all’unico suo figliuolo. Vuol sapere, se dee fargli cangiar costume, e renderlo malizioso, scaltro, disleale, malvagio, affinchè abbia miglior fortuna e più ricchezza del padre. Apollo risponde che all’uscir del tempio si ponga a seguitare il primo che incontri sulla strada non mai abbandonandolo, finchè non l’induca ad entrare nella sua casa. Cremilo obedisce all’oracolo, imbatte in un cieco mendico e lo va seguitando. Carione suo servo se ne maraviglia, e vuol sapere ad ogni patto, perchè tenga dietro a quel cieco. Forzato dalle di lui importunità Cremilo gli narra la risposta dell’oracolo; indi prega il cieco a volergli dire chi egli fia. Ricusa il cieco di palesarsi; ma pressato con minacce da Carione manifesta di esser Pluto il dio delle ricchezze e di trovarsi sì mal condotto, sporco e privo degli occhi per l’invidia di Giove. Tutto il mio male (ei dice) mi viene da Giove invidiosó del bene altrui. Essendo io giovane mi proposi di andar soltanto in traccia di uomini savj, giusti e probi, ed egli mi tolse la vista, affinchè non potessi distinguere i cattivi da i buoni, a’ quali egli porta sì grande invidia. Cremilo gli domanda, se ricuperando la vista eviterebbe i malvagi e arricchirebbe i buoni? Pluto risponde di sì, e vuol partire. Cremilo nol permette, gli dice ch’egli è uomo dabbene, e gli fa sperare di adoperarsi per fargli ricuperar la vista. Pluto non osa condiscendere per timore di Giove e Cremilo riprende la di lui pusillanimità: Credi tu che i fulmini di Giove saranno più rispettati riacquistata che avrai la vista? . . . A Giove si sacrifica unicamente per l’oro che se ne attende. Per te solo, o Pluto, tutte s’inventarono le arti e le astuzie: per te solo uno taglia corami, uno è fabbro, un altro muratore, un altro ruha e fa buchi nelle case altrui: tu sei l’autore di tutti i beni e di tutti i mali. L’ incoraggisce mostrandogli la di lui onnipotenza sulla terra, e promette d’investigare la maniera di guarirlo. Per mezzo poi di Carione invita i suoi compagni, uomini probi che mancano di pane, a venire a partecipare de’ favori di Pluto. Pur questi non sa risolversi ad entrare nella di lui casa. Se io (dice) entro in casa di qualche avarone, incontanente mi sotterra in una fossa, e se un povero il richiede di qualunque minimo soccorso, nega di avermi veduto mai a’ giorni suoi. Se entro in casa di qualche pazzo dissipatore, tosto egli scialacqua colle femmine e col giuoco quanto io posso dargli, e mi costringe in poco tempo a fuggir nudo dalla sua casa. Bellissime allegorie fatte per insegnare con popolarità! Al fine Pluto si determina ad entrare nella casa di Cremilo. Intanto i di lui compagni non sanno dar fede a Carione, nè persuadersi, come un cieco pitocco e pieno di malanni possa arricchirli. Anzi Blessidemo nettamente dice allo stesso Cremilo, che a lui non piace di vederlo tutto a un tratto divenuto ricco, ed ha timore ch’egli abbia rubato a qualche nume. Cremilo giura, stragiura, e al fine rivela il segreto di tenere in casa il dio delle ricchezze. Se ne maravigliano i villani, e bramano di parteciparne. No, dice Cremilo, non è possibile, se prima non si tenta di fargli ricuperare la vista. Deliberano di condurlo nel tempio di Esculapio. Frattanto viene fuori la Povertà e svillaneggia gli astanti, perchè col macchinate di dar la vista a Pluto, pensano di scacciarla dalla città. Noi (rispondono i villani) cerchiamo di far del bene con isbandirti dalle nostre terre. Io (replica la Povertà) vi farò toccare con mano, essere io sola la cagione di ogni bene, e non potersi commettere maggiore eccesso che procurare di arricchire i giusti . . . Se Pluto torna a vedere, le ricchezze saranno divise ugualmente, e niuno più si curerà di provvedersi di dottrina, nè di esercitar le arti. E chi vorrà più fare il fabbro? chi costruir navi? chi cucire, fabbricare, tigner pelli, mietere, arare? Io, io vi somministro tutte queste cose: io col bisogno costringo gli uomini alla fatiga. Rousseau e tutti i nostri migliori filosofi non hanno insegnatodipiù investigando il principio delle società e dell’economia politica. Quali popoli furono codesti Greci, fra’ quali nella stessa buffoneria s’insegna a pensare e a ragionar dritto, e a sviluppar la scienza politica ed economica! Quanta filosofia si nascondeva

Sotto il velame degli versi strani

di questo comico così spregevole agli occhi cisposi di molti scioli oltramontani ed Italiani! Il coro oppone che la povertà riempie anzi il mondo di miserie. Parti (dice) una bella impresa il far nascer mendici da’ mendici, l’infettare la terra di pulci, e d’insetti molesti e schifosi, il colmarla di miserabili che non hanno pane da satollarsi nè letti da dormire? Questi sono i beni che tu fai all’uomo . . . O semplicioni (ripiglia la Povertà) voi non sapete quello che vi pescate. Voi me confondete colla miseria; ma dovete sapere che noi siamo due cose ben distinte. La povertà nulla patisce de i disagi che voi dite, nè mai gli patirà. La vita del mendico che dipingete, consiste in mancare delle cose più necessarie: quella del povero in vivere parcamente e lavorare, in non abbondar di beni ma in non mancar di nulla. Io, vi dico, io sono quella che rendo gli uomini saggi e prudenti e di buono aspetto, a differenza di Pluto che gli fa diventare gottosi, panciuti, grossi di gambe e lascivi. I miei seguaci sono magri, sottili, svelti, accorti, ingegnosi e robusti. Osservate un’ altra cosa; gli Avvocati prima di uscire dalla povertà sono giusti, circospetti, onorati per acquistar credito, divenuti poi ricchi, cangiano costume, e si fanno impostori, falsi, doppj, nemici veri ed amici apparenti, insidiatori della plebe, oppressori e consiglieri e ministri d’ingiustizie. Queste verità ristuccano il coro avido già di ricchezze, il quale ricusa di più ascoltarla, fosse anche certo di essere interamente persuaso. Carione reca l’avviso della felicità del suo padrone e della guarigione di Pluto. Racconta la cura fattagli da Esculapio, e molti ridicoli accidenti a lui stesso avvenuti nell’andar la notte pel tempio rubando delle schiacciate ecc. La casa di Cremilo si converte in una reggia dell’abbondanza per le ricchezze che vi versa Pluto guarito. Ne vola intorno la fama: ognuno vi accorre. Viene un uomo giusto per ringraziarlo della mutata sua fortuna; e nella dipintura che ne fa Aristofane maestrevolmente, possiamo ravvisare il modello di tutti i prodighi, dissipatori e discoli comparsi sulle moderne scene, convertiti e ravveduti nella miseria per l’ingratitudine degli scrocchi che gli adulavano nell’abbondanza. Viene un Sicofanta110 per ingiuriar Pluto, perchè gli uomini divenuti ricchi a lui più non ricorrono. Viene una vecchia per querelarsi della sua sventura. Ella nutriva e vestiva un giovane bisognoso, il quale per tali comodi mal grado delle grinze la corteggiava; ma oggi che col favore di Pluto è egli uscito di miseria, l’ha abbondonata. Viene poi questo medesimo giovane, il quale in veder la sua vecchia motteggia sulle di lei rughe e sulla bocca senza denti. Viene Mercurio stesso per minacciar comicamente tutta la famiglia di Cremilo, perchè col far ricuperare la vista a Pluto non vi è più chi si ricordi di sacrificare agli dei. Ben vi sta, dice Carione, perchè di noi nulla vi curate. Adunque nè anche in una favola sì moderata si tralasciava di motteggiar contro la provvidenza; tanto lungi erano di lor natura le commedie Greche di quel tempo dall’essere gli esercizii spirituali della nazione vedutivi solo dal traduttor de’ Salmi ed autore de’ Paradossi. A me, ripiglia Mercurio, non importa un frullo di tutti gli dei, ma mi dolgo per me che muojo di fame. Questo Mercurio pezzente fa una scena da parassito. Prega di poi il servo ad accomodarlo in casa promettendo di prestare ogni servigio più vile, ed il servo lo manda a lavar delle budella. Finalmente si ricovera in casa di Cremilo un Sacerdote di Giove, il quale non ha più modo di sostentarsi ora che Pluto cogli occhi sani vede e distingue i buoni e gli arricchisce. Osserva giustamente l’erudito Benedetto Fioretti, che in questa favola l’azione abbraccia lo spazio di due giorni, ma la preferisce a tutte le altre, in tal guisa esaltandola111: Le Nebbie sono per tutto un giardino fioritissimo di tutte le vaghezze comiche e mimiche più desiderabili, o vuoi di motti o di concetti o di episodj o di persone o di relazioni allegoriche o d’invenzioni stranissime. Con tutto ciò il Pluto per mio giudizio par che tenga il principato di tutte quelle favole; perocchè quivi non sei stomacato da laidezze, nè scandalizzato da oscenità, nè immalvagito da perversa imitazione quanto si vede nelle altre. Il ridicolo a sufficienza; la speculazione considerabile; e la moralità infinita.

Variano assai i giudizj degli antichi e de’ moderni intorno al merito d’ Aristofane. Platone, Aristotile, Cicerone l’ebbero pel più gran poeta comico dell’antichità. Plutarco, Eliano ed altri antichi si vendicarono col disprezzo di questo maligno persecutor di Socrate, e al lor parere si sono appigliati il Fioretti o Nisieli, il Rapin ed altri moderni. Il Sig. di Voltaire però copiando la censura di Plutarco o di Rapin, volle aggiugnere del suo che Aristofane non era nè comico nè poeta; il che certamente avventurò con tutta la leggerezza di un petit-maître. M. Marmontel volle ancora dar su di ciò il suo parere e derise Madama Dacier che avea tanto encomiato Aristofane. Ma questa famosa letterata, sebbene mancava di certo gusto poetico necessario a ben tradurre i poeti, almeno intendeva pienamente il Greco, ed ha voto autorevole allorchè afferma che Aristofane è fino, puro, armonioso, ed empie di piacere coloro che hanno la fortuna di leggerlo originale, fortuna che auguriamo al traduttore di Lucano e all’ autore della Poetica Francese (Nota XXI). Il celebre Gian Vincenzo Gravina così perito nelle materie poetiche e nella lingua Greca versa a piena bocca su questo comico le sue lodi per la verità e naturalezza delle invenzioni, per la proprietà de’ costumi, per la felicità delle allusioni, per la bellezza de’ colpi, e per la fecondità, la pienezza, il sale Attico di cui abbonda, e che oggi a’ nostri orecchi non può tutto penetrare. Daniele Einsio, Tanaquil le Fevre, M. Boivin, ottimi giudici di poetica e di Greca lingua, ammirarono Aristofane. Il dotto Brumoy non dissimula i di lui difetti non pochi, ma ne va con profitto degli studiosi additando l’arte e le bellezze dello stile. Questi, sì, che possono farsene giudici; ma sono pur troppo rari giudici di simil fatta provveduti d’ eccellente criterio, e di gran perizia nel Greco idioma, e d’ intelligenza della poesia e di giudizio purgato e di gusto vero per decidere intorno alle opere degli antichi. Avea egli tutti questi pregi M. de Chamfort che nell’Elogio di Moliere volle malmenare Aristofane? Facciamolo giudicare dal buon critico M. Freron 112? Aristofane (egli dice) le cui commedie empivano con tanto applauso il teatro Ateniese 436 anni prima dell’Era Cristiana, è il più gran poeta comico dell’antichità. Pieno di coraggio e di elevazione, ardente dichiarato nemico della servitù, e di quanti tentavano di opprimere il suo paese, esponeva agli occhi di tutti nelle sue favole la segreta ambizione de’ magistrati che governavano la repubblica e de’ generali che comandavano gli eserciti. Era nelle di lui mani la commedia diventata una molla del governo, il baluardo della libertà, l’organo del patriotismo. Egli vituperava con vigore tutti i vizj dell’amministrazione: or qual carriera più vasta, qual più nobile, più sublime scopo? Ei non si prefiggeva per oggetto principale il far ridere gli spettatori con facezie o piagnere con avventure compassionevoli, ma sì bene l’additar loro i più sacri doveri, il fortificarli contra ogni nemico domestico o straniere e l’ instruirli piacevolmente con sode lezioni. Gli Ateniesi provando sommo diletto nelle di lui commedie non contenti di applaudirlo in teatro, a piena mano gettavano fiori sul di lui capo, e menavanlo per la città tra sestive acclamazioni; anzi con pubblico decreto gli diedero la corona del sacro olivo, che era il maggior onore che far si potesse a un cittadino. Il gran re (cioè il re di Persia) domandando di questo poeta agli ambasciatori Spartani, e de’ soggetti ordinarj delle sue satire, ebbe a dire, che i di lui consigli erano diretti al pubblico bene, e che se gli Ateniesi gli seguivano, si sarebbero impadroniti della Grecia. Il gran Platone, l’idolo de’ nostri filosofi, al quale cercano con tanti inutili forzi di parer simili, scriveva a Dionigi il tiranno, che per ben conoscere gli Ateniesi e lo stato della loro repubblica, bastava leggere le commedie di Aristofane. Lo stesso Platone studiavasi di formare la propria maniera di scrivere sullo stile elegante, polito, dolce, e armonioso di questo poeta, e se n’era talmente invaghito, che onorò un sì eccellente comico con un distico del tenor seguente: Avendo le grazie cercato da per tutto un luogo per farvisi un tempio eterno, elessero il cuore di Aristofane, e mai più non l’abbandonarono (Nota XXII). Ecco quello che agli occhi de i dotti era Aristofane. Dopo di ciò che pensereste di un giovane Gaulese, il quale più di due mila anni dopo la morte di tal valoroso scrittore viene a dirci che egli altro non era che un satirico sfrontato, un parodista, un superstizioso, un bestemmiatore, un buffone da piazza, un Rabelais sulla scena, e che le di lui commedie sono un ammasso di assurdità, donde qualche volta scappano fuori alcune bellezze inaspettate? In tal guisa viene egli malmenato da M. de Chamfort. Probabilmente costui e di Greca lingua e di poesia113 s’intende meglio del popolo Greco il più illuminato dell’universo, meglio di Platone, meglio di Aristotile, meglio di Moliere stesso, meglio di tanti e tanti grand’ingegni antichi e moderni, i quali tutti hanno avuta la compiacenza di ammirare Aristofane. Fin quì M. Freron critico dotto, sagace, pregevole. Quello che è più notabile si è che le scempiaggini profferite da M. de Chamfort furono approvate, coronate e premiate nel 1768 dall’Accademia Francese.

III.
Commedia Mezzana.

Alterossi indi in Atene il governo e nell’oligarchia cangiò la commedia di portamento. Que’ pochi cittadini, tra’ quali tutta si concentrò la pubblica autorità, posero il freno alla licenza di tal dramma, e più non soffrirono di essere impunitamente sulla scena nominati e motteggiati. Eupoli che fiorì nell’olimpiade LXXXVIII fu la vittima della loro potenza, essendo stato gettato in mare, secondo che ci attesta Platone, per ordine di Alcibiade allora prefetto della flotta Ateniese114. E quantunque si pretenda da alcuni che dopo quel tempo altre favole avesse composto, e che egli non morisse in mare ma in Egina, pure è sempre certo che per un editto de’ Quattrocento sotto Alcibiade115, o de’ Trenta Tiranni nell’olimpiade XCIII o XCIV116, non si potè più nominare in teatro verun personaggio vivente, e così cessò la commedia chiamata Antica.

Da questo editto nacque la Mezzana. I poeti doveano obedire, ma volevano conservar la satira. Cercando adunque di conseguir coll’industria l’effetto stesso che produceva il nominare i cittadini, gli dipinsero sotto finti nomi con tale artificio che il popolo non s’ ingannava nell’indovinarli, e con maggior diletto gli ravvisava. In questa specie di commedia per la legge divenuta più ingegnosa e più dilettevole, il coro, nel quale più che in altra parte soleva senza ritegni spaziare l’acerbità e l’acrimonia, fu tuttavia satirico e pungente. Ma non tollerando il governo di veder delusa la sua speranza di correggere la mordacità de’ poeti, vietò il far uso in qualunque modo di soggetti veri, e impose silenzio al coro incapace di cambiar natura (Nota XXIII). Platone, poeta comico contemporaneo di Aristofane, è tenuto pel primo tra quelli che si distinsero nella commedia mezzana. Egli compose intorno a trenta commedie, delle quali a noi non son pervenuti che pochi frammenti.

Assai di lui più chiaro in tal commedia fu Alesside di Turio zio o patrocinatore di Menandro, potendosi interpretare dell’una e dell’ altra guisa la voce πατρως presso Suida. Meursio raccolse delle di lui favole in torno a cento tredici titoli, ma egli ne scrisse dugentoquarantacinque, i cui frammenti si leggono sparsi nelle opere di Ateneo, Polluce, Stobeo, Laerzio ed Aulo Gellio, e raccolti nelle compilazioni dello Stefano, del Morello, dell’Ertelio e del Grozio. La grazia e la vivacità della di lui satira non veniva amareggiata dalla soverchia malignità come in Aristofane. Pungeva vagamente coi motteggi gli uomini in generale, ed alcuni ceti, come le scuole Pitagoriche, e spiccava nelle dipinture naturali de’ costumi e delle nazioni117. Secondo Plutarco questo comico eccellente finì di vivere sulla scena in mezzo agli applausi essendo stato coronato per una delle sue favole. Stefano di lui figliuolo seguì, secondo Suida, le orme del padre coltivando anch’egli con applauso la commedia mezzana, ed Ateneo cita un frammento del di lui Filolacone o sia fautore degli Spartani.

Appartiene a questa commedia ancora Antifane, che fiorì al tempo di Filippo il Macedone, e tralle sue commedie tutte perdute si mentova particolarmente l’Aulete, ovvero il Flautista, in cui per ischerno introdusse Betalo sonatore di flauto inesperto nel suo mestiere, di che vedasi Plutarco nella Vita di Demostene.

Fiorirono parimente nella commedia mezzana Sofilo, Sotade, Efippo, Mnesimaco, Filippide, Stratone, Anaspila, Epicrate, ed Anassandride. Nacque quest’ultimo comico in Camira nell’isola di Rodi, e fiorì particolarmente verso l’olimpiade CI. Ma se Eupoli fu la vittima del risentimento del governo nel tempo della commedia antica, Anassandride lo fu nella mezzana, perchè avendo osato motteggiare del governo, gli Ateniesi lo condannarono a morir di fame. Suida ci dice che questo comico portò la prima volta sulle scene le avventure amorose e le vergini deflorate, le quali cose si rappresentarono con frequenza nella commedia nuova, da cui passarono alla Latina. Si trovano citate dagli antichi venti delle favole di Anassandride, benchè ne avesse composte intorno a sessantacinque, per le quali solo dieci volte riportò la corona teatrale. Questo poeta di vantaggiosa statura, amico di vestire pomposamente e di cavalcare, fu così altiero, che soffriva con impazienza che le sue favole rimanessero superate nel certame, e tal dispetto ne concepiva che incontinente le lacerava. Dal conoscersene però più delle dieci coronate, sembra verisimile quel che coll’ autorità di Camaleone asserisce Ateneo nel libro IX, cioè che non prima che pervenisse alla vecchiaja, avesse cominciato ad aver tanto a sdegno l’esser vinto.

IV.
Commedia Nuova.

Niuna cosa pruova più pienamente ciò che sul bel principio ragionammo ne’ fatti generali della scenica poesia, quanto il nuovo rigore usato contro Anassandride, e il silenzio imposto al coro, onde furono atterriti e incatenati i poeti della commedia mezzana. Questo rigore raccolse come in un centro tutte le forze del loro ingegno, e ne ingrandì l’attività. La necessità di schivarlo suggeri l’idea di una commedia che fu chiamata Nuova, senza dubbio più delicata e discreta, e meno acre delle precedenti. Di essa pare che avesse gettati i fondamenti il medesimo Aristofane col Pluto, dove abbiamo, sì, trovato un coro, ma ben lontano dall’antica baldanza e mordacità. Anzi in una delle di lui commedie smarrite intitolata il Cocalo si ravvisa la vera sorgente ed il modello della commedia nuova118. Ebbe Aristofane tra gli altri figliuoli Ararote, Nicostrato e Filetero, i quali e si valsero delle di lui fatighe per farsi luogo sulla scena, e composero essi pure delle favole coltivando la commedia nuova; ed uno di essi spiccò singolarmente più nel rappresentare che nel comporre119.

Fiorì la nuova commedia nel secolo del grande Alessandro, quando la formidabile potenza Macedone dando nuovo aspetto agli affari de’ Greci, avea richiamato in Atene quell’utile timore, che rintuzza l’orgoglio, rende men feroci i costumi, e induce a pensar giusto. Or perchè eccitato una volta in qualunque guisa lo spirito filosofico rinasce l’ordine, e ogni cosa rientra nella propria classe, il gabinetto allora si separò dal teatro, nè più si agitarono questioni politiche in uno spettacolo di puro divertimento. Si circoscrisse adunque la commedia nuova a dilettare la moltitudine col ritrarre la vita comune, e a dirigerne le opinioni secondo le vedute del legislatore e gl’ insegnamenti della morale. Rifiutò ogni dipintura particolare, perchè apprese dalla filosofia che i difetti di un solo privato sotto una potenza che tutto adegua, non chiamano la pubblica attenzione. Attese adunque ad osservare le debolezze più generali, ne raccolse i lineamenti più visibili, ne vestì un carattere poetico, e con mirabile sagacità in un preteso ritratto particolare espose alla derisione i difetti di un ceto intero. Gioconda, ingegnosa sapienza! A dispetto della magia dell’amor proprio ha saputo astringere i viziosi e i ridicoli motteggiati ad accompagnare il riso universale, e vituperar se stessi nella dipintura immaginaria. Ciascuno da se può discernere che queste idee della nuova commedia Greca passate da’ Latini a noi, in forza di governo e di costumi furono ed esser doveano posteriori alla commedia di Aristofane; e se tanti critici pedanti condannano i comici allegorici antichi chiamandoli marrani, maremmani, auzzini, e notandone gli artifizj come sconcezze, ciò avviene perchè non seppero nelle loro fantastiche poetiche giammai distinguere tempi, generi e costituzioni, nè seguire con ordine la marcia, per così dire, dell’umano ingegno e delle diverse società civili.

Contavansi tra’ principali coltivatori di quest’ultima delicata commedia gli Apollodori, Demofilo, Posidio, Difilo, i Filemoni e Menandro. Tanti sono stati gli Apollodori, che l’erudito Scipione Tetti (infelice letterato Napoletano condannato al remo come reo d’impietà per avere della divinità parlato con troppa imprudenza) ne compose un dotto trattato impresso in Roma nel 1555 insieme colla Biblioteca di Apollodoro tradotta in latino da Benedetto Egio120. Degli Apollodori che coltivarono la poesia teatrale, se ne trovano tre, uno Siciliano di Gela, uno Ateniese, ed uno Carisio. Essi fiorirono nella commedia nuova; ma gl’ intelligenti non sono sempre tra loro concordi circa le favole intitolate Galatæ, Ephebi, Lacæna, Icetes, Hecyræ latinizzata da Terenzio, non sapendo a qual di loro esse si appartengano. Il Meursio le attribuisce all’Ateniese, il quale secondo Suida ne compose quarantasette, e fu cinque volte dichiarato vincitore. Si dubita se sieno dell’Apollodoro Carisio, o del Geloo gli Adelphi, Dauli, i Pafii, Danae, Anfiarao, i Filadelfi, Sisifo, ed altre commedie mentovate da Polluce, Stobeo, Fozio, Suida, Ateneo, Festo e Plutarco. Al Carisio si attribuisce la favola detta Mactata, della quale Grozio reca questo frammento, τό γῆρας εστιν αὐτό νοσημα, la stessa vecchiaja è un morbo.

Del poeta Difilo che meritò il soprannome di κωμικωτατος, comicissimo, come ad Euripide si diede quello di tragicissimo, oltre a’ varj frammenti rapportati da Ertelio e da Grozio, è mentovata da Ateneo121 la favola intitolata Saffo, alla quale dà per innamorati Archiloco e Ipponatte. Alcune delle di lui favole furono trasportate nel teatro Latino da Marco Accio Plauto. Di Demofilo e di Posidio incontriamo alcuni frammenti; ma da una commedia del primo detta Onagos, Plauto compose la sua Asinaria.

Due Filemoni vanta la Grecia tra’ poeti della nuova commedia. Filemone il maggiore nacque e visse in Siracusa secondo Suida; ma Strabone afferma che nascesse in Soli o Pompejopoli della Cicilia. Egli fiorì regnando Alessandro Magno poco prima di Menandro, e di anni 94 in circa morì sul teatro ridendo smoderatamente, dopo aver composte novanta favole, delle quali Giulio Pollice, Ateneo e Stobeo hanno conservati varj nomi, e Grozio ne ha raccolti i frammenti122. Portò il di lui figlio natogli in Siracusa il nome di Filemone il minore, e fu contemporaneo di Menandro, e più volte con lui contese per la corona scenica, e quasi sempre il vinse. Menandro riputavasi di gran lunga a lui superiore, e mal soffrendo di vedersi a Filemone posposto, il punse un dì con questo motto conservatoci da Aulo Gellio: Senza andare in collera, dimmi di grazia, Filemone, quando ti senti proclamar mio vincitore, non arrossisci? Filemone il giovane compose cinquantaquattro commedie. Un curioso frammento del suo Mercatante tradotto da Grozio leggesi da noi volgarizzato nel citato tomo I delle Vicende della Coltura delle Sicilie.

Ma Menandro Cefisio figliuolo del capitano Diopete e discepolo di Teofrasto spiccò sopra tutti i contemporanei e successori. Egli nell’ olimpiade CXV nobilitò la commedia nuova e scrisse cento e otto, o cento e nove commedie, ma solo otto volte fu coronato nel certame. Egli fu il modello di Terenzio, il quale di quattro di lui favole si valse, cioè dell’Andria, della Perintia, dell’ Eunuco e del Tormentatore di se stesso. Citansi ancora con molti elogj altre di lui commedie, il Colace, il Fasma, la Taide, della quale si ha questo frammento,

Colloquia mores prava corrumpunt bonos,

i Fratelli, di cui si conservano questi versi,

Communia amicos inter, non pecuniæ
Tantum, sed & mens pariter & prudentia,

l’ Incensa, di cui Grozio traduce quest’altro,

Pereat male qui uxorem ducere
Instituit primus, tum secundus qui fuit,
Tum tertius, tum quartus, tum qui postumus,

e la commedia intitolata Plozietta (Plotium) imitata da Cecilio il più accreditato comico Latino. Non lieve argomento del pregio di queste ed altre favole di Menandro si è l’uso e il saccheggio fattone da’ poeti Latini. Oggi in essi se ne ammirano le invenzioni ma sfigurate come per lo più sogliono essere le copie. “Se leggiamo (dice Aulo Gellio123) le commedie Greche di Menandro, Posidio, Apollodoro, Alesside ed altri nelle traduzioni Latine, ci riempiono di diletto, e pajono scritte con grazia e venustà da non potersi migliorare. Quando poi si esaminano minutamente, e si confrontano le copie cogli originali, quando se ne alterna la lettura, comparisce la debolezza de’ Latini, i quali disperando di emularle con dignità, alle bellezze native sostituiscono le proprie immodizie”. In pruova di ciò Gellio adduce la nominata commedia Plozium recata in latino da Cecilio. Tutto quello che Menandro espresse con giudizio, nitidezza e piacevolezza, Cecilio sì studiò inutilmente di voltare in Latino con ugual leggiadria, e si appigliò poi al partito di saltarne più cose, riempiendo il vuoto con qualche cicalata meramente mimica. Eccone un esempio (prosegue Gellio) cui giova premettere l’argomento della favola. Una figliuola di un cittadino povero, deflorata senza che nulla ne sappia il padre, e rimasta incinta, benchè tuttavia passasse per pulcella, a suo tempo partorisce. A questo punto disastroso giugne un servo dabbene, e stando già presso la soglia, senza veruna prevenzione dell’accaduto, ode i gemiti e le grida della meschinella in procinto d’infantare, e come uomo di buon cuore e pieno di affetto per la famiglia, prende parte nella di lei sventura, teme, si adira, sospetta, compassiona e si attrista. Tutte queste patetiche commozioni dipingonsi nella Greca commedia, le quali nella Latina divengono pesanti, pigre, snervate, disadatte alle circostanze, e spogliate di ogni grazia. Dopo ciò il servo a forza di domandare viene in chiaro del succeduto, e così favella in Menandro:

O quanto è sventurato il mal accorto
Che nulla possedendo a nozze corre,
E di figliuoli caricarsi brama!
Quanto mal si consiglia! Egli non pensa
Ciò che conviensi, pien del suo disegno
Che tristi giorni e lunghi guai gli appresta.
Ei dal bisogno oppresso, angusto tetto
Non ha per ricovrarsi, e d’ogni cosa
Avendo inopia tra miserie geme,
E si difende mal dall’aspro inverno
Reso di povertà fido compagno.
Da ciò che ad un rinfaccio, ogni altro impari.

A questa bella naturalezza e verità non si attenne Cecilio, ed in tal guisa troncò, stravolse e riempì di tragica gonfiezza il concetto del comico Greco:

Il povero pur troppo è sventurato
Carico di figliuoli e di miserie.
Nulla a lui si perdona: i suoi difetti
Manifesta ciascun senza ritegno.
Ma del ricco gli errori e le follie
Il folto stuol de’ bassi adulatori
Agli occhi altrui, per suo guadagno, invola.

Fin quì Gellio. Un altro de’ più pregevoli frammenti di Menandro parmi quello recato da Plutarco De Consolatione ad Apollonium, che noi in tal guisa recheremo in Italiano, consultata la traduzione del Silandro:

Se quando al dì la madre tua ti espose,
Con questa legge tu fra noi venisti,
Che a tuo piacer girar dovesse il mondo:
Se tal felicità propizio un nume
A te promise, a gran ragion ti sdegni,
Poichè la fe che ti giurò, non serba.
Ma se alla stessa legge, a cui soggetto
Nasce ognun, tu nascesti, a parlar franco,
Ti lagni a torto, e tollerar dovresti,
E più dritto pensar. Uomo al fin sei,
Nè dell’uom v’ha chi più repente ascenda,
O più repente giù piombar si vegga,
E strisciar per lo suolo. E ben gli stà:
Che infermo oltre ogni creder per natura,
Oltre ogni creder temerarie imprese
Tentar non cessa, e vi s’involve, e tutti
I beni suoi precipitando perde.
Tu poi nè di tant’alto al fin cadesti,
Nè de’ mali è il maggior quel che ti avvenne.
Or come saggio, se a’ capricci esposto
Di fortuna pur sei, t’acqueta e soffri.

Ammirasi in simili bellissime reliquie di Menandro una locuzione nobile sì che non eccede la mediocrità comica, e vi si sente quel grazioso sale che stuzzica il gusto e non amareggia il palato (Nota XXIV). Con perdita irreparabile della poesia rappresentativa, niuna di tante sue favole potè salvarsi intera dal tempo distruttore. Ma perchè le mirabili sue dipinture della vita civile e le preziose sue riflessioni filosofiche inserivansi a gara nelle migliori opere de’ sacri scrittori Cristiani, non che de’ più illustri filosofi gentili, se ne sono conservati molti versi. Il più onorevole testimonio del merito di questo comico filosofo, si è il verso di una sua commedia che leggesi nella I Epistola dell’ Apostolo San Paolo ai Corintii. Or chiunque aspiri a riuscire nella commedia nobile, cerchi di approfittarsi delle incomparabili reliquie che ne abbiamo, e vi apprenderà l’arte di persuadere da oratore, d’ istruir da filosofo e di dilettare da poeta comico124. Per norma ancora della gioventù rapita di ordinario dal proprio fuoco prima a scrivere che a pensare, si vuol ripetere quello che di sì gran comico riferisce il Giraldi125 coll’ autorità di Plutarco e di Acrone. Menandro non mai si applicava a verseggiar la favola prima di averne formato tutto il piano e ordinate le parti. E sì gran caso faceva di simil pratica, che quando avea ordita la traccia dell’azione, tutto che non ne avesse composto un solo verso, diceva di aver terminata la commedia. Ora che si dirà di que’ commediografi, i quali sogliono avvertirci in qualche prefazione di essersi essi trovati intrigati dopo di aver distesi due atti de’ tre di una loro commedia, non sapendo di che trattare nel terzo? Questo terzo dovea pensarsi interamente avanti di animar colla locuzione la prima scena. La natura non produce una per volta le parti di una pianta, ma tutte in picciolo le racchiude nel germe che prende posciaa disviluppare e nutrire. Bisogna imitarla.

. . . . . Ubbidienti
Fian le parole, ove la merce abbondi 126,

Un Francese diceva ancora:

Le moment du génie est celui de l’ esquisse.

In questa guisa appunto l’intendeva Menandro, la delizia de’ filosofi, l’ oggetto di tanti elogj, la misura de’ voti di tanti poeti diammatici, il modello di Terenzio.